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La donna colta frontalmente con gambe flesse fortemente stilizzate riecheggia l’immobilità delle figure femminili in Giacometti.

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3. VISIONE DELLA DONNA NELLE OPERE MATURE

Proseguendo la nostra trattazione relativa alla considerazione ostile della donna elaborata da Alberto Giacometti nell’arco dell’intera carriera artistica, riteniamo interessante approfondire particolari opere della maturità dell’artista che si rivelano assai significative nel mettere in luce la concezione sempre più conflittuale nei confronti del «gentil sesso».

In particolare, L’oggetto invisibile (Mani che afferrano il vuoto) (Fig.

19), opera bronzea del 1934 – reiterando la staticità, caratterizzante la maggior parte delle opere raffiguranti figure femminili sinora prese in considerazione che, come vedremo più avanti, si arricchirà di connotati sempre più negativi nelle opere mature – rappresenta un’opera di cesura nel panorama artistico di Giacometti. In particolare, si connota come un’esplicita presa di distanza dalla corrente surrealista. Le parole dell’artista ne rendono chiara testimonianza:

Tra i surrealisti e me c’è stato un malinteso, hanno considerato le mie sculture come un punto di arrivo; ora, per me, esse erano solo un momento di passaggio. […] Mi trovavo in un vicolo cieco1.

La donna colta frontalmente con gambe flesse fortemente stilizzate riecheggia l’immobilità delle figure femminili in Giacometti.

1 A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit., p. 113.

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Figura 19 L’oggetto invisibile (Mani che afferrano il vuoto)

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Tuttavia, a differenza di altre opere, è possibile scorgere un accenno di movimento nella posizione delle braccia e nel gesto delle mani. Ciò nonostante, a un’analisi più puntuale, è possibile notare come l’allusione al movimento contraddica soltanto in apparenza l’immobilità della figura.

Infatti, a ben vedere, il movimento è puramente illusorio in quanto le mani, come è ben desumibile dal titolo, afferrano il vuoto. Come ogni opera di Giacometti, anche in questo caso la contraddizione la fa da padrona, dispiegando in una stessa creazione elementi contrastanti atti a mettere in evidenza, specie nelle figure femminili, il rapporto conflittuale di Giacometti con le donne, perennemente oscillante tra attrazione e repulsione. Osserviamo, infatti, come il realismo, in verità soltanto apparente, delle membra della figura sia contraddetto dal volto che, assumendo sembianze disumane, alimenta il senso di alienazione della figura femminile: cogliamo vitalità e potenza puramente nelle membra, invero potenzialmente vitali. Tuttavia, il volto, che assume i connotati di una maschera, vero archetipo ossessivo della produzione di Giacometti, rafforza l’idea della potenzialità di movimento, che abbiamo in precedenza associato alla negatività, e riporta in campo caratteristiche di passività solitamente attribuite alle figure femminili. Occorre dire, inoltre, che il volto, generalmente associato alla percezione visiva dello sguardo attivo, portatore di raziocinio nel processo di presa di coscienza che desta dal buio delle tenebre, nelle fattezze della maschera, viene qui ad assumere connotati macabri, privi dell’accezione di risveglio generalmente attribuitegli.

Dunque, si tratta di un volto che non disvela, piuttosto offusca o cela la conoscenza. La profonda disumanità associata alla maschera riecheggia, come ricorda Alessandro Del Puppo

