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LA LEYENDADEL INDIO DORADO

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Academic year: 2022

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QUADERNI DELLA

LA LEYENDA

DEL INDIO DORADO

Per la dignità e la salute dei lavoratori:

alla carica in cinque secoli di storia Pietro Donato Perrone

LA LEYENDA DEL INDIO DORADO

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LA LEYENDA

DEL INDIO DORADO

Per la dignità e la salute dei lavoratori:

alla carica in cinque secoli di storia

Edizione 2010

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In copertina: Caravaggio, Medusa, 1598 - Galleria degli Uffizi, Firenze

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al lavoro in miniera.

Questo quaderno ha lo scopo di riportare alla memoria le mille e mille storie di miseria schiacciate dal rischio di malattia e di morte che incombe quotidianamente in quei budelli dell’inferno, sotto la terra.

Ma quei cunicoli, quei pozzi, quelle gallerie, che troppe volte inghiottono la vita e le spe- ranze di coloro che scavano con le unghie e con i denti, sono qualcosa di ancora più pro- fondo, raggiungono l’intimo delle coscienze. Quindi la loro storia diventa metafora, immagine per raccontare degli sforzi, e al tempo stesso dei sacrifici, profusi dagli uomi- ni nel loro viaggio sulla terra.

Con questa prospettiva davanti, Pietro Donato Perrone apre questo quaderno raccontan- do la storia di uno scienziato del 1500 che ha assunto in quegli anni il ruolo di “faro”, preoccupandosi di dare un po’ di luce al buio di quelle mille e mille miserevoli vite.

In quegli anni, filosofi, pensatori e scienziati diedero vita alla rivoluzione scientifica che mise a soqquadro tutte le certezze dell’uomo sulle cose del mondo e dell’universo. Tra questi, Georg Bauer, italianizzato come Giorgio Agricola, nacque il 24 marzo 1494 e morì il 21 novembre 1555. Nelle pagine che seguono vedremo gli avvenimenti che hanno fatto da sfondo ai suoi anni e scopriremo, non senza sorpresa, l’intenso interesse scien- tifico di Bauer per le condizioni degli uomini delle miniere.

Il contesto temporale è quello compreso tra il 1480 e il 1560, l’arco di vita del “nostro”

scienziato. E vedremo che vita. E che uomo! Saremo così testimoni di fatti ed eventi che si collocano tra la Meraviglia e la Tragedia.

L’autore lo segue fedelmente intrecciando, in forma un po’ espressionista, il filo dei cin- quecento anni trascorsi fino ad oggi. Fra Meraviglia e Tragedia scorgeremo la trama che alcuni fatti dolorosi ed alcuni personaggi esemplari hanno tessuto nella nostra memoria.

Una trama a forti tinte e contrasti stridenti, così come solo la storia può tessere.

La Leyenda del Indio Dorado è la leggenda delle ricchezze nascoste nelle viscere della terra del Nuovo Mondo, scoperto proprio negli anni di Bauer. In quel nome, tuttavia, nel nome di Eldorado, si può scorgere ancora, oggi come allora, il fiume di lava della cupi-

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I fatti ed i personaggi di cui si narra nel quaderno de “La Leyenda” sono illustrati attra- verso i documenti ufficiali ed in questo senso il lavoro di ricerca si è avvalso soprattut- to delle fonti disponibili su Internet, procedendo ad incrociare i dati ed i riferimenti al fine di verificarne l’attendibilità.

In conclusione, il viaggio che Pietro Donato Perrone ci fa compiere nella terra dell’Eldorado è un viaggio attraverso i territori della Storia e della Civiltà. La Storia, che diventa grande quando si coniuga con il riconoscimento della dignità dell’Uomo e con la promozione delle migliori condizioni di vita e di salute per tutti i lavoratori. E la Civiltà, che matura ogniqualvolta il sacrificio dei lavoratori diventa occasione per nuove consapevolezze e nuove conquiste della coscienza civile.

Marco Stancati

Direttore Responsabile della Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali

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118 Prologo

Capitolo 1 - De Re Metallica

1.1 Un contributo alla storia del lavoro

1.2 De Re Metallica, Libro VI, Georgius Agricola, 1556

Capitolo 2 - La pazza corsa 2.1 Giorgio Bauer 2.2 A passo di carica

Capitolo 3 - Marcinelle

Capitolo 4 - Monongah

Bibliografia

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È la leggenda dell’Oro, della folle rincorsa alla ricchezza, delle mille fatiche per accaparrarsi il povero frutto del Diavolo. Una cavalcata nei territori dell’uomo, nei domìni del desiderio e nelle praterie della speranza. Sono storie di dolorosa disperazione e di riscatto morale.

Ma è anche la storia degli umili uomini che si infilavano nei cunicoli e nei pozzi senz’aria, scavati sotto terra, nel regno delle Ombre, frequentati da creature bestiali, demoni e mostri. Ed è un viaggio. Un viaggio esplorativo nelle gallerie oscure di quelle regioni senza Luce, di quei pozzi senza Cielo, per ricordare le condizioni di vita di quelle misere creature.

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È, ancora, la storia fatta dalle mille e mille storie che nessuno vuole o può più rammentare, ma che sono le storie di mille e mille umili uomini che, simili a vermi nel fango, si sono calati nelle miniere per sottrarre la ricchezza alle visce- re della terra.

È un viaggio nella storia, in cinque secoli di storia, con l’obiettivo di donare l’onore della memoria a chi, tra i primi, ha ritenuto importante offrire un contri- buto alla dignità delle mille e mille storie che parlano di miseria, di rischi, di malattie e, troppo spesso, anche della morte di quei mille e mille piccoli uomini.

Cavalcando a passo di carica nel secolo che segna il confine con l’epoca moder- na, in quegli anni che hanno conosciuto meraviglie e tragedie senza pari, vedia- mo all’opera filosofi, pensatori e studiosi che hanno dato vita a quella rivoluzio- ne scientifica che avrebbe messo a soqquadro tutte le certezze dell’uomo relati- ve alle cose del mondo ed a quelle dell’universo. Tra questi vi è Georg Bauer, che si è occupato dei mille e mille piccoli uomini delle miniere.

Questo erudito luminare del Rinascimento delle Arti e delle Scienze, oltre a descrivere le misere situazioni in cui erano condannati ad operare i lavoranti delle miniere, ha trattato scientificamente la questione del “che fare” per alleviare le inumane sofferenze provocate da quel lavoro nelle viscere della terra.

Prendendo il via dai suoi scritti ed intrecciando i fili che hanno percorso cinque- cento anni di storia, sono venuti alla luce preziosi frammenti di quei tempi lon- tani. Nel portarli all’attenzione dei lettori, mi sono sentito come uno degli esplo- ratori che quasi cinque secoli fa scoprivano fette inesplorate di mondo. Nelle miniere della memoria scavate in questi cinque secoli, ho trovato giacimenti immensi di meraviglia attraversati da filoni profondi di angoscia, vene di ricchez- ze smisurate perdute nei pozzi oscuri dell’ingordigia più inconfessabile.

Ma ora cominciamo questo splendido viaggio nel tempo e gustiamoci diretta- mente un “pezzo” del raccondo di Francisco Pizarro sulla scoperta delle Terre del Perù, delle immense ricchezze nascoste nelle viscere delle montagne di quelle lande sperdute e delle tremende imprese compiute per la brama di conquista.

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Dal: “Discorso sopra il discoprimento e conquista del Perù”

di Francisco Pizarro

Pubblicato in: “Navigationi et viaggi di Giovanni Battista Ramusio (1485 - 1557)” - Vol. IV

Introduzione al Vol. IV delle “Navigazioni”

Discorso sopra il discoprimento e conquista del Perù.

Ora che abbiamo finite le narrazioni che da noi si son potute aver del discoprimento e conquista della Nuova Spagna fatta per il signor Fernando Cortese, si comincierà a dire di quella parte di terra ferma sopra il mar del Sur chiamata il Perú, la quale al presente è discoperta intorno intorno con diverse navigazioni, e tien di larghezza mille leghe e di lunghezza 1200 e di circunferenza 4065. Dico, cominciando da quella parte di detta terra ferma che si ristringe tanto fra il mar del Nort e quel- lo del Sur, che non vi è di spazio piú che 60 leghe, cioè dalla città del Nome di Dio, ch’è verso levante, a quella del Panama, che è verso ponen-

L’umanista, storico e geografo trevigiano Giovanni Battista Ramusio (1485 - 1557) raccolse nella sua celebre opera Navigationi et viaggi, seguendo un ordine storico-geografico, gli scritti e le relazioni di viaggio dei grandi viaggiatori ed esplo- ratori di terra e di mare, dal- l’età classica ai suoi tempi. La monumentale opera si compone di tre grandi volumi pubblicati tra il 1550 e il 1559: nel primo, dedicato all’Africa, sono descritti animali esotici, tra cui l’iguana.

GIOVANNI BATTISTA RAMUSIO, Delle navigationi et viaggi In Venetia, appresso i Giunti, 1606.

