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CAPITOLO I ROM E SINTI E SOCIETA’ MAGGIORITARIA: SINTESI DELLA SITUAZIONE ITALIANA

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CAPITOLO I

ROM E SINTI E SOCIETA’ MAGGIORITARIA: SINTESI DELLA

SITUAZIONE ITALIANA

1.1 LE RADICI EUROPEE DELL’IDENTITA’ ROM E SINTA

I Rom e Sinti, sono stati definiti “zingari”, eteronomo che ha una connotazione fortemente negativa, da parte dei non-Rom e non - Sinti e ne hanno dovuto subire il grave stigma, fin dalla loro prima comparsa in Europa fra XIV e XV secolo.

Il lavoro di tesi si limiterà all’analisi della situazione italiana, a partire dalla prima promulgazione delle leggi per la creazione di campi-sosta negli anni ’90 del XX secolo, alla regressione ziganofoba e securitaria contemporanea. Precondizione essenziale per comprendere l’evoluzione degli avvenimenti in Italia è però la contestualizzazione all’interno del quadro europeo.

Cominciare a parlare delle relazioni fra Rom e non Rom, attraverso una ricostruzione storica rapida e sommaria della storia europea di questo rapporto, ha un duplice significato, che esula da qualsiasi pretesa di onniscienza sui Rom e Sinti. Innanzitutto la stessa denominazione “Rom e Sinti” nasce dal consolidamento dell’identità collettiva di un popolo, per molti versi assolutamente eterogeneo, presente su tutto il territorio europeo. L’idea di un’unità di fondo viene lanciata alla fine del secolo XV da alcuni studiosi europei non-Rom, che trovarono nel romané ( la lingua comune di Rom e Sinti ) molti elementi in comune col sanscrito.

Anche se fatta propria dal movimento europeo dei Rom che si sviluppa a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, la tesi delle origini indiane, nata in un ambiente di intellettuali gagé, non è stata sicuramente il collante principale per la nascita del movimento di Rom e Sinti. L’antropologo italiano Leonardo Piasere definisce il termine “ zingari” come una categoria politetica, cioè un insieme dai tratti assolutamente eterogenei che raggruppa persone diverse per cultura, provenienza, religione, costumi e tradizioni, che tuttavia si assomigliano per “qualcosa”. Questo “ qualcosa”, il nucleo concettuale del termine “ zingari”, rappresenta anche il collante principale nella nascita, nella formazione e nello sviluppo dell’identità transnazionale dei Rom ( in particolare in Europa). Scrive Piasere:

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“La flessibilità della struttura concettuale ( del termine zingari) ha permesso di includervi storicamente una varietà abbastanza composita di persone, con diversità culturali anche notevoli, il cui unico tratto comune è consistito, forse, in una stigmatizzazione negativa da parte di chi non si

considerava zingaro. Tale atteggiamento negativo diffuso a livello di senso comhune si è spesso accompagnato a una visione letteraria romanticizzata dello zingaro tutto passione e libertà (…). La categoria di “ zingari” appare dunque come una categoria esterna, da decostruire per poi ricostruirla inglobandovi movimenti rom di diverso tipo; ma da questa costruzione esterna dovremo partire poiché è in seguito ad essa che i rom hanno condiviso sorti analoghe in Europa.”1

Nella misura in cui il termine zingari ha inscritto in sé la storia del pregiudizio millenario delle società maggioritarie ( in senso numerico), decostruire il termine zingari significa non solo riflettere sulla storia europea di Rom e Sinti, per capire attraverso quali processi si è formata la loro identità transnazionale, ma anche, e forse soprattutto, decostruire il processo di formazione delle stesse identità nazionali. Secondo lo storico polacco Bronislaw Geremek,

“… la politica nei confronti degli zingari rappresenta certamente un aspetto rilevante del processo di formazione degli Stati moderni”.2

Decostruire tale termine significa inoltre rendersi conto della molteplicità e dell’eterogeneità delle identità Rom e Sinte, identità in grado di assorbire elementi dai differenti contesti nazionali e locali, senza mai perdere uno spirito di unità a livello transnazionale. In poche parole significa rendersi conto del cosmopolitismo delle identità Rom. In confronto ad un supposto “spirito europeista” della società maggioritaria, che non solo non ha mai veramente messo solide radici, ma anzi sembra spesso essere stato apertamente rigettato a favore di un campanilismo stato-centrico e/o etno-centrico, emerge a contrasto proprio uno spiccata coscienza europea da parte di Rom e Sinti. Per essi l’Europa è l’ambito di riferimento, sia per i movimenti di rivendicazione dei propri diritti fondamentali (almeno a partire dagli anni ’70)3, sia per la composizione e ricomposizione dei propri percorsi migratori.

1 Leonardo Piasere, I Rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Bari 2004 . 2 Bronislav Geremek, Uomini senza padrone, Einaudi, Torino 1992.

3 I diritti che i movimenti Rom e Sinti rivendicano possono essere raggruppati tutti sotto la

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Naturalmente l’identità europea è assunta con diverse gradi di identificazione a seconda dello status sociale e del livello di istruzione di ogni Rom e Sinto. Esemplificando, un intellettuale Rom vedrà l’Europa come un sistema di istituzioni sovranazionali attraverso e presso le quali fare valere i propri diritti; un profugo della ex- Jugoslavia che vive in Italia e ha parenti in Germania e Belgio, probabilmente vedrà l’ Europa con occhi un po’ più disillusi. Le due prospettive sono dissimili , ma per molti versi complementari.4

Guardare all’Europa è necessario anche per riconoscere i percorsi migratori di Rom e Sinti arrivati in Italia negli ultimi anni. Anche in questo caso, lo scopo non è quello di ricostruire la provenienza per catalogare le persone, bensì di fornire un ulteriore elemento per comprendere la molteplicità delle storie e delle culture che si nascondono sotto il nome di Rom e Sinti. Il tentativo fondamentale di questa prima parte è infatti proprio quello di superare l’immagine dei Rom e dei Sinti come una massa più o meno informe di persone senza storia, né storie, senza origini, né cultura, troppo spesso veicolata dai mezzi di informazione.

