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Il consenso informato Prof. Gian Aristide Norelli

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Academic year: 2022

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Il consenso informato

Prof. Gian Aristide Norelli* Dr.ssa Elena Mazzeo* *

Necessita ancora soffermarsi sul tema del consenso informato e non tanto sulla sua ormai acquisita perentorietà di assunzione (anche se una definitiva messa a punto della dottrina al riguardo potrebbe evitare ancora ondivaghe novazioni), quanto e soprattutto sull’opportunità di promuovere una sorta di standardizzazione sul modo in cui conviene che sia espresso e segnatamente sui caratteri, formali e di sostanza, che deve assumere l’informazione, che della validità del consenso è soprattutto essenziale.

Se non si temesse di cadere in un silenzioso bisticcio di parole, in altri termini, si potrebbe dire che è diventata indifferibile una sorta di “consensus conference” sull’ "informed consent”, affinché, assumendo come definitiva e chiara la dottrina giuridica e medico legale sul valore del consenso e sugli attributi che ne connotano la validità, si forniscano anche al medico ed alla giurisprudenza “linee guida” essenziali, così da percepirsene non solo la categoria ed imprescindibile valenza, ma se ne conoscano anche le modalità corrette di espressione e la giusta formula per validarne il senso e la dimostrabilità probatoria.

Rivolgendosi al Collega cui si ritenga opportuno chiarire il significato del consenso, dunque, occorre anzitutto definire le conseguenze di una sua mancata acquisizione, essendo ormai noto come il "senso del dovere" assuma un ruolo indubbiamente più cogente allorché siano chiare e definite (e soprattutto non aleatorie) le conseguenze della sua violazione; ed altrettanto noto è come nel nostro sistema, la giurisprudenza vincoli il medico a comportamenti nei confronti dei quali la “coscienza” si dimostri in qualche misura carente, ovvero, come il medico sia sovente indotto ad un comportamento corretto e giusto per timore della sanzione conseguente, prima che per la acquisizione deontologica di esso dovrebbe esprimere il fondamento.

Rinviando alla copiosa ed esaustiva dottrina sull'argomento, è qui sufficiente ricordare il presupposto penalistico per cui la mancata acquisizione del consenso, in quanto palese violazione dello spirito e delle letture costituzionali, connota l'illeicità dell'atto medico stesso e quello civilistico, secondo cui, per dottrina ormai sostanzialmente conforme, l'espressione del consenso entra a costituire l'essenza medesima del negozio contrattuale, piuttosto che costituire fondamento della sua preparazione (fase pre-contrattuale)1.

Oltre a ciò, per altro, merita sottolineare come addirittura il tema del consenso possa intervenire a dirimere la questione più volte evocata fra l'impegno di mezzi e quello di risultato nell'ambito delle obbligazioni contrattuali della prestazione d'opera professionale, nel momento in cui "l'interesse ultimo del cliente (il risultato) può dirsi soddisfatto attraverso la sua stessa completa informazione sui probabili esiti a cui la prestazione del professionista (i mezzi) lo

*Ordinario Medicina Legale, Perugia

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Ricercatore Universitario Confermato, Perugia

1In rispondenza al disposto dell'art. 1326 c.c. “Conclusione del contratto”: “Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte…..”. Ridiscussa in ambito giursprudenziale, dopo un acceso dibattito che sembrava ormai superato, al contrario, la collocazione dell'informazione, che ovviamente precede l’erogazione del consenso; secondo infatti due recenti pronunciamenti, l’informazione, rispondendo al disposto dell'art. 1337 c.c. (“Le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede”), è componente della fase precontrattuale. Si veda nello specifico, Cass. Civ., 15 gennaio 1997 n. 364 e Corte di Appello di Milano, 21 dicembre 1996, in Resp.

Civ. e Prev., 62, 374, 1997.

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condurranno ed in tale realtà il rapporto prettamente fiduciario instauratosi fra le parti, trova il suo giusto equilibrio"2.

Non v'è chi non veda, allora, da quanto precede, come il consenso (rectius: la sua acquisizione) rappresenti elemento essenziale del rapporto fra il medico ed il suo assistito, ad esso ed alle sue caratteristiche di espressione subordinandosi la validità dell'atto e la conformità delle obbligazioni al contratto assunto; di tutto ciò peraltro, dovendosi fornire dimostrazione probatoria, il cui onere, per le motivazioni anzidette, incombe di fatto sul professionista, quantomeno secondo un recente corso giurisprudenziale che ha inteso colmare un reale o presunto divario esistente fra il medico e l'assistito a tutto vantaggio del primo di fronte alle sempre più frequenti controversie3.

Ne discende, quindi, in buona sostanza, che se è costantemente vero che all'assistito compete l'onere probatorio del danno e della mancata acquisizione di un consenso valido, è onere del professionista dimostrare non solo e non tanto la realtà del consenso, quanto di averne permesso la validità , nel momento in cui non può certamente dirsi valido un consenso che non sia preceduto da una informazione a tal punto idonea e puntuale da essere certi che il soggetto, cui compete la facoltà di consentire, risulti compiutamente consapevole della materia su cui esprime il giudizio, sia in senso favorevole che contrario.