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te, il qual Panama sta in gradi otto e mezzo di sopra dell’equinoziale: e se questo stretto di terra di 60 leghe fussi tagliato, tutto il Perú della gran- dezza che abbiamo detto sarebbe isola e corre da questi gradi otto e mezzo di sopra l’equinoziale fino a 52 sotto il polo antartico, dove è il stretto di Magalianes. Ora di questo gran pezzo del mondo di nuovo tro- vato vi sono stati varii discopritori, perché di quella parte che guarda verso levante nel mare del Nort si son vedute varie navigazioni nel libro del signor Pietro Martire, e della terra del Brasil per le navi de’

Portughesi, e della navigazion scritta per il signor Antonio Pigafetta; e avendosi letto il discoprir che fece Vasco Nunez di Balboa del mar del Sur, si proseguiranno le narrazioni del conquistare del detto paese del Perú, fatto d’alcuni capitani spagnuoli. E però dico, avendo Pedrarias d’Avila fondato la città del Panama, come s’è letto, si trovarono fra gli abitatori di detto luogo due cavalieri ricchissimi per l’imprese passate, che, desi- derosi di non stare in ozio, s’accordarono di mandar a discoprire piú oltre la terra che correva sopra il detto mar del Sur verso ponente: e questi furono Francesco Pizarro e Diego d’Almagro; e determinarono che un di lor andasse in Spagna a farsi dar la governazion della terra che scopris- sero, che fusse commune fra loro; e andatovi il Pizarro, promettendo gran tesori alla Maestà cesarea, fu fatto capitano generale e governatore del Perú e della Nuova Castiglia, che cosí fu chiamato detto paese. Condusse di Spagna detto Francesco quattro suoi fratelli, cioè Ferrando, Gonzalo e Giovan Pizarro e Francesco Martin d’Alcantara, fratello di madre. Giunti questi Pizarri nel Panama con gran fausto e pompa, non furon ben vedu- ti dall’Almagro, qual si vedea escluso dagli onori e titoli, essendo compa- gno dell’impresa: e furono in grandissima discordia; pur, intravenendo molti gentiluomini, e specialmente quelli venuti di Spagna nuovamente, s’accordorno insieme, promettendoli il Pizarro di procurargli un’altra governazione nella detta terra.

Or l’Almagro, acquietatosi, dette 700 pesi di oro, l’armi e vettovaglie che avea al Pizarro, qual andò a far l’impresa, come si vedrà nelle sotto scrit- te tre narrazioni. E veramente questi due capitani meriterebbono grandissi- me lodi di questa cosí gloriosa impresa, se alla fine per avarizia, accompa- gnata con l’ambizione, non si fossero ribellati contro alla Maestà cesarea, e tra loro non avessin fatto molte guerre civili con li Spagnuoli medesimi, le quali ebbero infelice e sfortunato esito. E tutti quelli che si trovarono alla morte del caciche Atabalipa, nominati nelle infrascritte relazioni, fecero cattivo fine, come si vedrà nel quarto volume di queste navigazioni. E accioché si sappin le condizioni di detti due cavalieri, dico che Diego d’Almagro era nativo della città d’Almagro in Spagna, il padre del qual non

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si seppe, ancor che lui procurasse d’intenderlo, poiché si vidde ricco. Non sapeva leggere, ma era valente, diligente e amico d’onore, e desideroso d’esser lodato, e sopra tutto liberalissim,. e per questa causa tutti i soldati l’amavano fuor di misura, perché dall’altro canto era molto aspro e di paro- le e di fatti. Donò piú di centomila ducati del suo a quelli che furono con lui all’impresa de Chili: liberalità piú tosto di prencipe che di soldato. Alla fine per ambizione di signoreggiare venne alle mani con Francesco Pizarro, qual lo fece prender da Hernando Pizarro suo fratello e, posto in prigione nel Cusco, lo fece strangolare, e poi in su la piazza gli fece tagliar la testa, nell’anno 1538. Mai ebbe moglie, ma di una Indiana nel Panama ebbe un figliuolo del suo nome medesimo: fecegli insegnare e ammaestrarlo con ogni diligenza, riuscí un valente cavaliero e piú che alcuno altro nato d’Indiana, ma alla fine fu fatto morir per le mani di detti Pizarri.

Francesco Pizarro fu figliuolo naturale di Gonzalo Pizarro, capitano in Navarra. Nacque nella terra di Trugillo, e fu da sua madre posto sopra la porta d’una chiesa: pur, riconosciuto dal padre doppo alcuni giorni, lo pose a stare in villa alle sue possessioni. Non seppe leggere, e vedendosi in quel stato, essendo grande, sdegnatosi si partí e venne in Sibilia, e de lí nell’Indie. Stette in S. Domenico, e passò ad Uraba con Alfonso d’Hoieda e Vasco Nunez di Balboa, a discoprire il mar del Sur, e con Pedrarias d’Avila nel Panama. Costui possedette piú oro e argento che alcun Spagnuolo over capitano che sia mai stato per il mondo; non era liberale né scarso, né si vantava di quel che donava, ma era sollecito molto del util del re; giocava largamente con ogni sorte d’uomini senza far differenza d’alcuno. Non vestiva riccamente, ancorché alcune fiate portassi una vesta foderata di martori, che Fernando Cortese li mandò a donare; si dilettava di portare le scarpe e il cappello di seta di color bianco, perché cosí portava il gran capi- tan Consalvo Ferrando. Fu uomo grosso, non seppe leggere, fu animoso, robusto e valente, ma negligente in guardare la sua vita, perché li fu detto e fatto intendere che Diego d’Almagro, al quale avea fatto morire il padre, come è detto, trattava di farlo ammazzare, ed egli non lo volse mai credere, finché i congiurati non gli furono adosso nella città de los Reyes e con le spade lo finirono: e fu del 1541, a’ 24 di zugno.

Gonzalo Pizarro, dapoi la morte di Diego d’Almagro e di Francesco suo fratello, si ribellò contra alla Maestà cesarea e si fece chiamar re del Cusco; e dapoi molti conflitti con capitani di Cesare, fu preso e fattogli tagliar la testa nella città de los Reyes del 1548. E non è fuor di proposito di considerare come tutti i capitani che furon al discoprimento del Perú e alla morte del cacique Atabalipa feciono mala fine: perché Giovan Pizarro, fratello di Francesco, fu morto dagli Indiani nel Cusco; e Francesco Pizarro

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e suoi fratelli feciono strangolare Diego d’Almagro; e Diego d’Almagro suo figliuolo fece ammazzare Francesco Pizarro; e il licenziado Vacca di Castro fece tagliar la testa al detto Diego; e Blasco Nunez Vela fece prigione Vacca di Castro, il qual non è ancor fuor di prigione di Spagna; Gonzalo Pizarro amazzò in battaglia Vasco Nunez; e Gasca giustiziò Gonzalo Pizarro, e mandò preso in Spagna l’auditore Cepeda, perché gli altri suoi compagni erano morti: di sorte che chi volesse andare dietro raccontando troveria piú di 150 capitani, uomini con carico di governo e di giustizia e d’eserciti, esser periti, alcuni per mano d’Indiani, altri combattendo fra loro, ma il piú di lor fatti appiccare. Gl’Indiani di quel paese, uomini vecchi e prudenti, e molti Spagnuoli dicono queste morti e guerre procedere dalla constellazio- ne della terra e dalla ricchezza di quella; ma li piú prudenti l’attribuiscono alla malizia e avarizia degli uomini, ancorché dicono che, dapoi che s’ar- ricordano (ancora che abbino cento anni), mai mancò la guerra nel Perú, perché Guainaca, Opanguy suo padre, ebbero continuamente guerra co’

suoi vicini per signoreggiar soli quella terra, e Guaxcar e Atabalipa fratel- li combatterono sopra il dominare quanto potettono, e Atabalipa ammazzò Guaxacar suo fratello maggiore, e Francesco Pizarro amazzò e privò del regno Atabalipa per traditore. E quanti procurarono la morte del detto fece- ro la sua fine infelice e dolorosa, come è sopra detto; e il reverendo fra Vicenzio Valverde, che fu alla presa del Cusco, come si leggerà, fu fatto vescovo del Cusco, e alla fine, fuggendo da Diego d’Almagro, fu fatto morir dagl’Indiani dell’isola della Puna. Hernando di Soto, partito dal Perú e andato nel paese della Florida, fu morto dagl’Indiani; e Hernando Pizarro, se ben non si trovò alla morte d’Atabalipa, pur fu mandato prigion in Spagna in la Mota di Medina del Campo, per causa della morte d’Almagro.