2

, il tema dell’iconografia della

2 Cfr. ibidem.

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Figura 20 Maestà di Cimabue

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maschera collocata sul corpo utilizzato da Georges Bataille per illustrare la dissociazione tra corpo e volto. Altro elemento in linea con la negatività associata al volto della figura femminile è il gesto delle mani che, potenzialmente allusive della movenza materna delle braccia che sostengono un bambino, sorreggendo il vuoto, innescano ancora una volta potenzialità, in particolare una maternità potenziale, dunque, una donna privata di una propria componente vitale. In L’oggetto invisibile viene quindi negata l’idea di vitalità, generalmente esplicitata da Giacometti tramite lo sguardo e le funzionalità degli arti, in quanto tutto si riduce a potenza: il vuoto nelle mani, nonché nello sguardo. La fonte di ispirazione, la Maestà di Cimabue (Fig. 20), a parere di Del Puppo, viene utilizzata e rielaborata in maniera antitetica: la maternità viene infatti messa in luce attraverso il processo di assenza. Dunque il gesto di apertura delle braccia, allusive del processo di accoglimento, si fa in realtà veicolo di assenze, connotando l’intera figura e la sua femminilità al negativo. Ricorre in siffatto gesto, come osserva Del Puppo

3

, un’allusione edipica a divieti materni o riferimento all’impossibilità di procreare.

Il motivo della figura femminile immobile colta frontalmente rigida dirimpetto allo spettatore trova realizzazione anche nel gesso del 1943 dal titolo Donna con il carro (Fig. 21). Siffatta opera racchiude in sé, inoltre, un’importanza estrema in quanto testimonia la rottura con il gruppo dei surrealisti nel ritorno allo studio dal vero, ben esplicitato dalle dimensioni reali della figura. L’irrigidimento della donna assume una valenza tanto più fortemente significativa, tanto che verrà reiterato in un’opera successiva datata 1950 dal titolo Il carro (Fig. 22), in quanto la figura viene associata all’immagine di un carrello che allude al movimento. Tale creazione,

3 Ibidem.

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Figura 21 Donna con il carro

Figura 22 Il carro

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nonché quella succitata del 1950, riecheggia un episodio della vita di Giacometti custodito nella mente dell’artista e allusivo del ricovero risalente al 1938 presso l’ospedale parigino Bichat in seguito a un incidente in cui Giacometti venne travolto da un’auto. In particolare, rimase impressionato dai carrelli di medicinali portati nelle stanze e associò quella visione al movimento virtuale della figura. Virtuale in quanto il movimento suggerito dal carrello accresce ulteriormente la fissità della figura, il cui moto continua a realizzarsi puramente in potenza. Gli arti superiori rigidamente allineati al corpo e quelli inferiori compattamente uniti rendono maggiormente percepibile all’osservatore l’intirizzimento della figura femminile, il cui volto si fa nuovamente testimone di assenza, ovvero di passività.

L’antitesi fissità-movimento, come già osservato, ricorre in maniera ancor più esplicita nel bronzo dipinto su base di legno del 1950, Il carro. La fonte ispiratrice è un carro da combattimento egizio del 1500 a.C. osservato in occasione della visita di Giacometti al Museo Archeologico di Firenze.

In questo caso, l’opera viene ad assumere connotati ancor più espressivi, in

quanto la figura femminile, se confrontata con quella di Donna con il carro,

maggiormente distanziata da terra per mezzo di un supporto alla base delle

ruote del carro su cui è rigidamente collocata e allungata a dispetto di una

resa maggiormente realistica della creazione del 1943, pur nel gesto aperto

delle braccia, assume sembianze pressoché divine, riconducendo

l’osservatore alla ieraticità e solennità della figura soprannaturale. A

suggerire ulteriormente l’immobilità della figura è la presenza di massicci

zoccoli lignei che sembrano bloccare il naturale movimento cui alludono le

grandi ruote del carro. Dunque, ancora potenza e magnificenza al femminile

inespressa. L’esile figura collocata sopra il carro, pur nelle sembianze più

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Figura 23 Uomo che cammina

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XXXIII

raffinate rispetto alle precedenti massicce figure, prosegue la tradizione della staticità della figura femminile, ora attraente ora repellente, nell’icona ancor più suggestiva della dea, ammaliante e, al tempo stesso, inquietante a riproduzione del rapporto di Giacometti con le donne.