1.2 I CITTADINI PROPRIETARI E IL SEQUESTRO DEI DIRITTI E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI IN ITALIA.

La parte centrale della tesi sarà invece rivolta all’analisi della situazione italiana ed in particolare del clima di odio razziale verso Rom e Sinti instauratosi con estrema virulenza negli ultimi tre anni. La riflessione è prevalentemente incentrata sui Rom che vivono nei cosiddetti “campi nomadi”, anche se, contrariamente a quanto la maggior parte dell’opinione pubblica italiana ritiene, si tratta di una piccola minoranza rispetto al totale della popolazione Rom residente in Italia. Secondo le stime riportate da Zoran Lapov5 i Rom in Italia sono infatti approssimativamente lo 0,17% di tutta la popolazione italiana, una delle più basse percentuali di tutta l’Europa. Circa 70.000 persone appartengono alle comunità di Rom e Sinti arrivati in

avere diritti”. Vedremo in seguito come la rivendicazione dei diritti delle popolazioni autoctone non Rom e Sinte abbia tutt’altro significato.

4 Complementari in quanto l’esperienza dei profughi di guerra, o quella dei Rom che fuggono da

condizioni di estrema povertà ed emarginazione, rappresentano le ragioni dell’esistenza dei movimenti Rom per la protezione dei diritti umani e la promozione del protagonismo di Rom e Sinti nella vita sociale e civile dei paesi europei dove vivono. Se non esistessero discriminazioni e se i Rom ovunque in Europa non fossero costretti a vivere in condizioni di subalternità, probabilmente non esisterebbero nemmeno gli intellettuali Rom che si battono per un miglioramento di queste condizioni.

5 Zoran Lapov , Vacare Romané? Diversità a confronto. Percorsi delle identità Rom, Franco Angeli,

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Italia a partire dal secolo XV e fino agli inizi del secolo scorso, risultando pertanto cittadini italiani, mentre i restanti 40.000 sono i Rom arrivati nei decenni recenti (dagli anni ‘60 in poi)soprattutto dalla ex –Yugoslavia .Tuttavia il sistema informativo italiano diffonde fra la gente la convinzione che tutti ( o quasi) i Rom presenti in Italia siano stranieri e vivano nei “campi nomadi”.

Si è scelto quindi di esaminare estesamente la condizione dei Rom e dei Sinti che vivono nei campi nomadi non perché sia “l’habitat tipico dei Rom”, come vogliono far credere stampa e televisioni italiane, bensì perché storicamente e socialmente è la condizione emblema dell’emarginazione nella quale essi sono stati costretti a sopravvivere. Emarginare centinaia di persone in grandi campi-ghetto costruiti ai margini delle città, rendere loro quasi impossibile l’accesso ai servizi essenziali, ad un alloggio decente e soprattutto impedire loro di contribuire alla vita sociale e politica delle città, è un’operazione che, contrariamente da quanto proclamato in modo ipocrita da alcuni politici, fa comodo alla società.

Separare e tenere sotto scacco queste comunità consente di non modificare i rapporti di potere e l’ordine costituito, di mantenere e consolidare i privilegi ( e i pregiudizi) dei cittadini non Rom (sia “borghesi” che “operai”), in altre parole di rafforzare i muri identitari e sostenere il divario morale fra chi ha potere e chi no . D’altra parte, la strategia della segregazione consente anche ad una parte della società maggioritaria di proclamarsi paladina dell’integrazione e dell’antirazzismo, pur non entrando in contraddizione con il quadro generale della strategia stessa. La superiorità anche morale della cultura non-Rom rispetto a quella Rom viene suffragata dalle azioni intraprese da istituzioni civili e religiose, cooperative e singoli, per impedire che il degrado e le difficili condizioni di vita provochino rivolte e/o problemi di ordine pubblico.

L’azione di queste componenti della società maggioritaria suona più o meno così: “ Noi ti assistiamo, ti aiutiamo a rimanere nello stato di minorità nel quale ti abbiamo costretto, dandoti sollievo materiale e persino rispettabilità sociale, se tu saprai mantenere il silenzio, non avanzare proposte o richieste al di fuori di quelle che noi ti abbiamo indicato, e non pretendere di scegliere il tuo futuro e quello dei tuoi figli. Così facendo tu ti integrerai magnificamente, restando zingaro, ma diventando uno zingaro civile. Noi avremo dimostrato di essere aperti, tolleranti, ricolmi di carità cristiana e antirazzisti, tu di rispettare le nostre regole, la nostra Patria, la nostra Volontà, la nostra ricchezza e il nostro potere. Sia a te che a noi spetterà un posto in paradiso.” E cosi il cerchio si chiude.

L’emarginazione di Rom e Sinti svolge dunque due funzioni opposte, ma entrambe necessarie al rafforzamento dello status quo. Da un lato dà infatti adito al discorso razzista

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nelle sue molteplici espressioni, velate od esplicite, che autoalimenta l’emarginazione stessa offrendo alla società un facile capro espiatorio al quale addossare tutti i suoi malanni. Dall’altro funge da ancora di salvezza morale per la società, per riscattarla da quello stesso razzismo che l’attraversa in tutte le sue parti, senza però dover mettere in discussione i meccanismi per cui la discriminazione e il razzismo si perpetuano all’infinito e senza modificare i rapporti di potere esistenti.

L’identità della cultura maggioritaria esce così rinfrancata e trionfante da tutti i dibattiti televisivi e nelle arene pubbliche, anche perché nella quasi totalità dei casi, il confronto-scontro è tutto interno ai membri di quella stessa cultura. Ai Rom e ai Sinti non è dato praticamente mai di esprimere le proprie idee pubblicamente, e se lo fanno non viene dato spazio al loro modo di vedere le cose. Eventualmente, soltanto altri soggetti parlano per loro e su di loro.

