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ALDO PAVARI SPERIMENTATORE

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ALDO PAVARI SPERIMENTATORE

Si traccia brevemente la storia della Stazione sperimentale di Selvicoltura che Aldo Pavari ha diretto dal 1922 fino alla sua morte. Vengono descritte le varie fasi della speri- mentazione forestale italiana citando anche i lavori che lo stesso Pavari ha prodotto nei vari rami delle ricerche da lui dirette.

Parole chiave: Pavari; sperimentazione; stazione sperimentale di selvicoltura.

Key words: Pavari; experimentation, experimental station of silviculture.

Prima di passare ad illustrare l’ultra quarantennale attività di ricerca di Aldo Pavari, che, è bene dirlo subito, dobbiamo considerare il padre della moderna sperimentazione forestale italiana, non possiamo dimentica- re le pionieristiche iniziative prese dai docenti dell’Istituto forestale di Val- lombrosa dalla fondazione al suo trasferimento a Firenze, cioè altri quaran- ta anni di studi ed esperienze.

Anche se di questo periodo non c’è molto da dire per la scarsa docu- mentazione al riguardo, cercherò di dare un quadro sufficientemente com- pleto delle prime ricerche fatte sul campo a Vallombrosa dal 1870 al 1912.

Le prime mosse di un’embrionale sperimentazione furono fatte dal de Bérenger, il quale, come base per ulteriori indagini, costruiva nel 1870 nei pressi dell’abbazia, un osservatorio meteorologico del quale pochi dati sono stati pubblicati nel 1906. Altri strumenti come geotermometri e lisimetri, faceva collocare in un’abetina, allo scopo di studiarvi le variazioni di tempe- ratura alle diverse profondità del suolo e di misurare nel contempo la quan- tità d’acqua piovana che filtrava sia nel suolo nudo che in quello coperto da bosco fino alla profondità di un metro (

DE

B

ÉRENGER

, 1871).

Contemporaneamente, lo stesso de Bérenger dava inizio alla sistema- zione di due orti dendrologici, uno a Paterno per le specie forestali meridio- nali ed esotiche, l’altro a Vallombrosa per le specie settentrionali (

DE

B

ÉREN

-

– L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 65 (4): 411-420, 2010

© 2010 Accademia Italiana di Scienze Forestali doi: 10.4129/ifm.2010.4.04 (*) Accademia Italiana di Scienze Forestali; antonio.gabbrielli@aisf.it

(2)

GER

, cit.). Si trattava dell’incipit dei noti arboreti vallombrosani; quello di Paterno sarà soppresso nel 1880 quando sarà alienata quella parte di dema- nio e le piante ricollocate a Vallombrosa nei pressi del Masso del Diavolo. A questo proposito è il caso di osservare fin da ora, che la sperimentazione più lunga, ed amorevolmente seguita, è stata proprio quella del miglioramento ed ampliamento degli arboreti il cui primo artefice fu Vittorio Perona che nel 1880 collocava nella parte dedicata all’abate Tozzi, la prima duglasia.

Dieci anni dopo iniziavano le prove in foresta di questa specie con 85 piante collocate nell’abetina di S. Giovanni Gualberto (P

AVARI

, 1920-21).

Nel 1891 una ristretta porzione del vivaio, impiantato a suo tempo accanto al primo arboreto, era destinata ad orto botanico da Solla. Succes- sivamente ampliata da Cavara e da Fiori, scomparirà a seguito del trasferi- mento dell’Istituto a Firenze (A

LLEGRI

, 1970). Solla in quegli anni (1893) dava alle stampe, nel Bullettino della Società botanica italiana, le sue ricer- che vallombrosane con la pubblicazione dei Caratteri propri della flora di Vallombrosa e, anni dopo, di Alcuni saggi teratologici della flora di Vallom- brosa e i Cenni sulle rose di Vallombrosa.

