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Potere e unilateralismo.

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Potere e unilateralismo.

Nella Weltanschauung neoconservatrice il ruolo da attribuire agli strumenti di coercizione militare è notevole, ed è molto superiore a quello previsto per essi ai tempi della Guerra Fredda.

Le cause sono esplicitate dagli stessi neocon in un rapporto pubblicato dal PNAC nel 2000, prima delle elezioni tenutesi nel novembre di quell’anno (vinte da George W. Bush, anche se con un minimo margine e sotto il sospetto di gravi irregolarità nel voto); questo rapporto è noto come Rebuilding America’s

Defenses1, e, dopo aver esaminato le necessità strategiche che

gli USA si trovano a dover affrontare nello scenario del dopo Guerra Fredda, dedica un’approfondita analisi all’indebolimento che, secondo i neocon, la forza militare americana avrebbe subito a partire dal 1991, ed alla necessità di un profondo rinnovamento dello stessa, allo scopo di poter adempiere ai nuovi compiti che sono richiesti dal mutato scenario mondiale. La caduta dell’URSS, dice il rapporto, ha infatti reso inutile buona parte del dispiegamento militare statunitense, strutturato

1

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fin dal 1949 per fungere da deterrente per una massiccia invasione di terra sovietica in Europa Occidentale, o per rafforzare alleati chiave come Giappone e Corea del Sud.

L’unico cambiamento avvenuto a partire dal 1991 sarebbe stata una progressiva e debilitante riduzione di fondi, fino al punto di ridurre le capacità delle FFAA statunitensi ad un livello così basso da essere inaccettabile, nonché del tutto inadeguato per implementare la missione globale del paese.

Non sarebbe invece stata modificata sensibilmente la disposizione delle forze, che risulterebbero ancora legate ad un anacronistico dispiegamento antisovietico, ormai del tutto inutile2.

Invece di agire con decisione, per sfruttare la parentesi favorevole consentita dall’unipolarità, l’America avrebbe invece scelto di tergiversare senza agire, ed anzi avrebbe salassato e indebolito, fino a livelli critici, quello stesso apparato militare necessario a mantenere il proprio ruolo di preminenza nello scacchiere globale.

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Naturalmente questa è anche una non troppo velata critica neoconservatrice all’amministrazione Clinton, rea di non essersi preoccupata della nuova situazione internazionale, e di essersi limitata a smantellare le forze armate senza altro scopo che il mero risparmio di fondi, e senza implementare alcuna strategia per fronteggiare i problemi del dopo Guerra fredda.

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Non del tutto a torto, i neocon rilevano come l’uso della forza militare sia, da parte americana, molto più probabile a seguito della caduta dell’URSS, di quanto lo fosse prima.

Al tempo della Guerra Fredda il mondo era nettamente bipolare, e questo costringeva i due poli ha confrontarsi l’uno con l’altro, e ad impegnare le rispettive forze quasi soltanto a tale scopo.

Il primario obiettivo delle forze militari statunitensi risiedeva nel fungere da deterrente contro un’aggressione sovietica all’Europa Occidentale, o ai propri alleati nel Pacifico, ed in genere nel mantenere il controllo della sfera di influenza statunitense, che comprendeva tutto il continente americano (eccettuata Cuba), buona parte dell’Europa, del Medio Oriente, e dell’Asia.

Se si osserva il dispiegamento globale delle forze USA in un anno ”medio” (per esempio il 1964), si nota come, nonostante l’estensione della sfera d’influenza statunitense, la maggior parte di queste truppe sia di stanza in patria, o in Europa, o in Giappone e Corea.

La divisione bipolare del globo tratteneva le due superpotenze in una sorta di abbraccio mortale: alla fine la stragrande

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maggioranza dei loro sforzi veniva diretta nei relativamente pochi punti di frizione, per mantenervi un equilibrio il più solido possibile.

Prendere iniziative troppo rischiose era sconsigliabile per ambedue le parti: ogni azione richiedeva una reazione dell’altra parte, e si potevano innescare pericolose escalation. Nei rari casi in cui avvenne (come nella crisi cubana del 1962), si riuscì sempre a trovare un punto di equilibrio soddisfacente, o che quantomeno poteva essere accettabile, per entrambe le parti. Come risultato di questa situazione, per tutti i lunghi decenni del confronto USA-URSS, non si arrivò mai a combattimenti diretti fra le due superpotenze3.

Sebbene venissero dispiegate centinaia di migliaia di soldati, e prodotte grandissime quantità di materiale bellico, nessuna delle due superpotenze aveva interesse a scuotere in maniera fatale lo status quo: una guerra globale sarebbe stata svantaggiosa per entrambe le parti.

3

Con la notevole eccezione degli attacchi sferrati contro gli aerei spia americani che sconfinavano nello spazio aereo sovietico, o in quello di paesi satelliti sovietici. Ma anche per tali occasioni non si può parlare di combattimenti veri e propri.

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Di conseguenza, qualunque politica estera il governo USA volesse adottare, non poteva non tenere conto dell’esistenza dell’URSS, e viceversa.

Tra il 1989 e il 1991, queste restrizioni vengono a cadere: gli USA si trovano in una posizione di inedita supremazia globale, non avendo più alcuna superpotenza rivale, mentre la stragrande maggioranza delle proprie forze armate non è più costretta a fronteggiare un nemico di pari peso in Europa: nella visione neocon questa situazione è ideale per implementare a livello globale gli interessi americani.