A partire dagli anni ’90, si è imposto lentamente sia a livello globale che locale, un nuovo modello di gestione della cosa pubblica, che ricerca il coinvolgimento diretto dei cittadini. Questo modello mira a sostituire il tradizionale approccio di rappresentanza per delega a politici di professione, tipico delle democrazie parlamentari, con un approccio partecipativo che incoraggi ogni cittadino ad intervenire in prima persona nel dibattito politico, senza lasciare che nessuno parli per lui. La democrazia partecipativa, tuttavia, lungi dal modificare sostanzialmente i meccanismi su cui si basa la democrazia rappresentativa, ne sposta solamente più in là le gravi impasse che comunque permangono. Infatti, l’enfasi sulla partecipazione della popolazione nei processi decisionali non affronta la spinosa questione di chi abbia la facoltà di partecipare, in sintesi di chi siano i cittadini. I processi attraverso i quali si acquisisce il diritto di partecipare, o meglio il diritto di avere dei diritti nella società democratica, non vengono minimamente svelati da questo nuovo approccio.

Si alimenta in questo modo il dubbio che ad avere il diritto di partecipare siano sempre e soltanto coloro che votano, o più estesamente le élites al potere e coloro esse decidono di rappresentare . Per tutti gli altri, per quelli che legalmente non sono cittadini, per coloro che non hanno diritto di voto, ma anche per chi non ha rappresentanti al potere, non è prevista un’ “agorà” dove partecipare. Infatti anche se il 60% dei Rom e Sinti presenti in Italia sono cittadini italiani, essi continuano a scontare un’esclusione su base etnica e razziale che li vorrebbe geneticamente asociali, cioè per definizione incompatibili con la partecipazione alla vita politica e sociale dello Stato.

Inoltre, dato questo tutt’altro che secondario, essi in quanto Rom e Sinti non beneficiano dell’appoggio di nessuno Stato-nazione, nel duplice senso che le diverse provenienze

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nazionali hanno un peso veramente esiguo nella formazione dell’ identità del loro popolo, e nel senso che qualsiasi sia lo Stato nel quale vivono, essi sono spesso emarginati e discriminati, se non considerati proprio un corpo estraneo. I recenti accadimenti avvenuti in Italia, le espulsioni di massa verso la Romania che ne sono seguite e le manifestazioni di antiziganismo che si sono avute in entrambi i paesi ne sono la conferma.

In secondo luogo, l’esaltare la partecipazione in quanto tale, nulla ci dice sul come e sul perché si partecipa, o meglio sul significato che i cittadini danno a quest’azione ed in che rapporto stanno con l’atto del partecipare. La qualità e il senso dell’azione politica sono fondamentali se non si vogliono confondere i mezzi con i fini. Il fine della partecipazione dovrebbe essere quello di mettere in relazione, intesa sia come dialogo che come conflitto, le diverse istanze e voci presenti nella società, e queste con i centri di potere politico e decisionale. Il processo partecipativo in una società realmente democratica dovrebbe garantire a tutte le voci di esprimersi e di venire ascoltate, impedendo le prevaricazione di alcune componenti sulle altre.

In realtà si assiste purtroppo a un processo di riduzione della partecipazione a mera rivendicazione di diritti. La proliferazione dei diritti nelle società occidentali moderne ha contribuito ad uno loro trasformazione radicale da diritti a privilegi, ossia li ha resi sempre meno universali e sempre più legati ad interessi particolari: all’essere cittadini di uno Stato, cittadini di una regione, membri di questa o quella comunità locale. Concretamente ciò è potuto avvenire attraverso il sequestro del discorso sui diritti da parte delle frange più conservatrici della società, incentivato anche dai proclami dei partiti nazionalisti e secessionisti6 .

La titolarità dei diritti si acquisisce attraverso la cittadinanza, che è una costruzione tutta interna agli stati-nazione. Ecco perché i diritti assomigliano sempre di più ad un bene privato dei cittadini dello Stato, la cui titolarità è conferita appunto dall’appartenenza allo Stato stesso. La proprietà privata dei diritti ( su base locale o nazionale) da molti è stata scambiata per la vera essenza della democrazia; potendo quindi legittimamente reclamarli e poi rivendicarli soltanto per sé, ovvero solamente per i cittadini, tali diritti rivelano infine la loro vera natura di privilegi che difficilmente verranno messi in discussione. In ultima analisi i diritti perdono

6 Con l’espressione “sequestro del discorso sui diritti” si intende un particolare tipo di discorso

politico, di matrice reazionaria e demagogica, che fa leva sulla rivendicazione di diritti di origine localistica o nazionale per esaltare le passioni identitarie e lo spirito patriottico. Il riferimento obbligato è qui a quei partiti come Lega Nord, Forza Nuova e Alleanza Nazionale i quali hanno come principale valore/obbiettivo l’orgoglio “italiano” o “padano” dei cittadini. Tuttavia l’evoluzione delle democrazie, Italia in testa, va nella direzione di una piattaforma comune a tutte le formazioni partitiche, che vede nell’orgoglio nazionale e occidentale uno dei valori base da difendere.

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definitivamente la caratteristica dell’universalità e dell’inalienabilità, in altre parole cessano di essere diritti.

La partecipazione così intesa diviene dunque il riproporre, il riaffermare nello spazio pubblico, la propria identità di esclusivi detentori di privilegi, di fronte a chi, sia esso un escluso o un amministratore distratto, mette in dubbio la supremazia dei cittadini; essa non implica nessun confronto fra forze diverse, ma solo la reiterazione ossessiva di una norma sociale.