Sopra tutta questa regione del Perú sono state fondate diverse città, alle quali è stato posto i nomi di quelle città di Spagna, e a ciascuna assegnato il suo vescovo, come la città de los Reyes sopra il mar del Perú è fatto arci- vescovado, e li suoi suffraganei sono il vescovo del Cusco, del Quito, Carcas e Tumbez, e ogni dí si va nobilitando. Tutta questa regione del Perú è divi- sa in tre parti, cioè pianura, montagna e andes. La pianura è molto calida e arenosa e s’estende lungo la marina, e cominciando da Tumbez non vi piove né tuona né vi vengono saette, e corre di costa 500 leghe o piú, e di larghezza fino in dieci o dodeci, fin al piede della montagna; e gli uomini si servon, tanto per il bere quanto per lo irrigare i terreni lavorati e semi- nati, delli fiumi e fontane che descendon dalli sopradetti monti, quali non s’allontanano 15 o 20 leghe dal mare. La montagna è una schiena di monti altissimi che corre 700 o piú leghe, su le quali vi piovono grandissime acque e vi nevica in gran copia, ed è molto fredda; e gli abitatori che stanno fra

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quel freddo e caldo sono per la maggior parte guerci o ciechi, ed è gran maraviglia che fra tanti uomini non ve se ne trova a pena due soli che non sieno ciechi o guerci. Queste son le piú asprissime montagne che si trovino al mondo, e hanno principio nella Nuova Spagna e piú oltra, ed entrano fra il Panama e il Nome di Dio, e s’estendon sino al stretto di Magalianes; da’

quali monti nascon grandissimi fiumi, che descendon nel mar del Sur e nel mar del Nort, com’è il fiume della Plata e del Maragnon. Andes son valle molto popolate e ricchissime d’oro e d’argento e d’animali, ma non s’ha di queste tanta notizia come della montagna e della pianura.

E questa narrazione con brevità abbiamo voluto discorrer per satisfazione de’ lettori, la qual piú distintamente leggeranno nel 4° volume.

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Relazione d’un capitano spagnolo della conquista del Perù.

Come il signor Hernando Pizarro, andando ad una moschea, qual si dice- va esser molto ricca d’oro, trovò in diversi luoghi grandissima quantità d’oro, datogli per alcuni capitani d’Atabalipa per riscattarlo. E come spo- gliorono il tempio del Sole, coperto di lastre d’oro, e similmente molte case e pavimenti e muri, i quali erano coperti d’oro e d’argento.

In questi giorni fu portato certo oro, e di già il signor governatore aveva inteso come in quella terra era una moschea molto ricca, nella quale era molto piú oro di quello che ‘l cacique gli aveva promesso, perché tutti li caciqui di quelli paesi adoravano in quella, e similmente il detto Cusco, li quali venivano ad intendere quello che avevano a fare, e molti dí dell’anno venivano ad un idolo che avevano fatto, e gli davano da bere in uno smeral- do concavo. Sapendo questa cosa il signor governatore e tutti gli altri cri- stiani che v’erano presenti, il signor Hernando Pizarro dimandò di grazia al governator suo fratello che li desse licenzia di poter andar a quella moschea, perché voleva veder quel falso iddio, o per dir meglio quel demonio, poiché aveva tanto oro. Il governator li dette licenzia, e menorono alcuni Spagnuoli con loro, con i quali il demonio poteva aiutarsi molto poco: e questo fu l’an- no 1533. Il signor governatore e tutti quelli che restammo ci trovavamo ogni giorno in molto travaglio, perché il traditor d’Atabalipa faceva continua- mente venir gente contra di noi, quali venivano, ma non bastava lor l’animo d’assaltarci.

Arrivò il signor Hernando Pizarro ad un luogo detto Guamacuco, e vi trovò oro che portavano per riscatto del cacique Atabalipa, che poteva esser da 100 mila castigliani d’oro, e scrisse al governatore che mandasse per quel- lo oro, accioché venisse con buona guardia. Il governatore mandò tre uomi- ni a cavallo che lo accompagnassero, a’ quali arrivati consegnò l’oro, e passò avanti al cammino della moschea, e coloro si tornorono al governato- re. E nel cammino accadé che li compagni che portavano l’oro vennero insieme alle mani per alcuni pezzi d’oro, e uno tagliò un braccio all’altro: il che non averia voluto il governatore per tutto il detto oro.

Stando nella città di Caxamalca quaranta giorni il governator senza speran- za d’aiuto, venne Diego d’Almagro con cento e cinquanta Spagnuoli in nostro soccorso, dal quale intendemmo che voleva far abitare un porto vec- chio detto Cancebi, ma, come intese che noi avevamo trovato tanto oro, come fedel servitor dell’imperadore venne in nostro soccorso. Il cacique Atabalipa in questo tempo disse al governatore che l’oro non poteva venir cosí presto, perché, stando lui prigione, gli Indiani non lo ubbidivano, e che

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mandasse tre cristiani al paese Cusco, che questi portariano molto oro e disforniriano certe case che di lame d’oro erano coperte, ne portariano ancora molto che si trovava in Xauxa, e che potevano andare sicuri, perché tutto il paese era suo. Il governatore vi mandò uomini, raccomandandogli a Dio, li quali cristiani menorono assai Indiani che li portavano in hamacas, quale è a modo d’una lettica, ed erano molto ben serviti. E arrivorono al luogo detto Xauxa, dove stava un grande uomo, capitano di Atabalipa, qual era quello che prese il Cusco, e aveva tutto l’oro in suo potere, e dette alli cristiani trenta cariche d’oro, delle quali ciascuna pesava libre cento. E loro ne fecero poco conto e, mostrando che avevano poca paura di lui, gli disse- ro che era poco, e lui ordinò che li fussino date altre cinque cariche d’oro, il qual oro mandorono dove stava il signor governator, per un suo negro che avevano menato seco. E li detti volsero andar avanti e arrivarono alla città del Cusco, dove trovarono un capitano d’Atabalipa che si chiamava Quizquiz, che vuol dir in quella lingua barbiero. Costui fece poca stima delli cristiani, ancora che si maravigliasse non poco di loro, e per questo fu uno delli nostri che volse approssimarsi a lui e dargli delle ferite, pure non lo fece per la molta gente che teneva. Allora il capitano disse loro che non gli dimandassero molto oro, e che se non volevano restituir il cacique per quel tanto che gli dava, che lui l’andarebbe a tuor di sua mano: e subito gli inviò ad uno tempio del Sole, che loro adorano. Questo tempio era volto a levante, coperto di piastre d’oro. Li cristiani andorono al detto tempio e senza aiuto d’alcuno Indiano, perché loro non gli volevano aiutare, essendo quello tempio del Sole, dicendo che moririano, li cristiani determinarono con alcuni picchetti di rame disfornir quel tempio, e cosí lo spogliarono, secondo che poi di bocca loro ci dissono. E oltra questo furono ragunate ancora molte olle o pignatte d’oro, con le quali usano cucinare in quel luogo, e portate alli cristiani per riscatto del suo signore Atabalipa.

In tutte le case dove abitorono dicono che vi era tanto oro che era maravi- glia. Entrarono in una casa dove fanno li loro sacrificii, dove trovarono una sedia d’oro: questa sedia era tanto grande che pesava 19 mila pesi, nella quale potevano seder duoi uomini. In un’altra casa molto grande, nella quale giaceva morto il Cusco vecchio, il pavimento della quale e li muri eran coperti di piastre d’oro e d’argento, trovarono molti cantari over giarre di terra coperte di lame d’oro che pesavano molto, e non gli volsono rom- pere per non far dispiacere agli Indiani; nella qual casa erano molte donne, ed eranvi duoi Indiani morti, a modo d’imbalsamati, appresso delli quali stava una donna con una maschera d’oro sul viso, facendogli vento con uno ventaglio per la polvere e per le mosche, e li detti Indiani morti avevano in mano un baston molto ricco d’oro. La donna non volse che intrassero den-

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tro se non si discalzavano, e discalzandosi andarono a veder quelli corpi secchi, e levarono loro datorno molti pezzi d’oro; né del tutto gli spoglioro- no, perché il cacique Atabalipa gli aveva pregati che non gli spogliassero del tutto, dicendo che quel era suo padre, il Cusco vecchio: e per questo non ne volsero tuor piú. E cosí caricorono il suo oro, e il capitan che v’era li dette tutte le cose necessarie per condurlo via. Li cristiani trovorono in quel luogo tanto argento che dissono al governatore che v’era una casa grande quasi piena di cantari e tinacci grandi e vasi e molte altre pezze, e che molto piú n’avrian portato, ma temevano di non dimorar troppo, perché erano soli e piú di dugento e cinquanta leghe lontani dagli altri cristiani; ma dissero che avevano serrato la casa e le porte di quella, e messovi un sigillo per la Maestà dell’imperatore e per il governatore Francesco Pizarro, e ordinatovi guardie d’Indiani. E fatto un signore in quel luogo, come gli era stato comandato, presono il suo cammino con le pezze dell’oro bellissime che portavano, tra le quali era una fontana grande d’oro fatta di molti pezzi, la qual pesava piú di dodecimila pesi. Questa e molte altre cose portarono.

Di certi ponti sopra i fiumi, e come le ferrature, per averne mancamento, furono fatte d’oro e d’argento. Della città di Pachalchami e sua moschea, e le cose in quella ritrovate. Della città di Xauxa e d’un luogo grandissi- mo. Come Chulicuchima capitano col signor Hernando portarono l’oro del riscatto d’Atabalipa, e con quanta riverenzia vadino gl’Indiani al suo signore.

