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Sommario Premessa pag. 3 Capitolo I pag. 8 I.a

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Sommario

Premessa pag. 3

Capitolo I pag. 8

I.a L’emostasi pag. 9

I.b Il sistema fibrinolitico pag. 19

Capitolo II pag. 21

II.a Le alterazioni dell’emostasi pag. 22 II.b Gli stati di ipercoagulabilità pag. 33

Capitolo III pag. 44

Obesità e coagulazione pag. 45

Capitolo IV pag. 51

Metodiche di analisi standard

della coagulazione pag. 52

Capitolo V pag. 68

Il tromboelastogramma pag. 69

V.a I principi del tromboelastogramma pag. 71 V.b Parametri significativi del

tromboelastogramma pag. 74

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2

Capitolo VI pag. 86

Studio

VI.a Scopo dello studio pag. 87

VI.b Descrizione del campione e metodi pag. 87

VI.c Risultati pag. 90

VI.d Discussione pag. 100

Conclusioni pag. 110

Bibliografia Ringraziamenti

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4 Per risposta allo stress chirurgico s’intende l’insieme di tutte le variazioni ormonali e metaboliche che conseguono a traumi o ad interventi chirurgici.(28)

Nel 1932 Cuthbertson descrisse in dettaglio la risposta metabolica al trauma documentando e quantificando la cascata di tutti questi eventi. I termini reflusso e flusso furono introdotti, infatti, per descrivere l’iniziale riduzione e il successivo incremento dell’attività metabolica.

Dopo gli iniziali lavori sulla risposta allo stress da trauma, l’attenzione è stata rivolta alla risposta allo stress chirurgico e alla capacità di alcuni regimi anestesiologici e del blocco neurale di intervenire modificando le risposte endocrina e metabolica. L’osservazione che la risposta allo stress, messa in atto per permettere la sopravvivenza dell’animale ferito,consisteva nella catabolizzazione delle riserve energetiche, ha condotto alla conclusione che questo meccanismo intervenga anche in risposta al trauma chirurgico e che non sia di beneficio per il paziente. Sono stati fatti, in questo senso, sforzi enormi nel tentativo di ridurre la risposta stressogena e di valutarne gli effetti.

La risposta allo stress consiste di due componenti che si condizionano vicendevolmente: la risposta endocrina e la risposta metabolica.

La risposta endocrina è caratterizzata da una aumentata secrezione di ormoni ipofisari e dall’attivazione del sistema nervoso simpatico, che hanno effetti secondari sulla secrezione ormonale dei rispettivi organi

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5 bersaglio. L’effetto metabolico complessivo delle variazioni ormonali esita nell’aumento del catabolismo di carboidrati, grassi e proteine, con mobilizzazione dei substrati destinati a garantire la disponibilità di risorse energetiche da un lato ed in un meccanismo che trattiene sale ed acqua mantenendo costante il volume dei fluidi e l’omeostasi cardiocircolatoria. Durante gli interventi di chirurgia addominale maggiore è presente, per lo più, uno stato di ipercoagulabilità dovuto, verosimilmente, alla liberazione di sostanze pro-coagulanti in risposta allo stress chirurgico.(8) La tendenza alla ipercoagulabilità sembra essere dovuta ad una aumentata od alterata funzionalità piastrinica, che diviene più evidente in seconda giornata (POD 2) per raggiungere il picco massimo nel terzo giorno post-operatorio (POD3). I comuni test della coagulazione sono tradizionalmente poco informativi riguardo questo aspetto del processo emocoagulativo, mentre un aiuto importante è fornito dalla tromboelastografia.(10;9;13) Le complicanze tromboemboliche, quali le trombosi venose profonde (TVP), l’embolia polmonare (EP) e l’infarto del miocardio non sono eventi infrequenti in questi pazienti.(22;23) Oltre allo stress chirurgico in sé, anche altri fattori favoriscono l’insorgenza di questo tipo di complicanze post- operatorie, in particolare la chirurgia ortopedica, la prolungata immobilizzazione, l’eventuale presenza di neoplasie e, infine, non perché meno importante, l’obesità patologica. Secondo quanto emerso e confermato da un MEGA studio recentemente condotto, il sovrappeso (BMI 25 Kg/m2) e l’obesità (BMI 30 Kg/m2) espongono il paziente ad un incremento del rischio tromboembolico rispettivamente del 1,7% e del 2,4%, che raggiungono il 2,5% ed il 3,9% qualora sovrappeso ed obesità interessino la donna nel periodo post-menopausale. Analizzando il profilo plasmatico della coagulazione nel

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6 paziente in sovrappeso od obeso emergono livelli significativamente più alti rispetto al range di normalità di PAI-1, FVIIIa, antitrombina III (AT III).

Il tromboembolismo venoso è una delle principali cause di morbidità e mortalità in tutti i pazienti sottoposti a procedure chirurgiche; negli Stati Uniti l’embolia polmonare causa, ogni anno, circa 150000 decessi.

Nel paziente sottoposto a chirurgia bariatrica le complicanze tromboemboliche sono la principale causa di morte nel post-operatorio.

La diagnosi di tromboembolismo venoso nel paziente con obesità patologica non è semplice, sia per le difficoltà nella esecuzione di un ottimale esame fisico in relazione alla mole del paziente stesso, sia perché, molto spesso, l’esordio clinico dell’evento tromboembolico è subdolo, cosicché un trombo venoso profondo di piccole dimensioni può rimanere misconosciuto finché non si rende responsabile di embolismo polmonare. La prevenzione delle complicanze tromboemboliche è quindi di vitale importanza per la riduzione della morbidità e della mortalità post-chirurgiche nel paziente bariatrico.

I protocolli profilattici in tal senso sono svariati e comprendono la somministrazione di eparina non frazionata o di eparine a basso peso molecolare (LMWH), l’impiego di dispositivi pneumatici per la compressione e decompressione intermittenti degli arti inferiori, il bendaggio elastico di questi stessi, la precoce mobilizzazione del paziente e, nei casi a maggior rischio, il posizionamento di un filtro cavale in vena cava inferiore.

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7 Tutti i medici concordano sul fatto che la profilassi sia di importanza vitale; a questo punto è però necessario individuare il regime profilattico ottimale in questa categoria di pazienti.

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8

“Capitolo I”

I.a L’emostasi

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9

I.a L’emostasi

Quando un vaso sanguigno viene danneggiato, una serie di meccanismi vengono messi in azione con il fine di arrestare prima possibile la fuoriuscita di sangue dal vaso; l’arresto della perdita viene ottenuta tramite un blocco, o tappo emostatico il quale, una volta riparata la parete del vaso, viene rimosso, ripristinando quindi lo status iniziale. Questa complessa serie di meccanismi che provvedono alla formazione del blocco, all’arresto della perdita, alla riparazione ed alla rimozione del blocco vengono definiti emostasi. E’ possibile suddividere schematicamente il processo emostatico in:

1. Fase vascolare. 2. Fase piastrinica 3. Fase plasmatica.

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10 Tale suddivisione riflette sostanzialmente i tre meccanismi messi in atto dal nostro organismo per garantire l’emostasi: in pratica, quando un vaso si rompe, si osserva innanzitutto una vasocostrizione, cioè un restringimento del vaso finalizzato al limitare la quantità di sangue in uscita; immediatamente viene attivato il sistema di richiamo ed aggregazione delle piastrine, le cellule del sangue specializzate per il loro ruolo di formazione di blocchi emostatici; infine sono attivate una serie di molecole (proteine ed enzimi) che formano un vero e proprio tappo emostatico, consentono la riparazione del vaso e si occupano infine della disgregazione del tappo ormai inutile.

