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La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c. - Judicium

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MAURO BOVE

La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c.

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Campo di applicazione. – 3. La misura coercitiva come accessorio ad un provvedimento di condanna. – 4. Istanza, provvedimento, impugnazione. – 5.

Rapporti tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione.

1. - L’esecuzione forzata ha lo scopo di far ottenere all’avente diritto ciò che egli deve avere sul piano sostanziale facendo a meno dell’adempimento. Essa ha, quindi, un limite naturale nell’infungibilità della prestazione dovuta. Se l’interesse sotteso al diritto è realizzabile anche attraverso l’opera di un terzo, allora l’obbligazione è fungibile ed attuabile in via esecutiva, altrimenti, se esso è realizzabile solo per mezzo dell’attività dell’obbligato, allora l’obbligazione è infungibile e non è attuabile in via esecutiva. In quest’ultimo caso, restando pur sempre ammissibile la richiesta di un provvedimento di condanna al giudice della cognizione ove l’interessato non voglia trasformare la pretesa sostanziale nel suo equivalente economico, a seguito di una vittoria nell’ambito del processo dichiarativo non può seguire l’esecuzione forzata, nell’eventualità che il soccombente condannato non si adegui all’ordine di prestazione impartitogli. L’unico spazio per sperare nell’attuazione del diritto riconosciuto è dato dalla c.d. esecuzione indiretta ossia dalla previsione di una misura coercitiva.

Se l’esecuzione diretta realizza il diritto facendo a meno della prestazione, l’esecuzione indiretta mira a realizzare il diritto spingendo con maggior forza l’obbligato all’adempimento. Essa consiste nella minaccia di un “male” per l’eventualità dell’inadempimento, insomma nella previsione di una conseguenza negativa che, se si verifica, si prefigura per l’obbligato più gravosa dell’adempimento.

Molto sinteticamente, le misure coercitive possono atteggiarsi come sanzioni civili o penali.

Nel primo caso esse consistono nel pagamento di una somma di denaro da pagare al creditore o ad un terzo1. nel secondo caso l’ulteriore inadempimento si presenta addirittura come un reato2.

In ogni caso esse, non potendo direttamente soddisfare l’interesse del creditore, ma dovendo comunque cercare di imporre in qualche modo all’obbligato di porre in essere la prestazione,

1 Si pensi a quest’ultimo proposito all’art. 18, ult. cpv. dello Statuto dei lavoratori, che prevede il pagamento, per ogni giorno di ritardo nella reintegra del lavoratore sindacalista, di una somma di denaro al Fondo adeguamento pensioni pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore licenziato.

2 Si pensi all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.

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www.judicium.it possono essere inefficaci o presentare qualche inconveniente. L’inefficacia emerge quando si ha a che fare con un obbligato che non può essere spaventato dal “male” minacciato. Si pensi alla sanzione pecuniaria irrogata a chi è molto ricco o a chi è molto povero: è evidente come, se il primo potrà comunque permettersi di continuare ad essere inadempiente, il secondo non ha nulla da perdere dal suo atteggiamento riottoso. L’inconveniente, invece, emerge quando la misura coercitiva consiste nell’obbligo di pagare una somma di denaro allo stesso creditore, perché, se non è previsto un tetto massimo, il creditore potrebbe godere di un ingiustificato arricchimento3.

La legge n. 69 del 2009, aggiungendo nel codice di procedura civile un art. 614-bis, inserisce per la prima volta una previsione generale di misura coercitiva in un sistema che in precedenza prevedeva solo misure coercitive di carattere particolare ed occasionale, misura che troverà spazio applicativo ove la legge non preveda norme speciali istitutive di misure coercitive peculiari4.

2. - È indubbio che, alla luce dell’art. 614-bis, la misura coercitiva va a rafforzare un provvedimento di condanna, quindi è irrogata in funzione della realizzazione di un rapporto obbligatorio. Tuttavia, se dalla rubrica della norma emerge chiaramente come il suo campo di applicazione sia limitato alle obbligazioni infungibili, nel testo della norma stessa questa delimitazione non è ripetuta. Da qui può sorgere il dubbio, rafforzato anche dall’osservazione del sistema francese, che certamente ha ispirato il nostro legislatore, nel quale è previsto che l’astreinte possa essere concessa anche in riferimento a prestazioni fungibili5.