Oltre a quelli più noti, Perona aveva impiantato nel 1911, a valle del- l’abbazia ed a fianco della segheria, un arboreto più piccolo dedicato allo studio dei salici. Fu chiamato «saliceto Borzì» in onore di quel botanico siciliano, specialista in questo genere di piante, stato per breve tempo docente nella Scuola. Il saliceto ebbe vita breve e precaria per la poco felice ubicazione soggetta alle alluvioni ed alle erosioni del fosso dei Bruciati.

D’altre esperienze e ricerche locali sappiamo qualcosa attraverso le pubblicazioni degli autori che le avevano effettuate e che apparvero sulla Nuova Rivista Forestale diretta da Francesco Piccioli dal 1878 al 1890.

Così Pietro Nico, assistente alla cattedra di matematica tenuta da Giaco- melli, pubblicava una serie d’articoli Sulla determinazione della massa legnosa di un bosco e su le Regole per calcolare l’età degli alberi e dei boschi. Analoga- mente, Benzoni indagava Sul terriccio dell’abetaia di Vallombrosa, sulla Potatu- ra degli alberi forestali e su Alcune ricerche fisico-chimiche sulla terra e terriccio del piantonaio di Vallombrosa. Anche il ventenne Ludovico Piccioli, figlio di Francesco, si cimentava, nel 1888, nella botanica e nella didattica con la sua Guida alle escursioni botaniche nei dintorni di Vallombrosa.

Da un’anonima relazione ministeriale inserita nel Bollettino ufficiale dell’Amministrazione forestale, sappiamo che fu tentata una sperimentazio- ne presto abbandonata. Si trattava d’introdurre nella foresta di Vallombro- sa, «l’abete rosso, il larice, il pino silvestre e qualche altra pianta esotica.

Tutto dà a credere – dice la relazione – che tali specie non potranno mai

competere con l’abete bianco» (M

INISTERO

, 1889). Come oggi sappiamo, fu

una profezia non del tutto azzeccata almeno per qualche specie.

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Quando si trattò di trasferire l’Istituto da Vallombrosa a Firenze, Vit- torio Perona, che allora ne era direttore, espresse con calore e fermezza il suo dissenso affermando che l’istruzione professionale era possibile solo lassù, perché solo lassù si aveva un campo sperimentale splendido ed a por- tata di mano. Inoltre sosteneva, con estrema chiarezza, che senza la speri- mentazione sarebbe stato vano parlare di una selvicoltura italiana, e vano sperare che essa avrebbe segnato in Italia quei passi giganteschi che aveva fatto la consorella agricoltura (M

UZZI

, 1970).

Memore di queste parole ed aderendo con determinazione a quanto prevedeva la legge Luzzatti del 1910, Arrigo Serpieri, con l’aiuto convinto di Pavari, inseriva nell’ordinamento scientifico e didattico dell’Istituto superiore forestale nazionale di Firenze, inaugurato nel 1914, non una cat- tedra ambulante di selvicoltura come suggeriva la legge Luzzatti, ma una di ricerche sperimentali. Questa cattedra, con legge del 3 aprile 1921, si tra- sformerà in stazione sperimentale di selvicoltura che inizierà a funzionare l’anno successivo sotto la guida di Aldo Pavari.

La stazione rimase organo aggregato all’Istituto superiore fino alla legge 25 novembre 1929 che riordinava la sperimentazione agraria mediante l’isti- tuzione di 17 stazioni sperimentali, tra le quali anche quella di selvicoltura, che erano poste alle dipendenze del Ministero dell’agricoltura e foreste. In tal modo la sperimentazione forestale acquistava piena e definitiva autonomia.

Scopo fondamentale d’ogni sperimentazione era quello di tradurre le conoscenze scientifiche in indirizzi tecnici ed operativi. La sperimentazione forestale era chiamata a fornire le più aggiornate e utili indicazioni agli orga- ni istituzionali dell’Amministrazione forestale, Corpo forestale e Azienda foreste demaniali. Con l’aiuto della stazione sperimentale si volevano risolve- re tre problemi che fin dal primo dopoguerra assillavano l’economia monta- na italiana: il primo, quello importantissimo dei rimboschimenti, il secondo, non meno importante, quello del miglioramento dei boschi esistenti, infine il terzo, relativo all’aumento della produzione legnosa in genere.