La fase vascolare dell’emostasi è un primo ed immediato tentativo che il vaso realizza per minimizzare la perdita; la muscolatura liscia che avvolge il vaso sanguigno stimola, in caso di lesione, una immediata

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11 vasocostrizione, che in realtà non riesce di per sé a bloccare in modo efficace la fuoriuscita di sangue. Tuttavia, la riduzione del calibro del vaso lesionato è un fenomeno importante, che viene stimolato anche nelle fasi successive (ad esempio le piastrine attivate rilasceranno sostanze in grado di stimolare continuamente la vasocostrizione), e contribuisce in modo sostanziale al processo di arresto della perdita. In ogni caso, il danneggiamento del vaso risulta il momento scatenante di tutto il processo emostatico; in particolare, la parete vascolare è ricca di sostanze che, se rilasciate, costituiscono un potente stimolo all’attivazione ed all’aggregazione piastrinica: il fattore di von Willebrand (vWF), il trombossano Aa (TxA2) ed il fattore attivante le piastrine (PAF); in opportune condizioni il vaso danneggiato rilascia anche il Fattore Tissutale (TF), un attivatore fondamentale della fase plasmatica.

La fase piastrinica è un momento di grande rilevanza funzionale nel processo emostatico e può essere schematicamente suddivisa in:

 Adesione delle prime piastrine nel sito danneggiato;

 Attivazione delle piastrine adese;

 Rilascio di segnali chimici contenuti nelle piastrine attivate;

 Cascata di attivazione di altre piastrine stimolata dal rilascio dei segnali chimici;

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12 L’adesione delle piastrine avviene grazie alla loro adesività al collagene (una proteina presente nella parete dei vasi che viene esposta in seguito alla rottura del vaso) che avviene tramite un recettore situato sulla membrana delle piastrine, il cosiddetto Ia/IIa. Anche il fattore di von Willebrand (vWF) è importante per l’adesione piastrinica: il vWF funge da ponte molecolare, legando con una parte della molecola il collagene e con un’altra parte un recettore presente sulla membrana delle piastrine (il recettore Ib).

Il legame di queste prime piastrine al collagene (tramite il recettore Ia/IIa) ed al vWF (che a sua volta fa da ponte

per l’ulteriore legame al collagene) provoca una deformazione della struttura tridimensionale delle piastrine; tale modificazione facilita l’ulteriore

aggregazione delle piastrine tra loro e soprattutto stimola la cosiddetta reazione di rilascio.

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13 La reazione di rilascio consiste sostanzialmente nel rilascio nell’ambiente esterno alle piastrine di alcuni mediatori chimici contenuti all’interno di granuli. I mediatori chimici sono diversi, ma i più importanti dono il trombossano A2 (TxA2) ed il fattore attivante le piastrine (PAF); si tratta di mediatori cosiddetti autocrini, che cioè vengono rilasciati da un tipo cellulare (in questo caso le piastrine) e servono per stimolare lo stesso tipo cellulare. In pratica queste molecole servono ad auto-stimolare le piastrine, amplificando la loro attivazione e la loro aggregazione. Le piastrine così attivate esprimono sulla loro superficie un altro recettore, detto IIb/IIIa il quale lega un’altra molecola presente nel sito danneggiato: il fibrinogeno. Poiché ogni molecola di fibrinogeno può legare due recettori piastrinici IIb/IIIa, questo ulteriore ponte molecolare determina una vera e propria cascata esponenziale di aggregazione di nuove piastrine, che a loro volta vengono attivate, rilasciano i mediatori, esprimono il recettore e si aggregano in un ciclo che si ripete ed in pochi secondi rallenta fortemente la fuoriuscita del sangue dal vaso danneggiato.

La fase plasmatica o coagulativa del processo emostatico è il fenomeno che coinvolge una serie di molecole ed è finalizzato alla trasformazione del fibrinogeno (una proteina solubile presente in grandi

quantità nel circolo sanguigno) in un coagulo di fibrina, una trama densa di natura proteica che occlude completamente il sito di rottura del vaso.

Naturalmente parte importante del fenomeno è rappresentata, a riparazione del vaso avvenuta, dalla successiva rimozione del tappo di

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14 fibrina, fenomeno noto come fibrinolisi, che si conclude con il ripristino della situazione iniziale (restitutio ad integrum).

Una serie di meccanismi tiene costantemente sotto controllo questo potente sistema di formazione di tappi coagulativi, per evitare che l’attivazione della coagulazione avvenga quando non ce n’è bisogno, con conseguente formazione di occlusioni di vasi sanguigni. La fase plasmatica si caratterizza per il suo funzionamento “a cascata”.

Una proteina viene attivata e la sua attivazione determina la trasformazione di una seconda proteina dalla forma inattiva alla forma attiva, a sua volta in grado di attivare una terza proteina e così via. La successione degli eventi è estremamente specifica, per cui la prima proteina non può attivare la terza. La catena di reazioni non avviene in soluzione ma solo su una superficie, come quella del vaso danneggiato che fornisce la base di appoggio necessaria per l’incontro di queste proteine e la loro attivazione a cascata. L’attivazione avviene in presenza di molecole coadiuvanti, dette cofattori come il Tissue Factor (TF) il quale in

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15 condizioni normali il TF si trova nella parete dei vasi ma, esposto in seguito a lesione, svolge il suo ruolo di attivatore di un importante passaggio della cascata coagulativa, l’attivazione del fattore VII il quale, attivato, determina l’attivazione del fattore X. Il fattore X attivato, in presenza di calcio e fattore V attivato, trasforma il fattore II (o protrombina) in fattore II attivato (trombina); la trombina è responsabile della trasformazione finale del fibrinogeno in fibrina. E’ prassi comune individuare due cascate di eventi che possono portare alla coagulazione, dette via “intriseca” e via “estrinseca” che convergono poi in una via “comune”, quella che dal fattore X attivato porta alla trasformazione della protrombina in trombina la quale è l’effettore finale della trasformazione del fibrinogeno in fibrina. Secondo questo schema la via “intrinseca” avverrebbe sostanzialmente in vitro, quando il sangue viene a contatto con una superficie dotata di carica negativa (infatti viene detta anche attivazione attraverso la fase di contatto). Nella via intrinseca il fattore XII attivato attiva il fattore XI, il quale attiva il fattore IX il quale attiva infine il fattore X per confluire nella via comune già descritta sopra. La via estrinseca sarebbe invece la cascata coagulativa che si verifica in vivo, nell’organismo, in cui l’elemento chiave è la tromboplastina, una molecola costituita da una parte proteica (il Tissue Factor) e da una parte lipidica; la tromboplastina, rilasciata dal vaso danneggiato, attiva il fattore VII, il quale attiva il fattore X per convergere quindi nella via

comune già descritta.