A mio avviso deve qui preferirsi senz’altro un’interpretazione restrittiva6 per due ragioni.

Innanzitutto perché la collocazione della disposizione così suggerisce, visto che essa va a chiudere un Titolo del codice di rito dedicato all’esecuzione in forma specifica. Invero, sembra chiaro come essa vada a chiudere il quadro di un sistema nel quale si afferma che, se per le obbligazioni fungibili soccorrono gli articoli 612 ss. c.p.c., per quelle infungibili, e solo per queste, l’interessato ha l’àncora di salvezza dell’art. 614-bis c.p.c. In secondo luogo, non si deve dimenticare che

3 Cenni su questi aspetti in LUISO, Diritto processuale civile, III, Milano 2009, p. 9 ss.

4 Analogamente CHIZZINI, in BALENA, CAPONI, CHIZZINI, MENCHINI, La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69/2009, Torino, 2009, sub art. 614-bis, p. 165, il quale ricorda che: “la misura prevista dall’art. 614-bis c.p.c. non può trovare applicazione concorrente con quelle tipiche previste da norme speciali: si deve, infatti, ritenere che queste ultime prevalgano in ragione non solo del generale canone interpretativo di specialità, quanto e soprattutto perché in dette situazioni ha già provveduto il legislatore a selezionare l’interesse da tutelare, come pure il contenuto specifico della tutela da assegnarsi al creditore”.

5 Sul punto vedi GAMBINERI, Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, in Foro it., 2009, V, c. 320 ss.

Sull’ispirazione di fondo, nel panorama comparatistico, vedi anche CHIZZINI, op. cit., p. 141

6 Analogamente CHIZZINI, op. cit., p. 164

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www.judicium.it quest’ultima norma disciplina una pena privata, per cui la possibilità di una sua irrogazione deve essere intesa in termini di stretta interpretazione.

Se il campo di applicazione della disposizione in commento è limitato alle obbligazioni infungibili, non ci resta che rinviare all’interpretazione dei giudici per stabilire la linea di confine rispetto alle obbligazioni fungibili. Il principio ispiratore di fondo per rintracciarla è già stato accennato nel precedente paragrafo. Qui si aggiunga solo che un’obbligazione infungibile può essere sia in positivo sia in negativo.

È indubbio che, a fronte della violazione di rapporti aventi come contenuto un obbligo di non fare a carattere continuativo, l’ordine inibitorio ha sempre una duplice valenza, essendo esso, per un verso, rivolto al passato (in positivo l’ordine di distruggere ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo di non fare) e, per altro verso, rivolto al futuro (in negativo l’ordine di non fare in futuro). Ebbene questo secondo ordine, propriamente l’ordine di cessazione, quindi l’ordine inibitorio, non può essere attuato mediante esecuzione forzata e tipicamente esso richiede il rafforzamento mediante l’irrogazione di una misura coercitiva. Ci sono diversi esempi, tra i quali alcuni già assistiti dalla previsione di una misura coercitiva particolare. Si pensi alla negatoria servitutis di cui all’art. 949 c.c., all’art. 28 del c.d. Statuto dei lavoratori, alle previsioni degli articoli 844 c.c., 342-bis c.c., 7/10 c.c., 2599 c.c.

Ma ovviamente possono aversi anche prestazioni infungibili in positivo. Si pensi alle prestazioni artistiche o professionali. O ancora si pensi all’obbligo di consegna dei minori in attuazione delle regole di affidamento e di visita date in sede di separazione o divorzio7.

Restano fuori gioco, invece, per esplicita previsione della legge, le obbligazioni sorgenti nell’ambito dei rapporti di lavoro. Ora, fermo restando che il principale obbligo infungibile in materia, ossia quello del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore ingiustificatamente licenziato, resta sanzionato dall’obbligo di pagare fino alla reintegra una somma commisurata alle retribuzioni, la previsione va semplicemente rispettata dall’interprete, anche se essa non pare ragionevole8 nel momento in cui la sua generalità coinvolge anche obblighi del datore di lavoro e non solo quelli del lavoratore.