Lascio di parlare di costoro, che venivano per il suo cammino, e dirò del signor Hernando Pizarro, il quale andava alla volta della moschea. Nel qual viaggio, che fu di molte giornate, trovarono molti fiumi, sopra ciascuno delli quali sempre trovorono duoi ponti fatti vicini l’uno all’altro, in questo modo: avean fatto nel mezzo del fiume una pila, la quale appariva molto sopra l’acqua, per sostegno del mezzo del ponte, perché da una parte e dal- l’altra del fiume erano appiccate corde fatte di stroppe di salcio, grosse come un ginocchio, le quali alle rive eran legate a grossi sassi, discosto l’una dall’altra la larghezza d’un carro; a queste per traverso eran legate corde forti e ben tessute di cotone, e, perché il ponte stesse forte, appicca- vano dalla parte di sotto a queste corde sassi molto grandi. Uno di questi ponti serviva alla gente comune e stava sempre aperto, l’altro alli signori e capitani, e questo stava sempre serrato, e fu aperto quando passò il signor Hernando Pizarro. E arrivò con molto travaglio, perché pensorono non con- dur mai alcuni cavalli, per mancamento di ferrature per il mal cammino,

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perché passorono per molte montagne, la strada delle quali era fatta a mano come una scala; ma il signor Hernando comandò agli Indiani che facessino ferrature d’oro e d’argento, e cosí li chiodi, e in questo modo condussero li suoi cavalli al luogo dove era la moschea, ad una città la quale è maggior di Roma, detta Pachalchami. Nella qual moschea è una camera molto brutta e sporca, dove è un idolo fatto di legno molto brutto, il qual dicono essere lo Dio loro, e che questo fa nascere tutto quello di che vivono, alli piedi del qual tengono offerte alcune gioie, massime smeraldi legati in oro; e hanno- lo in tanta venerazione che vogliono che sol quelli lo vadino a servire che da quello (come dicono) son chiamati, e dicono che nessuno è degno di toc- carlo con mano, né ancora li muri della casa sua. Non è da dubitar che il dia- volo non entri in quel idolo e parli con quelli suoi ministri, e dichi loro quel che hanno a dir per il paese. Vengono a questo idolo con grandissima divo- zione gl’Indiani di lontano trecento leghe, e gli offeriscono oro e argento e gioie, e subito che arrivano presentano il dono al portinaro, e lui entra den- tro e parla con l’idolo e porta fuora la risposta. Avanti che alcuno ministro vadi a servirlo, bisogna che ‘l sia puro e casto, e che digiuni e non tocchi donna. Tutto il paese di Catamez che è lí intorno è devotissimo di questa moschea, e per questo vi portano ogni anno tributo, e l’idolo fa loro inten- dere che lui è loro Iddio, e che tutte le cose del mondo sono nelle man sue, e che niente adviene agli uomini che non sia di sua volontà: per il che gli Indiani della moschea e della città di Pachalchami erano in grandissima paura, perché il capitano Hernando Pizarro con gli Spagnuoli senza alcun rispetto erano entrati a vederlo, e per questo dubitavano gli Indiani che, dapoi usciti gli Spagnoli, l’idolo non gli distruggesse.

Di questa moschea cavorono molto poco oro, perché l’avevano tutto asco- so, e trovorono una cava molto grande donde avevano tratto l’oro, e li luo- ghi dove stavano li cantari che gli aveano levati, di sorte che mai poterono trovare dove l’oro fusse. In un’altra casa viddero un poco d’oro ad una Indiana che guardava la casa, che l’aveva gettato in terra; trovorono simil- mente certi morti che erano in detta moschea; tal che non poterono averne piú di trentamila pesi, e da un cacique di Chicha ne ebbero tanto che arrivo- rono alla somma di quarantamila pesi. E stando quivi gli mandò Chilicuchima, che era il capitano che prese il Cusco, messi, e fecegli inten- dere che avea molto oro per portar per riscatto del suo signore Atabalipa, e che si partirebbe da quel luogo di Xauxa, quale è una città molto grande fondata in una bella valle, e ha l’aere molto temperato, e che s’accompagne- ria con il signor Hernando Pizarro, e che insieme anderiano a veder il gover- natore. Hernando Pizarro si partí, pensando che fusse la verità quel che gl’Indiani dicevano, ma, essendo andato quattro o cinque giornate, seppe

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che non veniva il capitano, e deliberò con la gente che aveva andarsene al luogo del capitano, che era con gran gente, e cosí fece, e trovatolo gli disse che venisse a veder il signor governatore e il suo cacique Atabalipa. Lui rispose che non voleva partirsi di quel luogo, essendogli stato cosí coman- dato dal suo signore. Allora Hernando Pizarro gli disse che, se non voleva venire, lo menerebbe per forza, e mise in ordine quella poca gente che avea, perché era in una piazza grande e pensava, ancora che fussero molti, di ven- dicarsi di loro, perché quelli che erano con lui erano valenti uomini. Il capi- tan indiano, quando vidde quella gente messa in ordine, deliberò andar con lui. Il quale partito, avanti che arrivasse dove stava il signor governator in Caxamalca con il cacique Atabalipa, sei leghe lontano, trovò un lago d’ac- qua dolce, che era di circuito circa dieci leghe, con le rive tutte piene d’ar- bori verdissimi e tutto abitato intorno da casali d’Indiani, quali sono pasto- ri, con pecore di diverse sorti, cioè alcune picciole come le nostre e altre tanto grandi che l’adoperano in portare le cose che gli fa di bisogno, per somieri. In questo lago sono uccelli di diverse sorti e similmente pesci, dal quale nasce un fiume bellissimo, il qual si passa con un ponte fabricato nel modo detto di sopra, dove stanno certi Indiani a torre un certo tributo da tutti quelli che passano. Giunti a Caxamalca, dove era il governatore e Atabalipa, il capitano Chilicuchima, avanti che entrasse nella stanza dove sedeva il cacique Atabalipa suo signore, prese da un Indiano di quelli che lui menava seco una carica mezzana e se la messe sopra le spalle, e il mede- simo fecero tutti gli altri principali che lo seguitavano; ed entrati dentro, subito come lo vidde alzò tutte due le mani verso il sole, ringraziandolo che gli avesse fatto veder il signore suo, e subito piangendo si buttò in terra e con molta riverenzia pian piano s’accostò a lui e gli baciò le mani e i piedi, e il simile fecero gli altri Indiani principali. Atabalipa allora mostrò grandis- sima maestà e, ancora che sapesse che non aveva uomo in tutto il suo paese che lo amasse piú di Chilicuchima, non lo volse però guardare nella faccia, ma stette con una gravità mirabile, né fece alcun atto o dimostrazione, non altrimenti che se gli fusse venuto avanti il piú vil Indiano suo suddito.

Questo atto di caricarsi le spalle quando vanno a veder gli suoi signori dimostra una gran riverenzia che gli hanno.

Come Chilicuchima, doppo molte minaccie, confessò dove fusse l’oro del Cusco vecchio. Della provincia chiamata Guito. Come Atabalipa aveva deputato molte case per fondere l’oro e l’argento; come si cavi l’oro delle minere del piano e in alcune montagne.

Questo cacique Atabalipa non ebbe grata la venuta del suo capitano, ma, essendo molto astuto, finse d’averne avuto piacere. Il governatore gli dimandò dell’oro del Cusco, perché quel capitano era quello che l’aveva

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preso: quello rispose, sí come Atabalipa l’aveva avisato, che non avevano altro oro, e che quello che avevano tutto l’avevano portato. Tutto quel che diceva era falso, e tirandolo da parte Hernando di Soto lo minacciò che, se non diceva la verità l’abbrucciarebbono; lui gli rispose quel che prima aveva detto, donde subito ficcorono un palo, al qual lo legorono, e portorono molte legne e paglia, dicendo pure che se non dicesse la verità l’abbruccia- rebbono. Chilicuchima fece chiamar il suo signore, il qual venne con il governatore, e parlò con lui, e finalmente gli disse che voleva dire la verità alli cristiani, perché non dicendola l’abbrucciarebbono. Atabalipa gli disse che non dicesse cosa alcuna, perché essi tutto quello facevano per farli paura, che non avriano ardimento d’abbrucciarlo: e cosí gli dimandorono un’altra volta dell’oro, e lui non lo volse dire. Ma, subito che gli misero un poco di fuoco intorno, disse che menassero via quel cacique suo signore, perché lui gli faceva cenno che non dicesse la verità: e cosí lo menorono via, e subito disse che per comandamento del cacique Atabalipa lui era venuto tre o quattro volte con molta gente per assaltare li cristiani, il qual dipoi ordinava loro che tornassero indietro, per paura che, conoscendo i cristiani li suoi tradimenti, non l’ammazzassero. Similmente gli dimandorono un’al- tra volta dove era l’oro del Cusco vecchio. Lui gli disse che nel medesimo luogo del Cusco era un capitano chiamato Quizquiz, e che questo capitano aveva tutto l’oro, perché niuno ardisce accostarsi a lui, che, ancora che sia morto, fanno il suo comandamento cosí integramente come se ‘l fusse vivo, e cosí gli danno da bere e spandono tutto quel vino che gli vogliono dar a bere lí intorno, dove il corpo del Cusco vecchio è posto; e similmente disse quel capitano indiano che in quella terra piú a basso, dove il cacique Atabalipa suo signor aveva alloggiato il suo esercito, era un padiglione molto grande, nel quale il cacique aveva molti cantari over ghiare grandi e altre diverse pezze d’oro di molte sorti. Questo e molte altre cose disse quel capitano indiano alli cristiani che quivi erano, le quali io non sapria dire, per non essermi trovato presente. Poiché costui ebbe cosí detto, subito lo meno- rono alla casa del signor Hernando Pizarro, e gli facevano una diligente guardia, perché cosí era necessario, imperoché piú ubbidiva la maggior parte della gente al comandamento di questo capitano che al medesimo Atabalipa suo signore, perché era molto valent’uomo in guerra e aveva fatto molto male in quella provincia: ed era il detto capitano molto sdegnato con- tra Atabalipa suo signore, dicendo che per sua causa l’avevano mal trattato.