Questa classica suddivisione nelle due cascate coagulative non spiega tuttavia alcune osservazioni come quella che pazienti con carenze congenite di fattore XII non mostrano disordini emorragici mentre al contrario difetti nel fattore IX determinano un quadro clinico particolarmente grave, pur trovandosi entrambi i fattori nella stessa linea

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16 diretta della cascata coagulativa; questo riscontro può essere spiegato grazie al fatto che il Tissue Factor può attivare esso stesso il fattore IX, saltando così l’attivazione da parte del fattore XII: questa ed altre osservazioni lasciano supporre che le due vie classiche della cascata coagulativa sono in definitiva solo suddivisioni schematiche ma che nella realtà il processo è “interlacciato” a più livelli. In condizioni fisiologiche dunque il Tissue Factor attiva il fattore VII il quale, attivato, provvede all’attivazione del fattore IX, il quale attiva il fattore X che, in presenza di fattore V trasforma la protrombina in trombina; l’amplificazione avviene anche grazie al fatto che il fattore VII è in grado di attivare il fattore X e che la trombina è in grado di attivare il fattore VIII (cofattore del IX), il fattore V (cofattore del X) ed il fattore XI che attiva anch’esso il fattore X. La repentina disponibilità di elevate quantità di trombina rende, quindi, possibile la trasformazione del fibrinogeno in fibrina.

Il fibrinogeno è una proteina composta da tre sub-unità proteiche detta alfa, beta e gamma: l’unione di due di questi trimeri forma la molecola di fibrinogeno. La trasformazione del fibrinogeno nel coagulo di fibrina è un processo in tre

tappe: in una prima fase la trombina opera una scissione proteolitica di alcuni segmenti del fibrinogeno, producendo due tipi di frammenti, il fibrinopeptide A ed il fibrinopeptide B e liberando i monomeri di fibrina i quali tendono a polimerizzare tra loro, unirsi cioè come i pezzi di un lego in cui ogni elemento ne lega altri due (seconda fase); in una terza fase il fattore XIII, attivato sempre dalla trombina, si occupa di stabilizzare i monomeri di fibrinogeno unendoli con legami chimici covalenti.

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17 Diverse molecole svolgono un ruolo anticoagulante.

Innanzitutto la stessa fibrina svolge un ruolo di inattivatore della trombina, quindi man mano che il tappo coagulativo si forma aumenta anche lo stimolo allo spegnimento della cascata coagulativa. L’antitrombina è un’altra proteina in grado di inibire la trombina ma anche il fattore X attivato.

Ancora, la proteina C della coagulazione, grazie anche all’intervento della proteina S della coagulazione, è in grado di operare un’inibizione sia sul fattore V attivato che sul fattore VIII.

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18 Infine, il TFPI (Tissue Factor Pathway Inibitor) è in grado, legando il fattore X attivato e portandosi nel sito di legame del Tissue Factor per il fattore X, di bloccare il complesso TF-fattore X.

Una volta fermata l’emorragia attraverso la cascata coagulativa il vaso danneggiato viene riparato; in questa fase un’altra proteina, il plasminogeno, viene trasformato in plasmina per mezzo del cosiddetto fattore tissutale del plasminogeno t-PA. La plasmina è la proteina che degrada il coagulo di fibrina, provvedendo infine al completo ripristino della situazione precedente alla lesione vascolare. Si parla a questo punto di fibrinolisi.

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I.b Il sistema fibrinolitico.

Una volta attivato il meccanismo emostatico è bene che la reazione si limiti all’area lesa iniziale e che cominci la successiva riparazione, con riproliferazione di cellule endoteliali sane.

La digestione del coagulo di fibrina avviene ad opera della plasmina, un enzima che si forma dal plasminogeno, il proenzima inattivo, prevalentemente per azione del t-PA (attivatore tissutale del plasminogeno), che si libera in circolo sotto lo stimolo della trombina e di alcuni eventi fisiologici (occlusione venosa, sostanze vasoattive, esercizio fisico, iperpiressia…).

Il tutto avviene sul coagulo di fibrina, dove il plasminogeno si trova legato mediante i recettori ad alta affinità e dove il t-PA si andrà a legare, promuovendo la proteolisi del plasminogeno in plasmina.

Tuttavia, per prevenire una impropria od eccessiva generazione di plasmina, l’endotelio libera anche PAI-1, un inibitore specifico del t-PA, che si combina prontamente con il t-PA stesso; inoltre, l’attivazone del plasminogeno si limita, normalmente, a quello incorporato nel trombo primario. Altri attivatori del plasminogeno sono l’urochinasi, la callicreina ed altri attivatori tissutali endogeni presenti, praticamente, in tutti gli organi, ma in concentrazioni maggiormente significative, nell’utero e nella prostata. I vari attivatori del plasminogeno generano, dunque, plasmina, che provvederà alla progressiva idrolisi del fibrinogeno e della fibrina in piccoli peptidi noti come “prodotti di degradazione della fibrina” (FDP)

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20 con conseguente dissoluzione del trombo e ripristino della pervietà del lume vasale.

L’attività proteasica della plasmina non è specifica, essendo in grado di scindere anche altri substrati, quali i fattori V ed VIII. Tuttavia la plasmina generata ed immessa nella circolazione generale viene

rapidamente inattivata dalla formazione di complessi con l’α2-antiplasmina e poi rapidamente eliminata durante il passaggio

attraverso il fegato.

In conclusione, l’inizio e l’arresto per meccanismo emostatico sono processi essenzialmente del medesimo tipo, che procedono attraverso inerazioni tra fattori procoagulanti e proteolisi. Si tratta, inoltre, di processi unidirezionali per cui l’unico modo per ripristinare i livelli di proteine che vi partecipano è la loro sintesi de novo.

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“Capitolo II”

II.a Le alterazoni dell’emostasi

II.b Gli stati di ipercoagulabilità

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22

II.a Le alterazioni dell’emostasi

I disturbi dell’emostasi possono essere suddivisi in due categorie:

Le malattie da aumentata attività emostatica (TROMBOSI)

Le malattie da ridotta attività emostatica (MALATTIE EMORRAGICHE)

La Trombosi è un processo patologico che consiste nella formazione di una massa semisolida, aderente alla parete vascolare almeno in un punto, detta appunto trombo, formata dai costituenti del sangue all’interno del sistema vascolare, quando il soggetto è in vita. La trombosi può quindi essere considerata, nella maggior parte dei casi, l’estensione patologica dei processi emostatici normali. Dal punto di vista patogenetico, si distinguono tre diverse condizioni che favoriscono la formazione di un trombo:

1. Il danno endoteliale, che comporta l’esposizione del collagene sub-endoteliale, l’adesione piastrinica e l’esposizione del fattore tissutale, che innescano il processo di coagulazione con formazione del trombo (coagulo di sangue). Questa condizione può interessare il cuore in conseguenza di un danno dell’endocardio nell’infarto, la circolazione arteriosa, nel caso di una placca ateroma sica ulcerata ed i vasi danneggiati da traumi ed infezioni. È stato inoltre dimostrato che alcuni fattori sono in grado di determinare alterazioni funzionali dell’endotelio, tali da favorire l’interazione piastrine-endotelio, in assenza di un precedente danno endoteliale. Nelle trombosi venose, infine, la parete vascolare si presenta in genere integra da un punto di vista istologico, per cui si ritiene che