7 Non ha spazio, invece, la misura coercitiva in riferimento all’applicazione dell’art. 2932 c.c., che conferisce all’interessato, a fronte della violazione di un rapporto obbligatorio, avente come contenuto l’obbligo di concedere un contratto, la possibilità di ottenere una sentenza, non di condanna, ma costitutiva che tiene luogo del contratto non concluso.

8 Di diverso avviso è, se non sbaglio, CHIZZINI, op. cit., p. 174 ss.

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www.judicium.it 3. - La misura coercitiva può essere concessa solo dal giudice della cognizione, come accessorio ad un provvedimento di condanna, e non anche dal giudice dell’esecuzione. Questo rilievo, che emerge chiaramente dalla norma, esige una serie di precisazioni.

Innanzitutto, c’è da rilevare come il provvedimento di condanna rafforzabile con la concessione della misura possa essere sia una sentenza sia altro provvedimento che contenga un ordine di prestazione9. Così, ad esempio, essa può accedere ad un provvedimento cautelare anticipatorio10 o all’ordinanza di cui all’art. 702-ter c.p.c.11. Qualche dubbio può sorgere a fronte di una conciliazione giudiziale. Ma io mi sentirei di scioglierlo positivamente perché, se la conciliazione giudiziale è atto che chiude il processo dichiarativo al posto della sentenza, presentandosi come un equivalente di questa, evidentemente essa deve poter avere, per così dire, la stessa effettività. Del resto ben è possibile che il giudice della cognizione che abbia positivamente concluso il tentativo di conciliazione faccia le valutazioni che l’art. 614-bis c.p.c. impone per la concessione della misura coercitiva. Né sembra opportuno sposare il contrario avviso, basandosi su un’interpretazione meramente letterale della disposizione in commento, che gioca sul fatto che evidentemente il verbale di conciliazione non è un provvedimento di condanna12.

Né credo che si possa escludere la possibilità che un lodo arbitrale (rituale) sia rafforzato con la concessione della misura coercitiva, posto che esso deve poter dare la stessa tutela che altrimenti darebbe la sentenza statale. Precisamente, posto che non sembra possibile attribuire al giudice dell’exequatur il compito di svolgere le valutazioni di cui all’art. 614-bis, a me sembra che nulla impedisca che le dette valutazioni siano svolte dall’arbitro, fermo restando che, poi, il lodo dovrà ottenere l’exequatur ai sensi dell’art. 825 c.p.c. per potere avere efficacia esecutiva sia nella parte attinente alla condanna nel merito sia nella parte attinente alla misura coercitiva.

Ma si potrebbe dubitare che gli arbitri abbiano il potere di concedere la misura coercitiva sulla sola istanza dell’interessato, senza che nulla sia stato previsto nell’accordo arbitrale. È possibile far valere il proprio “diritto” alla misura coercitiva solo se ad esso si riferiva l’atto fondativo della giustizia privata? Oppure si deve ritenere che, non emergendo qui propriamente un diritto autonomo, bensì solo una forma di tutela che può rafforzare il diritto soggettivo sostanziale, insomma una possibilità esecutiva, l’arbitro abbia il potere di provvedere a prescindere dalle

9 CHIZZINI, op. cit., p. 145.

10 In senso contrario CHIZZINI, op. cit., p. 146, il quale ritiene che i provvedimenti cautelari non siano “di condanna” ai fini dell’art. 614-bis c.p.c., richiamando, a suo parere, questa norma solo i provvedimenti idonei al giudicato.

11 Se trattasi di una sentenza straniera, la misura coercitiva in essa prevista è attuabile in Italia a seguito della concessione dell’exequatur alla sentenza stessa, ai sensi dell’art. 64 della legge n. 218 del 1995 o, se siamo nello spazio europeo, ai sensi delle previsioni del regolamento CE n. 44 del 2001.