Uomo che cammina (Fig. 23), scultura realizzata nel 1947, si configura come il prototipo di una serie di creazioni che danno vita allo stile maturo di Giacometti. Esse, connotandosi nella superficie grumosa dell’argilla come realizzazione concreta della precarietà fisica e mentale, alludono alla resa della condizione dell’essere umano fragile che si imporrà a partire dalla lettura esistenzialista delle opere mature di Giacometti. L’affrancamento dalle opere cifrate degli anni Venti e Trenta è percepibile in questo caso nel dinamismo dell’uomo che incede, cui si allude tramite l’avanzamento della gamba destra rispetto alla sinistra, e nella seppur lieve flessione delle braccia. Anche se in Uomo che cammina l’intenzione è descrivere la condizione di precarietà che accomuna tutti gli esseri umani, non sembra rappresentare un caso isolato il fatto che il movimento sia attribuito a una figura maschile e non a una femminile. Inoltre, come osserva acutamente Del Puppo

4

, la leggera inclinazione del torace in avanti rende percepibile il petto che si allarga alludendo al «respiro vitale». Quest’ultimo contrapposto alla maschera mortuaria femminile. Siffatta opera appare ai nostro occhi assai significativa nella corrente trattazione, in quanto ci invita a riflettere su un fatto: movimento sia nelle figure femminili sia nelle figure maschili, ma nel primo caso connotato al passivo, ovvero richiamato alla mente ma non esplicato, nel secondo concretizzato nella figura incedente che, nella

4 Ibidem, p. 130.

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Figura 24 L’uomo col dito puntato Figura 25 Grande figura del 1947

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lettura di Del Puppo

5

, allude anche a una sorta di moto mentale dello stesso artista, in quanto egli vede rispecchiato nel movimento della figura maschile un «rinnovato slancio creativo» di Giacometti che segue ad anni di crisi.

L’uomo connotato in senso universale ed esistenziale ricorre nuovamente nel bronzo coevo a Uomo che cammina dal titolo L’uomo col dito puntato (Fig. 24), caratterizzato da un tratto stilistico, accomunante la maggioranza delle opere mature, decisamente filiforme e, nella mente dell’artista, confacente a descrivere l’impressione della figura colta dal vero riproducendo nella maniera più adeguata la realtà dell’esistenza o, per dirla con Giacometti, la totalità della vita. Come ben desumibile dal titolo originale, L’homme au doigt e, ancor meglio, dal sesso messo in evidenza, la figura gesticolante, dunque allusiva del movimento, si connota nuovamente al maschile. Le braccia sollevate e il dito della mano destra puntato a indicare qualcosa o qualcuno in origine erano stati ideati per descrivere il dialogo muto con un’altra figura che sarebbe dovuta esser posta al fianco di siffatto uomo. In realtà, tuttavia, collocata in posizione isolata, la figura si caricava di connotati diversi che andavano nella direzione di una lettura esistenzialista dell’opera.

Con Grande figura del 1947 (Fig. 25) l’artista ricolloca la figura femminile in un’aura pressoché divina. Siffatta opera si inscrive, infatti, in un percorso artistico abbastanza ben delineato da Giacometti che, a partire dal 1947 per tutti gli anni Cinquanta, opta per una precisa caratterizzazione delle sue figure, dando vita a un ciclo di sculture in movimento definite al maschile, in particolare Uomo che cammina del 1947 e Uomo che cammina sotto la pioggia (Fig. 26), e un ciclo di sculture stanti connotate al

5 Ibidem.

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Figura 26 Uomo che cammina sotto la pioggia

Figura 27 Donna in piedi

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femminile. Delineando le figure femminili come rivelazioni divine alludiamo alla loro posizione ieratica e fissa che, come già ricordato, richiama alla mente la statuaria egizia, carica a sua volta di suggestioni particolari che riconducono il discorso su un piano perennemente contraddittorio, oscillante tra sentimenti di attrazione e, al contempo, repellenza. A tal proposito riteniamo utile ricordare come Jean Genet, al cospetto di alcune statue di Giacometti che, come ricorda Del Puppo