In una tabella, collocata all’inizio di Rebuilding America’s

Defenses4, vengono confrontate le due situazioni, prima e dopo

la fine della Guerra Fredda, divise per punti:

A) Security System

Nella Guerra fredda il sistema globale era bipolare, dopo il 1991 è indubbiamente unipolare, data l’assenza di concorrenti paragonabili (il rapporto è infatti del 2000, e l’ascesa della Cina e il risorgere della Russia erano ancora al di là da venire).

B) Main Strategic Goal

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L’obiettivo strategico principale della Guerra Fredda era il

containment dell’URSS, mentre dopo il 1991 diviene il

mantenimento di quella che viene definita come Pax

Americana: sostenere indefinitamente il predominio e la

leadership americana a livello globale.

C) Main Military Mission

Il compito principale delle FFAA americane, nel mondo precedente al 1989, era sicuramente scoraggiare un’eventuale aggressione sovietica; dopo il 1991 il compito non è più così chiaro, e non ha più un obiettivo definito, in quanto consiste nel “mettere in sicurezza ed espandere le

zone di pace democratica; impedire l’ascesa di una nuova grande potenza competitrice; difendere regioni-chiave;

sfruttare la trasformazione della guerra5”.

D) Main Military Threat

Coerentemente con quanto finora detto, la minaccia principale della Guerra Fredda era lo scoppio di una guerra globale tra USA e URSS, che si sarebbe dispiegata in diversi teatri, tra cui Asia e Medio Oriente, ma che avrebbe avuto il

5

Per il testo tra parentesi cfr.

http://www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf

Con la frase “Sfruttare la trasformazione della guerra”(exploit the transformation of war nell’originale), si intende: mantenere ed ampliare la supremazia tecnologica raggiunta dagli USA nell’ambito militare, e così chiaramente dimostrata nella guerra del 1991 contro l’Iraq.

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suo punto focale in Europa. Dalla caduta dell’URSS la minaccia più probabile è invece cambiata radicalmente: non più una guerra globale, ma la possibilità di tante piccole guerre in ogni possibile punto del globo. Non più quindi una gigantesca guerra contro l’URSS, ma tante piccole operazioni di “polizia imperiale”.

Nella nuova situazione gli USA devono, secondo i neocon, agire attivamente per mantenere l’incontrastata supremazia che sono arrivati a possedere.

Particolarmente interessante, da questo punto di vista, risulta il punto C, che esamina i compiti delle forze armate: affermare che fra tali compiti vi deve essere l’espansione della

democrazia, oppure impedire l’ascesa di una grande potenza competitrice, significa affermare implicitamente che per ottenere

tali risultati l’uso della forza è apertamente contemplato.

In effetti la dissuasione nei confronti dell’URSS non era di per sé una politica attiva: buona parte dei conflitti combattuti dagli USA dal 1945 in poi non erano percepiti dagli statunitensi come guerre d’aggressione; nella maggior parte dei casi, tali conflitti erano visti come legittime reazioni all’espansionismo sovietico.

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La nuova strategia che i neoconservatori promuovono è invece estremamente attiva, e paradossalmente non è neanche incoerente con le posizioni da loro espresse fin dalla Guerra Fredda6: l’assenza di un competitore permette di agire senza tenere conto delle obiezioni altrui, come non sarebbe mai stato possibile ai tempi dell’URSS. La strategia promossa cambia non perché siano cambiate le idee su cui si basa, ma semplicemente perché è cambiata la situazione.

Mentre sarebbe stato impensabile imporre qualcosa all’URSS con la coercizione7, adesso si teorizza l’uso della forza militare per impedire non solo l’ascesa di una potenza ostile, ma di

qualunque possibile potenza paragonabile agli USA.

Naturalmente questo porta ad una politica estera molto aggressiva (e percepibile come arrogante da tutte le altre nazioni, compresi gli alleati), ed impedisce di stilare una lista di priorità strategiche (in quanto nessun impegno sarebbe secondario o trascurabile: la supremazia totale non può tollerare zone d’ombra), e di rinsaldare o creare alleanze.

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Cfr. Capitolo 1. 7

A meno che non fosse stata l’URSS stessa ad andare troppo in là, come nella crisi dei missili cubana.

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Un esempio di quanto sopra lo si evince dalla situazione presente in Asia, dove una grande potenza in ascesa come l’India sembrerebbe un alleato ideale per gli USA: è una grande democrazia, non ha mai conosciuto dal 1947 in poi alcuna dittatura, sembra predestinata ad una lunga espansione economica, e potrebbe in futuro persino surclassare la Cina. L’alleanza con l’India sarebbe utilissima per gli USA, perché controbilancerebbe proprio il Moloch cinese (su cui si appuntano le preoccupazioni neocon).

Ma quanto scritto in RAD sembra precludere a priori ogni sviluppo di questo tipo: impedire lo sviluppo di ogni potenza competitrice, significa impedire tutte le possibili sfide alla supremazia americana, compresa l’India, che in effetti ha cominciato un graduale processo di avvicinamento alla Cina, anche a causa di questa intransigenza americana.

Anche il processo di integrazione europeo, è visto dai neocon come pericoloso ed inaccettabile per lo status unipolare del mondo, e non temono affatto di proclamarlo anche sulla loro testata più prestigiosa, cioè il Weekly Standard (diretto fra l’atro da William Kristol, figlio di Irving Kristol, che fu uno dei fondatori del neoconservatorismo), che nella seconda metà del 2003

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pubblica un articolo di Gerard Baker, noto commentatore del

Financial Times, il cui titolo già dice tutto: Against United Europe8.