12 Così CHIZZINI, op. cit., p. 146.

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www.judicium.it previsioni del patto compromissorio? A mio parere l’aspirazione alla misura coercitiva non rappresenta un vero e proprio diritto autonomo, possibile oggetto, in ipotesi, di un autonomo processo dichiarativo. Qui siamo in presenza solo di una misura esecutiva, di una forma di tutela che l’ordinamento prevede in riferimento a certi rapporti sostanziali. Per cui non credo che per la sua concessione in sede di arbitrato vi debba essere la copertura dell’accordo di arbitrato13.

Piuttosto, ove la misura sia concessa dagli arbitri, residua il problema di far fronte all’eventuale errore. Invero, non sembra che dal catalogo dei motivi di cui all’art. 829 c.p.c. se ne possa ricavare alcuno che possa servire a sindacare l’errore commesso dall’arbitro. Qui c’è una lacuna o, se si vuole, ci si scontra ancora una volta col principio di autonomia della giustizia privata di cui pur si deve tenere conto quando ci si affida ad essa14. Ecco, allora, che soprattutto colui che era interessato ad ottenere la misura, se la lite è stata compromessa in arbitri, ha poco da fare ove la sua richiesta sia stata rigettata.

Nessuna possibilità, invece, si ha di rafforzare con la misura coercitiva una conciliazione stragiudiziale, ancorché omologabile dal giudice statale e, quindi, idonea a diventare titolo esecutivo per ogni tipo di esecuzione forzata. Si pensi alle previsioni del decreto legislativo in attuazione della delega in materia di mediazione contenuta nell’art. 60 della legge n. 69 del 2009.

Invero, non è pensabile che la misura sia concedibile da parte del giudice dell’omologazione, perché, in analogia a quanto abbiamo detto per l’exequatur del lodo arbitrale, nel perimetro della cognizione di questo giudice non rientrano le valutazioni richieste dall’art. 614-bis c.p.c. Né è pensabile che essa possa essere chiesta al giudice dell’esecuzione, perché, commettendo un grave errore, è stata una chiara scelta del legislatore quella di sottrarre a detto giudice il potere di concedere la misura coercitiva. Né ancora a me sembra possibile che l’interessato instauri un autonomo processo dichiarativo al solo fine di chiedere ed ottenere la concessione della misura coercitiva15, perché, ripeto, qui non siamo in presenza di un autonomo diritto, possibile oggetto di un autonomo processo dichiarativo, bensì solo di una misura esecutiva in senso lato accessoria ad una pronuncia di condanna.

Certo il legislatore potrebbe anche prevedere un procedimento ad hoc per la concessione della misura. Così accade quando il settimo comma dell’art. 140 del codice del consumo disciplina un procedimento camerale per rafforzare con una misura coercitiva la conciliazione stragiudiziale omologata condotta di fronte ad un organismo accreditato. Ma una disposizione di questo genere a

13 In senso opposto CHIZZINI, op. cit., p. 148.

14 Trattasi di quel principio di autonomia della giustizia privata che, ad esempio, giustifica l’insindacabilità della sentenza privata rispetto alla soluzione della questione di fatto e la sua limitata sindacabilità rispetto alla soluzione della questione di diritto o, ancora, giustifica, nell’ambito dell’arbitrato societario, la non reclamabilità dell’ordinanza cautelare che gli arbitri possono adottare in caso d’impugnativa di delibera assembleare.

15 Nello stesso senso CHIZZINI, op. cit., p. 147.

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www.judicium.it mio parere, piuttosto che contrastare, rafforza l’idea qui sostenuta, visto che essa, previsione eccezionale, non fa emergere l’idea che sia configurabile un diritto alla misura coercitiva, quanto piuttosto l’idea che la concessione di una misura esecutiva possa essere prevista nell’ambito di un particolare procedimento qual è quello camerale. Insomma, dal sistema non traiamo alcun indizio per poter affermare la sussistenza di un diritto alla misura coercitiva, come tale oggetto normale di un processo dichiarativo che sfoci in un normale accertamento con forza di giudicato.

4. - La misura coercitiva non è concedibile d’ufficio, ma su istanza di parte.