Questi tre settori furono i pilastri portanti della ricerca sperimentale che ebbe un vasto e variato campo d’azione di cui puntualmente ci ha tenu- ti informati lo stesso Pavari attraverso gli Annali dell’Istituto superiore per il periodo 1922-1930 e per il periodo successivo con una pregevole sintesi, elaborata in occasione del primo venticinquennio di vita della stazione, dalla quale ho tratto molte delle notizie che vi riferirò (P

AVARI

, 1950).

Pavari aveva ben compreso, fin da quando studiava a Tharandt e poi

dalle sue prime esperienze professionali in territorio senese, che la selvicol-

tura altro non era che ecologia applicata. Da ciò l’origine degli studi e le

ricerche da lui intrapresi riguardanti i fondamentali parametri ecologici: la

biologia vegetale, la climatologia, la pedologia, la microbiologia.

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Come ho accennato, l’Italia degli anni Venti del Novecento, aveva bisogno di una vasta quanto indispensabile opera di rimboschimento dato che la restaurazione forestale della montagna era sentita come problema d’interesse nazionale (P

AVARI

, 1922). Emergeva quindi l’importanza di una seria indagine sperimentale sulla tecnica dei rimboschimenti. Le grandi varietà di condizioni ambientali imponevano di eseguire una ricerca sul- l’ambiente fisico, sulla biologia delle piante da mettere a dimora e sulle loro caratteristiche colturali e tecnologiche.

Oltre al rimboschimento, l’Italia aveva bisogno di aumentare la pro- duzione dei boschi esistenti. Da qui la necessità di intraprendere ricerche relative da un lato all’aumento di produzione delle fustaie e dall’altro alla conversione dei cedui in fustaie o quantomeno al loro miglioramento per mezzo del coniferamento. Per quest’ultimo si sarebbe approfittato non solo delle specie indigene ma anche di quelle esotiche che diventavano, in tal modo, un ulteriore e importante oggetto di sperimentazione.

Di questo ampio ed impegnativo programma, Pavari e Serpieri vollero esporre, in un loro articolo del 1927, le basi organizzative e nel contempo chiarire come si sarebbe dovuto operare nella moderna sperimentazione forestale (S

ERPIERI

e P

AVARI

, 1927).

Considerato – essi dicevano – che il lungo ciclo in cui si svolge la pro- duzione forestale è di non lieve ostacolo alle possibilità di trarre direttive pre- cise, è necessario che la sperimentazione sia organizzata seriamente e solida- mente in modo da assicurare assoluta e perfetta continuità delle ricerche per lunghi periodi. Non solo quindi c’era bisogno di tempo ma anche di spazio poiché – continuavano i nostri autori – la sperimentazsione di campagna deve abbracciare il maggior numero possibile di quelle condizioni ambientali che interessano l’oggetto della ricerca (S

ERPIERI

e P

AVARI

, cit). A tale propo- sito i nostri Autori citavano Schotte, insigne sperimentatore svedese, che aveva impiantato ben 450 particelle, sparse in tutto il suo paese, per lo stu- dio del solo pino silvestre. Non solo: Pavari evidenziava anche un altro aspetto della sperimentazione la quale – diceva – non può astrarre dalle condizioni dell’ambiente economico-sociale nel quale va ad operare e non può quindi permettersi il lusso di aggirarsi in campi puramente teorici senza avere stretta relazione con i reali bisogni dell’economia montana.