La cosa più sconcertante di questa ossessione9 neocon per il pericolo di un’integrazione europea è costituita dal fatto che ben difficilmente le limitate iniziative europee di integrazione possono essere considerate come i primi passi verso la nascita di un competitore degli USA. E che dopotutto gli strettissimi rapporti tra USA ed Europa dovrebbero comunque scongiurare tale pericolo.

Nonostante questo, uno degli scopi non dichiarati dell’invasione dell’Iraq era proprio quello di rinsaldare i rapporti bilaterali con i singoli paesi europei (almeno di quelli disposti a seguire gli USA nel deserto mesopotamico), a discapito della solidarietà comunitaria europea.

Ma su tutto questo si ritornerà più avanti. Per ora è più importante notare che, nonostante tutte le defaillances pratiche e teoriche del documento denominato RAD, molte delle raccomandazioni contenute in esso sono state adottate

8

Cfr. http://www.weeklystandard.com/Content/Public/Articles/000/000/003/102oyzcv.asp 9

Ossessione ben visibile non solo sul sito del PNAC, ma anche in quello dell’AEI; in un così gran numero di articoli, che risulta difficile indicarne qualcuno in particolare. Cfr.

www.newamericancentury.org/natoeurope.htm

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dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre10, anche se con vistose eccezioni, ad esempio il proposto enorme aumento degli effettivi dell’Esercito e dei Marines (completamente rigettato dal Segretario alla Difesa Rumsfeld).

L’assenza di tale aumento degli effettivi, nella politica della nuova amministrazione insediatasi nel 2001, non è un semplice dettaglio accademico: l’idea dominante espressa dal RAD è quella della creazione di un vero e proprio Impero Americano (denominato Pax Americana), il quale, per essere adeguatamente presidiato, necessiterebbe di grandi quantità di truppe di terra, e di un grande sforzo economico, da mantenere indefinitamente, come routine, e non come misura “crash” di emergenza.

Un altro suggerimento contenuto nel RAD, e disatteso, consiste nel creare e mantenere forze appositamente addestrate per il ruolo constabulary: compiti come l’implementazione di no-fly

zone, il peacekeeping a lungo termine in aree caratterizzate da

forte instabilità, e in generale buona parte delle missioni

10

Prima dell’11 settembre le cose stavano diversamente: l’atteggiamento isolazionista dell’amministrazione Bush (contraria per esempio al dispiegamento di truppe in Kosovo, fortemente sostenuto dai neocon) urtava contro la sostanza dei suggerimenti strategici del RAD.

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(esclusi ovviamente i conflitti ad elevata intensità) da compiersi fuori dal territorio metropolitano degli USA.

Le forze preposte all’adempimento di tali compiti avrebbero dovuto essere dispiegabili con poco preavviso e strutturate per operare autonomamente e per lungo tempo: il loro scopo non doveva essere quello di sconfiggere il nemico e tornare a casa, ma di pattugliare, e senza limiti di tempo, il perimetro dell’area d’influenza statunitense, area idealmente estesa a coprire tutto il globo.

Un’altra raccomandazione del RAD era di elevare la percentuale del PIL devoluta alle spese militari ben oltre il 3,5%, e possibilmente intorno al 3,8%, e su base non temporanea, ma definitiva. Dato che il RAD risale al 2000, è evidente che tale spesa non comprende l’aumento dovuto alle spese militari causate dalla WoT11, e evidentemente secondo i neocon dovrebbe costituire la base minima di finanziamento per le Forze Armate, a cui andrebbero ad aggiungersi le spese per eventuali operazioni militari.

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Con questa sigla si intende la War on Terror, ovvero l’eufemismo con cui si definiscono tutte le varie operazioni riconducibili allo sforzo per eliminare la minaccia terroristica a seguito dell’11 settembre. Per lungo tempo si è anche tentato di identificare con la WoT anche lo sforzo bellico profuso in Iraq, ma tale operazione propagandistica pare ormai destinata al fallimento.

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Per i neocon infatti, nell’ambito di grandi sforzi militari quali quello iracheno, un bilancio militare che si attesti intorno al 3,8% del PIL è insufficiente, in quanto questo sarebbe il livello minimo di spesa per mantenere le Forze Armate USA in tempo di pace.

Le raccomandazioni suddette sono rimaste sostanzialmente disattese dall’amministrazione Bush, e non c’è da stupirsi di questo: le proposte neocon hanno senso solo nell’ambito di una politica a lungo termine finalizzata al mantenimento e all’implementazione della supremazia americana a livello globale; in pratica una politica “imperiale” di largo respiro e destinata ad essere implementata a tempo indefinito.

Una simile visione, prima dell’11 settembre 2001, non poteva certo essere avallata dall’amministrazione Bush, a causa delle sue manifeste tendenze isolazioniste e del sostanziale disinteresse repubblicano per gli impegni umanitari che avevano caratterizzato la presidenza Clinton12.

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Da tale punto di vista la figura di Bush era poco rassicurante per i neocon: durante la campagna elettorale Bush aveva lamentato l’inutilità della presenza americana nei Balcani; presenza specificamente sostenuta dai neocon.

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Possiamo quindi dire che se il Segretario alla Difesa Rumsfeld aveva adottato molte delle raccomandazioni neocon, ne aveva d’altra parte rigettate molte altre, tra le più importanti.