Jean Paule Sartre, nella sua opera Réflexions sur la question juive nella quale analizza le ideologie antisemite e il ruolo che queste hanno all’interno della società francese “democratica”, spiega in che cosa consista il senso d’appartenenza ed il legame fra connazionali secondo l’ottica antisemita:

“ Egli ( l’antisemita) non comprende affatto la divisione del lavoro e non se ne cura: per lui se può rivendicare il titolo di francese non è perché coopera, al proprio posto, nel proprio mestiere e con tutti gli altri, alla vita economica, sociale e culturale della nazione, ma perché ha, allo stesso titolo di ciascun altro, un diritto imprescrittibile ed innato sulla totalità indivisa del paese.(…)Il fatto è che la comunità egualitaria a cui si richiama l’antisemita è del tipo delle folle o di quelle società istantanee che sorgono in occasione di un linciaggio o di uno scandalo.(…). Il legame sociale è la collera: la collettività non ha altro scopo che quello di esercitare su determinati individui una sanzione repressiva diffusa(…). Egli aspira a fondere senza residui la sua persona nel gruppo e ad essere trascinato nella corrente collettiva. E’ questa atmosfera da pogrom che ha davanti agli occhi quando reclama “l’unione di tutti i francesi”.7

La cosiddetta “emergenza Rom” declinata localmente, ha dato luogo in Italia negli ultimi anni ad un proliferare di dibattiti televisivi, a confronti e scontri su blog e siti Internet, a sit-in, manifestazioni, presidi permanenti davanti agli insediamenti delle comunità Rom, a striscioni negli stadi, fino ad arrivare ad azioni apertamente violente ed illegali( ma tollerate attraverso strategie discorsive di minimizzazione ) come il lancio di sassi e persino di bombe incendiarie verso gli insediamenti.

Si sta facendo largo nelle coscienze nazionali la percezione di avere un nuovo diritto non scritto e cioè il diritto a non avere nel proprio quartiere o paese un insediamento Rom. Infatti l’azione di molte comunità locali per respingere e/o espellere i Rom ha avuto buon gioco, nella maggioranza schiacciante dei casi, grazie all’appoggio quasi incondizionato degli

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amministratori locali e del governo nazionale. A rafforzare questa tendenza, vi sono i rari casi nei quali, quando la cittadinanza “deve tollerare” la vicinanza di un insediamento Rom, la situazione è sentita come un grave mancanza nell’esercizio del potere da parte delle istituzioni. In questo caso nasce immediatamente una specie di “diritto di risarcimento” per i danni economici e sociali subiti ; si ha cioè diritto a reclamare (di solito attraverso la formazione di appositi Comitati cittadini) e a pretendere speciali misure di polizia e sorveglianza del territorio8.

Le istituzioni tutelano e garantiscono il diritto della cittadinanza a discriminare altre persone. Seguendo la prospettiva adottata si comprende quanto ingannevole e ambiguo sia il discorso politico sulla legalità che spesso accomuna le componenti di centro-destra e di centro-sinistra della politica italiana. La legalità nell’accezione dei politici comprende un insieme ben delimitato di norme e leggi che riguardano un nucleo ancora più delimitato di persone.

Gli abusi da parte delle forze dell’ordine, gli incitamenti all’odio razziale, le discriminazioni su base etnica, sembrano essere fatti che non costituiscono delle gravi trasgressioni delle leggi nazionali, oltre che delle convenzioni internazionali, delle raccomandazioni e delle linee guida decise a livello europeo9. La retorica della legalità viene usata come bandiera per effettuare sgomberi improvvisi di insediamenti Rom alle periferie delle città ed eseguire espulsioni di massa, pratica questa di estrema gravità, in più sedi condannata dall’Unione Europea.

Numerosi uomini politici, molti intellettuali e redattori di quotidiani nazionali, persino esponenti di organizzazioni caritatevoli, giustificano ed illustrano questi provvedimenti ai limiti della legalità (nel caso delle perquisizioni improvvise) o apertamente illegali(nel caso degli sgomberi senza adeguato preavviso né motivazione) e gravemente illegali (come le espulsioni immediate di massa di intere comunità), come ultima carta rimasta per prevenire le “gravi minacce alla sicurezza dello Stato” o per combattere il terrorismo o “per motivi imperativi di pubblica sicurezza”10 determinati da reati gravissimi quali l’accattonaggio, il

commercio senza licenza e i piccoli furti !

8 Si vedano i molti episodi citati e discussi nella trasmissione televisiva “ Dàgli allo Zingaro” ( rete

La7, “L’Infedele”, conduttore Gad Lerner)

9 Si veda in Appendice la Risoluzione del Parlamento europeo del 31 gennaio 2008: “ Una strategia

europea per i rom”.

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Attraverso decreti leggi, approvati in maniera tempestiva ed improvvisa dal Governo italiano, senza previa discussione parlamentare, e alla loro estensiva applicazione su tutto il territorio nazionale da parte delle forze dell’ordine, dei prefetti e dei questori, si compie uno stravolgimento del significato delle norme stabilite a livello europeo11. La giustificazione che

viene richiamata per l’adozione di tali provvedimenti, che riconoscono ai prefetti il potere di espellere cittadini comunitari qualora lo ritengano necessario, è la prevenzione di gravi atti criminali che possano minare la sicurezza dei cittadini dello Stato. Durante la conferenza stampa di presentazione del decreto-legge n. 181, il ministro degli Interni Giuliano Amato ha dichiarato:

“ …vogliamo essere in condizione di espellere prima che accadano ancora episodi simili, ma serve il potere di espulsione urgente per evitare che cose del genere possano ripetersi (…). Sia a Roma che in altre città si sono formati sottoboschi di persone che vivono in realtà di delinquenza. Noi vogliamo essere in grado di espellerli prima che altri fatti accadano.”12

Vi sono due importanti presupposti che sottendono queste affermazioni. Il primo è che la prevenzione del crimine possa essere attuata e garantita mediante provvedimenti di espulsione. Il secondo è che vi siano masse, gruppi di persone da espellere per prevenire il crimine. In realtà secondo la Risoluzione del Parlamento Europeo del 15 novembre 2007 sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri :

“…tutte le misure prese devono rispettare il principio di proporzionalità e devono essere basate solamente sulla condotta personale dell’individuo interessato e senza tener conto di considerazioni di prevenzione generale”

A ben guardare infatti, non si capisce come l’espulsione di un individuo, che dovrebbe essere l’ultimo atto di una strategia punitiva, possa diventare il simbolo di una strategia preventiva di lotta alla criminalità. Prevenire significa rimuovere le cause che conducono le persone ad avere comportamenti contrari alle leggi. Considerare l’espulsione di un individuo come una forma di prevenzione e non come una punizione per qualcosa che ha commesso,

11 Si veda in particolare la Direttiva 2004/38 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile

2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare liberamente nel territorio degli Stati membri e direttiva 2000/43/CE del Consiglio dell’Unione Europea che attua il principio della parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

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significa dunque superare la stessa ottica securitaria del vivere civile per porre le basi della xenofobia e della discriminazione. Viene infatti decretato per legge che le persone che vivono in condizioni di marginalità e che non godono del privilegio della nazionalità italiana, devono essere espulse perché “naturalmente” delinquenti.