Il punto fondamentale, allora, trasferendo l'analisi da un piano giuridico-dottrinario ad una prassi, in cui devono sostanziarsi sia i comportamenti del medico, sia l'indagine che tali comportamenti è chiamata ad esplorare, risiede su alcuni aspetti essenziali del consenso, che trasformano la necessità teorica di acquisirlo, in dimostrazione pratica e probatoria di averlo fatto, rendendosi per questo necessari taluni spunti metodologici che con sempre maggiore frequenza divengono determinanti nel processo, allorché l'assistito assuma di non aver potuto esprimere un effettivo consenso (non avendo soprattutto ricevuto una reale informazione) ed il medico, dal canto suo, affermi il contrario; avendosi come unico riferimento una giurispru- denza costante, che a parte un richiamo fermo alla completezza dell'informazione medesima (peraltro unicamente espresso da aggettivazioni ridondanti e pleonastiche rispetto al termine

2Spirito A.: “Responsabilità professionale e obbligo di informazione”, Danno e respon., 1, 23, 1996.

3Cass. 25 novembre 1995 n. 10014. Contra, già si esprime Nannini: “Il consenso al trattamento medico”, Giuffrè, Milano, 1989:”Una volta accolta la tesi che giudica di per se l’illecito il trattamento sarà il medico a dover provare di essere intervenuto in presenza del consenso illuminato del soggetto”. Ormai, la giurisprudenza è uniformemente orientata a rafforzare la tutela dell’assistito, soprattutto nel caso in cui il trattamento risulti di

“difficile esecuzione”, spettando pertanto, al medico di provar di aver eseguito adeguatamente la prestazione, addebitandosi ad un fatto imprevedibile l’insuccesso dell’atto. In tal senso, a titolo emblematico, si cita la massima della sentenza della Cass. Civ. , Sez. III, 22 febbraio 1988,: “Se l’intervento operatorio scelto ed applicato dal chirurgo è di difficile esecuzione (poiché richiede una notevole abilità, implica la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comporta un largo margine di rischio) il cliente deve provare con precisione e particolareggiatamente il modo di esecuzione dell’intervento operatorio nelle sue varie fasi e, all'occorrenza, il modo di esecuzione delle prestazioni post-operatorie; tale rigore probatorio non è richiesto quando l’intervento operatorio applicato dal chirurgo allo specifico caso patologico non sia di difficile esecuzione ed il rischio di un esito negativo o addirittura peggiorativo sia minimo, potendo derivare, al di fuori della colpa dell'operatore, dal sopravvenire di eventi imprevisti ed imprevedibili secondo l’ordinaria diligenza professionale oppure dall’esistenza di particolari condizioni fisiche del paziente, in precedenza non accettabili con il medesimo criterio dell’ordinaria diligenza professionale.

Quando il paziente abbia provato in giudizio che l’intervento operatorio sofferto era di non difficile esecuzione e che da quell’intervento è scaturito un risultato peggiorativo (essendo le sue condizioni fisiche finali divenute deteriori rispetto a quelle preesistenti) non può non presumersi la inadeguatezza o non diligente esecuzione della prestazione professionale; presunzione basata su una regola di comune esperienza nel settore chirurgico ed in definitiva sul principio dell’id quod plerunque accidit. Ne deriva che, assolto dal paziente, con la dimostrazione degli elementi sui quali si fonda la presunzione. L’onere probatorio a suo carico spetta al chirurgo fornire la prova contraria, di aver, adeguatamente e diligentemente eseguito la prestazione professionale e di nulla aver potuto contrapporre alla insorgenza dell’esito peggiorativo dell'intervento, in quanto causata dal sopravvenirvi di un evento imprevisto ed imprevedibile (secondo l’ordinaria diligenza professionale) oppure da una particolare condizione fisica del cliente (non accertabile con il medesimo criterio dell’ordinaria diligenza professionale)".

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"completa"4 ed una generale e generica indicazione degli argomenti che l'informazione ha da concernere in ciascuna delle fasi proprie all'intervento medico - chirurgico (diagnostica, terapeutica ed assistenziale successiva al trattamento), niente aggiunge in termini di modalità di espressione, limitandosi a notare come l'assistito debba aver chiaramente inteso ciò che il medico gli ha proposto e che il medico debba proporre ogni azione nei termini più e meglio esaustivi, esplorando l'attitudine del malato a comprendere l'informazione.

Il parere sulla effettiva rispondenza dell' informazione all' opportunità di ogni singola fattispecie e, ovviamente, compito del giudice, che dovrà fondarsi su elementi sovente non coincidenti fra loro o addirittura contraddittori, non potendosi che evocare legittimi dubbi sulla probatorietà di testimonianze ove queste riguardino solo le parti in causa nella controversia (il medico e l'assistito).