Non si può non rilevare la paradossalità di una siffatta situazione: l’amministrazione Bush, che in seguito sarà accusata di avere i neoconservatori come propria eminenza grigia, in realtà era (e per molti versi è rimasta) molto distante dalle loro posizioni, nonostante le simpatie che le posizioni neoconservatrici riscuotevano presso il vicepresidente Cheney, e nonostante il gran numero di neoconservatori presenti nelle fila della stessa amministrazione.

Gli eventi dell’11 settembre hanno certo cambiato decisamente l’orientamento della presidenza Bush, trasformandola in una delle più attive e meno isolazioniste della storia statunitense più recente: idee neocon, come l’esportazione della democrazia con la forza (con l’elaborazione di mirabolanti progetti come il

Greater Middle East, ovvero la trasformazione dell’intero Medio

Oriente in un insieme di stati prosperi e democratici), e in particolare, l’invasione dell’Iraq sono state adottate ed realizzate; senza contare l’enorme aumento del bilancio della

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Difesa, richiesto dai neocon e deciso da Bush a seguito delle necessità belliche della WoT.

Ma tutte queste misure di per sé (pur testimoniando l’elevato impatto e la grande influenza che i neoconservatori e le loro tesi hanno ottenuto in seno all’amministrazione Bush) non significano affatto che tale amministrazione aderisca completamente alla visione neoconservatrice, persino subito dopo l’11 settembre.

Innanzitutto gli sforzi sostenuti dal governo americano nel corso della WoT e dell’invasione dell’Iraq sono palesemente resi possibili dallo shock dell’attacco al WTC, e non sulla base di una presa di coscienza del ruolo globale dell’America, come vorrebbero i neoconservatori, e come richiedeva implicitamente il RAD.

La rabbia ed il desiderio di vendetta non possono infatti essere la base per una politica duratura, e di certo non possono essere il punto di partenza per la consapevole strategia di intervento e controllo mondiale che la RAD (ed anche lo Statement of

Principles del PNAC) propone come necessaria.

Se l’opinione pubblica statunitense ha potuto accettare un’operazione come quella irachena (la cui giustificazione

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appare quantomeno dubbia, ed i cui esiti effettivi appaiono controproducenti, se non disastrosi), sull’onda dell’isteria generata dall’attacco terroristico del 2001, ben difficilmente si potrebbe usare tale stato d’animo collettivo per una politica imperiale a lungo termine.

Il fatto stesso che i neoconservatori abbiano teorizzato una cosa simile comprova che, se da un lato essi sono profonda espressione della mentalità statunitense, dall’altro ne sono anche molto lontani ed alieni: se l’uso della forza come reazione è infatti tipico della mentalità americana (tendenzialmente isolazionista e autoreferenziale, essa è comunque disponibile ad avallare sforzi imponenti, come reazione ad attacchi e a minacce, vere o presunte che siano), i neoconservatori considerano la forza come strumento di controllo e stabilizzazione, da usarsi quando necessario, anche “a freddo”.

L’invasione dell’Iraq non era in effetti una reazione a qualcosa che Saddam Hussein aveva “fatto”: al contrario questa operazione probabilmente era parte di una complessa strategia per democratizzare il Medio Oriente, come anche per

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amplificare il ruolo americano nell’area, e tutto ciò indipendentemente dall’effettivo pericolo costituito dall’Iraq. L’uso della forza da parte degli USA, nella Weltanschauung neocon, non deve essere una last resort quando ogni altra alternativa è svanita, ma al contrario deve essere un sistema per eliminare problemi prima che s’incancreniscano, per bloccare la crescita di potenziali forze rivali al ruolo americano, per stabilizzare e pacificare: il suo uso deve essere di routine, non una misura eccezionale, magari solamente a seguito di un evento particolare, da lasciare da parte ad emergenza risolta. Da qui probabilmente la loro percezione del significato dell’11 settembre: in luogo di considerare l’attacco come opera di un nemico definito (in questo caso rappresentato da al-Qaida e da Osama bin-Laden), essi lo hanno visto come una conseguenza chiara del rifiuto americano di accettare le proprie responsabilità di leader globale.

Più che la minaccia di bin-Laden, la preoccupazione espressa dai neocon riguardava l’instabilità dell’intera area mediorientale, sottoposta a regimi non democratici ed oppressivi, e che, come si è visto nel capitolo precedente, sono visti come la causa stessa del fondamentalismo e dell’estremismo.

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La risposta neocon all’11 settembre non consiste quindi nell’invasione dell’Afghanistan e nella caduta dei talebani13, ma deve essere vista nella sconfitta dell’Iraq e nell’eliminazione del regime di Saddam Hussein.

Tale azione doveva essere solo il primo passo (nella visione neocon) di una gigantesca trasformazione di tutto il Medio Oriente.

Il terrorismo sarebbe stato sconfitto non direttamente, ma con la modifica della società stessa che gli aveva dato vita: in un Medio Oriente democratizzato e prospero, il messaggio nichilista dei fondamentalisti non avrebbe più avuto alcuna ragione d’essere.

Ma questa risposta neocon al terrorismo, come si diceva sopra, non è una novità: è invece la riproposizione di quanto da loro sempre sostenuto. Per sconfiggere la minaccia di al-Qaida, l’America dovrebbe risolversi a fare quello che si è astenuta dal fare a partire dal 1991.