Il cacique non gli mandava da mangiare né altra cosa alcuna, per causa del molto sdegno che contra lui teneva per quel che aveva detto, ma il signor capitano che l’aveva in casa gli dava ben da mangiare, e lo faceva servire e davagli quanto gli faceva di bisogno; e ancor che fusse cosí mezzo abbruc-

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ciato, molti di quelli Indiani l’andavano a servire, perché erano suoi fami- gliari. E questo capitano era nativo d’una provincia chiamata Guito, della qual il medesimo Atabalipa era signore.

Questo paese è molto piano e ricco, gli uomini sono molto valenti: con que- ste genti conquistò Atabalipa la terra del Cusco, della qual gente uscí il Cusco vecchio, quando cominciò a signoreggiare tutta quella provincia. In su questo ragionamento il cacique Atabalipa disse che aveva molte case deputate a fonder l’oro e l’argento, e che l’oro delle minere del piano era minuto, perché le mine del paese del monte erano di quelle bande del Cusco, ed erano piú ricche, perché cavano di quelle l’oro in maggiori grani, e non bisognava lavarlo, ma lo ricoglievano nel fiume lavato; e come in alcune montagne cavano l’argento con poca fatica, e che un uomo ne cava in un giorno cinque o sei marche. Cavasi mescolato con piombo, stagno e zolfo, e poi si fa ben netto; e per cavarlo gli uomini appiccano fuoco gran- dissimo nelli monti, e subito che il zolfo è acceso l’argento scorre in pezzi.

La grandissima quantità d’oro portata al signor governatore, e il presen- te per lui mandato alla cesarea Maestà, e come fu diviso detto oro e quan- to toccasse a ciascuno. Del tradimento ch’aveva ordinato Atabalipa e della morte di quello, e come fu fatto signor di quella terra il figliuol maggiore del Cusco vecchio, con gran sodisfazione e giubilo di tutta la città.

Lascio di parlare piú oltre di questo. Dirò delli cristiani che vennero dal Cusco, li quali entrorono in campo del governatore con piú di cento e novan- ta Indiani carichi d’oro, e ne portorono venti cantari e altre pezze grandi, che v’era tal pezzo che con fatica dodeci Indiani lo portavano, e similmente por- torono altri pezzi che cavorono delle case. Dello argento ne portorono poco, perché cosí comandò loro il signor governatore, che non portassero argento ma oro, perché il cacique si doleva che non trovava Indiani che portassero l’oro, del quale alli giorni passati era stato portato non poca quantità. Aveva il signor governatore mandato duoi uomini al padiglione che il capitano indiano gli aveva detto, quali tornorono similmente con assai oro, del quale in una casa grande avevano in molti luoghi trovati monti grandi di diversi caratteri e pezzi minuti. Il governatore fece fondere tutto il minuto, tra ‘l quale furono alcuni grani grandi come castagne e altri maggiori, e alcuni di peso di libra e altri di maggior peso: e di questo fo fede, perché io ero guar- diano della casa dell’oro e lo viddi fondere; ed eravi piú di 90 tegole come piastre d’oro di minera, che alcune erano di buoni caratti: molte se ne fonde- rono, e furono fatte verghe, e altre si spartirono tra la gente. In questa casa

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erano piú di 200 cantari d’argento grandi che aveva fatti portare il cacique, ancor che il governatore non l’avesse ordinato, ma v’erano molte pignatte e cantari piccioli e altri pezzi molto belli: e parmi che l’argento che io viddi pesare fusse cinquantamila marche, poco piú o manco. Era oltra questo in questa casa ottanta cantari d’oro tra grandi e piccoli, e altri pezzi molto gran- di; eravi ancora un monte piú alto d’un uomo di quelle piastre, che erano tutte fine, di molto buon oro; ben che, per dire il vero, in questa casa in tutte le stanze erano monti grandi d’oro e d’argento.

Messe insieme il signor governatore tutto quell’oro e fecelo pesare, presenti gli officiali di sua Maestà; il che fatto, furono elette persone che facessino le parti per la compagnia. E mandò il governatore un presente alla Maestà cesa- rea, che fu di centomila pesi, poco piú o manco, in certe pezze che furono quindeci cantari e quattro pignatte, che tenevano duoi secchi d’acqua per cia- scuna, e altre pezze minute che erano molto ricche: ed è la verità che, dapoi partito il signor capitano, fu portato molto piú oro di quello era restato, che fu partito. Il signor governatore fece le parti, e toccò a ciascuno fante a piè quat- tromila e ottocento pesi d’oro, che sono ducati 7208, e agli uomini a cavallo il doppio, senza altri vantaggi che gli furono fatti. Dette il signore governato- re alla gente che venne con Diego d’Almagro dell’oro della compagnia, avan- ti che fussero fatte le parti, venticinquemila pesi, perché n’aveva di bisogno;

e a quelli cristiani che erano restati in quel luogo dove aveva fondato il ridot- to di San Michele dette duamila pesi d’oro, accioché lo partissero, che ne toccò dugento pesi a ciascuno. E dette a tutti quelli che erano venuti con il capitano molto oro, di sorte che ad alcuni mercatanti dette due o tre coppe grandi d’oro, accioché ciascuno n’avesse parte, e a molti di quelli che l’ave- vano guadagnato dette manco di quello che lor meritavano: e questo dico per- ché a me cosí fu fatto. Subito ne furono molti, tra li quali fui io, che doman- darono licenzia al signor governatore per venirsene in Castiglia, alcuni per dar relazione alla Maestà dell’imperadore del paese, altri per veder suo padre e sua mogliera: e fu dato licenzia a venticinque compagni, quali si partirono.

In questi dí, come seppe il cacique che volevano portar via l’oro del paese, comandò molte genti per molte parti, alcuni che venissero contra li cristiani che andavano ad imbarcarsi, e altri per venir contra il campo del governato- re, per veder se poteva esser liberato: e questa era una gran moltitudine di gente, però la maggior parte veniva per forza o per tema che avevano. Come il signor governator fu di tal cosa informato, parlò al cacique adirato, dicen- dogli che li portamenti suoi erano molto tristi, poiché senza causa faceva venir gente contra di noi. Pochi giorni avanti erano venuti al nostro campo duoi Indiani figliuoli del Cusco vecchio, fratelli di Atabalipa da canto di padre e non di madre: questi vennero molto ascosamente, per timor di suo

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fratello. Quando il governatore seppe che erano figliuoli del Cusco vecchio, fece loro molto onore, perché nell’aspetto mostravano esser figliuoli di gran signore. Dormivano costoro appresso il governatore, perché non avevano ardimento di dormir in altra parte, per timor di Atabalipa. Un di questi era natural signore di quella terra, la quale gli rimaneva doppo la morte di suo fratello. In questi medesimi giorni vennero nuove che la gente di guerra era molto propinqua, e per tal causa noi stavamo molto vigilanti: e una notte ven- nero alcuni Indiani fuggendo d’un luogo che era lí vicino, dicendo che gli Indiani venivano per far guerra e che avevano rovinati loro li maizali, che sono campi dove nasce il grano del maiz, e che venivano per assaltare il campo de’ cristiani, e che per questo loro venivano fuggendo. Come questo seppe, il signor governatore fece consiglio con li suoi capitani e con gli offi- ciali di sua Maestà, e determinorono di far morir subito Atabalipa, il qual lo meritava. Menoronlo adunque al far della notte nella strada e legoronlo ad un palo, e per comandamento del signor governatore lo volsero abbrucciar vivo;

ma volse Iddio convertirlo perché disse che voleva esser cristiano, e per que- sto lo fecero strangolare in quella notte, la qual con molte altre era passata che le nostre genti non avevan dormito, per timor degli Indiani e di questo cacique. Il governator providde che fusse fatto la guardia al detto cacique morto, e il giorno seguente da mattina il sepelirono in una chiesa che aveva- no quivi, dove molte femine indiane si volevano sepelir vive con lui.