Coloro che vedono qui l’affermazione di un vero e proprio diritto, possibile oggetto di un autonomo processo dichiarativo, equiparano detta istanza a qualsiasi domanda, che, come, tale deve essere proposta nel limite temporale previsto per proporre domande in giudizio16. Per cui l’attore dovrebbe attivarsi nell’atto di citazione o al più nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., in via di reconventio reconventionis, e il convenuto nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Ma, come ho già detto, a me non sembra che le cose stiano in questo modo. La richiesta di una misura coercitiva non può rappresentare il “merito” di un processo, ma solo un accessorio: la richiesta di una misura di attuazione del provvedimento di condanna che si richiede nel merito.

Insomma qui siamo in presenza di una misura che riguarda l’effettività della tutela che si chiede in merito. Ed allora a me non sembra che, salvo la necessità di rispettare il principio del contradditorio, vi siano preclusioni per l’istanza in oggetto17. Ed, anzi, sono convinto del fatto che essa possa essere presentata anche per la prima volta in appello, quando l’interessato, che aveva fatto affidamento sullo spontaneo adeguamento del suo avversario, vede che le sue speranze erano mal riposte18.

16 PAGNI, La “riforma” del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. Giur., 2009, p. 1309 ss., spec. p. 1318; ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in www.judicium.it, p. 7; AMADEI, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, in www.judicium.it, p. 10. Posizione intermedia in MERLIN, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. 69/2009, in Riv. dir. Proc., 2009, p. 1546 ss., spec. p. 1549, la quale, pur negando di essere di fronte ad una vera e propria domanda, afferma tuttavia che l’istanza in parola è al più assimilabile ad una modifica della domanda di base, ammissibile nei limiti temporali di cui all’art.

183, comma 5° e comma 6°, n. 1, c.p.c.

17 Nello stesso senso CHIZZINI, op. cit., p. 178.

18 In senso opposto CHIZZINI, op. cit., p. 178, il quale ritiene che l’istanza possa essere fatta solo in primo grado.

Francamente a me pare che delle due l’una: o si ritiene che qui siamo in presenza di una vera e propria domanda, ed allora essa è proponibile solo in primo grado nei termini di preclusione delle domande, oppure si ritiene che qui non vi sia la proposizione di una vera e propria domanda, ed allora non valgono quei termini preclusivi né in primo grado né in fase d’impugnazione.

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www.judicium.it A fronte dell’istanza il giudice deve fare una serie di valutazioni, per le quali egli gode di un ampio margine di valutazione (direi quasi arbitrio). Innanzitutto il giudice deve valutare la concedibilità della misura, escludendola quando si tratta di rapporti di lavoro, ovvero di obbligazioni fungibili o anche quando, pur trattandosi di obbligazioni infungibili, egli ritiene che sarebbe manifestamente iniquo concederla (sic!)19. Quindi, data risposta affermativa al primo quesito, il giudice deve quantificare la misura.

Sulle modalità della quantificazione l’art. 614-bis c.p.c. dice che il giudice fissa “la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”. Qui è evidente il richiamo sia ad obbligazioni di fare infungibile sia ad obbligazioni di non fare. Nel primo caso la sanzione è collegata ad ogni frazione di tempo in cui si verifica il ritardo nell’inadempimento. Così, ad esempio, condannato un famoso sarto a confezionare un vestito, si prevede la misura coercitiva di una certa somma di denaro da pagare per ogni frazione di tempo (settimana o mese) di ritardo20. Nel secondo caso la sanzione è collegata ad ogni episodio di violazione dell’obbligo di astensione. Così ad esempio condannato il vicino a non suonare dalle ore 23 alle ore 8, si prevede il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione di detto ordine21.

Sulla determinazione dell’ammontare l’art. 614-bis c.p.c. dice che il giudice deve tenere conto

“del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”. Francamente a me sembra del tutto inutile cercare di dare un indirizzo interpretativo ad una disposizione così generica, oltretutto mancante anche di una cornice edittale22, che praticamente si rimette all’arbitrio del giudice. Si nota solo che qualche ambiguità emerge quando la norma si riferisce al danno quantificato o prevedibile, visto che la misura coercitiva non ha una funzione risarcitoria, ma solo compulsoria, mirando essa a coartare l’adempimento.