13

L’attacco a questo paese sarebbe stato probabilmente condotto anche da un’amministrazione democratica, a differenza dell’attacco all’Iraq, dove il ruolo neocon è stato fondamentale. Un’altra prova del disinteresse verso la questione afgana è costituita dal numero di soldati americani nel paese: esso è molto limitato, e dopo il 2002 lo sforzo è stato diretto soprattutto a dare la caccia ai singoli esponenti del regime talebano, o della rete terroristica di al-Qaida. Fino a tempi relativamente recenti non c’è stata la volontà di pianificare un’occupazione ed una stabilizzazione del paese: lacuna paradossale data l’importanza dell’Afghanistan per il leader di al-Qaida. La cosa è ancora più stupefacente se si pensa agli sforzi ed alle risorse profuse nell’invasione e nell’occupazione del suolo iracheno.

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Ma dire questo non significa dire nulla di molto diverso da quanto scritto nello Statement of Principles del PNAC, oppure nei vari articoli scritti dagli intellettuali neoconservatori ben prima dell’11 settembre 2001.

In pratica l’attentato al WTC per i neoconservatori “cambia tutto”, ma solo nel senso di una modifica dell’attitudine americana ad intervenire nelle questioni mondiali: non cambia invece nulla per quanto riguarda la loro visione dello stato delle cose.

L’opinione pubblica americana avrebbe finalmente sostenuto l’applicazione di quanto da loro teorizzato e proposto.

Kagan: il Potere americano e l’Europa.

Ma come è possibile che venga davvero adottata una linea di azione che tende ad isolare gli USA dai propri alleati (sia da quelli di lunga data, sia dai potenziali), oltre che a coalizzare insieme tutte le forze ostili al predominio americano?

Perché i neoconservatori tendono14 a trascurare questi “effetti collaterali”? Tali effetti sono forse delle esternalità negative, che rappresentano quindi una conseguenza inconsapevole

14

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dell’agire neoconservatore? Oppure queste ricadute sono essenzialmente previste, ma ritenute trascurabili quanto al reale effetto sulla capacità americana di affermare la propria supremazia globale?

Non vi è una risposta univoca a tali domande: per molti neoconservatori la necessità di un predominio americano è tale che reagiscono sorpresi e stizziti alle preoccupazioni espresse dagli alleati, così come a tutte le contromisure adottate dai possibili rivali. Questo farebbe pensare ad un limite ideologico nel prevedere un’opposizione generalizzata all’attivismo americano.

Ma non tutti i neoconservatori rispondono in questa maniera semplicistica al problema in questione: i più accorti si rendono ben conto di queste conseguenze negative, ed hanno tenuto in considerazione questo aspetto.

Ad esempio una delle figure più affascinanti e conosciute del moderno neoconservatorismo, ovvero Robert Kagan, ha mostrato un approccio più sofisticato al problema, nonché molto meno “ortodosso”15 di quanto ci si potrebbe aspettare; ha inoltre

15

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approfondito moltissimo il problema del rapporto tra USA ed Europa, rapporto che l’unilateralismo mette in crisi.

Per Kagan il fatto che l’uso della forza americana possa spaventare gli alleati è logico e per niente sorprendente, e affronta la questione nel suo libro Paradiso e Potere16,

pamphlet uscito quando il dibattito sulla guerra in Iraq era all’apice e che affronta proprio le differenti valutazioni fatte tra le due sponde dell’Atlantico riguardo al potere ed al suo uso.

Se Kagan ammette il problema, spesso trascurato dai neocon, dell’opposizione alla supremazia americana, non per questo ritiene che tale opposizione possa mettere in pericolo la capacità americana di perseguire i propri fini.

In effetti egli riconosce le ragioni culturali della riluttanza europea ad agire (pur enfatizzandole ad un livello quasi caricaturale); ma il potere dell’America è ritenuto da lui così grande, che nessuna opposizione può bloccarlo, o rallentarlo: ne consegue che tale sua comprensione delle ragioni europee non si traduce in un incentivo a modificare l’unilateralismo USA. Kagan dice esplicitamente che non importa se l’America si troverà da sola a gestire tutti i problemi del mondo: la sua forza

16

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è più che sufficiente per tale compito, anche in assenza del sostegno europeo17.

Non servirebbe preoccuparsi troppo della suscettibilità degli alleati, o della possibilità che i nemici dell’America possano allearsi o sostenersi a vicenda: in ogni caso i nemici non potrebbero mai radunare una potenza tale da impedire l’azione statunitense, mentre gli alleati non potrebbero mai fornire un aiuto determinante (a causa della loro debolezza). Di conseguenza viene meno ogni incentivo a tenere in considerazione le opinioni non americane.

La posizione espressa da Kagan non è di per sé insensata o folle, e se i presupposti su cui si basa fossero corretti, sarebbe anche la più logica e razionale: per chi ne ha la possibilità l’unilateralismo nell’agire è di certo la soluzione preferibile.

Perché infatti trattare con alleati riottosi, e adottare linee di condotta che li soddisfino, quando con tutta evidenza non sono in grado di aiutare l’America ad esercitare la sua egemonia? Se il potere dell’America è sovrabbondante per qualsiasi compito l’aiuto degli altri non è necessario, e questo consente

17

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di agire senza dover dipendere da nessuno, e decidendo in autonomia gli obiettivi e le modalità del loro perseguimento. Quando il Segretario alla Difesa Rumsfeld parlò di coalition of

the willing, esprimeva un concetto del tutto simile a quello

espresso da Robert Kagan: l’idea centrale sarebbe che gli USA possono agire da soli, senza aiuto, e se qualcuno, di propria volontà, vuole collaborare, deve farlo sotto la direzione ed il comando americano, senza poter ottenere concessioni. Ed in ogni caso l’aiuto fornito dai volenterosi è apprezzato ma ininfluente, di fronte alla immensa forza statunitense.