Dall'esperienza americana ci provengono estrapolazioni regolamentari da casistiche ricorrenti, la cui validità giurisprudenziale in certa misura soddisfa anche per la logicità sostanziale che caratterizza il diritto comune, per esempio:

• Prudent patient rule: secondo cui è da ritenersi confacente l'informazione fornita dal sanitario, quando questa possa ritenersi soddisfacente per altra persona ritenuta "cauta e giudiziosa";

• Professional standard rule: secondo cui il medico è tenuto ad informare l'assistito di quanto è presumibile ritenere che, in analoghe circostanze, sarebbe stato riferito dalla maggior parte dei colleghi5.

L'ambito probatorio, tuttavia, si sostanzia a livello internazionale, come anche nel nostro Paese, soprattutto perseguendo la ricerca di un atto scritto, la cui validità probatoria è giustamente assunta come superiore ed oggettiva rispetto ad ogni estrinsecazione verbale. Ciò che difficilmente si concilia in modalità gestionali ed organizzative tutte "nostrane", peraltro, sono la puntualità e la precisione che caratterizzano i testi scritti oltre oceano (costantemente integrati, perdipiù, da un colloquio con l'assistito) a fronte della sostanziale superficialità delle nostre formulazioni, che addirittura dimostrano, in re ipsa, l'esatto contrario di quanto intendono esprimere.

Non essendosi, perdipù, ancora appieno percepito che non è tanto del consenso che si deve fornire appropriata dimostrazione, quanto della sua effettiva validità e cioè della completezza dell' informazione, dell' effettiva capacità recettiva di essa da parte dell'assistito e quindi di averla correttamente ed esaustivamente fornita, risultando vana, o addirittura contro- producente, ogni diversa sottoscrizione.

Viene, quindi, allora da chiedersi quale sia la forma più opportuna e corretta per, esprimere l'informazione, consapevoli della necessità che poi si rende necessario fornirne adeguata dimostrazione probatoria. Al riguardo giova ricordare che:

1) Per giurisprudenza costante è irrilevante che l'informazione si eroghi in forma scritta o verbale, dovendo, tuttavia ".... il medico (omissis)... informare il paziente, con le opportune spiegazioni del caso, sia pure adeguate ed adattate al livello intellettuale e culturale ed alle condizioni fisiopsichiche di lui"6 ovvero, in altri termini :" . . . prima di procedere ad una operazione, al fine di ottenere un valido consenso del paziente, informare

4 Bilancetti arriva ad enumerarne nove: consapevole o informato, attuale, manifesto, libero, completo, gratuito, recettizio e richiesto. Bilancetti M.: “La responsabilità penale e civile del medico”, Cedam, Padova, 1996.

5 Criscuoli in merito sottolinea come a parità del presupposto di partenza (che consiste nel considerare la ragionevolezza come parametro di base) diverse sono le conseguenze cui si perviene nell’America del Nord ed in Inghilterra.

6 Tribunale di Torino, 17 aprile 1961, resp. Civ. e Prev., 205, 1961.

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questi dell'effettiva portata dell'intervento, degli effetti conseguibili, delle inevitabili difficoltà delle eventuali complicazioni, dei prevedibili rischi coinvolgenti probabilità di esito infausto"7 ed ancora dovendo tale informazione: “ricomprendere non solo i rischi prevedibili, esclusi gli anomali, al limite dal fortuito, ma estendendosi altresì ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative.

In particolare, rispetto ad interventi complessi, svolti in équipe, qualora presentino nelle varie fasi, rischi specifici e distinti allorché tali fasi assumano una loro autonomia gestionale, l'obbligo di informazione si estende anche alle singole fasi ed ai rispettivi rischi"8.

Si aggiunge che, secondo recente giurisprudenza, addirittura dovrebbe competere al solo medico esecutore materiale dell'atto chirurgico l'onere di erogare l'informazione, non potendo fare a meno di notare, peraltro, in una impostazione siffatta, la tendenza ad esasperare un concetto altrimenti giusto ed a confondere la tutela del diritto con spunti defatiganti di burocratizzazione.

2) L'informazione deve essere comunque completa e personalizzata, in modo che non vi siano dubbi che l'avente diritto sia posto in grado di esprimere un consenso valido sotto ogni profilo.

Così uniformemente si esprime la suprema Corte: "Il consenso non essendo condizionato da requisiti di forma, può essere manifestato al sanitario anche mediante un comportamento che riveli in maniera precisa ed inequivocabile il proposito di sottoporsi all'atto operatorio9 ed ancora: "...questo non è condizionato a specifici requisiti e può essere manifestato al sanitario anche con un comportamento tacito..."10.

3) Non si può essere certi di aver tenuto a mente ogni possibile complicanza, della natura più diversa, esprimendosene un elenco, avendosi a posteriori dimostrazione evidente di un difetto di informazione11, nel caso in cui si palesino evenienze non comprese in elenco, né potendosi definire completa un'informazione che consideri i soli aspetti (economici, familiari, sociali) che potrebbero assumere per l'assistito valore addirittura superiore e pregiudizievole all'espressione del consenso12.