Con questi orientamenti, l’opera della cattedra sperimentale inizia

nel 1922 concentrandosi sui tre grandi temi citati tra l’altro pienamente

condivisi dal Ministero dell’agricoltura e foreste: 1) studi e ricerche sulle

tecniche di rimboschimento seguite in Italia, 2) ricerche sul miglioramen-

to dei boschi esistenti e sulla loro produzione legnosa, 3) sperimentazione

di specie forestali esotiche per contribuire alla soluzione dei due punti

precedenti.

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Per i rimboschimenti furono scelte tre aree (Basilicata, Appennino marchigiano e Sardegna) importanti per la degradazione del suolo e per le difficoltà tecniche incontrate. Stante i problemi connessi ad una sperimen- tazione diretta attraverso singole particelle da tenere sotto controllo e quelli dell’eccessiva lunghezza di tempo occorrente, si preferì l’esame comparati- vo dei rimboschimenti fino allora eseguiti. La conclusione fu che nelle argil- le della Basilicata ed in quelle dell’Appennino ascolano il semplice rimbo- schimento non poteva rappresentare la soluzione del problema in quanto sarebbe occorsa una bonifica integrale nella quale avrebbe avuto preminen- za la sistemazione idraulico agraria eseguita con le colmate di monte. Pavari ne dette conto in due articoli, Sistemazioni e rimboschimenti nelle formazio- ni argillose dell’Ascolano del 1922 e Sui rimboschimenti e sistemazioni delle argille eoceniche della Basilicata del 1925.

Per i rimboschimenti effettuati in Sardegna, viste le difficoltà incon- trate, fu iniziata nel 1923 una sperimentazione tesa a stabilire l’influenza dei vari sistemi di preparazione del suolo. Essa mise in luce la bontà del sistema di semina a spaglio su terreno nudo e sodo con successiva leggera lavorazio- ne di copertura, noto come sistema Allegretti dal nome dell’ispettore fore- stale che lo adottò per primo fra le due guerre mondiali. A questo proposi- to, tuttavia, occorre precisare che un simile sistema di semina fu adottato, con pieno successo, dal Sala nel 1912 nei rimboschimenti del Goceano. A buon diritto dunque si deve considerarlo come precursore dell’Allegretti.

Pavari ne trattò in un suo lavoro, pubblicato nel Bollettino della Silva Mediterranea del 1930, col titolo Esperienze e indagini sulla tecnica del rim- boschimento nelle regioni a clima caldo-arido.

La sperimentazione sui rimboschimenti interessò dal 1933 al 1935 anche la Sicilia (Monte Pellegrino), la Val d’Orcia e Monte Morello dove, attraverso numerose particelle, furono messi a confronto i tre classici siste- mi di preparazione del suolo per il rimboschimento in clima caldo-arido:

lavorazione andante superficiale, lavorazione a buche, lavorazione a grado- ni e piazzole. Le conclusioni furono che i migliori sistemi da adottare erano:

una leggera lavorazione andante nella sottozona calda del Lauretum a pro- lungata siccità, e il sistema a gradoni e piazzole dove le piogge primaverili fossero state più frequenti. Nell’ambito dei rimboschimenti in località parti- colarmente ingrate, nel 1936 la Stazione affrontò con l’amministrazione forestale, anche il problema del rimboschimento dei magredi friulani con una serie di particelle di prova per la scelta delle specie da impiegare.

Nel campo del vasto e poliedrico problema del ripristino del bosco

s’imponeva una sempre migliore conoscenza delle caratteristiche ecologiche

dei vari ambienti, Pavari provvide ad impiantare una rete d’osservatori

meteorologici che vennero dislocati in varie foreste demaniali abbinando le

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osservazioni climatiche ad altre pedologiche e microbiologiche. Questi osservatori, già nel 1926, erano 139 e le ricerche condotte nel campo dei rimboschimenti furono raccolte da Pavari in alcuni suoi scritti fra i quali La tecnica dei rimboschimenti secondo le più recenti vedute ed esperienze del 1927, e I rimboschimenti in Sardegna del 1935.