19 CHIZZINI, op. cit., p. 169 ss., nel lodevole tentativo di fornire una linea razionale alla quale il giudice dovrebbe adeguarsi nel valutare questa ipotetica manifesta iniquità, afferma che questa è immaginabile quando a fronte di un interesse meramente patrimoniale del creditore si pone una prestazione di natura strettamente personale. Pur apprezzando il tentativo, che certo va nella direzione giusta, resta pur sempre al giudice uno spazio direi di arbitrio, piuttosto che di discrezionalità.

20 Esempio tratto da LUISO, op. cit., p. 237.

21 Ancora esempio ripreso da LUISO, op. cit., p. 237.

22 Sembra giustificare la mancanza di una cornice edittale CHIZZINI, op. cit., p. 176, col dire che il legislatore prevede una simile cornice quando è tipizzata la situazione sostanziale a tutela della quale si interviene. Ma francamente l’attribuzione al giudice di un potere così ampio a me non pare ragionevole, sia pure a fronte di una disposizione applicabile in modo atipico, ossia ad una serie di situazioni sostanziali non (pre)individuate se non in modo generico, ossia per la loro appartenenza alla categoria delle obbligazioni infungibili.

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www.judicium.it Eppure quel riferimento un qualche valore lo deve avere. In particolare, posto che, non essendo previsto diversamente, sembra proprio che il destinatario del pagamento della misura sia il creditore e non lo Stato, a me sembra che in qualche misura il legislatore si sia voluto far carico della preoccupazione di evitare che attraverso la misura coercitiva i creditori possano godere di un ingiustificato arricchimento, incamerando una somma assai superiore al danno che patiscono. Ciò dovrebbe o far ritenere che oltre un certo limite la somma non possa essere incamerata dal creditore o che il giudice debba considerare questo aspetto nella fissazione della misura. In mancanza di precise disposizioni, a me sembra che ad oggi sia percorribile solo la seconda strada.

Piuttosto, non vi è dubbio che la concessione o il rifiuto della misura coercitiva sia sindacabile in sede d’impugnazione. Se siamo di fronte ad un provvedimento cautelare, l’accessoria previsione di cui all’art. 614-bis c.p.c. è sindacabile in sede di reclamo. Se siamo di fronte ad un’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c. o ad una sentenza, essa sarà sindacabile prima in appello e poi nel giudizio di cassazione, che, trattandosi di una misura esecutiva in senso lato, insomma di una statuizione processuale, è giudice anche del fatto.

In tutti questi gradi il provvedimento sulla misura coercitiva è sindacabile pienamente. Sia, quindi, rispetto alla sua ammissibilità sia rispetto alla quantificazione compiuta. Insomma, in sede d’impugnazione può emergere che non era concedibile la misura concessa o, al contrario, che essa era concedibile. Ovvero può emergere che, concessa correttamente la misura, c’è un errore nella sua determinazione in concreto.

Piuttosto, essendo la misura coercitiva un accessorio della condanna nel merito, è ben possibile che in fase d’impugnazione sia ribaltata la vittoria precedente. Si faccia il caso che nel giudizio di primo grado l’attore vinca, ottenendo la pronuncia di una sentenza di condanna rafforzata con la misura coercitiva. Il convenuto, restando inadempiente, paga la somma determinata ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c., ma allo stesso tempo propone appello e in questa sede vince. È evidente come in tal caso al convenuto debbano essere restituite le somme “ingiustamente”

pagate23. Invero la sua inottemperanza all’ordine del giudice si è rivelata “giusta” ed allora egli deve essere rimesso nella situazione precedente.

Detto in altri termini, la misura coercitiva, pur accessoria ad un provvedimento di condanna, assiste tuttavia l’attuazione del diritto sostanziale riconosciuto esistente e non del provvedimento,

23 Ed anzi, anche se non sono stati spesi motivi specifici avverso la pronuncia contenuta nel capo accessorio, questo cade comunque, ai sensi dell’art. 336, comma 1°, c.p.c., ove cada il capo principale in ordine all’obbligazione: così giustamente CHIZZINI, op. cit., p. 179.

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www.judicium.it per cui, se risulta poi che quel diritto sostanziale è stato erroneamente accertato come esistente, la misura coercitiva cade ad ogni effetto24.

