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Parere sullo schema di decreto ministeriale recante:

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Academic year: 2022

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Parere sullo schema di decreto ministeriale recante:

“Regolamento concernente la valutazione del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali ai fini della pratica forense e notarile, ai sensi dell’articolo 17, comma 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127”.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 7 novembre 2001, ha deliberato di approvare il seguente parere:

“Il regolamento in esame dà attuazione alla previsione della prima parte dell’art. 17, comma 114, della legge 15.5.1997, n. 127, laddove, prevista l’istituzione di scuole di specializzazione post-universitarie per l’accesso all’impiego in magistratura e alle professioni forense e notarile e prefigurato il conseguimento del relativo diploma quale condizione di partecipazione al concorso per uditore giudiziario, si dispone che ‘anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso alle professioni di avvocato e notaio, il diploma di specializzazione … costituisce, nei termini che saranno definiti con decreto del Ministro di grazia e giustizia, adottato di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, titolo valutabile ai fini del compimento del relativo periodo di pratica’.

La predetta delega è stata esercitata nel senso di prevedere che ‘il diploma di specializzazione, conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali … costituisce titolo valutabile ai fini del compimento del periodo di pratica per l’accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno’, a prescindere dalla durata dei relativi corsi, biennale in fase transitoria, fino ad attuazione del nuovo ordinamento dei corsi universitari di laurea e di laurea specialistica, ed annuale successivamente, a regime.

L’oggetto del regolamento non concerne le materie di più stretta competenza consiliare ed in particolare le condizioni di ammissione al concorso per uditore giudiziario e, più in generale, il reclutamento e la formazione dei magistrati. Ciononostante, richiamate le ragioni di fondo legislativamente poste a fondamento dell’introduzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali, che impongono una considerazione congiunta di sviluppi e riflessi dei rispettivi percorsi di accesso alle funzioni magistratuale e forense, appare doverosa in materia, anche da parte del C.S.M., una presa di posizione che non si riduca ad una mera presa d’atto

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dell’approdo normativo di istanze portate avanti con forza dalle categorie professionali più direttamente coinvolte.

L’art. 16 del D. lgs. n. 398 / 1997, che istituisce le Scuole di specializzazione per le professioni legali, previo richiamo all’autonomia didattica degli istituti universitari riconosciuta dall’art. 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, precisa che le stesse sono costituite presso le Università, anche sulla base di accordi e convenzioni tra diversi atenei. La ratio era, ed è, quella di avviare, sulla base di modelli didattici omogenei, la formazione comune dei laureati in giurisprudenza mediante l’approfondimento teorico, integrato da esperienze pratiche, finalizzato all’assunzione dell’impiego di magistrato ordinario ovvero all’esercizio delle professioni di avvocato o notaio, formazione resa possibile dalla previsione del numero chiuso dei laureati da ammettere alle Scuole e, di conseguenza, ai concorsi. L’alternativa di fondo tra modello francese e tedesco in tema di reclutamento in magistratura è stata chiaramente risolta in favore di quest’ultimo, considerato in grado di meglio perseguire gli obiettivi sopraindicati e più aderente dell’altro al principio costituzionale della nomina dei magistrati per concorso, atteso che la devoluzione ad un’istituenda scuola della magistratura dei compiti di formazione in tale settore sposterebbe la fase selettiva dei candidati dal momento concorsuale a quello dei risultati della partecipazione alla scuola.

Con delibere adottate in data 9 ottobre 1997, 25 giugno 1998 e 18 novembre 1999 il Consiglio superiore della magistratura ha espresso il parere sugli schemi del decreto legislativo predisposto in attuazione della delega contenuta nel comma 113 dell’art. 17 legge 15.5.1997, n.

127, e del decreto interministeriale contemplato dal successivo comma 114, seconda parte. Nelle citate delibere il C.S.M. ha sottolineato i profili di radicale novità insiti nella riforma ed ha posto l’accento sui suoi benefici effetti in tema di gestione dei concorsi per uditore giudiziario e, più in generale, sulla costruzione di una comune cultura della giurisdizione di magistrati ed avvocati.

Nelle considerazioni finali dell’ultimo dei menzionati pareri, in particolare, si ribadiva che << pur con i limiti posti in evidenza e pur trattandosi di un primo passaggio verso una più ampia ridefinizione dei meccanismi della formazione del magistrato, lo schema di regolamento presenta degli elementi innovativi. Su essi il giudizio è sicuramente positivo, soprattutto avuto riguardo a tre profili sostanziali.

a. Il primo attiene ad un atteso cambiamento nei meccanismi dell’accesso che si sposterebbe da forme del tutto privatistiche verso una organizzazione pubblica. E’ noto come in questi anni ci sia stato un monopolio di scuole del tutto private tenute il più delle volte da magistrati che hanno

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realizzato un filtro verso l’accesso tutto strumentale al concorso da affrontare. Del resto questa era stata la preoccupazione cui aveva voluto rispondere la Bassanini. In termini di trasmissione del sapere e di costruzione delle figure professionali del magistrato questo ha prodotto un certo casualismo e un certo spontaneismo. La necessità già da tempo avvertita dal Consiglio Superiore della Magistratura di una solida politica della formazione, e non soltanto di meccanismi di aggiornamento tecnico dei magistrati, rientrava già nei tentativi di rimediare a inconvenienti di tal genere. Questo è ovviamente dipeso dal fatto che dalla laurea in poi non vi è stata alcuna attenzione al profilo culturale e professionale del magistrato e che tutto è stato rimesso ad una preparazione privata e libresca dei candidati al concorso.