Venti giorni avanti che morisse Atabalipa, non si sapendo cosa alcuna del- l’esercito che aspettavano, ed essendo Atabalipa una sera molto allegro e parlando con alcuni Spagnuoli, apparse in aere verso la città del Cusco a modo d’una cometa di fuoco, la quale stette gran parte della notte, e come Atabalipa l’ebbe veduta disse: “Presto morirà un gran signore di quel paese”. E questo fu lui. Della morte di questo cacique s’allegrò tutto quel paese, e non potevan creder che fusse morto; subito che la nuova andò alla gente di guerra, immediate ciascuno tornò a casa sua perché erano venuti per forza. Il signor governator fece far signor di quella terra il figliuolo maggiore del Cusco vecchio, con condizione che restassino, lui e tutta la sua gente, per vassalli dell’imperadore: e cosí loro promisero di fare. Subito che il figliuol del Cusco vecchio fu fatto signore, le genti del paese alzorno le mani al sole, ringraziandolo che gli avea dato il suo signor naturale; e fu messo in possessione dello stato, e messongli un fiocco molto ricco legato con una cordella intorno alla testa, il quale gli veniva tanto su la fronte che gli copriva quasi gli occhi: e questa è la corona che porta quel che è signor del paese del Cusco, e cosí portava Atabalipa. Il che poiché fu fatto, venne gran moltitudine di gente per servirci, e questo per comandamento di que- sto signor nuovo. Similmente s’allegrò della morte d’Atabalipa il capitan

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Chilicuchima, dicendo che per causa sua era stato mezzo abbrucciato, e che daria tutto l’oro di quella terra, che n’avevan gran quantità, e molto piú di quello che Atabalipa aveva dato, perché quello che avevan fatto signore era natural signore di quella terra: e in quel giorno menorono quattro cariche d’oro e certe coppe grandi.

Alcuni giorni avanti che Atabalipa morisse, aveva ordinato che fussero por- tati una statua d’un pastor con le pecore d’oro e altri pezzi molto ricchi: e questo tutto veniva per conto della gente nostra di campo; ma il signor governatore fu consigliato che non facesse portar allora quell’oro, accioché quelli che si partivano e tornavano in Castiglia non n’avessero la lor parte.

Il che inteso dal cacique, come io e molti altri udimmo dire, disse al signor governatore che non facesse ritornar quell’oro indietro, perché n’aspettava ancora molte maggior pezze, le quali dovevan portar piú di dugento Indiani.

Alle quali parole d’Atabalipa rispose il governatore che erano per andar in quel paese, e che tutto lo raccoglierebbeno: e tutto questo faceva accioché non s’avesse a partire con quelli che andavano in Castiglia. Io dico che viddi restar una gran casa piena di vasi d’oro e altri pezzi, dapoi che fu fatta la sopradetta divisione, li quali vasi si doveano partire fra noi che tornavamo in Castiglia, essendoci trovati nella battaglia, con tante fatiche con quante di sopra è stato narrato. E piú dico che io viddi pesare e restar lí del quinto di sua Maestà, senza quello che portò il signor Hernando Pizarro, piú di cento e ottantamila pesi.

Del paese chiamato Collao, dov’è un gran fiume dal qual si cava oro, e come si raccolga, in una isola del qual fiume si dice trovarsi una casa grande fabricata tutta d’oro. E come il signor governatore mandò all’im- peradore la parte dell’oro e argento aspettante a sua Maestà, quali furo- no discaricati in Sibilia con grande admirazione di tutta la città.

Questo non voglio restar di dire, che disse il cacique Atabalipa che era un paese detto Collao, dove è un fiume molto grande, nel quale è una isola dove sono certe case, tra le quali n’era una molto grande tutta coperta d’oro, fatto in modo di paglia, della quale alcuni Indiani venuti da quell’isola ne portaro- no una brancata; li travi e tutto il resto ch’era in casa, tutta era coperta di pia- stre d’oro, e che v’era il pavimento fatto con grani d’oro, cosí come lo trova- vano nelle minere. E questo udi’ dire al cacique e alli suoi Indiani, che erano di quella terra venuti a vederlo, presente il signor governatore. Disse di piú il cacique che l’oro che si cava di quel fiume non lo ricogliono con bateas, che sono a modo d’uno bacil da barbiere con li manichi, dove lavano l’oro nell’ac-

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qua; anzi fanno in questo modo, che mettono la terra cavata della minera in un luogo a modo d’una fossa appresso l’acqua, e con una ruota cavano l’ac- qua del fiume e la fanno andar in quella fossa, e cosí lavano la terra: la qual lavata levano via l’acqua e ricogliono i grani dell’oro, che sono molti e gran- di. E questo io l’ho udito dire molte volte, perché tutti quelli Indiani della terra di Collao, li quali io domandavo, dicevano cosí esser la verità.

Il governator Francesco Pizarro dette a noi che venivamo in Castiglia tutto l’oro e l’argento che era della parte della Maestà dell’imperadore. E dalla pro- vincia del Cusco over del Perú, donde partimmo per andare ad imbarcarci alla marina, camminammo dugento leghe per terra, dove arrivati montammo in nave e navigammo per il mare del Sur fino al porto della città di Panama in quindeci giorni, dove dismontati fummo accettati con grandissima allegrezza e ammirazione di tutti, per la gran quantità dell’oro che viddero. Il signor governatore Pedrarias ci providde di tutte le cose necessarie per portar detto oro e argento quelle ottanta miglia per terra fino alla città del Nome di Dio, che è sopra l’altro mar del Nort, che vien in Spagna, come nel principio di questo libro è detto. Giunti che fummo alla città del Nome di Dio e imbarcati, venim- mo all’isola Spagnuola e arrivammo alla città di San Domenico, che è nella parte dell’isola che guarda verso mezzodí: e questo viaggio facemmo in otto giorni. Dove, tolti li rinfrescamenti necessarii per venir alla volta di Spagna, voltammo le prore verso levante, tenendole sempre tra greco e levante, e navi- gammo da cinquantadui giorni, e facemmo 1350 leghe fino alli liti di Spagna, dove è San Luca di Barameda in sul fiume di Guadachibir, secondo la ragione che facevano li pilotti nostri, ancorché io penso che fussero molte piú: e avem- mo buonissimo tempo, e arrivammo alla città di Sibilia, dove tutte le navi sogliono discaricare le robbe che portano dall’Indie. In questo viaggio dall’iso- la Spagnuola non toccammo se non l’isole delle Canarie, ancorché alcuni toc- chino l’isole degli Azori, e come fummo allontanati da terra cinquecento in sei- cento miglia, trovammo il mar basso, né dubitammo piú di fortuna, perché i venti non fanno fortuna se non appresso terra, cioè appresso l’isola Spagnuola over appresso i liti di Spagna, dove il mar è profondissimo; e navigammo gran parte con l’instrumento del quadrante, con il sole, finché, appressandoci al nostro abitabile, cominciammo a reggerci con la tramontana. Questa naviga- zione è molto sicura, per infiniti pilotti che sono pratichi di quella. Arrivammo in Sibilia alli quindeci giorni di gennaio 1534, dove furono discaricati tutti gli ori e argenti, con grandissima ammirazione di tutta la città e d’infiniti merca- tanti fiorentini, genovesi e veniziani, li quali tutti corsono a veder tal cosa: e dipoi, avendone scritto per il mondo, io non ne dirò altro, salvo che tutti noi con la parte delli nostri ori partimmo e andammo a casa nostra, dove fummo ricevuti con quella allegrezza che ognun si può pensare.

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Capitolo 1

De Re Metallica

1.1 Un contributo alla storia del lavoro.

Leggendo, tempo fa, mi sono imbattuto in un testo molto antico, che risale al 1556, intitolato “De Re Metallica”, scritto da Georg Bauer (Giorgio Agricola nella nonimazione italiana). Quest’opera è una delle prime, anzi a me risulta essere davvero la prima, la più remota, che abbia mai affrontato dal punto di vista scientifico i temi della sicurezza del lavoro e della salute dei lavoratori.

L’autore in quest’opera dedica uno specifico capitolo alle miniere viste come ambiente in cui si svolge l’attività lavorativa ed affronta questioni come la salubri- tà di quegli ambienti, le principali e più gravi malattie che possono attecchire in quelle condizioni, le situazioni di rischio e di pericolo che possono danneggiare l’incolumità degli addetti alle miniere. Il capitolo VI del “De Re Metallica” rove- scia per la prima volta il punto di vista che aveva orientato gli autori fino a quel momento. In quelle pagine l’uomo viene posto al centro dell’attenzione. L’uomo come persona e come lavoratore, gli viene resa la dignità di essere del Creato, di Creatura Divina, quella dignità che gli schiavi, prima di allora, non avevano mai guadagnato nell’ambito delle culture classiche, greca e romana, né concretamen- te goduto come plebe, o gleba fino al medioevo.

Ma con Bauer siamo ormai nel Rinascimento maturo, il Rinascimento delle Arti e delle Scienze che aveva posto l’uomo al centro del Creato.

Ritrovare quelle pagine, per me è stato davvero come un sogno, ha messo in moto mille riflessioni ed ha fatto nascere la voglia di condividerle con qualcuno: voglio dire che ho maturato la convinzione che tutti noi, persone comuni, normali cittadi- ni, abbiamo il dovere di riprenderci in mano le redini della storia, offrendo alla società il contributo delle nostre capacità, anche di pensiero, per piccole che siano.