Si va delineando un quadro di una vera e propria strategia della paura. Una paura duplice: quella dei potenziali criminali che eviterebbero di delinquere per sfuggire all’espulsione dallo Stato ospitante, ma anche quella dei cittadini italiani i quali vengono convinti da politici, intellettuali e mass media che nelle città dove vivono esistono categorie di individui predisposti a delinquere.

Chi sono questi individui che devono essere espulsi in quanto potrebbero arrecare una minaccia grave alla sicurezza dello Stato? Sono coloro che formano “i sottoboschi di persone che vivono in una realtà di delinquenza”. Nel novembre del 2007, con il contributo attivo dei media nazionali, l’immagine dei “sottoboschi”, proposta da Amato, assume i contorni chiari e precisi dei campi Rom alle periferie di Roma e delle altre città italiane. Non passa giorno nel quale i telegiornali nazionali non mostrino immagini di sgomberi di massa di campi-Rom, con primi piani di ruspe in azione per demolire le baracche e le roulottes dove fino a quel momento avevano vissuto intere comunità di persone. A corollario di queste immagini, raramente si dà voce agli abitanti del campo. Quando ciò accade, talvolta le risposte tentano di proteggere la propria comunità, gettando discredito su di un’altra, e quindi evidenziando gli stessi pregiudizi e stereotipi con i quali la società maggioritaria li ha etichettati.

In questo senso sono significative sia le interviste rivolte a Rom di altri campi diversi da quello di Tor di Quinto, sia quelle rivolte a rumeni non di etnia Rom. In entrambe le situazioni, la mossa adottata è quella di confermare la validità dello stigma, ma rivolgendolo a gruppi esterni al proprio. La mossa ha il duplice fine di proteggere la comunità alla quale si appartiene di fronte a minacce così gravi come quella di essere cacciati dal paese e quello di confermare almeno in parte la tesi del gagé, in posizione di indubbio vantaggio, con la conseguenza di rinsaldarlo nel proprio pregiudizio. Questo genere di autodifesa, consistente nel difendere il gruppo al quale si appartiene, confermando la validità delle accuse, cioè dei pregiudizi della società maggioritaria, ma rigettandoli a gruppi esterni al proprio, è un drammatico indicatore dello stato di assoggettamento psicologico e culturale delle minoranze presenti in uno Stato.

Tali strategie difensive riflettono una perdita di libertà di pensiero e di opinione dei gruppi marginali. Costretti a subire le minacce, i ricatti e le restrizioni alla propria libertà di movimento, per continuare a sopravvivere in Italia, essi non sono più in grado di denunciare

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apertamente la falsità delle accuse rivolte loro dalla società maggioritaria, né di difendersi al di fuori e contro le linee guida del discorso pubblico dominante. Per gli strati più poveri ed illetterati delle comunità Rom presenti in Italia, che sono precisamente coloro che vivono nei grandi campi ghetto, l’unica strategia di difesa possibile è fare propri i meccanismi del pregiudizio della società maggioritaria, riversandoli su sottogruppi ancora più emarginati del proprio13.

Fondamentale è il ruolo dell’informazione, in questa diffusione del pregiudizio e della paura: in seguito ad una violenta pressione mediatica, che tende a criminalizzare centinaia di persone emarginate, l’opinione pubblica si scopre improvvisamente circondata, invasa, minacciata. A sua volta il comune sentire, la cosiddetta “percezione” della paura, trasversale agli status sociali degli italiani non-Rom, diventa il paravento dietro il quale governanti, amministratori e istituzioni di vario tipo, si nascondono per riprodurre politiche in sintonia con la volontà degli italiani.

Nell’interesse di tutti, si dice, non è possibile né auspicabile adottare leggi e politiche coraggiose per favorire la reale integrazione fra Rom e non-Rom. L’inserimento di mediatori culturali Rom nelle scuole o politiche abitative alternative ai campi-ghetto, farebbero insorgere la gente. Si dice che è necessario andare per gradi, ascoltare le paure e i risentimenti della gente e pervenire a compromessi. Il risultato dei compromessi, ricercati insistentemente dagli anni ‘60 ad oggi, è stato la creazione di campi–ghetto autorizzati di medie e grandi dimensioni, alcuni dei quali provvisti di servizi igienici e docce, nei quali si ammassavano e si ammassano Rom provenienti da diverse aree geografiche, senza alcun riguardo alla parentela o ad altri elementi di affinità, e una serie di politiche di assistenza che hanno perpetuato la subordinazione e l’ emarginazione sociale di queste popolazioni.

13 Un esempio è fornito dalla discriminazione subita all’interno del campo Rom di Coltano, vicino a

Pisa, dalla comunità di Rom bosniaci, accusati e discriminati dalle comunità macedoni e kossovare proprio come “zingari”. Tuttavia le divisioni, intese unicamente come discriminazioni e conflitti e non come differenze di cultura e tradizioni, all’interno di molti campi Rom, sono il riflesso di una lotta per la conquista di risorse scarse o scarsissime, come gli aiuti assistenziali da parte dei comuni o come il rispetto da parte delle popolazioni locali non Rom. Alla luce di queste considerazioni, si comprendono i conflitti che nascono quando i campi ghetto diventano contenitori di grandi dimensioni . Spesso questi grandi campi, dove vivono centinaia di persone, sono la facile e inaccettabile soluzione delle amministrazioni comunali e provinciali al problema della convivenza civile e dell’integrazione (vedi ad esempio campo di Via Triboniano a Milano); altre volte sono semplicemente il risultato di decenni di discriminazione abitativa e sociale che si concretizza nella crescita spontanea di campi Rom ai margini delle città, in seguito a successive ondate migratorie (vedi il campo di Oratoio a Pisa). In questi “non-luoghi”, emblemi dell’emarginazione, è ovvio che si scatenino facilmente conflitti interni, come conseguenza della lotta per accaparrarsi le poche risorse disponibili.