Un ulteriore aspetto interessante della visione di Kagan riguarda il rapporto tra unilateralismo e potere: come si è visto Kagan giustifica la razionalità dell’unilateralismo sulla base dei semplici rapporti di forza tra USA e resto del mondo; ma sviluppa tali considerazioni in una direzione abbastanza inusuale per un neoconservatore.

Mentre infatti gli americani sono di solito tesi a dimostrare l’eccezionalità del loro paese, e di come esso sia diverso per visione e mentalità dalla “vecchia” Europa, Kagan propone una visione del tutto differente: le differenze tra le due sponde

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dell’Atlantico sono il risultato della grande differenza di potere esistente, e di nient’altro18.

È facile dimostrarlo: agli albori della storia degli USA, il paese ed i suoi primi leader erano molto più inclini a rifarsi al diritto internazionale piuttosto che all’unilateralismo ed all’uso della forza; questi ultimi metodi erano invece molto più usati nel Vecchio Continente.

La spiegazione di ciò è semplice: gli USA dell’inizio del XIX° secolo erano un paese spopolato e debole, incapace di farsi valere tra le grandi potenze di allora. Era quindi giocoforza confidare nel diritto internazionale, che attribuiva gli stessi diritti di sovranità al piccolo paese come al grande. Erano allora le grandi nazioni europee (le massime potenze dell’epoca) a ripiegare sull’azione unilaterale, noncuranti dei diritti di sovranità altrui19, ed il motivo di questo comportamento era ovvio: lo facevano perché potevano farlo.

Ma dopo due secoli la situazione è radicalmente cambiata: gli USA sono una “iperpotenza”, e di conseguenza percepiscono

18

Ibid. , pp.8-11. 19

Gli esempi possono essere innumerevoli: basti pensare all’occupazione francese della Spagna, oppure alla conquista russa della Finlandia svedese, e così via.

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chiaramente i vantaggi dell’unilateralismo, come prima di essi li percepivano Napoleone Bonaparte e lo zar Alessandro I°.

Gli eredi delle potenze europee, un tempo sprezzanti del diritto internazionale, ora vi si appellano invece continuamente ed osservano preoccupati le violazioni dello stesso compiute dagli USA.

I paesi europei, indeboliti e disarmati, hanno ormai deciso di evitare a qualsiasi costo ogni confronto che richieda l’uso della forza, e preferiscono i lenti (e spesso inconcludenti) binari della diplomazia e del rispetto della sovranità altrui, costi quello che costi.

Ma questo avviene a causa della loro debolezza, che non permette verosimilmente alternative: anche se volessero costringere con la forza qualcuno a fare qualcosa, ciò non sarebbe possibile, dato che non hanno mezzi di coercizione per farlo.

Il potere consente di imporre agli altri le proprie condizioni: se lo si ha diviene naturale essere unilateralisti; viceversa quando si è deboli si tende a preferire il ricorso al diritto internazionale, che tutela indipendentemente dalla forza che si possiede.

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Confidare nel diritto internazionale, quando si è deboli, contiene una certa misura di ipocrisia: impegnarsi al rispetto della sovranità altrui in realtà non sarebbe affatto una concessione, in quanto si rinuncerebbe a qualcosa che non si possiede, cioè la possibilità di aggredire chi è più debole20.

Per chi è forte, al contrario, ogni rinuncia diviene un effettivo sacrificio, in quanto si rinuncia a ciò che potrebbe essere effettivamente messo in pratica, magari con grande vantaggio. Quanto detto da Kagan, sul rapporto tra forza e unilateralismo, sembra postulare che, nel malaugurato caso in cui gli USA ricadano in una posizione di debolezza, gli americani possano di nuovo tornare ad apprezzare i vantaggi del rispetto della sovranità e del diritto internazionale.

Naturalmente se Kagan rimane un neoconservatore “anomalo” rispetto agli altri (e proprio per questo individua la differenza tra America ed Europa nei meri rapporti di forza materiali), questa sua “anomalia” rimane parziale: egli infatti introduce successivamente altre considerazioni che ridimensionano in parte quanto da lui detto.

20

Un paese debole non ha infatti la capacità di aggressione di un paese forte, e quindi rinuncia semplicemente a fare quello che non potrebbe fare comunque.

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Secondo Kagan infatti vi sarebbe una differenza tra USA ed Europa, e risiederebbe nel generale disinteresse europeo verso l’accumulazione e lo sviluppo del potere: dato il divario di forza tra le due sponde dell’Atlantico, per gli europei la cosa più logica da farsi sarebbe stato di cercare di ridurre questo gap. Non è quindi strano per Kagan che gli europei confidino nel diritto internazionale: è la risposta delle società più deboli, ed è a suo tempo stata adottata anche dall’America. Lo strano è che gli europei sembrino soddisfatti di tale situazione e che non abbiano interesse a modificarla21.