Dobbiamo tornare ad interessarci delle cose che ci riguardano davvero da vicino.

In altre parole, penso che dobbiamo partire alla conquista della memoria. Lì si posso- no trovare frammenti, tessere, schegge del passato, che appartengono a tutti, che ci riguardano direttamente. Perché è dal passato che veniamo tutti. Il passato è il terreno comune che dà alimento alle nostre radici, che offre nutrimento alla nostra cultura.

Questo può sembrare ovvio e poi non è il centro delle mie riflessioni.

Meno scontata mi sembra, invece, la consapevolezza che il futuro che ci sforzia- mo di costruire con le nostre stesse mani, il futuro per noi e per le generazioni che verranno dopo di noi, dipende fortemente da come sapremo coltivare i terri- tori riconquistati della memoria, da quante cure ed attenzioni sapremo dedicarvi.

È a questo che intendo dare evidenza nelle pagine che seguono.

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Da tempo rifletto sul tema della memoria storica.

Non intendo dire che ho voltato le spalle al presente né che ho chiuso gli occhi alla vita. Anzi, mi sento proiettato verso il futuro con tutti i sensi e tutta la forza della ragione. Non mi sono chiuso in una gabbia di ricordi. Non vivo prigionie- ro dei fantasmi del passato. La nostalgia non è un sentimento che giudico positi- vamente nè mi solletica spesso. Non vivo di flashback. Né di rimpianti.

Credo, però, che sia necessario conoscere il passato, non solo quello che ci riguarda direttamente, che nutre le nostre radici personali, ma anche l’altro, che prende il nome di Storia, e che nutre le radici dell’umanità intera.

La memoria storica è una fonte di insegnamento e di esempio per ogni uomo e per ogni popolo.

È la sorgente della cultura che irrora la vite degli uomini. È il faro che illumina il loro cammino. È la dea nel cui nome si festeggia o si celebrano sacrifici.

Senza memoria storica non potrebbe formarsi nessuna coscienza sociale. Gli uomini non potrebbero unirsi in gruppi, né piccoli nè grandi. Né famiglie, né bande, nè tribù, né popoli.

L’idea di umanità non potrebbe declinarsi né al singolare né al plurale.

La memoria storica si nutre di uomini e nutre gli uomini stessi.

Il suo ventre è gonfio di milioni e milioni di uomini, piccoli esseri, pieni di vita, che formicolano sulla terra e tentano di costruire la propria strada. Inconsapevoli del proprio destino, per lo più.

La strada che stanno costruendo, quella strada, è la via per il Futuro.

Perché sia possibile immaginare un futuro, per non restare irretiti nella lotta quo- tidiana per la sopravvivenza, è necessaria la memoria.

La potenza della memoria compone gli idiomi diversi della Razza nella lingua unica dell’Uomo. Mescola le esperienze di ognuno nel processo universale del- l’evoluzione. Combina il genoma nell’inconfondibile spirale della Razza Umana.

È questa la forza chimica della memoria. Il risultato di migliaia e migliaia di sconfitte e di migliaia e migliaia di vittorie. I successi e le sconfitte di una folla di piccoli uomini, che deposita nel tempo un residuo resistente, un sedimento fos- sile che concresce costantemente. Questo accumulo, questo ammasso, costituisce la materia di cui è composta la materia umana.

La memoria ha la veste di una Musa e la forza di una dea.

Con i piedi affonda nella Terra, come una radice; è grave, pesante, non si può sol- levare, non si riesce a spostare. Da essa nascono vestigia, monumenti, resti di città, templi, statue, tombe, palazzi…

Il suo corpo, invece è trasparente, lo puoi guardare attraverso, non si oppone ai tuoi occhi, non lascia neanche una sensazione sulle dita, se lo tocchi. Come una fiamma, spicca verso l’alto. Si può afferrare soltanto con il Senso e la Ragione.

Eppure, non si può sfuggire alla presa ferrea dei suoi artigli, non si può scappare dal suo morso tenace. Tutti, tutti gli uomini vengono stretti dai suoi tentacoli.

Ragioni per riflettere su questo tema ce ne sono molte, oggi. Quella che m’inte-

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ressa di più, che mi sembra più urgente, guardandomi intorno in questo presente tanto vanesio è la constatazione che, sempre più spesso, il senso ed il significato delle cose si sono persi, annegati in un presente infinito, onnivoro, che ruba l’ani- ma e la nasconde sotto un velo di oblìo, piatto ed incolore. Mio malgrado, assi- sto - non voglio essere partecipe - alla folle corsa dell’uomo verso il Nulla ed il Vuoto, sono testimone di una realtà confusa che schizza via, disperata, senza meta e priva di direzione, senza forma e senza sostanza, lanciata all’inseguimen- to della chimera di una tecnica senza logica e priva di senso. Così, si è perduto ogni significato dell’esperienza di vivere.

Così si è persa anche la Memoria, che segna la Provenienza ed indica la Rotta.

Rincorrendo le volgari apparenze materiali della gloria, della razza, del trionfo, dell’ideologia, o ancora della ricchezza, del denaro, del possesso sproporzionato, si è perduto il valore reale dell’opera degli uomini, il sapore del frutto dei solchi scavati nella terra, il significato eterno della fatica e del sacrificio quotidiano di milioni e milioni di braccia possenti.

La memoria storica dobbiamo tirarla fuori dal buio, esporla alla luce più intensa, renderla chiara e mostrarla, ben visibile, a tutti.

C’è una poesia di Bertolt Brecht, “le domande di un lettore operaio”, che riassu- me tutto questo, che scavando al di sotto delle apparenze, invita a guardare la vera realtà delle cose:

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?

Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.

Son stati re a strascicarli, quei bloc- chi di pietra?

Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò? In quali case

di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?

Dove andarono, la sera che fu termi- nata la Grande Muraglia,

i muratori? Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio

aveva palazzi solo per i suoi abitanti?

Anche nella favolosa Atlantide

La notte che il mare li inghiottì, affo- gavano urlando

Aiuto ai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l’India.

Da solo?

Cesare sconfisse i Galli.

Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Filippo di Spagna pianse, quando la flotta

Gli fu affondata. Nessun altro pianse?

Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,

oltre lui, l’ha vinta?

Una vittoria ogni pagina.

Chi cucinò la cena della vittoria?

Ogni dieci anni un grande uomo.

Chi ne pagò le spese?

Quante vicende, quante domande.

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Nei versi del poeta la memoria prende la forma di vecchia città, di eroi e genera- li; ma il punto di domanda con cui si chiudono gli inesorabili interrogativi scava in profondità, al di sotto delle apparenze, per mostrare lo stretto legame che uni- sce la Storia al lavoro degli uomini, la Gloria al dolore e al Sacrificio. La Fame con la fatica ed il sangue. Lo scorrere del tempo con l’opera dell’Uomo. Ecco scoperta la vera natura della Memoria.

Ma, ogni giorno, non si occupa, forse, il nostro Istituto, del dolore, della fatica e del sangue, in una parola, della vita di quelli che costruiscono materialmente la Storia?

Non è forse così?

Allora, ecco, il rapporto fra l’Istituto ed i lavoratori è anche un rapporto con la memoria, con il suo senso più intimo.

Tutti possono dare un contributo alla memoria collettiva, tutti possono concorre- re alla costruzione di una grande banca della memoria.

Memoria storica è anche metodo, organizzazione. È una rete, una immensa rete, che pesca nel mare del tempo.

È ingegneria, per tracciare ponti e strade ed unire ciò che nasce diviso.

È architettura, per costruire case e città per l’uomo che abita la storia.

A questo tutti dobbiamo contribuire. Questo è il nostro destino.

Si devono conoscere e coltivare i territori sconfinati della memoria e della storia.

Si devono rendere civili e sicuri gli spazi immensi della coscienza e dei valori.

Dobbiamo costruire immensi opifici per questo.

Dobbiamo cercare, scavare, tra i resti dei cantieri, nelle viscere delle fabbriche. La storia del lavoro è anche storia del benessere, dello sviluppo, del progresso. Benessere per ogni uomo, sviluppo per la coscienza dei popoli, progresso per l’intera umanità.

La ricerca della storia, la costruzione di una memoria condivisa sono il nostro vero modo di essere. Sono un modo, il solo modo, per guardare dentro noi stessi.

Non vi scorgeremo, come Caravaggio, l’incubo mostruoso della Medusa che impietrisce, della Gorgone che inghiotte. Non avremo l’incubo del vuoto che sof- foca l’uomo per sempre. L’incubo del vuoto presente che inghiotte il tempo, e con esso il significato della vita.

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Al contrario. Leggere nel nostro libro avrà finalmente un senso, un significato.

Avrà il valore dell’unica via sicura, della strada che conduce l’uomo alla sua identità più intima, alla sua piena realizzazione, alla sua felicità più vera.

Fatta questa premessa per rendere chiaro il senso dell’operazione di scavo che ho avviato, posso assolvere, a questo punto, al mio dovere personale, posso offrire il mio contributo.

Già in passato, la “Rivista” ha ospitato miei contributi. Sono grato all’Istituto per con- tinuare ad offrirmi questa possibilità di manifestare pubblicamente i miei pensieri.