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All’inizio del terzo capitolo di Non-persone, Alessandro Dal Lago introduce una citazione dal romanzo Sola andata di D. van Cauwelaert:

“ E mi ha spiegato in due parole che per lottare contro il razzismo in Francia bisognava rimandare a casa gli immigrati. Ho continuato a tacere ma mi sembrava strano lottare contro un’idea, mettendola in pratica.14

Nella frase sopra citata è riassunto il congegno attraverso il quale i membri delle élites al potere giustificano e riproducono la discriminazione razziale degli stranieri, e dei Rom e Sinti in particolare: dietro un antirazzismo formale e di facciata, si praticano politiche che forniscono al razzismo concreto la legittimazione sociale e politica e le basi economiche, culturali e legislative affinché si riproduca.

Il sociologo olandese Teun van Dijk, nel suo Il discorso razzista, un piccolo, ma densissimo saggio sulla riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, spiega il funzionamento dei discorsi demagogici delle élites per quanto riguarda l’immigrazione:

“ Ad esempio, una delle presunte ragioni per cui l’élite politica può desiderare di ridurre l’immigrazione è da un lato quella di “difendere dal razzismo ( o meglio, da un suo aumento ) le minoranze etniche già residenti nel paese”, e dall’altro quello di “difendere la popolazione bianca residente nei ghetti urbani da ulteriori problemi connessi alla presenza di stranieri”. Il processo ideologico qui in atto è quello di dissimulare e di trasferire azioni ed atteggiamenti razzisti dall’élite alla classe operaia. Chiaramente, un’attiva politica mirata a “ tener fuori” gli stranieri soddisfa i pregiudizi della classe operaia bianca e, al tempo stesso, contribuisce ad una positiva presentazione di sé da parte dell’élite più liberal, sottolineandone (com’ è ovvio) il rifiuto del razzismo.”15

Nelle interviste rilasciate a Milano da esponenti delle istituzioni caritatevoli e da personaggi politici locali “ progressisti”, spesso l’adozione di azioni restrittive e discriminatorie nei riguardi di Rom e Sinti è stata giustificata proprio attraverso il processo descritto da Teun van Dijk. Nella lotta al razzismo e alle discriminazioni, non si può non tener conto che si tratta di fenomeni diffusi fra i cittadini non Rom e dunque nell’interesse di tutti, sia per evitare derive xenofobe, sia per non discriminare al contrario gli italiani, bisogna

14 Alessandro Dal Lago, Non–persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano,

Feltrinelli 2005, p.113.

15 Teun van Dijk , Il discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani,

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evitare di agire in maniera troppo decisa contro di essi, anzi vanno in una certa misura compresi e tollerati.16

Ad Opera, dopo tre mesi di presidio permanente (costituito senza alcuna autorizzazione ufficiale, ma informalmente tollerato da forze di polizia e dagli amministratori locali) da parte di alcuni abitanti, l’insediamento è stato spostato. Come ha sottolineato un’ attivista intervistata a Milano, lo spostamento dell’insediamento a causa della protesta costante degli abitanti di Opera, ha creato un gravissimo precedente. Il rifiuto di Rom e Sinti è tollerato dalle istituzioni, fino al punto che attraverso proteste, durante le quali si fa ricorso ad un linguaggio apertamente xenofobo, ad atti di vandalismo e a violenze verbali se non proprio fisiche verso chi vive dentro gli insediamenti, è possibile, anzi realistico, riuscire a scacciarli dal proprio territorio.

L’attivismo, la partecipazione politica dei cittadini, sono incoraggiati laddove lo scopo sia di degradare ed umiliare persone diverse da noi. In questo modo la coesione nazionale si rafforza al di là delle differenze di ceto sociale. I conflitti sociali e il malessere della società viene reindirizzato dalle élites dominanti verso un nemico esterno, così da evitare contestazioni popolari contro di loro e la loro gestione della cosa pubblica. I Comitati cittadini che si costituiscono attorno alle varie emergenze Rom, non infastidiscono molto il potere, poiché ne riproducono il linguaggio, ne ricalcano la fede identitaria e ne facilitano gli obiettivi politici.

Le relazioni di potere, descritte qui in maniera estremamente sintetica e incompleta, innervano la vita sociale dello Stato e ne strutturano la cultura politica, perpetuandosi nel tempo e nello spazio. Le cattive pratiche cioè diventano patrimonio comune e traccia da seguire per le generazioni future. A questo riguardo, nel terzo capitolo verranno analizzati a fondo i fatti avvenuti ad Opera tra dicembre 2006 e marzo 2007. Si può intanto anticipare che, nel fare ciò, si è cercato di esaminare il ruolo di ogni attore coinvolto, sia per mezzo delle interviste raccolte ad Opera e a Milano, sia tramite la lettura del blog “ La Voce di Opera” sugli avvenimenti di quei mesi, sia infine attraverso le informazioni di alcuni quotidiani nazionali.

Il caso-studio di Opera è finalizzato a non cadere anche qui in facili semplificazioni o colpevoli minimizzazioni di quanto accaduto. Politici e media tendono spesso a semplificare seguendo due direttrici alternative. Una prima direttrice consiste nello sdrammatizzare un

16 Il “Patto di Socialità e Legalità”, costituito per la prima volta ad Opera e adottato in seguito in altri

campi ghetto milanesi, fra i quali quello di Via Triboniano, è il congegno repressivo a giustificazione del quale è stato utilizzata la legittima paura dei milanesi per richiamare la necessità di un “ surplus di legalità e di garanzie” rispetto a quelle già stabilite dalla Costituzione italiana e valide per tutti.