Tutto ciò considerato, dunque, mi sembra potersi concludere che la naturale forma per garantire un'informazione corretta ed adeguata, sia quella orale, dotata di modalità espressiva consona alla capacità di comprensione di chi deve recepirla, passibile di integrazioni mimiche e gestuali, talora essenziali a definire un concetto, al pari della inflessione vocale con cui il

7 Cass. Civ., Sez. III, 12 giugno 1982, n. 3604.

8 Cass. Civ., 15 gennaio 1997, n. 364.

9 Cass., Sez, III, 6 dicembre 1968, n. 3906

10 Cass., 26 marzo 1981 n. 1173.

11 Si è già avuto modo di segnalare alcuni sconcertanti pronunciamenti della Suprema Corte canadese, secondo cui un rischio che risulti solo una mera possibilità ordinariamente non meritevole di informazione, tuttavia se la sua occorrenza induce serie conseguenze come ad esempio una paralisi o perfino la morte, deve allora essere segnalato, trattandosi di un rischio effettivo “con la evidente contraddizione logica, secondo cui il sanitario dovrebbe fornire l’informazione non solo sulla base della frequenza di uno specifico rischio, ma anche sulla percezione, che tuttavia non potrà che formularsi a posteriori, della realtà del danno"; Norelli A., Mazzeo E.,:

“l’informazione ed il consenso al trattamento in chirurgia vascolare”, Flebologia, 2, 231, 1991.

12 Concorde la Cass., 26 marzo 1981 n. 1173, che afferma: “…..occorre per la sua validità del consenso che il consenziente venga precedentemente edotto dei pericoli insiti nell’atto operatorio con la prospettazione anche dei possibili esiti incidenti sulla sua vita di relazione, che esulano i limiti del problema tecnico, rimesso alla scelta del solo sanitario, vanno valutati dal paziente per poter consapevolmente e quindi validamente manifestare il proprio assenso”. Non trascurabile, peraltro, come già segnalato che “il diritto del malato ad essere informato possa trasformarsi in un mezzo di ritorsione contro il professionista, non potendosi certo pretendere che il medico, per quanto competente, attento, diligente e disponibile sia, abbia o debba avere, la capacità di individuare anche i più remoti bisogni e le più intime esigenze dei malati per soddisfarle, pena la sua responsabilità”, così Martorana C.:

“Considerazioni su informazione del paziente e responsabilità medica”, Resp Civ. e Prev., 62, 374, 1997.

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concetto stesso è formulato, ed integrabile al di fuori di inutili e magari erronee schematizzazioni, ad ogni eventuale ed ulteriore richiesta dell'interessato, che sola può costruire un modello assolutamente individuale, originale ed esclusivo di informazione misurata su chi debba accoglierla ed assimilarla.

Un problema sovente evocato e che, a quanto risulta, non ha trovato definitiva sistemazione nella giurisprudenza della Suprema Corte è semmai rappresentato dal modo migliore in cui il professionista e l'assistito possano garantirsi per caratterizzare probatoriamente il loro comportamento in fase di contenzioso che verta sul consenso. Si è dell'opinione al riguardo, pur consapevoli del rischio che una impostazione siffatta possa indurre il malinteso ricorso ad una odiosa burocratizzazione, che quantomeno fino a quando la necessità di trasmettere una informazione completa e consona non sia entrata nell'automatismo della pratica medica ad ogni livello (il che richiede un processo storico quantomeno decennale) la presenza testimoniale per entrambe le parti (professionista ed assistito) sia indispensabile ed insostituibile come modello operativo unico e dotato di validità probatoria.

Essenziale, infatti, la presenza di chi possa testimoniare, in uno con la rispondenza dei dati circostanziali, sull'assolvimento dell'obbligo informativo da parte del professionista, ma essenzialmente anche e del pari, a meno di espressa rinuncia da parte dell'assistito da esprimersi allora, nei casi più delicati, in forma scritta, analogamente a quanto occorre nella pratica notarile, la presenza di un garante per l'assistito, non solo (e si può dire non tanto) dell'avvenuta informazione, quanto e soprattutto della effettiva percezione e comprensione della materia da parte sua in qualità di soggetto deputato ad esprimere il proprio consapevole consenso.

Tale soggetto, della cui necessaria presenza è d'uopo dare adeguata motivazione all'assistito, dovrebbe essere da lui indicato e prescelto per assistere al colloquio in forma di valido testimone, essendo implicato che una prassi siffatta dovrebbe ovviamente limitarsi a circostanze e fatti di peculiare interesse, in cui l'informazione nei suoi contenuti e nelle sue modalità di espressione rappresenti invero elemento essenziale alla validità del rapporto fra il medico (e l'assistito e l'espressione del consenso assuma pregnanza essenziale nell'esecuzione dell'atto medico (sterilizzazione, chirurgia estetica, interventi demolitivi); fermo restando il principio che quanto più pregnante ed imminente è la necessità di procedere all'atto medico come, al contrario, quanto più oggettivamente banale e priva di rischi ne sia la sua esecuzione, tanto più contenuto sarà il valore del consenso e tanto più sommaria potrà essere l'informazione.