La prima volta, ho puntato l’attenzione su alcune suggestioni che legano la sto- ria dell’INAIL ad un famosissimo autore, Franz Kafka, impiegato dell’Istituto per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro di Boemia, a Praga.

È cominciato, da lì, un viaggio personale nella memoria, che è andato sempre più indietro nella scala del tempo.

Nell’articolo: “L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Tracce tra mitolo- gia e storia”, ho scavato, metaforicamente, poiché non sono un archeologo ed ho incontrato testi e personaggi nati all’alba della storia dell’occidente. Negli scrit- ti dei nostri antichi progenitori Greci e Latini, tra i racconti della loro meraviglio-

Antonello da Messina - S. Gerolamo nel suo studio

Fonte: http://www.torrese.it/images/SanGerolamoStudio.jpg

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sa mitologia che ancora nutrono la nostra psicologia e la nostra cultura, ho trova- to alcuni testi che parlavano della fatica e del lavoro, delle opere e dei giorni, del senso più profondo dell’Uomo.

Incuriosito, ho continuato a viaggiare ancora più indietro nel Tempo ed ho sco- perto, letteralmente scoperto, altri testi scritti, altre testimonianze documentate, molto più antichi, scavati nella storia millenni prima dell’epoca dei Greci.

Nell’articolo: “La corvèe degli dei” ho riportato il racconto della Creazione dell’Uomo che gli scribi della città di Babilonia avevano ricopiato, in caratteri cuneiformi, più di quattromila anni fa, trasponendo su tavolette di argilla cotte dal tempo e dal sole storie mitologiche di epoca ancora più remota, giunte così, mira- colosamente, fino a noi. Queste storie descrivono la missione, il compito, dell’uo- mo sulla terra, con una lucidità di pensiero che, quasi cinquemila anni fa, era già pura e adamantina. Ho trovato in quei racconti saggezza, profondità di significati, manifestazioni dei valori umani, già nobilissime, alte ed evolute. Così come si con- viene all’Uomo. Ad un Uomo già perfetto, integro e completo fin dalla nascita.

Tutto ciò mi ha stregato, riempiendomi di meraviglia. E mi ha segnato, in qual- che modo, per sempre. Mi ha fatto percepire una nuova dimensione dell’uomo, uno spessore, una profondità mai immaginati prima.

Continuando la ricerca, si sono composte davanti a me le parti di un discorso unico, di una specie di “filosofia dell’Uomo”: fin dalle origini della Storia, gli uomini coi loro primi testi incisi nelle tavolette cuneiformi sumere e babilonesi, o dipinti nei primi geroglifici egizi, e poi, più su nel tempo, coi miti esiodei e le letterature più moderne, hanno saputo testimoniare l’immenso patrimonio di valori che vivifica il concetto di Umanità Universale. E con riferimento a quello che è stato chiamato l’homo faber, che interessa più da vicino la presente ricer- ca, hanno tracciato, attraverso le gesta immortali di dei ed eroi, da Enki a Gilgamesh, da Efesto a Prometeo, da Dedalo ad Apelle, la storia eterna delle arti e del pensiero, della vita e del lavoro. Storia eterna che è la storia degli uomini stessi, d’altronde. E di tutto ciò, già i primi scribi sumeri ed egizi, cinque o sei mila anni fa, avevano un’idea di chiarezza assoluta.

Durante questo viaggio ho provato emozioni vere, che mi hanno fatto capire che il lavoro, il lavoro dell’uomo sulla Terra, serve per costruire l’edificio dell’intera Umanità e che da tutto ciò derivano implicazioni profonde, che coinvolgono cia- scuno di noi.

Così ho sentito il bisogno di comunicare agli altri tutto ciò. Ho compreso che tutto questo riguardava il senso della Storia, il Tempo, la Memoria. La storia, il tempo, la memoria miei, ma, anche dell’intera Umanità.

Così ho capito che dovevo coltivare questa pianta. Coglierne i frutti. Offrirli a chiunque ne volesse gustare il profumo.

Memoria è il nome di questa pianta. Il domani, i secoli a venire, il futuro; la conqui- sta dei pianeti, delle galassie, l’assoggettamento degli spazi, i suoi frutti. Tutto sarà possibile, ogni desiderio si potrà esaudire se l’uomo coltiverà la memoria della sua

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storia. Tutto, allora, si potrà raggiungere, la realtà avrà spessore, forza, estensione, spazio, larghezza, peso, profondità, massa.

La memoria in questo senso, si compone delle storie di tutti gli uomini. Dal grembo fertile della Storia si diparte il filo di ogni vita. Tutti noi, tutti noi uomini, siamo suoi figli. Siamo al mondo grazie a questo misterioso legame che ci permette di essere consapevoli della nostra immagine, orgogliosi delle nostre gesta, coscienti delle nostre esistenze, quasi mai eroiche, eppure sempre uniche, irripetibili, esemplari.

Questa memoria è la madre delle nostre storie, la nostra grande madre. Mette insie- me gli ormoni dello Spirito, del Pensiero e della Ragione, li mescola e li feconda.

Senza di lei non sapremmo nulla delle storie dei viaggiatori, da Gilgamesh ad Odisseo, da Sinbad ad Achab.

Non sapremmo nulla dei nostri re e dei nostri califfi. Delle nostre divinità Onnipotenti e delle nostre Fedi infinite.

Senza memoria neanche scorrerebbe il sangue delle nostre vene. Si decompor- rebbero i nostri geni. Il nostro DNA decadrebbe ad una stringa di vani tentativi, di errori di una Natura priva di senso.

Col suo concorso sono stati selezionati i fattori che hanno fatto evolvere la nostra specie e senza di lei, oggi, saremmo ancora cellule senza progetto, mattoni spar- si, rami spezzati, gocce perdute. Senza memoria.

La memoria unisce gli Oceani, tiene insieme le Stelle, congiunge gli Spazi, fonde gli Uomini, salda i Destini.

Senza di lei neanche gli dei potrebbero conoscere la divinità del mondo da cui pro- vengono. Né potrebbero mai farsi consapevoli che è stato lo Spirito dell’Uomo ad averli innalzati, lassù, sull’alto dell’Olimpo, in un pantheon eterno ed universale.

Botticelli - Nascita di Venere

Fonte: http://www.sbac.edu/~palmergw/botticelli.venus.jpg

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Mi piacerebbe dare un contributo a questa memoria, lasciare un’impronta, seppure piccola, come può essere la mia.

Ecco di cosa si tratta. Vorrei condividere il mio viaggio, l’esperienza fantastica che si materializza in queste pagine.

Vorrei partire dall’opera del Bauer, dal “De Re Metallica”.

Nelle parole dedicate ai lavoratori, alle loro sofferenze, alle loro malattie, ai loro pericoli, troviamo un pezzo della nostra storia. Un pezzo che viene da molto lon- tano, da un’epoca ormai passata.

Ho tradotto personalmente dalla lingua originale di latino alcune pagine di quel- l’opera, aiutandomi anche con una versione inglese molto famosa, una versione speciale. Mi scuso quindi, subito, degli eventuali errori.

Ho scelto, dalle fonti reperibili nella rete, alcune parti dell’opera, quelle che ho ritenuto utili per questo lavoro.

La rete, il web, Internet, sta diventando uno strumento prezioso, una fonte di sapere, magari ancora disordinata e forse rischiosa, dalla quale però si può attin- gere un’infinita ricchezza.

A partire dalle pagine del “De Re Metallica” è iniziata un’altra tappa del mio viaggio.

Dalle descrizioni delle condizioni di lavoro contenute nell’opera di Giorgio Agricola si propaga un’eco che raggiunge il nostro tempo presente e non si è ancora acquietata.

Oggi si parla ancora degli stessi temi e si scrive progettando modelli di sicurez- za, di vita e di lavoro.

Ancora oggi, nonostante sia consolidato il convincimento che la storia sia mae- stra di vita, che l’istruzione sia un investimento per il futuro dei nostri figli, dei popoli e dell’umanità intera, ancora oggi, siamo costretti a contare vittime, feri- ti, dolore e paura, come se nessun insegnamento la storia avesse saputo darci.

A tutto questo ho voluto aggiungere qualche immagine e qualche volto, per dare una certa consistenza alla fantasia e un po’ di dati.

Da qui parte il nostro viaggio.

Un viaggio che continua su una navicella aperta a tutti.

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1.2 De Re Metallica, Libro VI, Georgius Agricola, 1556.

Restat de malis & morbis metallicorum ac de modis quibus sibi ab ipsis cauere possunt: nam semper maiorem rationem ualetudinis sustentandæ, quàm lucri faciendi habere conuenit, ut liberè munerib. corporis fungi pos- simus. Eorum aut malorum alia affligunt artus, alia lædunt pulmones, par- tim oculos, quæ dam denique homines interimunt. Aqua in quibus puteis inest multa & frigidior crura uitiare solet: etenim frigus est inimicum neruis.

De Re Metallica, Libro VI. Agricola, Georgius De Re Metallica 1556

http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine_De_re_metallica.jpg

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