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23 alcuni fattori estrinseci giochino un ruolo patogenetico determinante nell’insorgenza di tali trombosi (l’attività fibrinolitica rilasciata dalle cellule endoteliali delle vene degli arti inferiori risulta essere minore rispetto a quella delle vene degli altri distretti; una riduzione del tono venoso può essere un fattore patogenetico importante). Tra i fattori lesivi per l’endotelio vanno ricordati, principalmente:

a. La presenza di placche ateromasiche;

b. L’ipercolesterolemia, che danneggia direttamente l’endotelio e promuove l’interazione tra piastrine ed endotelio;

c. L’iperlipidemia, che determina un aumento della presenza di lipidi perossidati a livello sub-endoteliale che stimolano, a loro volta, l’adesione leucocitaria alle cellule endoteliali; d. Il diabete; l’iperglicemia, infatti, determina, indirettamente, la

lesione endoteliale, con aumento del vWF ( fattore di von Willebrand) e ridotta produzione di PGI2 (prostaciclina); e. L’infiammazione; durante la fase vascolare del processo

flogistico, i leucociti aderiscono all’endotelio, vengono attivati e rilasciano metaboliti tossici dell’ossigeno ed enzimi proteolitici, responsabili del danno endoteliale e del distacco delle cellule;

f. Le neoplasie; le cellule neoplastiche possono attivare le piastrine e le proteasi della coagulazione per mezzo della secrezione di sostanze attivanti simili all’adenosin-difosfato ed esprimendo fattore tissutale sulla superficie della membrana esposta. Le risultanti specie attivate in circolo scatenano la

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24 formazione del trombo nei siti vulnerabili della stasi vascolare o a livello della lesione. Le patologie maligne associate all’aumentata predisposizione trombotica includono la leucemia promielocitica e i tumori di polmone, mammella, prostata, tratto gastrointestinale. La malattia metastatica avanzata può indurre una CID.

g. L’iperomociseinemia, che danneggia direttamente l’endotelio; h. L’azione di agenti esogeni (farmaci, in particolare i

contraccettivi orali contenenti estrogeni, mezzi di contrasto, radiazioni);

i. Il fumo, che agisce con meccanismo lesivo sia diretto, dal momento che inibisce la sintesi di prostaciclina e riduce la sintesi di proteina S, sia indiretto, dal momento che i prodotti di combustione del tabacco provocano fenomeni di vescicolazione e desquamazione dell’endotelio;

j. L’azione di endotossine batteriche, che agiscono danneggiando direttamente le cellule endoteliali, attivando la via alternativa del complemento, attivando i macrofagi con conseguente produzione di IL-1, TNF ed IL-6 che potenziano, da parte loro, l’attività protrombogena dell’endotelio, che esita nella esposizione del fattore tissutale (TF) sulla superficie luminale dell’endotelio;

k. Le condizioni che alterano il flusso ematico, quali le stenosi severe, gli aneurismi, le biforcazioni arteriose , l’ipertensione…;

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25 l. Le condizioni di anossia, che determinano il rigonfiamento ed

il successivo allontanamento delle cellule endoteliali. Gli spazi che si creano tra le cellule adiacenti divengono rapidamente siti di adesione piastrinica. L’anossia, inoltre, è un potente attivatore delle cellule endoteliali ed innesca l’espressione di molecole che sbilanciano in senso protrombogeno la “bilancia emostatica endoteliale”;

m. I traumi esterni (calore, ustioni, congelamento) ed i traumi chirurgici;

n. I fattori immunitari.

2.

Le alterazioni del flusso sanguigno. Il flusso ematico, nei vasi sanguigni segue le leggi del flusso laminare, secondo le quali, il sangue tende a scorrere in strati cilindrici concentrici che hanno velocità massima al centro e progressivamente inferiore man mano che ci si spinge verso la parete vasale, a contatto con la quale si ha

una lamina praticamente statica.

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26 Le alterazioni del flusso laminare, che comportano il contatto delle piastrine con l’endotelio, la mancata diluizione dei fattori della coagulazione attivati, il ritardo nell’afflusso di inibitori della coagulazione oltre alla attivazione delle cellule endoteliali sono imputabili essenzialmente alla stasi ematica (riduzione della velocità del flusso) e al flusso turbolento (variazione della regolarità del flusso). La stasi ematica è importante soprattutto per il compartimento venoso; il rallentamento del flusso sanguigno è il maggior responsabile di trombosi venosa per tutta una serie di fattori: a)il prolungato tempo di contatto delle piastrine e dei fattori della coagulazione con le cellule endoteliali; b)la sofferenza ipossica dell’endotelio, legata ad una maggior estrazione di ossigeno nei capillari congesti con ridotto afflusso di sangue fresco, che induce l’endotelio stesso ad esporre sulla propria superficie il fattore tissutale, e, nel contempo, riduce la disponibilità di trombomodulina e determina rigonfiamento e retrazione delle cellule endoteliali con esposizione del sub-endotelio; c)il minor rilascio di t-PA.

La riduzione del flusso ematico può conseguire a cause di ordine generale (insufficienza cardiaca congestizia, policitemia, anemia falciforme, macroglobulinemia di Waldestrom…) o di ordine locale ( varici, prolungata immobilizzazione, stenosi, insufficienza e stenoinsufficienza mitralica…). La turbolenza contribuisce, invece, prevalentemente allo sviluppo dei trombi arteriosi e cardiaci, secondo un meccanismo di danno endoteliale operato dalla formazione di vortici e correnti che vanno in senso contrario al flusso sanguigno e di sacche di stasi. I fenomeni di turbolenza si

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27 verificano particolarmente a livello dei punti di biforcazione arteriosa e delle zone di stenosi.

3.

Gli stati di ipercoagulabilità, distinguibili a loro volta in primitivi o genetici (mutazioni del fattore V di Leiden, deficit di antitrombina III, difetti della fibrinolisi…) ed in secondari o acquisiti (prolungate immobilizzazione e degenza a letto, infarto miocardico, danno tissutale in seguito ad interventi chirurgici, traumi od ustioni, cancro, protesi valvolari cardiache…).

Questi tre fattori altro non sono che i costituenti della triade di Virchow (1856).

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28 I trombi possono interessare le cavità cardiache, le valvole cardiache, le arterie, le vene ed i capillari e la loro forma e dimensione variano in relazione alla sede.

Il trombo è friabile, con superficie irregolare e struttura disomogenea, a differenza del coagulo che invece ha superficie liscia e levigata e consistenza elastica. Molti stimoli lesivi possono produrre danni alla continuità dell’endotelio

vascolare determinando l’adesione delle piastrine, con conseguente attivazione, reazione di rilascio del contenuto dei granuli ed aggregazione. Si forma così il trombo bianco, che costituisce la parte iniziale del trombo, formato solo di piastrine. Nel contempo, localmente viene attivato anche il meccanismo della coagulazione (la via intrinseca con attivazione del Sistema Plasmatico Attivabile da Contatto per la presenza di cariche negative nel sotto-endotelio, la via estrinseca per esposizione del fattore tessutale sotto-endoteliale e per espressione del TF da parte dell’endotelio peri-lesionale) perciò, insieme con le piastrine, si troveranno polimeri di fibrina che stabilizzano ulteriormente il trombo bianco. C’è da notare (vedi sotto) che nelle arterie, dove l’azione di dilavamento della corrente sanguigna è particolarmente intensa, e dove la produzione dell’attivatore del plasminogeno di tipo tessutale (tPA) è molto alta per la forte “trazione” esercitata sull’endotelio dalla velocità di scorrimento del sangue, il trombo può rimanere “bianco”, cioè con sola o prevalente componente piastrinica. Quando il reticolo di fibrina è particolarmente stabile e abbondante riuscirà a trattenere globuli rossi e leucociti, formando uno strato rosso (trombo rosso) sovrapposto al trombo bianco. L’alternanza di strati bianchi (prevalenza di piastrine) e di strati rossi