All’inizio della sua attività, verso il 1924-25, la Stazione iniziò una curiosa sperimentazione, quella della coltivazione industriale del Laurus camphora in Italia. Durò poco e già nel 1926 apparve un articolo di Pavari dal titolo quanto mai sintomatico L’ultima parola sulla coltivazione del canforo in Italia. Infatti in quel periodo la canfora naturale veniva sostituita da quella sintetica e di conseguenza era abbandonata ogni ricerca speri- mentale.

Il secondo grande tema cui si rivolgeva la sperimentazione forestale, riguardava il miglioramento dei boschi e l’aumento della loro produzione.

Argomento d’altissimo interesse e di vastissima portata in quanto non solo veniva a comprendere lo studio di singole piante (cipresso, larice, querce e cerro), ma coinvolgeva naturalmente anche i metodi di governo e tratta- mento, compreso quello noto nel Veneto come metodo cadorino.

Le ricerche iniziano a Vallombrosa nei primi anni Trenta, mediante una serie d’operazioni su varie particelle in cui venivano messe a confronto diverse intensità di diradamento. Purtroppo le distruzioni operate dalla guerra, fecero perdere dieci anni di lavoro. Analogamente furono perse le particelle sperimentali di diradamento col metodo danese impiantate nelle foreste di Idria e di Tarnova passate dopo la guerra alla Iugoslavia. Per que- ste, tuttavia, tutto non andò perduto poiché furono raccolti alcuni risultati pratici, pubblicati da Minucci del Rosso sulla Rivista forestale italiana del 1940 (M

INUCCI DEL

R

OSSO

, 1940).

Riguardo al sistema di taglio cadorino, la sperimentazione intendeva

metterlo a confronto con il classico taglio saltuario che portava la struttura

del bosco verso quella normalità che avrebbe dovuto dare la massima pro-

duzione legnosa quantitativa e qualitativa. Le prove iniziarono nel 1932 a

Collalto di Auronzo, con un sistema di tre gruppi di due particelle ciascu-

no, posti in zone con diverse situazioni strutturali e di età. In una particella

veniva effettuata, oltre a varie misure dendrometriche, la martellata col tra-

dizionale sistema cadorino e nell’altra questa era eseguita sotto la direzione

della Stazione sperimentale che seguiva il criterio della normalità. Nel 1938

furono eseguite nuove misure e cosi pure nel 1946. Queste indagini furono

estese, dal 1948, ad altri boschi cadorini in condizioni diverse per ubicazio-

ne e tipo di soprassuolo. Pavari parla di risultati interessanti segnalati nel

suo lavoro del 1948, dal titolo Alcune osservazioni sulle fustaie resinose delle

Alpi venete.

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Nel miglioramento dei boschi esistenti si comprendeva anche la con- versione dei cedui data la loro grande importanza nell’economia forestale italiana. Le prime esperienze in merito furono fatte nei cedui alpini e preal- pini devastati dalla prima guerra mondiale. In essi fu mantenuto il governo a ceduo per venire incontro alle necessità di legna da ardere delle popola- zioni locali ma nel contempo furono messe a dimora diverse conifere a rapi- do accrescimento di provenienza locale ed esotiche (abete rosso, larice, cedro atlantico, camaecyparis) che dimostrarono la piena validità di una simile matricinatura tanto che essa venne sperimentalmente estesa non solo ai cedui dell’Appennino ma anche a quelli della macchia mediterranea di Cecina e di Follonica. Il risultato di questo coniferamento risultò quanto mai lusinghiero per i cedui alpini ed appenninici ma non per quelli della macchia mediterranea nei quali si rendeva necessaria l’eliminazione della concorrenza radicale della macchia, mediante dicioccamento di ampie aree, sulle quali poi eseguire una matricinatura a gruppi con le conifere.

Collegate alla matricinatura dei cedui con specie sia locali che esoti- che, s’inseriscono altre due branche della sperimentazione forestale: l’esame della provenienza delle varie specie e la sperimentazione su larga scala di specie forestali esotiche. La prima riguardava il pino silvestre, l’abete bian- co e il larice; la seconda aveva per oggetto una vasta gamma di generi e spe- cie tra i quali doveva primeggiare la duglasia (Pseudotsuga menziesii) che fu un po’ il cavallo di battaglia di Aldo Pavari.