6

, al pari della statuaria egizia, suscitavano in lui simili sensazioni di «terrore» e

«fascinazione», fosse travolto invero da sentimenti antitetici. Come divinità le donne sembrano presenti – grazie anche alla presenza di massicci piedistalli in loco dei piedi che consente di rendere ancor più tangibile la loro fissità – ma, allo stesso tempo, evanescenti nella loro estrema esilità che, pur rappresentando un tratto essenziale anche delle figure maschili coeve, appare maggiormente marcata dall’estensione in verticale della figura. Frontalità, ieraticità, verticalità e inscrizione del torso in un rettangolo regolare, come osserva Del Puppo

7

, sono tutte caratteristiche che accomunano la serie femminile statica. Grande figura e, in misura maggiore, Donna in piedi (Fig. 27) – ancor più ridotta nel suo aspetto filiforme al formato di fuso nel quale sono a malapena percepibili due fori laterali che permettono di intravedere un’anatomia vagamente umana, privata quasi del tutto della componente femminile per eccellenza, ovvero il bacino – avvalorano l’associazione staticità-negatività. La mancanza di movimento con i suoi connotati di passività, dunque di negatività, è suggerita, infatti, dalla lavorazione dell’argilla da parte dell’artista che, nell’estrema riduzione della sagoma femminile, sembra voler alludere a un annullamento della stessa figura. Inoltre, le incisioni osservabili in Grande

6 Ibidem, p. 136.

7 Ibidem.

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XXXVI

figura tra le gambe serrate e in Donna in piedi tra le braccia e la sottilissima vita sono viva testimonianza dell’utilizzo di un coltello che, oltre a recidere concretamente il materiale trattato, allude a connotati di violenza, rivolta ancora verso il soggetto femminile passivo. Non a caso, Alessandro Del Puppo parla di «vere e proprie ferite sulla carne del corpo»

8

. Per di più, la sacralità delle figure femminili di quel periodo, a riproduzione delle peculiarità dell’arte egizia, è testimoniata oltremodo da numerosi disegni. In essi, infatti, grazie anche al tratto marcato della matita, le figure, pur nelle dimensioni e nella postura variate, assumono connotati soprannaturali, in quanto prive di appoggio, quasi librate in aria. La serie degli uomini, anch’essi esili, è resa vitale e attiva proprio dal movimento richiamato alla mente nell’apertura di braccia e gambe, ovvero nell’azione delle membra;

di contro, la serie ieratica femminile è in potenza, appare e scompare, innalzandosi verso l’alto ma rimane, al contempo, impigliata nell’immobilità del grande piedistallo che, a dispetto della sua fisicità, costringe la figura femminile sull’astratto sentiero impalpabile dell’immobilità. Dunque, quelle femminili vengono descritte come figure pressoché nichiliste e, citando la poetica espressione di Genet, ricordata da Del Puppo, «Queste signore non si divelgono da un fango pesante: al crepuscolo discendono, scivolando, un pendio annegato nell’ombra»

9

.

L’arte egizia, oltre che nella ieraticità delle figure femminili, viene evocata anche in sculture connotate al maschile. Osserviamo infatti come nel bronzo del 1948, Uomo che cammina sotto la pioggia, il piano al centro del quale è collocato una figura maschile incedente alluda alla sagoma dei monumenti sepolcrali. Se a un primo sguardo tale superficie potrebbe esser letta come un richiamo di morte e, di conseguenza, assenza di movimento,

8 A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit.

9 Ibidem, p. 138.

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Figura 28 Donna seduta

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XXXVII

la figura in moto su di essa sposta l’interpretazione dell’opera su un livello più materiale e positivo. Il supporto riecheggia la strada, una direzione percorribile, l’allusione a qualcosa di possibile. E per quanto tutto ciò riproduca la condizione dell’uomo solo e smarrito in senso esistenzialista e sembri accomunare uomo e donna in un processo di graduale solitudine, è proprio l’allusione al movimento delle figure maschili a creare la distanza con quelle femminili che non mostrano neanche la seppur minima movenza.