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29 (prevalenza di globuli rossi e fibrina) dà luogo al trombo variegato (detto così per la presenza di strie alternanti di due colori, chiamate strie di Zahn, in onore dell’anatomopatologo che le ha descritte per la prima volta). La parte terminale di un grosso trombo si presenta di solito omogeneamente rossa. La formazione di trombo bianco, rosso o variegato dipende dalla localizzazione e dal flusso sanguigno: nelle arterie, dove il flusso è rapido, si verifica una diluizione dei fattori della coagulazione. La coagulazione del sangue è in questo caso “sfavorita” ed il trombo che si forma è costituito prevalentemente da piastrine (trombo bianco). Nelle vene, invece, dove il flusso è lento, si ha un accumulo dei fattori della coagulazione con formazione di fibrina che intrappola i globuli rossi (trombo rosso).

I trombi si possono sviluppare in qualsiasi punto del sistema cardiovascolare: all’interno delle cavità cardiache, sulle cuspidi valvolari, nelle arterie, nelle vene e nei vasi del microcircolo. Tutti i trombi sono adesi in modo solido alla parete cardiaca o dei vasi e presentano forme e dimensioni variabili: da piccole masse vagamente sferiche a strutture allungate in cui si possono distinguere una “testa”, nel punto di origine del trombo, ben adesa alla parete, un “corpo” ed una “coda” libera nel lume del vaso o lassamente attaccata. Nella circolazione arteriosa la coda si forma in senso retrogrado, mentre nelle vene si forma nella stessa direzione del flusso e tende a frammentarsi dando origine ad un embolo.

(30)

30 I trombi si distinguono, quindi, in:

Trombi arteriosi, che si formano, generalmente, su di una superficie endoteliale lesa, sovrapponendosi, più spesso, a lesioni di tipo aterosclerotico ulcerate. Tendono ad accrescersi in maniera retrograda rispetto al punto di attacco. Si presentano come masse compatte, di

colore biancastro, per la prevalente od esclusiva componente piastrinica, e tendono a rimanere parietali. I trombi arteriosi delle cavità cardiache e dell’aorta risultano fortemente aderenti alla struttura sottostante, occupano solo una parte del lume vasale (che a questi livelli è molto ampio). All’esame macroscopico e microscopico sono osservabili delle laminazioni, chiamate strie di Zahn, dovute alla alternanza di strati più chiari (piastrine e fibrina) a strati più scuri (globuli rossi) e che permettono di differenziare un trombo da un coagulo postmortale. Il coagulo è gelatinoso, non aderisce alla parete sottostante, ha colore rosso scuro per sedimentazione delle emazie con supernatante giallo. Si tratta per lo più di trombi occlusivi, con sede prevalente a livello delle arterie coronarie, cerebrali e femorali. Sono aderenti alla parete arteriosa danneggiata, appaiono grigiastri e friabili, mentre, microscopicamente, risultano essere costituiti da piastrine, fibrina, eritrociti e leucociti in via di degenerazione.

Trombi venosi sono sempre occlusivi e legati alla stasi. Nel 90% dei casi interessano il distretto venoso degli arti inferiori. Macroscopicamente hanno colorito rosso, da cui la denominazione

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31 di trombo rosso, in relazione al maggior contenuto microscopico di eritrociti.

I trombi, siano essi arteriosi o venosi, tendono ad accrescersi per progressivo accumulo di quantità crescenti di piastrine e fibrina, fino alla completa occlusione del caso, possono embolizzare, talora dissolversi per opera dell’attività fibrinolitica od organizzarsi e ricanalizzarsi, consentendo in questo modo lo ristabilimento del flusso sanguigno attraverso i canali neoformati. L’azione del trombo può quindi tradursi nella occlusione totale o parziale sia del letto vascolare arterioso (infarto miocardico o cerebrale) che di quello venoso (congestione ed edema nel letto vascolare distalmente all’ostruzione) e, nei casi più gravi, può evolvere in una embolizzazione che interessa, nella maggior parte dei casi il circolo polmonare, con conseguenze ben più drammatiche rispetto alla trombosi venosa. Quest’ultima condizione interessa più frequentemente le vene superficiali ed in particolare la vena safena in presenza di varici, con

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32 un quadro clinico caratterizzato da dolore, congestione e rigonfiamento, con scarsa tendenza alla embolizzazione, e le vene profonde della gamba, più spesso le vene poplitee, femorali ed iliache. La trombosi delle vene profonde decorre asintomatica in circa il 50% dei casi; quando presente, la sintomatologia è caratterizzata da dolore ed edema distale; a differenza dei trombi del circolo superficiale, quelli delle vene profonde hanno una spiccata tendenza alla embolizzazione.

La trombosi venosa rappresenta una conseguenza della stasi e della ipercoagulabilità ematiche, condizioni queste che possono essere sostenute da insufficienza cardiaca congestizia, traumi, interventi chirurgici, ustioni e comunque da tutte quelle situazioni in cui si hanno una netta riduzione dell’attività motoria (quale si verifica anche solo semplicemente nell’età senile), un danno vascolare ed il rilascio di sostanze pro-coagulanti.

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33

II.b Gli stati di ipercoagulabilità o trombofilia

Per trombofilia si intende la tendenza alla ipercoagulabilità ematica, condizione che predispone quindi al tromboembolismo arterovenoso spesso recidivante, anche in assenza di cause scatenanti evidenti, e che può riconoscere cause congenite o acquisite. La trombofilia è nota anche come stato ipercoagulabile o stato pro-trombotico. Gli episodi trombotici sono più frequenti nel distretto venoso, rispetto a quello arterioso.

A. Trombofilia primaria o congenita.

Questa condizione dipende da difetti che causano una riduzione quantitativa e/o qualitativa dei meccanismi anticoagulanti o fibrinolitici, oppure dalla presenza di particolari varianti molecolari o polimorfismi di alcuni fattori della coagulazione.

Deve essere sospettata in presenza di:  Episodi tromboembolici ricorrenti;

 Esordio in età giovanile (in genere prima dei 45 anni) o in assenza di eventi predisponenti, quali la gravidanza, il puerperio o interventi chirurgici;

 Localizzazione anatomica anomala della trombo-embolia (vene mesenteriche, vena porta, vene cerebrali);

 Anamnesi familiare positiva;

 Episodi tromboembolici in corso di terapia anticoagulante. Le cause di trombofilia primaria possono risiedere:

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34 1. Nel ridotto controllo dell’emostasi. La regolazione del livello

plasmatico dei fattori attivati della coagulazione è operata da vari inibitori fisiologici, il cui deficit può essere alla base dello stato di ipercoagulabilità. Questo deficit può riguardare:

1.1. AT III (antitrombina III): il deficit eterozigote di AT plasmatica è trasmesso in modo autosomico dominante, con una prevalenza di circa lo 0,2-0,4%; nella metà dei casi, il paziente sperimenta episodi trombotici venosi. Lo stato omozigote è incompatibile con la vita. 1.2. Proteina C: il deficit eterozigote della Proteina C plasmatica è

trasmesso in modo autosomico dominante, con una prevalenza prossima allo 0,2-0,5%. Circa il 75% di questi soggetti presenta almeno un episodio trombo embolico venoso (nel 50% dei casi dopo i 50 anni). Il deficit omozigote o la doppia eterozigosi si presenta nei neonati sotto forma di porpora fulminans o di CID, e risulta fatale in assenza di terapia sostitutiva ed anticoagulante.