La sperimentazione sul pino silvestre, pianta rustica particolarmente adatta a suoli degradati, fu condotta dal 1933 in aree della brughiera coma- sca, con razze provenienti dalla Svizzera, dalla Germania, dagli Stati baltici, dalla Polonia, dall’Ungheria e dalla Scozia. Le conclusioni furono che le razze migliori più adatte al clima dell’Italia settentrionale erano quelle pro- venienti dalla Germania e dalla Polonia che presentavano fra l’altro un più elevato accrescimento.

L’indagine sulle provenienze dell’abete bianco inizia nel 1924 in accor- do con la stazione sperimentale francese. Nel 1926 nei vivai di Vallombrosa ed in Francia si fanno numerose semine con diverse provenienze: undici ita- liane, tre francesi e tre austriache i cui risultati Pavari pubblicherà nel 1951 nel suo lavoro Esperienze e indagini sulle provenienze e razze dell’abete bianco.

Per il larice la sperimentazione inizia nel 1943 con semi provenienti dall’Europa centrale (Austria, Germania, Svizzera e Cecoslovacchia) ma a causa della guerra e della conseguente forzata inattività della Stazione, molto materiale va perduto. Un tentativo di sperimentazione del larice nei boschi dell’Acquerino, dimostrava essere la specie ecologicamente inadatta all’ambiente appenninico.

All’introduzione e sperimentazione di specie forestali esotiche nella

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selvicoltura italiana, Pavari si era dedicato ancor prima che iniziasse a fun- zionare la Stazione sperimentale. Aveva pubblicato, infatti, tre volumi negli Annali dell’Istituto superiore forestale con i seguenti titoli: il primo Studio preliminare sulla coltura di specie forestali esotiche in Italia del 1915, il secondo Studio preliminare sulla coltura di specie forestali esotiche in Italia.

II parte descrittiva. Sez. I Conifere del 1921, il terzo Ricerche sperimentali sull’abete di Douglas: Pseudotsuga douglasi Carr. del 1924. Questa branca di sperimentazione incontrò il favore del ministero che, attraverso la Fon- dazione per la Sperimentazione agraria, elargì, fin dal 1926, cospicui finan- ziamenti che permisero di estendere, fino al 1939, la rete delle particelle sperimentali.

Anche l’amministrazione forestale ne aveva impiantate a Vallombrosa, tre il 1907 e il 1912, alcune di duglasia per una superficie complessiva di oltre un ettaro che certamente Pavari deve aver visto e studiato nel suo triennato d’amministratore di quella foresta dal 1919 al 1922.

Dato l’elevatissimo numero di specie, fra conifere e latifoglie, in corso di studio, le particelle sperimentali avevano raggiunto nel 1939 il numero di 340. Sulla base dei dati da queste forniti, nel 1941 fu pubblicato un grosso volume dal titolo La sperimentazione di specie forestali esotiche in Italia. La sperimentazione del primo ventennio. Fu una fortuna, perché di lì a poco il passaggio della guerra distruggerà molto del lavoro fatto e parecchi dati andranno perduti.

Comunque le ricerche di questo non breve periodo, avevano messo in evidenza quattro classi di utilizzo delle varie specie studiate:

– la prima comprendeva le piante che, avendo superato ogni prova, erano largamente impiegabili nelle condizioni ambientali loro favorevoli. Fra le conifere figurano: l’abete greco, il cedro atlantico, il cipresso dell’Arizo- na, il pino insigne, il pino strobo e la duglasia; fra le latifoglie molte aca- cie e molti eucalipti;

– la seconda classe includeva piante utilizzabili solo in condizioni particola- ri. Fra le conifere troviamo: l’abete del Caucaso, la picea di Sitka, il pino delle Canarie, il taxodio. Fra le latifoglie ancora acacie ed eucalipti;

– la terza classe includeva quelle specie che avendo dato esito incerto, dovevano essere ulteriormente sperimentate;

– la quarta classe infine comprendeva le specie la cui sperimentazione aveva dato esito completamente negativo.