Che dire ancora dell’immobilità della figura femminile in Giacometti?

Osserviamo in primo luogo come gli arti inferiori si confondano e si saldino addirittura con le gambe della sedia sopra la quale è collocata la figura del bronzo del 1950 denominato appunto Donna seduta (Fig. 28). Con essa giungiamo al culmine dell’espressione di fissità: la figura in tal modo riprodotta ostenta un’«iperbolica staticità»

10

, persino maggiore rispetto alla ieraticità e al dinamismo potenziale individuati nelle sculture sinora considerate. Il brutale appiattimento delle gambe della donna con quelle della sedia sembra ribadire l’impossibilità del movimento, non soltanto impedito ma, in quest’opera, persino bloccato in potenza proprio a causa dell’assenza degli arti inferiori. Inoltre, anche se in un contesto mutato, in Donna seduta ricorre l’analogia donna-insetto messa in luce a proposito dell’opera surrealista Donna sgozzata del 1932. Invero, come ricorda Del Puppo

11

, Giacometti collegò l’immagine di tale donna dalle lunghe ed esili membra al ragno dagli arti altrettanto lunghi che appare nel sogno raccontato dall’artista nell’onirico e autobiografico testo del 1946, Il sogno, lo Sphinx e la morte di T..

10 Ibidem, p. 148.

11 Cfr. ibidem.

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Figura 29 Quattro figure su un piedistallo

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Quattro figure su un piedistallo (Fig. 29), bronzo del 1950, connotandosi come «oggetti di attrazione e repulsione», rappresentano l’ambivalenza dei sentimenti di Giacometti verso la donna. In particolare, siffatte figure femminili colte frontalmente alludono a ragazze in un bordello in attesa, a ribadirne la passività, che si compia una scelta da parte dell’uomo. Soggetti divenuti oggetti. Tuttavia, come in tutte le opere femminili di Giacometti, l’interpretazione del messaggio non risulta univoca. Osserviamo, infatti, che non si tratta di un approccio immediato, come potremmo facilmente dedurre dall’audace schieramento delle quattro donne allineate l’una prossima all’altra, ma il basamento su cui sono collocate sancisce una distanza. Dunque, l’opera testimonia prossimità e, al contempo, inaccessibilità alla figura femminile. Eloquenti a tal proposito risultano le affermazioni scritte in una nota dallo stesso Giacometti.

Riteniamo, pertanto, valga la pena riportarle, in quanto chiariscono il senso che egli attribuiva alla raffigurazione negativa della donna:

Alcune donne nude viste allo Sphinx [una nota casa di tolleranza di Parigi]

mentre ero seduto in fondo al salone. La distanza che ci separava […], e che mi pareva invalicabile malgrado il mio desiderio di percorrerla, mi colpì quanto le donne stesse12.

Giacometti confessò, inoltre, a Pierre Matisse quanto segue:

Le quattro figure sulla base sono un po’ i diavoli che escono dalla scatola, un po’ delle donne che io ho veduto talvolta nella realtà, attraenti e ripugnanti al tempo stesso, ma la cosa è complicata perché se ne possa dir di più13.

12 A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit., p. 157.

13 Ibidem.

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Figura 30 Donna di Venezia I

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XXXIX

Quest’ultima riflessione di Alberto Giacometti ci offre lo spunto per chiarire che lo studio in questione non pretende di essere esaustivo in merito ai sentimenti maturati nei riguardi delle donne nel corso del tempo da parte di Giacometti, in quanto è l’artista stesso a definire confuso ciò che prova. L’intento è semplicemente quello di avvicinarsi in maniera quanto più profonda possibile alla mente di un artista, a nostro parere assai affascinante, che ha saputo dar concretezza attraverso le sue opere a un’intricata elaborazione di pensieri umani in modo assai suggestivo.