Ed è a questo punto necessario, argomentando in termini di diversità fra i modelli informativi, sulla base delle peculiarità intrinseche all'atto medico, puntualizzare un aspetto che troppe volte si è affrontato impropriamente nella dottrina giuridica e nella giurisprudenza e cioè il tema dell'intervento estetico, da taluno distinto rispetto all'intervento a scopo funzionale e che risulterebbe, diversamente da quest'ultimo, gravato da un obbligo di risultato e non solo di mezzi.

La giurisprudenza ha puntualmente ed unicamente chiarito come il trattamento sanitario sia sempre gravato da un obbligo di mezzi, essendo il risultato un evento sfuggente non coercibile come impegno contrattuale.

Da sottolineare, poi, come più volte si è avuto occasione di notare13, che un trattamento avente finalità puramente estetiche non esiste in medicina, posto che nel momento in cui il soggetto decida di sottoporsi ad un intervento sulla sua persona che non è mai assolutamente banale in termini di rischio, pur se sia mosso dal solo intento di migliorare il proprio aspetto esteriore, questi è indubbiamente persona la cui cenestesi individuale è turbata per una conflittualità fra soma e psiche che ne riduce quello stato di completo benessere fisico, psichico e sociale in cui indiscutibilmente si sostanzia la nozione di salute; onde se ogni

13 Norelli, G-A., Mazzeo E.,: “Informazione e consenso .... ", loc. cit.

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momento turbativo della salute individuale merita un intervento medico, non v'è chi possa ancora negare lo scopo "funzionale" anche del più apparentemente "estetico" dei trattamenti.

Vi è da dire, semmai, correttamente investendo l'ambito dell'informazione piuttosto che dell'obbligazione di risultato, che l'ambito della Chirurgia estetica è particolarmente delicato per la necessità che l'assistito sia consapevolmente posto in grado di operare una scelta fra il rischio ed il beneficio connesso all'intervento, posto che, di fatto, è nel bilanciamento fra i due fattori che si condiziona l'una o l'altra opzione. In altri termini, se non vi è dubbio, in sostanza, che di fronte ad una condizione "tradizionale" di malattia, magari ad evoluzione negativa, ove si proponga un trattamento che ha la possibilità di correggere in positivo tale stato o quantomeno si sappia che l'insuccesso può assumere la forma di un mantenimento dello status quo, l’assistito esprime in genere il proprio consenso al trattamento medesimo, di fronte ad un intervento che è gravato da rischi spesso oggettivamente superiori rispetto al beneficio che si intende ottenere (rischio anestetico, cicatrizzazione, ecc) è possibile che una debita informazione rimuova il disagio soggettivo che la persona avverte, inducendola a rinunciare al trattamento medesimo.

Può accadere, in altri termini, con maggiore frequenza nella chirurgia estetica rispetto agli altri ambiti della medicina, che il professionista debba erogare l'informazione quasi come

"deterrente" all'atto medico, palesando in dettaglio i rischi di danno connaturati ad esso a fronte del miglior risultato, eventualmente ma non con certezza, perseguibile.

Solo in tal senso, allora, può parlarsi latamente di impegno contrattuale al risultato, nella sola misura in cui, cioè, se l'informazione, correttamente erogata, fa pendere la scelta dell'assistito nella direzione del consenso dell'atto, è evidente che il professionista ha fornito concreti crediti per un risultato favorevole, essendo perdi più certo che l'assistito ha perfettamente inteso i termini entro cui il risultato può effettivamente dirsi "favorevole"; onde è lecito attendersi, salvo prova contraria di eventi non prevedibili né prevedibili, che l'esito atteso ed in sostanza concordato effettivamente si realizzi, essendo ad ogni logica al buon senso che chiunque, consapevole dell’incertezza di un risultato od addirittura potendosi prevedere un peggioramento della sua condizione, con superficialità accetti di sottoporsi all'atto medico, dichiarando una piena soddisfazione quale ne sia l'esito14.

Con le dovute riserve e le ovvie differenze, una situazione latamente non dissimile si manifesta, sempre in ambito di consenso, a fronte di una disciplina le cui implicazioni di carattere informativo riferite all'accettazione o al diniego della prestazione, non risultano appieno esplorate ed è questa la disciplina medico-legale che, se da sempre si è occupata del consenso riferito all'atto medico in generale, raramente ha volto lo sguardo al proprio interno esaminando le prospettive della medesima questione.

E' noto, infatti, che la materia del consenso come obbligazione professionale non concerne la sola professione medica, iscrivendosi l'art. 1326 c.c., secondo cui "Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte", nel titolo inerente i contratti in generale15.