La causa sarebbe, per Kagan, da ricercarsi nel trauma delle due guerre mondiali, e della successiva creazione della NATO: i due giganteschi conflitti che nel giro di 30 anni distrussero e devastarono tutta l’Europa avrebbero disgustato gli europei a tal punto da distoglierli in maniera duratura dalla politica di potenza; mentre la protezione accordata dagli USA per mezzo della NATO avrebbe disabituato l’Europa a confrontarsi con le minacce esterne, sminuendo l’importanza di queste ultime o addirittura negandone l’esistenza22.

21

Ibid. , p.27. 22

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In Paradiso e Potere si parla molto di questa dicotomia di priorità tra Europa e USA: per gli europei la minaccia più importante è il cambiamento climatico, mentre per gli statunitensi sono il terrorismo e le rogue nations23.

In realtà questa dicotomia, secondo Kagan, sarebbe solo apparente, dato che gli europei possono disinteressarsi delle minacce militari, o riguardanti la sicurezza, in quanto di tali problemi se ne occupano gli USA: senza questa copertura i paesi europei non potrebbero mai permettersi il lusso di affidarsi al diritto internazionale.

Il “paradiso” europeo (cui fa riferimento il titolo dell’opera di Kagan) può disinteressarsi del “potere” in quanto c’è già chi se ne occupa: gli USA; gli europei si limiterebbero a delegare la propria ricerca del potere (e per usare un termine di moda, risolvono il problema del potere mediante una sorta di

outsourcing) ad un soggetto esterno24.

La pretesa europea che il diritto internazionale ed il multilateralismo bastino a preservare la sicurezza sarebbe falsa: è il potere a garantire l’Europa, anche se tratta di un potere esterno.

23

Naturalmente parliamo delle priorità al momento dell’uscita di Paradiso e Potere, nel 2002. 24

(29)

La minaccia americana di usare la forza per difendere l’Europa dall’URSS ha permesso di dissuadere i sovietici dall’invasione, e non altro.

Quindi l’uso della forza (o la minaccia implicita di farlo) e la politica di potenza sono i fondamenti ineliminabili del sistema internazionale, e ogni pretesa che le cose stiano altrimenti è respinta da Kagan come un’illusione: illusione dovuta al sistema di sicurezza mondiale creato dagli USA. Tale sistema (praticamente a costo zero per i paesi compresi in esso) ha garantito la sicurezza ed ha evitato conflitti di grandi proporzioni, risultando di così grande successo che persino i paesi beneficiari non si rendono conto di questa realtà, ed attribuiscono la tranquillità e la pace raggiunti ad una intrinseca stabilità delle relazioni internazionali25, da mantenere mediante multilateralismo e rispetto del diritto internazionale.

Una situazione del genere creerebbe secondo Kagan una pericolosa ambiguità: dato che non vi è una chiara consequenzialità tra il ruolo deterrente del potere americano e la tranquillità che ne deriva, i paesi alleati degli USA, che di questa tranquillità sono i principali beneficiari, tenderebbero a

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guardare con preoccupazione alla politica estera statunitense, a causa del suo attivismo o della sua aggressività.

Paradossalmente, secondo Kagan, questi paesi considerano ormai più pericoloso l’uso della forza da parte americana dei ben più gravi pericoli da cui il potere americano li protegge. La logica di tale impostazione, come dice Kagan, sarebbe anche comprensibile: a tali problemi ci hanno sempre pensato gli USA, e gli europei non hanno mai dovuto preoccuparsene; a causa di ciò le minacce esterne scompaiono dall’orizzonte della classe politica e dell’opinione pubblica europea.

Nella visione di Kagan il mondo sarebbe quindi come lo stato di natura descritto da Hobbes: un mondo dove solo il potere permette di sopravvivere, e dove oasi paradisiache come l’Europa possono esistere solo perché qualcun altro fa il “lavoro sporco”.

Anche in un altro aspetto Kagan riprenderebbe considerazioni fatte da Hobbes nel Leviatano: come il sovrano hobbesiano non è soggetto alla legge (il sovrano non è incluso nel patto che crea il Leviatano statale: riceve i poteri per garantire l’ordine e la sicurezza dei suoi sudditi, ma non è in alcun modo vincolato ad obblighi), gli USA non dovrebbero essere soggetti al diritto

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internazionale (o perlomeno non lo dovrebbero essere in maniera assoluta), in quanto è la loro azione a garantire l’esistenza di questo stesso diritto: se fossero in qualche modo vincolati ad accordi o a regolamenti, la loro azione sarebbe meno efficace, e di conseguenza anche lo stesso diritto internazionale ne risulterebbe indebolito.

Il pericolo di un diritto internazionale che renda inefficace il potere americano è una tematica molto importante per Kagan, che la esprime dettagliatamente sia nel corso di Paradiso e

Potere, come anche nel successivo Il Diritto di fare la Guerra26;

del resto queste considerazioni riecheggiano visioni tipiche del neoconservatorismo.

Ma su questi aspetti (che riguardano anche la legittimità dell’uso della forza da parte americana) si ritornerà più avanti; è più importante ora notare come Kagan, in Paradiso e Potere, presenti una visione caricaturale e stereotipata degli atteggiamenti americani ed europei; l’idea di un mondo europeo completamente distolto dall’uso della forza e dalla ricerca del

26

Robert Kagan, Il Diritto di Fare la Guerra, Mondatori, Milano 2004;

Nonostante il titolo di quest’opera sia più “minaccioso” rispetto a Paradiso e Potere, essa, a tutti gli effetti, ha lo scopo di correggere il tiro rispetto a quanto detto in precedenza: la guerra in Iraq comincia ad andare male e lo strappo con i paesi europei si è rivelato più grave e dannoso di quanto previsto precedentemente da Kagan, che saggiamente ne tiene conto.