Inoltre, come osserva Del Puppo

14

, quelle parole sembrano riecheggiare una visione risalente al primo viaggio in Italia dell’artista alla fine del 1920:

[…] due o tre fanciulle che camminavano davanti a me. […] immense, […] e tutto il loro essere e i loro movimenti erano carichi di una violenza spaventosa. Le guardavo come in preda a un’allucinazione, invaso da una sensazione di terrore. Era come uno squarcio nella realtà15.

L’aspetto predominante di non-finitura della Donna di Venezia I (Fig.

30) del 1956 rende palpabile la concezione di opera di Giacometti, concepita come flusso, che per sua natura è fuori da qualsiasi schema. In siffatto stile espressivo Giacometti, come osservò nel 1957, individuava la giusta forma per esprimere la sua concezione in merito alla percezione della visione. Il mezzo scultoreo nella superficie granulosa era asservito alla volontà di «mordere la realtà» e non alla ricercata ostentazione dell’effetto di non-finito. Dunque, perenne manipolazione della materia nella reiterazione del tema della figura femminile stante, nella convinzione di esprimere il percepito più che il veduto. Si tratta di riproduzioni mentali

14 Cfr. ibidem.

15A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit.

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Figura 31 Donne di Venezia

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XL

che, nell’animo dell’artista, vengono concepite sempre con la convinzione che il fallimento sia inevitabile. Malgrado nella resa scultorea il corpo della donna si sia riappropriato in parte di connotati femminili, quali il seno e i fianchi maggiormente pronunciati, riemerge nuovamente l’aspetto soprannaturale della figura che sembra innalzarsi verso il cielo nella riproduzione inclinata del piedistallo. Significativa a nostro parere è l’analisi che Genet fa a proposito delle Donne di Venezia (Fig. 31), in quanto evidenzia una differenza di spirito sostanziale nella resa del corpo e in quella del volto, che si rivelerà utile in seguito quando analizzeremo più in dettaglio il tema dello sguardo, ovvero della maschera mortuaria:

Il dorso di queste donne è forse più umano della loro faccia. La nuca, le spalle, l’incavo delle reni, le natiche, sembrano […] modellati più amorosamente dell’intera faccia. Visto di tre quarti, questo va e vieni dalla donna alla dea è forse ciò che turba maggiormente16.

Sempre a proposito della serie delle Donne di Venezia Genet afferma:

[…] procurano questa strana sensazione: […] Stanno nel fondo del tempo, all’origine di tutto, non finiscono mai di avvicinarsi e di indietreggiare, in un’immobilità sovrana. Non appena il mio sguardo cerca di prender familiarità con loro, di avvicinarle, ecco che – […] – esse si allontanano a perdita d’occhio: questo perché la distanza tra loro e me si è improvvisamente aperta. Dove vanno? Anche se la loro immagine continua ad essere visibile, dove sono?17.

16 J. GENET, L’atelier de Alberto Giacometti, Barbezat, Paris 1995, passim.

17 Ibidem.

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Figura 32 Grande donna II del 1960

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XLI

Infine, il progetto relativo all’elaborazione una scultura monumentale da collocare all’esterno della Chase Manhattan Bank a New York – prevedendo l’accostamento di un uomo che cammina, una donna in piedi una testa, temi assai sviluppati nell’intera carriera artistica – rappresentò l’ultimo gradino delle ricerche di Giacometti in merito alla configurazione di ambo le serie scultoree degli ultimi anni, la figura maschile in movimento e quella femminile statica. Un anno prima della morte Giacometti visitò tale piazza di New York e decise di collocarvi soltanto la figura femminile di otto metri di altezza, ma l’idea non trovò realizzazione a causa della malattia dell’artista. In ambedue le versioni di Grande donna II del 1960 (Fig. 32), all’interno dell’atelier di Giacometti, pur nel movimento vibrante dell’argilla lavorata dall’artista, è percepibile ancora immobilità e, nelle parole di Genet

18

, osserviamo un «esercito di sentinelle

[…]

» che «vegliano un morto». Sembrano possedere una consistenza precaria ed esplicare un movimento potenziale, puramente mentale.