14 Cass., Sez. II civile, 8 agosto 1985 n. 4394: “Il dovere di informazione gravante sul chirurgo estetico ha contenuto più ampio rispetto al corrispondente dovere a carico del terapeuta, in quanto deve essere esteso alla possibilità di conseguire un miglioramento effettivo dell'aspetto fisico, che si ripercuota favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione”; Cass. sez. III civile, 25 novembre 10014: “Nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest'ultima non come un dato assoluto ma da valutare in riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentire dal progresso raggiunti dalla tecnica operatoria”;

Cass., Sez. III, 8 aprile 1997 n. 3046: l’obbligo di informazione gravante sul professionista chiamato ad una operazione di chirurgia plastica ricostruttiva (nella specie rimozione di tatuaggi) è limitato agli eventuali esiti che, contrariamente agli intenti del paziente, potrebbero rendere varia l'operazione non comportando un effettivo miglioramento rispetto alla situazione preesistente".

15 In merito, si veda Spirito A.: “Responsabilità professionale ed obbligo di informazione”, Danno e responsabilità, 1, 23, 1996 .

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Onde segnatamente sotto il profilo civilistico, già si è discusso nella specifica dottrina per, individuare i limiti di liceità di ogni prestazione, la cui eventuale difformità al presupposto obbligazionale del consenso bene può configurare gli estremi dell'atto illecito.

Si è citata, ad esempio, la professione forense e quella notarile16, differenziando per esse fra l'obbligazione di mezzi e quella di risultato, verificando al contempo, come l'obbligo di informazione in ogni caso rappresenti il presupposto essenziale alla validità della prestazione medesima, svincolato dal risultato che può conseguire all’atto professionale.

Orbene : se si considera per un momento la professione del Medico Legale è di piena evidenza come una informazione completa e corretta rappresenti costantemente un presupposto essenziale alla istituzione del corretto rapporto professionale; basti pensare alle attese che costantemente il parere del medico legale suscita nell’assistito e la potenzialità che risiede nel parere specialistico affinché l’assistito stesso si indirizza verso diverse opzioni, subordinandosi, in sostanza, la scelta comportamentale di chi richiede la prestazione, all’indirizzo che il tecnico, tramite l'informazione, lo induce ad assumere. Non v’è l'abitudine, almeno per ora, per il professionista ad argomentare in termini siffatti e l’invito alla prudenza ed alla serietà comportamentali che la Medicina Legale sovente formula, troppo spesso è malamente intesa come spinta corporativa o propria ad una cultura selettiva ed elitaria.

Considerando, invece, i fatti in una prospettiva concreta, non può farsi a meno di notare che:

1) è il medico legale che, con riferimento alla eventualità del comportamento antigiuridico come antecedente di un fenomeno può stimare se sussista o meno il nesso causale, orientando verso il contenzioso od al contrario inducendo a recedere da una iniqua volontà risarcitoria;

2) è il medico legale che, con riferimento al quantum relativo all'indennizzo od al risarcimento concretizza le attese future, segnatamente economiche, dell'assistito, validando, altresì, od al contrario smentendo, l’eventuale utilità dei successivi gradi del contenzioso:

3) è il medico legale che spesso deve orientare l’assistito (per esempio in ambito di assicurazione o di assistenza sociale) verso la direzione per lui più conveniente indicando anche la prassi che può fornire maggiore utilità e garanzie;

4) è il medico legale, infine, che spesso può indirizzare il comportamento dell’assistito, rassicurandolo o al contrario togliendo ogni illusione e velleità, in merito al diritto a fruire di una prestazione (assegno di accompagnamento, ad esempio)17.

16 Emblematico l'esempio di Mengoni: “Obbligazione di risultato e obbligazione di mezzi", Riv. Dir. Comm. 185, 1954. Secondo Cattaneo: “La responsabilità professionale, Milano, 1958: “l’avvocato che sia obbligato a proporre appello avverso una sentenza, se non propone l'appello in tempo utile è inadempiente, senza che occorra la prova della colpa, venendo considerata la sua obbligazione di risultato; nel caso in cui invece, il cliente lo abbia lasciato libero o meno di appellare, la sua è considerata un’obbligazione di mezzi e sarà necessaria la prova della colpa”.

Sempre presupposto l'obbligo di risultato per il notaio “il quale è sempre tenuto a fornire al cliente il risultato utile conseguito da un atto valido, dell'ingegnere o dell'architetto che devono fornire un progetto immune da difetti tecnici…..”, così Cattaneo: “La responsabilità del professionista”, Milano, 1958.

17Estremamente interessante sulla responsabilità del medico legale la sentenza della Corte di Appello di Milano, 27 marzo 1981, in cui si afferma: “Nel contratto di prestazione d’opera intellettuale (art. 2230) le obbligazioni assunte dal professionista sono obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista assumendo l'incarico si impegna a prestare la propria opera intellettuale solo al fine di raggiunge il risultato sperato ma non a conseguirlo. L’inadempimento consiste cioè nell’inosservanza della diligenza prescritta dall’art. 1176, comma 2°, c.c. che è la normale diligenza con riguardo alla natura dell'attività esercitata, in osservanza che si risolve nella colpa lieve, eccetto che si tratti di prestazioni di speciale difficoltà, nel qual caso la diligenza deve essere valutata con minore rigore, in modo che il professionista risponde solo della colpa grave oltre che del dolo, ai sensi dell’art. 2236 (nel caso concreto si è affermata la legittimità della pretesa del perito medico legale di parte, in quanto lo stesso non è tenuto a seguire le istruzioni ed i comportamenti concordati con la cliente). Riv. It. Med.