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potere (nonché totalmente disarmato) è falsa, come ci dimostrano anche solo pochi esempi.

In effetti molte nazioni europee hanno mantenuto un’attitudine alla ricerca del potere: basti pensare al programma nucleare francese, oppure alla riconquista inglese delle Falklands; né si può criticare paesi europei come la Germania tacciandoli di renitenza a difendersi, dato che durante la Guerra Fredda la RFT contribuì in maniera sostanziale all’irrobustimento delle difese NATO in Europa Centrale (di cui la Bundeswehr costituiva, in tempo di pace, il potente nocciolo duro), e dedicava una fetta enorme del proprio PIL alle spese militari, frazione in proporzione più grande persino di quella statunitense. In ogni caso l’Europa non sarebbe così indifesa come le parole di Kagan farebbero pensare: mettendo insieme tutte le capacità militari dei paesi europei (contando solo quelli appartenenti alla Unione Europea) si ottiene una potenza seconda solo a quella statunitense.

Se in senso assoluto le parole di Kagan sono false, bisogna però notare come in effetti contengano un nocciolo di verità: in effetti è vero che per i paesi europei il ricorso alla forza (perlomeno di propria iniziativa) è una possibilità molto remota,

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e che dagli anni ’60 in poi solo Francia e Regno Unito vi hanno fatto ricorso in maniera sistematica27.

Ma la motivazione non è l’assenza di capacità militari europee28: una causa importante sarebbe invece la mancanza di coesione tra i vari paesi UE, coniugata al forte attaccamento mostrato da molti di questi paesi (soprattutto Regno Unito e paesi dell’Est) al legame transatlantico, che li porta spesso a privilegiare l’azione guidata dagli USA piuttosto che un’azione paneuropea.

Ma anche a prescindere da questo, non si può non notare la riluttanza europea all’azione diretta, che di norma porta alla fine ad accodarsi all’azione americana o comunque a non ostacolarla più di tanto.

Di conseguenza Kagan non ha tutti i torti: l’Europa non può opporsi29 alle decisioni USA né bloccarle, vuoi per mancanza di coesione interna, vuoi per la notevole forza che mantiene il

27

E anch’esse solo in contesti particolari, cioè nell’ambito dei loro ex-imperi coloniali, e contro forze e fazioni molto più deboli.

28

Kagan ritiene l’Europa indifesa in quanto le sue forze militari non sono all’altezza di quelle USA; una tale argomentazione è però capziosa: gli USA sono una superpotenza globale, e ritenere le sue forze armate l’unico termine di paragone è poco sensato. A tutti gli effetti le forze europee (mettendo insieme quelle dei vari paesi) sono all’altezza di ogni minaccia attualmente possibile, persino senza l’intervento statunitense.

29

L’opposizione di singoli paesi (come Francia e Germania) può al limite rendere più difficoltosa l’azione americana ma non bloccarla indefinitamente.

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legame transatlantico (e che rende difficile, per le elite governative, opporsi agli Stati Uniti).

Ma le ragioni che giustificano tale situazione sono molto più complesse di quelle esplicitate da Kagan, le quali (pur contenendo considerazioni pertinenti) rischiano spesso di sfociare, come si è detto, nella caricatura.

Punti critici.

Kagan non ritiene30 l’Europa in grado di contrastare la strategia statunitense, ma nelle sue considerazioni possiamo comunque individuare principalmente due gravi pecche:

A) Innanzitutto il problema della legittimità dell’uso statunitense della forza: l’approvazione degli altri è veramente irrilevante di fronte al grande potere dell’America31? Cosa succede se gli USA si alienano così l’appoggio dei propri alleati?

B) Inoltre l’unilateralismo USA (su cui si basa tutta la strategia neoconservatrice di supremazia mondiale) funziona solo se la forza ed il potere a disposizione dell’America rimangono

30

Naturalmente al momento della stesura di Paradiso e Potere. 31

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sufficienti ad affrontare tutti i problemi globali32. Ma che cosa succede se tale potere non è sufficiente, oppure se incontra avversari che non è preparato ad affrontare33? Cosa succede all’America se non è abbastanza forte da gestire in prima persona tutte le minacce e le instabilità?

In realtà separare questi due problemi è artificioso: sono due aspetti della stessa questione.

Se infatti il potere statunitense non risulta sufficiente per agire unilateralmente, ne consegue che l’agenda neoconservatrice diviene inapplicabile; ma se succede questo, allora gli USA, per compensare il loro relativo indebolimento, saranno costretti di nuovo ad appoggiarsi ai numerosi alleati sparsi per il globo, e la questione della legittimità ritorna in primo piano: se l’aiuto degli alleati è indispensabile, la loro opinione non è più da considerarsi irrilevante.

32

E si è visto che in effetti non è così: la stessa RAD del 2000 presentava come tesi centrale proprio l’insufficienza di tale forza.

33

A tale riguardo è interessante notare come le Forze Armate americane mostrino una cronica inefficacia nella lotta COIN (COunter INsurgency), ovvero la lotta antiguerriglia: altri paesi infatti hanno mostrato ben altre capacità in tale ambito, persino quando le risorse disponibili erano molto inferiori a quelle statunitensi. Basti pensare al Regno Unito o ai recenti successi della Russia contro gli estremisti ceceni.

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