A questo punto Pavari poteva concludere che sia nell’Appennino,

dove era maggiormente sentito il problema del rimboschimento, sia nel

miglioramento della macchia mediterranea, si erano pienamente raggiunte

le aspettative che si attendevano dalla introduzione dalle specie esotiche. In

tal modo si era risolto anche il problema dei coniferamenti nella zona del

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castanetum, notoriamente scarsa di resinose, con l’abete greco e il cedro atlantico su i suoli calcarei e con la duglasia su quelli silicei.

In ambiente marcatamente mediterraneo, la soluzione era data dal cipresso dell’Arizona, dal cipresso macrocarpa e dal pino insigne, risultati particolarmente vantaggiosi per la loro produttività e rapido accrescimento, mentre certe acacie erano adatte ai rimboschimenti litoranei e alla formazio- ne di fasce antincendio.

La Stazione sperimentale, fin dall’inizio della sua attività, si era occupa- ta anche delle formazioni boschive litoranee, in particolare dei frangivento, che troveranno la loro massima espressione ed estensione in Sardegna nella bonifica di Arborea e nel Lazio in quella pontina, con l’impiego di molte spe- cie di eucalipto che si dimostreranno insostituibili sia per la notevole produ- zione legnosa sia per la semplicità del loro trattamento a ceduo che consenti- va, tra l’altro, un efficace mantenimento della fascia frangivento.

Prima di concludere non va dimenticata la sperimentazione che la Sta- zione intraprese per la lotta contro il cancro corticale del castagno. Le prime avvisaglie della malattia si ebbero nel 1938 in Liguria e in Friuli ma la guerra limitò drasticamente ogni studio ed azione di lotta. Questa riprese nel 1946 quando Pavari, e i fitopatologi dell’Università di Firenze, si recaro- no negli Stati Uniti per studiare i sistemi di lotta colà praticati, stringendovi importanti rapporti di collaborazione scientifica e tecnica. Si studiava la possibilità di introdurre ceppi resistenti alla malattia ed i castagni giappone- si e cinesi apparivano adatti allo scopo. Per ciò furono impiantati due vivai, uno nell’Appennino ligure a Masone e uno a Vallombrosa nei quali furono effettuate le prime ibridazioni con i castagni orientali. Nel 1949 gli america- ni inviarono in Italia molto materiale fra cui marze per innesti e polline per ibridazioni.

La soluzione migliore risultò comunque quella d’introdurre diretta- mente i castagni orientali resistenti all’Endothia che la Stazione collocò in via sperimentale in diverse località (Acquerino, Baiano (AV), Masone (GE), Vallombrosa).

Concludo con una nota importante. L’espandersi della sperimentazio-

ne ed il conseguente dilatarsi delle ricerche nei vari settori, imponevano la

necessità di acquisire sempre nuovi dati e notizie. Questa realtà sollecitò

Aldo Pavari a costituire e ad estendere a livello mondiale, una rete di scam-

bi culturali, scientifici e tecnici che fu in grado di fornire importanti colle-

gamenti informativi, di consentire contatti con eminenti personalità della

ricerca, di favorire conferenze in sede nazionale e all’estero, di aprire inter-

scambi di materiali vegetali e d’altro genere, cose che accrebbero il presti-

gio dell’Uomo e della sua ricerca sperimentale, in Italia e fuori.

(10)

SUMMARY

Aldo Pavari: innovative researcher

A brief history of the experimental station of silviculture that Aldo Pavari had been directing since 1922 until his death. Different phases of the Italian forest experi- mentation are described, taking into account the works that Pavari produced in several branches of his research.

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Riferimenti

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