Leg., 19. 180. 1997. Dalla suddetta massima, implicitamente emerge, a prescindere dalla specifica materia del contendente (obbligo di mezzi o di risultato nell'ottenere ciò che viene richiesto dalla parte tutelata), l'obbligo per il consulente medico legale di chiarire nella stipula del contratto, quali sono gli scopi per cui un soggetto si rivolge

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Quid iuris? allora per il medico legale che, avendo espresso una valutazione del danno chiaramente insostenibile sulla base dei più oggettivi riferimenti, perseveri nella richiesta inducendo l'assistito ad un contenzioso defatigante ed oneroso, il consenso al quale indubbiamente promuove da una informazione erronea ed incongrua o per lo stesso medico legale che sostenga una valutazione magari congrua inducendo l'assistito ad affrontare un giudizio arbitrale, omettendo tuttavia di informarlo sui costi del medesimo talora addirittura superiori al beneficio economico che potrebbe derivarne o del medico legale che, di fronte ad una condizione evidente di colpa (professionale, ad esempio) difendendo il professionista indifendibile, ometta di informarlo della inescusabilità, dell'errore, consigliandogli al contrario, di resistere ad una equa richiesta risarcitoria, ed inducendolo ad affrontare, invece, una dannosa ed inutile vertenza. Esemplificazioni siffatte potrebbero esprimersi innumerevoli, solo per dimostrare, in sintesi, che l'obbligo di informare come presupposto e parte integrante del Rapporto contrattuale vale per ogni attività professionale, non essendone immune la Medicina Legale ove con l'assistito si stabilisce un impegno reciproco obbligazionale non differente da quello proprio ad ogni attività clinica. Ma v’è addirittura di più: nel momento in cui, infatti, il “trattamento" cui il medico legale espone il proprio assistito è gravato da caratteristiche ben diverse rispetto alla condizione oggettiva di malattia, si fa ancor più pregnante il ruolo dell’informazione come presupposto essenziale affinché l'assistito comprenda e sappia ponderare il rapporto fra il rischio ed il beneficio che sottendono l'espressione od il diniego del consenso.

Ed ancora più delicato si palesa il problema del consenso partecipe, nel caso in cui il medico legale si presenti in veste di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio (consulente d'Ufficio, perito, medico di Istituto) allorché fra i suoi compiti cada l'informare l'assistito e l’acquisizione del consenso, derivandone, in carenza, la previsione di ulteriori e gravi ipotesi di reato, aggiuntive rispetto a quella sin qui considerata (rifiuto d’atti d’ufficio, ad esempio)18, sempreché, ovviamente, non risulti anche evocabile l'ipotesi di specifico reato (art.

o invoca una specifica competenza tecnica e quali siano le reali possibilità scientifiche a suffragio della tesi dell'assistito. Per cui, chiaro che anche per il medico legale l'impegno è di mezzi, ma ciò che interessa e che esposte l'assistito le proprie esigenze e chiarito il consulente le possibilità attuative, l'assistito stesso aderisca alle proposte del consulente stesso.

18 In dettaglio, come del tutto recentemente, sottolineato da Gentilomo A., Ronchi E. “Sulla responsabilità del consulente tecnico d'ufficio in materia civile. Inquadramento normativo e osservazioni a margine”, Resp.

Civ. e Prev ., 62, 221, 1997, fra gli illeciti del consulente medico legale, si ricordano:

• illeciti penali: falsa interpretazione o perizia frode processuale

peculato

rifiuto di atti legalmente dovuti omissione di denuncia di reato rifiuto od omissione di atti d’ufficio

• illeciti civili

• illeciti disciplinari: art. 74 codice di deontologia medica: "Nell'espletamento dei compiti e delle funzioni di natura medico legale, il medico, consapevole delle implicazioni penali, civili amministrative che tali compiti e funzioni comportano, deve procedere sul piano tecnico, in modo di soddisfare le esigenze giuridiche attinenti alla contingenza in esame, in aderenza alle dichiarazioni del Codice di Deontologia medica”. Art. 75: “La specifica attività degli esperti del settore medico legale, nell’ambito giudiziario, trova la sua delineazione, la sua peculiarità deontologica e contestualmente la sua definizione di responsabilità nell'impegno ritualmente assunto davanti al giudice di bene e fedelmente operare per la ricerca della verità”. Nello specifico, si ricordano le seguente ipotesi di illecito. Art. 201 cpp: "Segreto d'ufficio”, art. 380 cp “Patrocinio infedele”, in merito si ricorda l’interpretazione della norma, della Cass. Pen 10 febbraio 1961: “Presupposto del reato di cui all’art. 380 c.p. è l'esercizio della difesa, rappresentanza e assistenza davanti all'autorità giudiziaria, intese come oggetto del rapporto di partecipazione professionale e non come estrinsecazione effettiva di attività processuale. Basta che il pa- trocinatore si renda infedele ai diversi correlati all’accettazione dell’incarico di difendere, assistere, rappresentare taluno dinanzi all’autorità giudiziaria indipendentemente, dall’attualità di svolgimento di un’attività processuale e financo di pendenza della lite; il documento per la parte può concretarsi nella dolosa astensione come del