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evento drammatico. Delle persone colpevoli di incitamento all’odio razziale (di solito leaders politici locali e a volte nazionali), viene detto che sono stati fraintesi, che sono vittima di lapsus e che hanno esagerato un pochino, oppure che sono vittime della situazione di emergenza che si sono trovati ad affrontare. Spesso viene timidamente chiesto loro di abbassare i toni dello scontro. I veri e propri atti di xenofobia (ad esempio le persone colpevoli di aver bruciato le tende ad Opera), vengono mascherati come “bravate”, innocenti ragazzate, ed i colpevoli come persone che si sono “lasciate prendere la mano”, che hanno per un attimo perso il controllo a causa della situazione in cui si trovavano.

La logica conclusione a cui si arriva, se si segue questa direttrice, è che i veri colpevoli delle discriminazioni razziste e degli atti xenofobi sono proprio i Rom ed i Sinti. Essi infatti si sono volontariamente messi in una situazione di degrado tale che ha provocato i cittadini italiani non Rom, portandoli, con colpa solo apparente, a discriminarli. Siamo di fronte a quel processo di rovesciamento delle responsabilità che Dal Lago definisce “ colpevolizzazione della vittima”17.

La seconda direttrice è quella seguita dalla maggioranza degli italiani non-Rom, specialmente dalle classi medio basse, che non hanno ricevuto un’educazione antirazzista o non sanno che cosa sia il razzismo, e da intellettuali democratici e politici di sinistra. In questo caso la gravità degli eventi viene riconosciuta, ma se ne attribuisce la responsabilità a una stretta cerchia di persone, di solito gli avversari politici, o a piccoli gruppi di “razzisti innati”.

Questa definizione di razzismo é molto restrittiva. Per costoro il razzismo è il comportamento della persona che odia l’altro a causa della sua diversa appartenenza etnica e razziale. Tale definizione ha un effetto liberatorio su tutti coloro i quali trovano enormi quantità di validi motivi, diversi dall’appartenenza etnica e razziale, per “non tollerare” gli altri. Evidentemente si tratta di un fraintendimento: il razzismo su base biologica è considerato razzismo tout court, mentre considerare Rom e Sinti intollerabili per la loro supposta innata asocialità, per i comportamenti devianti che avrebbero iscritti nel loro DNA, o per il loro atavico parassitismo, nulla avrebbe a che vedere con il razzismo. Linguisticamente, questo razzismo estremamente pervasivo si manifesta frequentemente con la frase: “ Io non sono razzista, ma …” Al ma segue invariabilmente una serie di luoghi comuni su ciò che si credono comportamenti tipici di tutta “una popolazione zingara” non meglio definita.

17 Dal Lago , Non–persone, cit. , passim

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1.3 PERCORSI POSSIBILI PER UN RICONOSCIMENTO DELL’IDENTITA’ ROM e SINTA

La terza parte della tesi sarà dedicata all’analisi di percorsi di interazione fra Rom e Sinti e gagé e delle politiche di alcune associazioni Rom e Sinte. Lo scopo di questa parte è di mostrare come vie possibili e necessarie di interazione senza assimilazione siano state tracciate in alcune realtà locali italiane. Il successo di programmi, progetti o singole iniziative è sempre direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento diretto e di ascolto attivo degli attori coinvolti, sia Rom e Sinti che italiani non Rom e Sinti. In particolare é fondamentale porre le basi politiche, istituzionali e culturali per rendere possibile il protagonismo delle comunità Rom e Sinte. Ciò significa rimuovere tutti quegli ostacoli (materiali,simbolici, politici etc..) che impediscono di vedere nei Rom e Sinti soggetti autonomi e in grado di interagire nelle sedi politiche ed istituzionali (ad esempio la scuola) apportando alle discussioni punti di vista essenziali proprio perché mai presi in considerazione.

Le esperienze che tentano con fatica di stabilire questo tipo di interazioni, indicano un percorso possibile, anche se estremamente fragile, di una vera e propria rivoluzione culturale. Il termine non mi sembra inappropriato, e proverò brevemente a spiegarne le ragioni. Innanzitutto favorire la reale inte(g)razione di Rom e Sinti significa sviluppare le capacità d’ascolto partecipante della società. Tuttavia per ascoltare è prima necessario riconoscere l’altro in quanto interlocutore. Purtroppo la situazione italiana è tale che spesso Rom e Sinti non vengono annoverati fra i possibili interlocutori sociali delle istituzioni, se non di polizia e carabinieri.

La capacità di agire di Rom e Sinti, qualora venga riconosciuta esistente da parte della società maggioritaria, è quasi sempre declinata al negativo e associata alla capacità di agire dei criminali.

Dunque per prima cosa è necessario riconoscere nelle voci di Rom e Sinti, italiani e non, di qualsiasi provenienza geografica, quelle di interlocutori, laddove nella scuola, nel luoghi di lavoro, negli uffici pubblici e nei quartieri,portino avanti istanze proprie ed originali. Una società in grado di accogliere, interpretare e trasformare in risorsa per tutti, le richieste e le proposte provenienti da diverse comunità è una società che non nasconde a se stessa la propria eterogeneità e in tal modo si espone al cambiamento. Vi sono infatti solo due modi di vivere nella società multiculturale : recepirne la sfida allo svecchiamento e alla modernizzazione, cioè essere aperti al rinnovarsi continuo delle identità, oppure il ripiegamento su false

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incrostazioni identitarie, rassicuranti forse, ma mortifere, in quanto fossilizzate su inconsistenti mitologie e contraddistinte in negativo dall’odio per gli altri.

Ovviamente riconoscere nei Rom e Sinti dei validi interlocutori non è un processo automatico, bensì necessita della volontà della classe politica e dell’élites al potere nel portarlo avanti anche nelle sedi parlamentari e farsene promotrice con adeguate misure legislative. In una seconda fase, occorre poter discutere, in ogni sede pubblica, coi Rom e Sinti stessi, delle proposte e delle richieste avanzate. Probabilmente è questo il livello più complicato da mettere in atto, in maniera da non permettere che vi siano prevaricazioni, strumentalizzazioni ed abusi di potere. Creare spazi pubblici di discussione, laddove ad esempio nelle scuole ve ne sia la richiesta anche da parte dei docenti, delle famiglie degli alunni, di qualsiasi nazionalità esse siano, consente di abbattere il muro dei pregiudizi, delle incomprensioni e dei fraintendimenti, oltre che della paura.