1.3. Proteina S:il deficit eterozigote di proteina S plasmatica è simile al deficit di Proteina C per quanto riguarda la trasmissione genetica, la prevalenza e l’incidenza. Nel sangue, il 60% della Proteina S è complessata alla C4b-binding protein, mentre il restante 40%, che costituisce il cofattore funzionalmente attivo della Proteina C attivata, si trova in forma libera. Il deficit di proteina S può essere di tipo I) quantitativo, di tipo II) funzionale o di tipo III) caratterizzato da una riduzione quantitativa della forma libera in presenza di una quantità normale di Proteina S totale.

1.4. Trombomodulina: in studi recenti è stato dimostrato un deficit congenito di questa proteina coinvolta nel meccanismo di attivazione

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35 del complesso Proteina C-Proteina S, pur rimanendo ancora da definire l’eventuale effetto trombogeno di questo difetto.

2. Nella presenza di particolari varianti molecolari di alcuni fattori della coagulazione, quali:

2.1. Fattore V: uno dei siti di legame del Fattore V con la Proteina C attivata è localizzato nell’aminoacido arginina in posizione 506. La mutazione denominata V R506Q consiste nella sostituzione di una guanina con una adenina in posizione 1691 del gene, con cnseguente sostituzione dell’arginina in posizione 506 con una glutammina. Questa mutazione rende il Fattore V non più sensibile al taglio da parte della Proteina C attivata, con conseguente aumento di produzione di trombina ed effetto pro-coagulante che predispone alla trombosi. La modalità di trasmissione ereditaria è di tipo autosomico dominante, per cui, i soggetti portatori della mutazione presentano una probabilità su due di trasmettere la predisposizione ai figli indipendentemente dal sesso. La variante V R506Q, definita variante di Leiden, dal nome della località in cui è stata scoperta, è assente nelle popolazioni di origine non caucasica ed ha una frequenza genica di 1,4-4,2% in Europa, con un gradiente decrescente da nord a sud. È presente in circa il 15% dei pazienti non selezionati per trombosi venosa e nel 20-60% degli individui affetti da trombosi o selezionati per familiarità. In Italia la frequenza dei portatori eterozigoti è pari al 2-3%, mentre lo stato di omozigosi ha una incidenza di 0,02%. I soggetti eterozigoti hanno un rischio 5-10 volte maggiore rispetto a quello della popolazione generale di

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36 sviluppare una trombosi venosa, mentre negli omozigoti questo rischio risulta aumentato di 50-100 volte. La resistenza alla Proteina C attivata, dovuta alla variante FV di Leiden rappresenta, quindi, il più comune fattore di rischio genetico per la trombosi finora conosciuto.

2.2. Fattore II: la protrombina umana è formata da 579 aminoacidi ed è una catena polipeptidica singola che contiene dal 10 al 15% di carboidrati disposti in tre catene laterali. La protrombina viene convertita in trombina in seguito all’idrolisi di alcuni legami peptidici operati dal fattore Xa e dalla trombina stessa,

mentre il fattore V interviene regolando la velocità di taglio. Alla fine del 1996, in posizione 20210 della regione 3’ non tradotta del gene codificante per la protrombina, è stata descritta una mutazione puntiforme che consiste nella sostituzione di una guanina con una adenina (variante G20210A). questa mutazione è associata ad un aumento di circa il 30% dei livelli plasmatici di protrombina, probabilmente conseguente ad una aumentata stabilità dell’RNA messaggero o ad una maggiore efficienza di trascrizione del messaggero stesso. La modalità di trasmissione ereditaria è di tipo autosomico dominante: i soggetti portatori hanno, pertanto, una probabilità su due di trasmettere la predisposizione ai figli, indipendentemente dal sesso. La variante genetica G20210A ha una prevalenza in Europa del 3-5%, con un gradiente crescente da nord (2-5%) a sud (3-7%). È presente in circa il 10% dei pazienti non selezionati per trombosi venosa e nel 18% di quelli affetti da

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37 trombosi o selezionati per familiarità. L’incidenza degli omozigoti è estremamente bassa. I soggetti eterozigoti hanno un rischio circa 3 volte superiore rispetto alla popolazione generale di sviluppare una trombosi venosa, mentre negli omozigoti questo rischio aumenta di ben bo volte.

2.3. Fattore VII: la proconvertina è una serin-proteasi che rappresenta la forma inattiva della convertina e l’aumento dei suoi livelli sierici si associa ad un aumentato rischio di infarto del miocardio e di ictus.

2.4. Disfibrogenemia: le alterazioni qualitative del fibrinogeno sono generalmente correlate a diatesi emorragica; esistono tuttavia alcune alterazioni del fibrinogeno (variante New York) responsabili dell’attivazione spontanea dello stesso a monomeri di fibrina, o della formazione di coaguli di fibrina resistenti in modo anomalo alla lisi operata dalla plasmina. Queste condizioni esitano in una riduzione dell’attività fibrinolitica in vivo e, quindi, in una possibile diatesi trombotica ereditaria.

3. Nella ridotta attività del sistema fibrinolitico. Il sistema fibrinolitico rappresenta un importante meccanismo di controllo della coagulazione del sangue; quest’ultima, infatti, deve essere limitata nel tempo e circoscritta alla sede della lesione. Il rischio trombotico aumenta in presenza di un deficit assoluto di plasmina, quale si osserva in caso di deficit del plasminogeno o degli attivatori del plasminogeno, o solo funzionale, come in presenza di abnormi livelli di inibitori della plasmina.

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38 3.1. Deficit congenito del plasminogeno: rappresenta la più frequente

alterazione del sistema fibrinolitico; si distinguono un deficit quantitativo (deficit di tipo I) ed un deficit qualitativo (di tipo II), in cui si osservano alti livelli di proteina con ridotta attività funzionale. 3.2. Eccessivi livelli plasmatici dell’inibitore dell’attivatore del

plasminogeno (PAI-1) si associano alla ridotta attività fibrinolitica e all’aumentato rischio trombotico.