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380 c.p. "Patrocinio o consulenza Infedele”. E forse è proprio in un ambito professionale, quale quello medico legale, che si appalesa la sostanziale impossibilità di compendiare in una formulazione scritta, l’informazione indispensabile per conseguire il consenso e quindi il perfezionamento del contratto professionale. Come, infatti, tradurre in forma cartacea la realtà medico-legale, gravata come è noto, da diverse ipotesi interpretative, da dubbi oggettivi, da carenze documentali o da discordanti interpretazioni giuridiche o giurisprudenziali di un medesimo fatto, da eventuali insufficienti conoscenze scientifiche sulla specifica materia del contendere e di ciò si potrebbe avere emblematica percezione, solo immaginando l'ambito della responsabilità professionale.

Un'ultima notazione merita il dovere di informativa che direttamente investa il medico legale ai sensi della recente legge n. 675 del 31 dicembre 1996, allorché sottoponga a visita il soggetto per conto della Compagnia di Assicurazione.

Al riguardo è stata approvata apposita modulistica, nota a ciascuno, sulle quale, semmai, può eccepirsi che i riferimenti normativi appaiono del tutto inesplicati. Ribadendosi ulteriormente la necessità, se ve ne fosse bisogno, di mantenere un rapporto dialettico di oralità con l'assistito, tanto più se si considera che l'informativa per conto della compagnia ha da essere resa dal medico cui è dato l'incarico di ricevere l'atto di consenso debitamente compilato e sottoscritto (si ricorda in particolare la delicatezza di cui all'art. 22 della predetta norma)19.

Svincolato da teorizzazioni enfatiche e moralistiche, dunque, il consenso deve assumere il ruolo che gli compete nella pratica medica, non solo quale presupposto di liceità dell'atto stesso, ma segnatamente di fondamento essenziale del contratto etico e giuridico che costituisce il rapporto con l'assistito, assumendo l'informazione veste di spontaneo e sereno contatto senza il quale non si vede, addirittura, come possa stabilirsi un rapporto fiduciario o di

“alleanza", su cui tanto si è enfatizzato anche nella più recente dottrina. L'informazione ed il consenso in altri termini, assumono valore ovvio e spontaneo di manifestazione connaturata alla prassi medica, in ciò validando e connotandosi di una essenza che procede addirittura e prevale sui fondamenti giuridici che pur ne definiscono con chiarezza il significato ed il valore effettivi.

Conclusione naturale di queste brevi note, allora, non può che essere una ulteriore e forte affermazione sull’importanza del consenso e dell’informazione che ne è il presupposto es- senziale, nell’auspicio che il medico se ne renda ad ogni livello consapevole percependoli come fondamenti irrinunciabili dell'atto medico e non come estraneo orpello di una professione, il cui esercizio, doverosamente passibile di controllo sociale è oggi, invece, avvertito da molti come burocratico, fastidioso e motivo di rimpianto dei fasti invero solo apparenti cari ad un passato ingiusto d'impunità professionale.

patrocinatore dalla doverosa attività processuale”; “Altre infedeltà del patrocinante” art. 381 cp: “Il patrocinatore o il consulente tecnico che, in un procedimento dinanzi all’Autorità giudiziaria, presta contemporaneamente anche per, interposta persona, il suo patrocinio o la sua consulenza a favore di parti contrarie, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave reato...”, in merito si ricorda la sentenza della Cass. peri., 18 aprile 1958:

“Commette il delitto di cui all'art. 381 secondo comma c.p. il patrocinatore che dopo aver assistito in un procedimento di cognizione civile una parte, assuma, senza il consenso di questa, il patrocinio della parte avversa nella susseguente fase di esecuzione”, art. 382 c.p. “Millantato credito”: “ Il patrocinatore che, millantando credito presso il giudice o il pubblico ministero che deve concludere, ovvero presso il testimone, il perito o l'interprete riceve o fa dare o promettere dal suo cliente, a sé o ad un terzo, denaro o altra utilità, col pretesto di doversi procurare il favore del giudice o del pubblico ministero, o del testimone, perito o interprete, ovvero di doverli remunerare, è punito…..”. Al riconoscimento dei suddetti reati conseguono le pene di cui all’art. 383 cp

“Interdizione dai pubblici uffici”.

19 Capo IV “Trattamento di dati particolari”, I comma: “I dati personali idonei a rivelare l’origine raziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale, possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del garante”.

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