5. - Si pongono, infine, due problemi, entrambi attinenti al rapporto tra il giudice della cognizione ed il giudice dell’esecuzione forzata.

Innanzitutto, occupandoci dell’attuazione forzata della misura coercitiva, si rileva come essa si presenti come una condanna condizionale25: la legge consente all’interessato di precostituirsi un titolo esecutivo, prima che si sia verificato l’inadempimento, per l’eventualità che si verifichi detto inadempimento. A differenza di altri ordinamenti26, il creditore può agire in via esecutiva senza che si accerti preliminarmente che l’inadempimento si sia verificato, sulla base della sua sola affermazione, evidentemente effettuata nell’atto di precetto, in cui si dovrà anche quantificare l’importo in base a ciò che ha stabilito il giudice della cognizione.

L’obbligato può reagire proponendo opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.

Ovviamente in questa sede egli non può contestare la concedibilità della misura o il suo ammontare così come era stato fissato dal giudice della cognizione, tutte critiche da fare in sede d’impugnazione del provvedimento di condanna. Piuttosto, con l’opposizione all’esecuzione l’obbligato può contestare:

1) che si sia avverata la condizione dell’operatività in concreto della misura, ossia l’inadempimento,

2) che la quantificazione effettuata dal creditore nell’atto di precetto sia corretta in applicazione del criterio di liquidazione assunto dal giudice della cognizione.

Ma a chi spetta l’onere della prova in sede di opposizione all’esecuzione?

24 Analogamente CHIZZINI, op. cit., p. 152, il quale dice: “Quindi, può dirsi, che la misura coercitiva non sanziona il mancato rispetto dell’ordine giudiziale in sé inteso, l’atto d’intollerabile insubordinazione, l’Ungehorsam di antica memoria, ma sanziona sempre, in via compulsiva, il mancato e volontario adempimento alla obbligazione principale”.

25 In tale senso CHIZZINI, op. cit., p. 163, il quale precisa che l’ipotesi si differenzia dalla condanna in futuro che si caratterizza per precostituire un titolo esecutivo che svolgerà i suoi effetti da un dato termine, posto che vengono in gioco diritti sottoposti ad un termine iniziale.

26 In Francia il giudice dell’esecuzione liquida l’astreinte dopo che si è verificato l’inadempimento, tenendo anche conto della colpa dell’obbligato in considerazione delle difficoltà eventualmente incontrate nel dare esecuzione all’ordine di prestazione. Insomma, nel sistema francese l’astreinte concessa dal giudice della cognizione non consente immediatamente l’esecuzione, dovendo poi il giudice dell’esecuzione accertare l’inadempimento e il motivo dell’inadempimento, elemento questo che guida la sua valutazione rivolta alla determinazione dell’ammontare.

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www.judicium.it Questo spinoso problema27, che qui si accenna semplicemente, probabilmente va risolto tenendo conto, per un verso, che, come abbiamo già detto, si procede ad esecuzione sulla sola base dell’affermazione del creditore e, per altro verso, che sembra ragionevole fare applicazione del principio negativa non sunt probanda.

Ed, allora, bisogna distinguere a seconda che si sia in presenza di un facere infungibile o di un non fare.

Nel primo caso, se al creditore basta affermare il suo diritto al fare in positivo, sta all’obbligato provare di aver adempiuto senza ritardo, per poter sfuggire alla misura coercitiva. Nel secondo caso, invece, nel giudizio di opposizione starà al creditore provare se e quante volte l’obbligato ha fatto ciò che non avrebbe dovuto. Insomma, qui, se l’esecuzione si mette in moto sulla sola affermazione dell’avente diritto, è anche vero che egli, ove la controparte faccia opposizione all’esecuzione, deve accollarsi la prova di ciò che ha affermato nel precetto, per giustificare sia l’an che il quantum della pretesa.

Ma una questione ancor più spinosa è quella che attiene ai rapporti tra il giudice della cognizione e il giudice dell’esecuzione in forma specifica.