Il congegno della paura funziona solamente nei casi in cui la mancanza di una conoscenza diretta fra le persone consente ai “ rivenditori di realtà”, cioè gli organi di informazione, quotidiani, radio, televisioni, opinionisti di varia specie, di farsi piuttosto “creatori di realtà” e venderci una immagine manipolata di Rom e Sinti . Un’immagine quindi non corrispondente al vero, bensì una categoria astratta, composta da tutte quelle caratteristiche negative che in tal modo vengono simbolicamente espulse dalla società maggioritaria.

In realtà, la conoscenza diretta, il trovarsi faccia a faccia, come la possibilità di condividere momenti comuni di vita quotidiana con Rom e Sinti in carne ed ossa, potrebbe facilmente smaterializzare la negativa categoria di “zingari” (anche quando essa si cela sotto la denominazione politically correct di “ Rom”, ormai largamente preferita da i maggiori organi di informazione nazionali). La creazione di spazi e tempi, dentro e fuori le istituzioni, nei quali permettere a persone di diversa cultura e tradizioni di conoscersi e venire a contatto, ossia lo scomporre e il rimescolare persone ed identità, è un progetto di tipo politico e non di mero folclore. Il folclore infatti è una manifestazione esteriore ed estemporanea di elementi dell’identità presentati come fissi ed immutabili. Esso spettacolarizza, semplificandole, alcune caratteristiche, rendendole avulse dal contesto di vita vissuta. Le manifestazioni folcloristiche fungono da vetrine luccicanti, dove l’altro è in esposizione, e dove la conoscenza sembra stia tutta in uno sguardo.

Per quanto detto finora, la conoscenza non può essere delegata né ai mass media, che rappresentano uno dei canali principali sia di diffusione del pregiudizio che addita gli zingari come cancro della società, sia dello stereotipo esotico degli zingari come “figli del vento”,

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eterni nomadi e spiriti liberi, né alla fiducia cieca nei proclami, interessati all’acquisizione del consenso, di imprenditori politici dei contrapposti schieramenti politici italiani..

Affinché vi sia reale conoscenza, è prioritario chiudere i campi nomadi e procedere all’individuazione di soluzioni abitative caso per caso. La segregazione abitativa dei campi è infatti uno dei principali fattori di ignoranza dell’altro. Non condividendo gli stessi spazi sociali (come avviene fra famiglie in uno stesso condominio ad esempio) e non mescolandosi quotidianamente con queste persone, l’opinione pubblica può essere facilmente indotta a formarsi un’idea costruita da altri, risentendo di stereotipi e pregiudizi creati e riprodotti nel discorso pubblico. Si può obiettare che gli scambi quotidiani avvengono, essendo le città, luoghi di transito di Rom e non- Rom. In realtà, questi scambi sono estremamente superficiali e ciascun attore interpreta un proprio ruolo già definito, dal quale difficilmente può uscire. Poiché viviamo in una società nella quale la vicinanza con “gli zingari” è considerata indecorosa e fonte di contaminazione, e nella quale anche presso alcune comunità Rom l’entrare in confidenza con i Gagé è visto con sospetto, uscire dall’ignoranza significa spezzare alla radice questo circolo vizioso di diffidenza.

L’emarginazione abitativa deriva dunque dall’emarginazione culturale, ma d’altra parte l’emarginazione culturale è anche un effetto dell’emarginazione abitativa. In ogni caso da qualsiasi angolatura lo si osservi, il circolo vizioso dell’emarginazione si mantiene saldo in tutti i suoi punti, grazie un insieme di pratiche che Foucault avrebbe definito “ microfisica del potere”. Attivare pratiche sociali che scombinino l’ordine costituito è indubbiamente una strategia difficile e rischiosa, ma potrebbe, nel lungo periodo, portare buoni frutti. Rinnovare la società, senza scardinarne la struttura e i rapporti di forza che la innervano, è infatti un’impresa destinata al fallimento.

Occorre ripensare radicalmente il concetto di “integrazione”. Storicamente l’integrazione è stata pensata come un processo di inglobamento nello Stato nazionale di soggetti esterni ad esso, cioè è stata vista come sinonimo di assimilazione. Assimilazione è un concetto che deriva dalla storia coloniale ed imperiale dei paesi europei, ed in particolare della Francia: consisteva nell’amministrazione diretta delle colonie, ovvero nell’ assorbimento dei popoli autoctoni all’interno dei confini nazionali man mano che questi si allargavano col procedere delle conquiste coloniali. Ogni identità culturale diversa e divergente dallo Stato coloniale veniva. Rigettata. La fine del colonialismo non ha però decretato la fine dell’ideologia assimilazionista sul piano delle relazioni interne coi migranti, anzi si è tradotta in una sorta di bulimìa delle strutture statuali, attraverso cui ogni identità altra viene

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fagocitata (cioè sfruttata), per poi essere espulsa nuovamente da esse senza aver portato alcun cambiamento sostanziale dei confini simbolici dell’ordine statuale.

Gli elementi più innovativi, e perciò conflittuali, dei soggetti extra-statuali vengono depauperati della loro ricchezza culturale, materiale e spirituale, da questo processo bulimico, e poi respinti ai margini delle città.

Raramente l’integrazione è stata pensata (o ri-pensata) in termini diversi dall’assimilazione. Ri-pensare radicalmente l’integrazione significa mettere in crisi la sovranità stessa dello Stato nazionale (sia come istituzione che come popolo), poiché significa porsi in condizione non di proporre e disporre, bensì di ascoltare e accogliere la molteplicità delle identità altre, senza inglobarle per poi distruggerle. Instaurare relazioni di reciprocità, interagire rispettando le differenze, è in definitiva un processo che può portare a cambiare insieme, ovvero ad un reale progresso per la società nella sua globalità. Una società che impara a non difendersi da coloro che ne sono ai margini, sarà probabilmente una società che sarà da essi difesa e resa migliore nel futuro.

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