4. Nell’iperomocisteinemia (omocistinuria): l’omocisteina è un aminoacido solforato che si forma in seguito a perdita di un gruppo metilico da parte della metionina. Numerosi studi clinici supportano l’iperomocisteinemia come fattore di rischio per infarto miocardico, ictus cerebrale, vascolopatia periferica e trombosi. Il deposito di omocisteina sulla parete vasale risulta lesivo sia mediante un’azione diretta sull’endotelio e sulla parete vasale, sia attraverso un’azione sui fattori della coagulazione, sulle lipoproteine e sulle piastrine, con un aumento, in quest’ultimo caso, della adesività e della aggregabilità piastrinica. Metionina ed omocisteina sono due intermedi del ciclo del gruppo metilico attivato. La metionina viene prima attivata ad metionina e poi convertita ad S-adenosil-omocisteina in seguito al trasferimento di un gruppo metile ad un accettore; per idrolisi si arriva infine alla formazione dell’omocisteina. La metionina può essere ricostituita mediante il trasferimento di un gruppo metilico all’omocisteina da parte dell’N5

-metiltetraidrofolato, che viene a sua volta rigenerato dalla metilen-tetraidrofolato-reduttasi (MTHFR).Ne consegue che un ridotto livello di enzima MTHFR porta ad un deficit di N5-metiltetraidrofolato, e quindi ad una minore

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39 disponibilità di gruppi metili necessari per la conversione a metionina dell’omocisteina, con accumulo di quest’ultima.

Il gene per la MTHFR si trova sul braccio corto del cromosoma 1. Sono state descritte diverse mutazioni del gene. Una di queste, a trasmissione autosomica recessiva e con esordio, solitamente, nel primo anno di vita, provoca un deficit grave di attività enzimatica dell’MTHFR, ed ha come sintomi clinici segni neurologici gravi, apnea ricorrente, microcefalia e convulsioni, ritardo mentale ingravescente e accidenti vascolari cerebrali. Una variante termolabile, con una mutazione da citosina a timina in posizione 667 del gene, e quindi, con la sostituzione di una alanina con una valina nella proteina finale, è all’origine di un deficit più lieve di MTHFR, con una riduzione dell’attività enzimatica al 50% , e fino al 30% in condizione di esposizione al calore. Anche questa variante ha trasmissione autosomica recessiva e porta ad un aumento del livello plasmatico di omocisteina, specie dopo carico orale di metionina. La frequenza genica della mutazione in Europa è del 3-3,7%, con una prevalenza del genotipo omozigote pari all’8-15% della popolazione e del genotipo eterozigote pari al 42-46%. Il danno ed il rischio vascolare da iperomocisteinemia sono graduali e continui e non

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40 esiste quindi una soglia discriminante il rischio dal non-rischio. Ammettendo l’esistenza di una relazione lineare tra i livelli di omocisteina e il rischio di trombosi è stato calcolato che un incremento di 5 µmoli/L di omocisteina causa un incremento di 7 volte del normale del rischio di arteriopatie periferiche e di 2,6 volte del normale rischio di trombosi venosa agli arti (soprattutto in persone giovani, sotto i 40 anni, e donne). La presenza della mutazione sopra descritta rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare solo in soggetti con basso status di folati: ciò sottolinea l’importanza, sia nella prevenzione che nella terapia, dell’apporto nutrizionale di acido folico, il cui deficit risulta un cofattore patogeno necessario. Il rischio relativo per il tromboembolismo venoso causato da diminuita attività dell’MTHFR può aumentare in condizione di doppia eterozigosi, specie con la variante Leiden del fattore V o con la variante 20210 della protrombina.

B. Trombofilia acquisita o secondaria

La trombofilia può rappresentare la conseguenza di diverse situazioni cliniche patologiche (malattia acuta o cronica) o fisiologiche che, in un modo o nell’altro, alterano il sistema emostatico e quello fibrinolitico determinando l’attivazione della coagulazione. In questi casi, a differenza di quanto visto per le trombofilie primarie, i difetti sono multipli ed interessano multiple componenti del sistema emostatico (sistema della coagulazione e piastrine). La patogenesi, in alcuni casi è ancora oggi poco chiara. Dal punto di vista epidemiologico, le trombofilie secondarie sono

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41 più frequenti rispetto alle forme primarie. Le condizioni potenzialmente responsabili di trombofilia secondaria possono essere rappresentate da:

1. Sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi: gli anticorpi anti-fosfolipidi sono autoanticorpi, cioè anticorpi impropriamente diretti contro componenti del proprio organismo, in grado quindi di interferire con i suoi processi fisiologici. Questo è a grandi linee il meccanismo delle malattie chiamate autoimmuni. I fosfolipidi sono dunque molecole normalmente presenti nei tessuti, che per diverse ragioni ad un certo punto vengono “aggredite” da autoanticorpi. Per capire questi meccanismi nel contesto della sindrome, si partì dall’evidenza che alcune persone con LES (lupus sistemico) tendevano a manifestare sintomi come trombosi o aborti ricorrenti, ed avevano alcune tipiche alterazioni del sangue. In seguito fu chiaro che potevano presentare gli stessi sintomi persone senza altre malattie autoimmuni e progressivamente si misero a punto esami di laboratorio in grado di individuare la presenza degli anticorpi che si ritenevano responsabili. Intanto si osservava un numero crescente di manifestazioni cliniche correlabili con questa sindrome, che non era più considerata come una generica predisposizione alla trombosi, alle perdite fetali o ad altre complicanze ostetriche e neurologiche, ma come una vera malattia sistemica. Nel tempo la sindrome si è dunque evoluta come concetto di patologia autoimmune che riguarda equilibri immunologici dell’intero organismo, non relativi solo ai meccanismi che regolano la coagulazione. L’insieme delle manifestazioni correlabili con la sindrome è cambiato e si sono studiati possibili legami esistenti con espressioni neurologiche di natura apparentemente diversa (somiglianti a quelle ad esempio

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42 della sclerosi multipla, dell’epilessia ecc), con alterazioni aterosclerotiche precoci. Esistono inoltre coinvolgimenti noti delle valvole cardiache, della pelle (livedo reticularis, ulcerazioni), ematologici (diminuito numero di piastrine nel sangue) e sintomi specifici differenti in rapporto agli organi coinvolti (reni, cuore, cervello, arti, ecc);

2. Neoplasie;

3. Uso di farmaci antitumorali (fluoro uracile, mitomicina C, dacarbazina);

4. Uso di estrogeni ed estro- progestinici; 5. Iperomocisteinemia;

6. Malattie mieloproliferative croniche o Policitemia vera

o Trombocitemia essenziale o Mielofibrosi idiopatica o Leucemia mieloide cronica

7. Porpora trombotica trombocitopenica e sindrome emolitico-uremica;

8. Emoglobinuria parossistica notturna; 9. Piastrinopenia e trombosi da eparina;

10. Infusione di concentrati di complessi protrombinici; 11. Diabete mellito;

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43 12. Dislipidemie;

13. Ipertensione arteriosa;

14. Iperviscosità ematica ed insufficienza cardiaca congestizia; 15. Presenza di protesi valvolari;

16. Condizioni fisiologiche o parafisiologiche:

o Periodo post-operatorio: rappresenta forse il più potente stimolo trombogeno, con predilezione per il circolo venoso; o Gravidanza, soprattutto nel post-partum e nel puerperio; o Immobilizzazione prolungata;

o Età avanzata;

o Obesità, stato dismetabolico.

Tutte queste situazioni sono associate ad importanti modificazioni reologiche, caratterizzate da rallentamento del flusso sanguigno ed in modo particolare del ritorno venoso.

(44)

44

“Capitolo III”

(45)

45 L’obesità può essere considerata un fattore di rischio che contribuisce alla crescente incidenza di trombosi venose profonde e di embolia polmonare post-chirurgiche nel paziente obeso rispetto a quanto si verifica, invece, nei pazienti non obesi.