Avendo principiato la nostra rassegna delle sculture maggiormente significative sul piano del rapporto conflittuale di Giacometti con le donne con il ritratto della madre, scevro da implicazioni negative, riteniamo opportuno concludere con un ritratto della moglie, busto bronzeo del 1962 dal titolo Annette IV (Fig. 33), carico di ben altre implicazioni. Esso appare denso di una forte carica emotiva, in quanto le immagini della moglie, in questo come negli altri busti coevi, divengono adesso, come argomenta James Lord, riferendosi alla compresenza sempre più ingombrante di Caroline, «sinistre evocazioni di una femminilità sconvolta, le fasi della furibonda disaffezione fra l’artista e la moglie-modella»

19

. Ancora in

18 Cfr. A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit., p. 176.

19 J. LORD, Giacometti. Una biografia, Allemandi, Torino 1988, passim.

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Figura 33 Annette IV

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XLII

quest’opera colpisce lo sguardo, che appare svuotato dei connotati di attivismo e risente della percezione negativa che si connota al passivo.

Austerità, come nei ritratti della madre, ma in questo caso di tipo disaffettivo, come estrapoliamo dalla tensione del volto della donna dal quale trapela, nella fissità e nel vuoto dello sguardo, l’impassibilità della regina del Nilo Nefertiti. Tuttavia, come la madre, anche se in maniera diversa e graduale, Annette IV rappresenta un modello di donna vincente, in quanto la passività che la connota subisce una graduale evoluzione. L’inizio della storia con l’artista, infatti, che la vede posare come semplice modella, donna-oggetto, la connota completamente al passivo. Tuttavia, come percepibile dalle stesse parole della donna, la passività-negatività continua a essere una caratteristica della sua persona, soprattutto nella percezione dell’artista, ma diviene una passività consapevole. Questo probabilmente lo scacco tra lei e Giacometti.

A conclusione, riportiamo alcune significative riflessioni dell’artista risalenti al 1963:

Le mie sculture, quadri, disegni, legati all’evolversi della mia visione e della mia concezione lungo l’arco di tutta la mia vita. Ogni scultura, ogni quadro, ogni disegno collegati a un istante particolare, a una data particolare della mia vita, segni della mia visione e della mia concezione in quel preciso istante, ed anello di congiunzione fra tutto ciò che era stato fatto prima e ciò che è stato fatto dopo quel preciso istante. Io nella mia visione, nella mia concezione in ogni attimo della mia esistenza20.

20 A. DEL PUPPO, Alberto Giacometti, cit., p. 178.

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Figura 34 Testa su stelo del 1947

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XLIII

3.1. La maschera mortuaria femminile: lo sguardo vuoto

Al fine di illustrare in maniera più approfondita il tema della maschera mortuaria, abbiamo optato per una selezione di opere che mettono in luce, maggiormente rispetto ad altre, la dissociazione tra corpo e volto proposta da Georges Bataille.

Testa su stelo del 1947 (Fig. 34) è la resa artistica di quanto Giacometti vide nel 1946: il cadavere di un uomo che abitava nello stabile del suo atelier. «In piedi, immobile [ … ] , guardavo quella testa divenuta un oggetto, [ … ] insignificante. [ … ] »

21

: queste parole di Giacometti rinnovavano l’esperienza di dolore del 1921 che aveva provocato all’artista un vero trauma. Ricorre in quest’opera l’archetipo della maschera funeraria come facilmente desumibile dalla bocca spalancata e dalla stessa caratterizzazione della testa che sembra volgere all’indietro e la cui precarietà viene enfatizzata dalla sua collocazione sopra uno stelo, atta a richiamare alla mente l’immagine dello scheletro.