Richiesto della concessione della misura coercitiva, il giudice della cognizione può negarla ritenendo che l’obbligazione in gioco sia fungibile ovvero concederla ritenendo, al contrario, che essa sia infungibile. Ebbene ci si chiede: l’accertamento compiuto dal giudice della cognizione circa la fungibilità o l’infungibilità della prestazione dovuta vincola il giudice dell’esecuzione al quale eventualmente l’interessato si rivolga per il provvedimento di cui all’art. 612 c.p.c.?

Anche questa domanda trova una risposta a seconda del concetto che si abbia della pretesa alla misura coercitiva. Se si ritiene che essa rappresenti un autonomo diritto soggettivo di per sé suscettibile di essere oggetto di un processo dichiarativo in cui venga accertato con forza di giudicato, allora si può immaginare quel vincolo. In caso contrario, invece, non è ricostruibile alcun vincolo, restando del tutto impregiudicata la valutazione del giudice dell’esecuzione.

La scelta qui è già stata già fatta e va solo ribadita. Invero a me sembra che non sia configurabile un diritto alla misura coercitiva in sé accertabile con forza di giudicato, ma solo una misura esecutiva, che va a rafforzare la condanna, cercando di garantire la sua effettività28.

27 Sul quale vedi LUISO, op. cit., p. 239 e MERLIN, op. cit., p. 1551 ss.

28 CHIZZINI, op. cit., p. 163, pur ritenendo di essere di fronte ad una misura accessoria, afferma tuttavia che la pronuncia del giudice è idonea al giudicato, motivo ulteriore, a suo parere, per escluderne l’applicabilità in collegamento a provvedimenti inidonei al giudicato, come ad esempio i provvedimenti cautelari. Ho già detto di non condividere questa affermazione. Aggiungo che a me non sembra ragionevole l’impostazione di fondo di Chizzini, il quale, partendo dalla riaffermazione della necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione forzata, come una

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www.judicium.it Ed, allora, se il giudice della cognizione concede la misura coercitiva richiesta, ritenendo infungibile l’obbligazione in gioco, non è escluso che l’interessato tenti ugualmente la via dell’esecuzione ai sensi degli articoli 612 ss. c.p.c. Invero, non si può pensare che egli, avendo fatto la richiesta di cui all’art. 614-bis c.p.c., abbia con ciò rinunciato all’azione esecutiva. Né si può ritenere che il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di cui all’art. 612 c.p.c., debba senz’altro rigettarla affermando l’infungibilità dell’obbligo in ossequio alla pronuncia del giudice della cognizione29.

Ma la situazione più difficile si può creare nel caso opposto, ove il giudice della cognizione neghi la concessione della misura, ritenendo fungibile l’obbligo. In tal caso il creditore, che si rivolge al giudice dell’esecuzione, perché questi, ai sensi dell’art. 612 c.p.c., determini le modalità dell’esecuzione può sempre trovarsi di fronte ad un rifiuto di esecuzione, nel momento in cui il giudice di questa ritenga al contrario che l’obbligazione sia infungibile e quindi insuscettibile di attuazione forzata30.

La cosa non è ragionevole, ma l’inconveniente deriva dall’errore del legislatore, che non ha compreso come la misura coercitiva, riguardando l’esecuzione forzata, non doveva essere lasciata al dominio del giudice della cognizione.

sorta di conseguenza sul piano processuale dell’idea, tutta sostanziale, per cui l’obbligazione si trasformerebbe necessariamente in un equivalente economico ove la prestazione non sia surrogabile, finisce per sostenere che la parola “condanna” sia utilizzata nell’art. 614-bis c.p.c. in modo improprio, dovendosi piuttosto ritenere che la disposizione della misura coercitiva dia luogo ad un capo condannatorio accessorio all’accertamento del rapporto obbligatorio.

29 In senso contrario CHIZZINI, op. cit., p. 180.

30 In senso conforme CHIZZINI, op. cit., p. 180, il quale distingue questo caso da quello inverso fatto in precedenza.

Ma, francamente, se si ritiene, come l’autore in parola, che la pronuncia del giudice della cognizione sulla misura coercitiva “faccia giudicato”, non vedo come si possa distinguere a seconda che questi abbia accolto o rigettato l’istanza di cui all’art. 614-bis c.p.c.

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