I due principali fattori ritenuti responsabili del crescente tromboembolismo in questa classe di pazienti sono l’aumentata concentrazione plasmatica del fibrinogeno e la ridotta fibrinolisi. Alcuni studi epidemiologici hanno, inoltre, dimostrato un’aumentata attività del PAI nel paziente obeso.

Nel paziente bariatrico, il rischio di trombosi venosa profonda (TVP) post-operatoria, con conseguente rischio di embolia polmonare (EP), rappresenta una delle principali cause di morbilità e mortalità in considerazione sia dello stress chirurgico che della prolungata immobilizzazione che si associano ad un nativo stato di ipercoagulabilità tipico di questa classe di pazienti.(22)

Sebbene l’incidenza di eventi tromboembolici nel post-operatorio sembri essere stabile (1.0%-2,0%) nonostante l’esponenziale incremento di interventi di chirurgia bariatrica registrato negli ultimi anni, la morte per EP non è un evento infrequente; quando ciò si verifica, lo fa spesso senza prodromi clinici evidenti.

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46 Ogni anno muoiono, approssimativamente, 50000-100000 pazienti in conseguenza di un evento tromboembolico con origine più spesso a livello del circolo venoso profondo dell’arto inferiore, della

coscia e del bacino, sebbene non possano escludersi casi di embolismo cardiaco o trombosi a livello dell’arto superiore. (27)

Lo sviluppo di una TVP può essere ricondotta a quella che viene descritta come la Triade di

Virchow e che consiste di:

o Stasi venosa o Ipercoagulabilità o Danno endoteliale.

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47 È classicamente accettato che, affinchè si verifichi un evento tromboembolico, devono essere contemporaneamente presenti almeno due dei tre fattori della triade.

La stasi venosa rappresenta una grande preoccupazione per la morbilità e la mortalità dei pazienti obesi sottoposti ad interventi di chirurgia addominale maggiore. Questi pazienti, spesso, presentano edema declive cronico, insufficienza venosa e dermatiti da stasi che possono rappresentare la conseguenza sia del grave aumento ponderale, sia di una pregressa storia di trombosi venosa profonda. Inoltre, l’aumentata pressione arteriosa polmonare, l’iperinsulinismo con ritenzione di liquidi, la elevata pressione intra-addominale e la sostanziale mancanza di attività fisica si sommano ad un quadro funzionale venoso già notevolmente compromesso. A potenziare ulteriormente il rischio di eventi tromboembolici intervengono le ore in cui il paziente è sottoposto ad anestesia (da 1 a 3 ore, in genere) e quindi ad un completo rilasciamento muscolare.

Lo stato di ipercoagulabilità è una evenienza estremamente frequente nel paziente obeso. La mutazione del Fattore V di Leiden è stata isolata in una percentuale variabile dal 4 al 6% dei soggetti caucasici in USA. Oltre alla mutazione del Fattore di Leiden sono stati identificati, sia nella popolazione obesa che in quella non obesa, altre condizioni pro-trombotiche, quali, ad esempio, la Proteina C, la Proteina S, il deficit di antitrombina III (AT III) e la presenza di anticorpi anti-fosfolipidi, che appaiono correlate con lo sviluppo spontaneo di TVP. I pazienti obesi con una o più anomalie biochimiche protrombotiche (siano esse congenite o acquisite) e con anamnesi familiare positiva per embolia polmonare (EP) devono essere adeguatamente studiati per il loro elevato rischio

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48 tromboembolico. Chiaramente, in quest’ambito sarebbe necessario poter individuare i pazienti con rischio reale di TVP e/o EP, includendo in questo gruppo anche coloro i quali hanno una storia di tromboembolismo spontaneo in assenza di un profilo ematico positivo.

Il danno endoteliale a carico delle vene tributarie degli arti inferiori rappresenta più spesso la conseguenza di un pregresso evento trombotico. La diagnosi di trombosi venosa nei soggetti gravemente obesi rappresenta una sorta di sfida, dal momento che questi pazienti sono difficili da esaminare fisicamente a causa della loro mole ed anche perché spesso i primi segni clinici sono poco evidenti. La trombosi può essere clinicamente silente o presentarsi sotto forma di processo simil-infiammatorio e quindi con iperpiressia, malessere generale, tachicardia e leucocitosi; il che vuol dire che una trombosi venosa poco profonda può evolvere verso una embolia polmonare fatale senza dare grandi segni di sé. Il processo infiammatorio è, in genere, confinato alle vene della gamba e dalla coscia; qualora si estenda al circolo venoso femorale profondo, il rischio di EP aumenta enormemente.

La prevenzione del tromboembolismo venoso è di vitale importanza per ridurre morbilità e mortalità nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica.

Secondo quelle che sono le nuove linee guida della S.I.C.O.B. (ottobre 2007) “il paziente candidato ad intervento di chirurgia bariatrica è da considerarsi ad alto rischio tromboembolico e deve, pertanto, ricevere adeguate misure profilattiche”.(21)

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49 Esiste in letteratura una concordanza generale per quanto riguarda la profilassi tromboembolica: si va dalla somministrazione di eparina non frazionata a basso peso molecolare (LMWH), alla compressione pneumatica intermittente degli arti inferiori, dal bendaggio elastico degli arti inferiori alla mobilizzazione precoce e talora al posizionamento di filtri cavali (IVC; filtri nella vena cava inferiore, in modo da arrestare l’eventuale embolo prima che questo raggiunga le cavità destre del cuore).

Il vero problema è, adesso, definire quale sia il regime profilattico ottimale. A tal proposito, Eldo E. Frezza e Mitchell S. Wachtel, hanno proposto una sorta di algoritmo abbastanza semplicistico capace in qualche modo di prevenire il tromboembolismo venoso e di ridurne il rischio a meno di 1 caso su 50 pazienti, basandosi su uno studio retrospettivo.(24) In questo studio sono stati presi in esame pazienti bariatrici suddivisi in due categorie; da un lato i pazienti a basso rischio - rappresentati da soggetti con BMI<50 Kg/m2 e con anamnesi negativa per TVP, PE e pregressi interventi chirurgici – e dall’altro i pazienti ad alto rischio – rappresentati da soggetti con BMI>50 Kg/m2, e con anamnesi positiva per TVP, PE, pregressa chirurgia pelvica ed insufficienza

(50)

50 cardiaca. Entrambe le categorie di pazienti hanno ricevuto la profilassi antitrombotica secondo uno schema ben preciso. L’algoritmo proposto da Frezza e Wachtel è il seguente:

In base a questo studio è emerso che il protocollo appena descritto è in grado di ridurre il rischio tromboembolico a meno del 2%. In conclusione, per tutti i pazienti è consigliata la somministrazione sottocutanea preoperatoria di 1,5 mg/Kg di enoxaparina. La terapia con warfarin nei pazienti definiti ad alto rischio deve essere protratta per almeno tre mesi dopo l’intervento ed in questi stessi può essere necessario incrementare la dose preoperatoria di eparina a basso peso molecolare (LMWH) da 1,5 a 2 mg/kg in duplice somministrazione giornaliera e, talora, ricorrere al posizionamento di filtro cavale in vena cava inferiore. Durante l’intervento il paziente ad alto rischio riceve eparina in infusione continua (1000/h).

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51

“Capitolo IV”

Metodiche di analisi standard della

coagulazione

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