Inoltre, a sottolineare la reiterazione in numerose opere di questo periodo del tema della maschera mortuaria, concorre anche Il naso (Fig.

35), gesso dipinto nel 1947. Occorre dire, tuttavia, che esso, pur nelle sembianze della maschera, si connota al maschile. Infatti, il naso che fuoriesce dalla gabbia si connota per la forma fallica. Nella caratterizzazione sempre spettrale, quest’opera si arricchisce di un connotato di violenza, legata alla figura maschile. Si caratterizza, come vediamo, attraverso una forma altamente impositiva che richiama alla mente Punta nell’occhio (Fig. 36) per la presenza in entrambe di un

21 Ibidem, p. 122.

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Figura 35 Il naso

Figura 36 Punta nell’occhio

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XLIV

elemento aguzzamene allungato. Il naso, pur connotato in senso funebre, dunque al passivo, mantiene un elemento attivo nella vitale aggressione che, anche in questo caso, si definisce al maschile.

Più nello specifico, desideriamo porre l’accento sul fatto che lo sguardo, connotato all’attivo nell’immaginario di Giacometti, assuma nelle figure femminili una particolare accezione negativa, connotandosi al passivo. Per rendere maggiormente tangibili tali riflessioni ci soffermeremo qui di seguito su determinati dettagli di alcune opere scultoree.

In particolare, la disumanità della maschera è visibilmente percepibile nel volto della figura femminile dell’Oggetto invisibile del 1934. Il vuoto dello sguardo è ulteriormente tangibile nella presenza di due ruote, una integra, l’altra spezzata, all’interno delle cavità oculari. Riecheggiando il ricordo di un oggetto reperito da Giacometti con André Breton in un mercatino delle pulci, siffatta maschera viene a collocarsi nel periodo ancora surrealista di Giacometti che prevedeva il «reperimento occasionale e ‘automatico’ di senso artistico»

22

. Inoltre, anche se in riferimento alla serie matura delle Donne di Venezia, quanto afferma Genet a proposito della maggiore umanità del corpo rispetto allo sguardo di quelle figure è riscontrabile anche in questa opera a esse anteriore. Infatti, è possibile osservare come le forme del corpo, per quanto stilizzate, riecheggiando le rotondità del corpo femminile, in particolare nel seno, contrastino apertamente con l’appiattimento del volto costituito dalla congiunzione di due superfici piatte. Insomma, non vi si percepisce il benché minimo accenno alla profondità dello sguardo: l’impressione che si offre allo spettatore è della testa di un defunto collocata su un corpo pressoché vivo.

L’ossessione della maschera mortuaria, a ben vedere, è rintracciabile nella

22 Ibidem, p. 113.

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XLV

coeva Testa cranio (Fig. 4) nella quale è fortemente leggibile il richiamo alla visione da parte dell’artista di un cranio nel 1921. La maschera mortuaria raffigura, dunque, il cambiamento concettuale di Giacometti il quale, traumatizzato dalla visione diretta di un cadavere, elabora una diversa concezione in merito alla morte. Rimane impressionato dal repentino passaggio da forma viva a forma inerte, tanto che in una conversazione con Georges Charbonnier afferma: «Tra il vedere un cranio davanti a me o una testa la differenza è diventata minima»

23

. Dunque, si può parlare a ragione di soggetto che all’improvviso si fa oggetto, inerte in primo luogo nello sguardo, la parte del corpo per eccellenza attiva.

23 http://www.rodoni.ch/busoni/bibliotechina/giacometti.html, (24.3.2008), p. [3].

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