Quindi, affidare questa fase della formazione del giurista a strutture pubbliche come le Università ha l’indubbio vantaggio di pensare in uno spazio culturale diverso, se non altro visibile, i temi importanti dell’accesso e della cultura del reclutamento.

b. Il secondo profilo positivo attiene al modello pluralista della formazione tanto dal lato

dell’offerta quanto dal lato della domanda. Il pluralismo riguarda non soltanto la presenza di figure diverse di docente inserito nell’attività didattica, studiosi, giudici, notai, avvocati, i quali sono portatori di culture e interessi plurali, ma riguarda anche le diverse figure di discenti (magistrati, avvocati, notai) destinatari dei programmi formativi per l’accesso. Si può realizzare così pluralismo culturale all’interno di un modello di unitarietà della giurisdizione. La stessa compresenza nel corso del primo anno della scuola di studenti che sono destinati a carriere diverse può aiutare a costruire modelli di interazione giudiziaria meno conflittuali. Tutto questo non può avvenire in forme privatistiche di accesso come quelle esistenti, dove i tirocini rivolti alle professioni di avvocato e notaio avvengono nel chiuso e geloso spazio individuale degli studi professionali. E’ peraltro noto quali siano i problemi più volte denunciati della formazione “a bottega” degli aspiranti avvocati e notai e quanta conflittualità abbiano sempre registrato.

c. Il terzo profilo ha riguardo allo specifico curriculum didattico e ai profili contenutistici dell’insegnamento impartito nelle scuole di specializzazione, previsti nell’All. 1 (articolo 7, comma 2) del Regolamento ministeriale in oggetto. Si tratta ovviamente di uno scheletro programmatico generale che ha il vantaggio di rendere uniforme in tutte le università il progetto didattico, ma all’interno del quale modalità, contenuti e articolazioni non possono che essere lasciati all’autonomia delle Scuole e alla libertà di insegnamento dei docenti. Il modello che i due anni previsti viene articolando, pur con qualche perplessità, sembra decisamente innovativo e interessante.

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Innanzitutto positivo appare il tentativo di tenere sempre insieme il profilo teorico (forse sarebbe più appropriato parlare di profilo dogmatico-concettuale) che approfondisce la dimensione sistematica e interpretativa (law in books), e quello pratico-applicativo che vede orientare il suo sguardo sul diritto in azione (law in action) come esso prende corpo nei comportamenti giudiziari e nei singoli sottosistemi giuridici. (…) Un auspicio da formulare è che nella concreta articolazione della didattica ci siano sempre più “ibridazioni disciplinari” tra materie curriculari diverse. Tali ibridazioni dovrebbero articolare soprattutto seminari applicativi e attività pratiche intorno a temi che coinvolgano preferibilmente aspetti pluridisciplinari; questo aiuterebbe la iniziale formazione a orientarsi in questo sempre più spinto processo di ridefinizione degli ambiti disciplinari interni ed esterni al sistema giuridico che vediamo progressivamente disegnarsi. (…) Va ribadito il giudizio complessivamente positivo sulla previsione dell’approfondimento tematico disciplinare nelle materie e con le modalità previste nel primo anno e sulla presenza di materie come la deontologia (il termine andrebbe sostituito con “deontica”, ma si tratta di nomi) e l’ordinamento giudiziario troppo spesso assente dalle facoltà di giurisprudenza. (…) Questa prospettiva sarebbe di un certo interesse nella formazione delle carriere professionali dell’avvocato e del magistrato dove contano, oltre che competenze tecnico-formali, anche comportamenti concreti nell’interazione processuale. Trattandosi di formazione comune alle due figure questa materia, che si potrebbe chiamare “sistemi di argomentazione giuridica” o, più genericamente, “procedimento giudiziario”, sarebbe un concreto strumento di formazione ai compiti comuni della giurisdizione. Sarebbe altresì opportuna l’introduzione curriculare delle discipline comparatistiche (sia macro che microsistematiche, queste ultime specialmente in ambito privatistico), la cui mancanza rischia di risolversi in una grave carenza di prospettive culturali e metodologiche ed in un ostacolo all’indispensabile formazione in senso europeo di ogni giurista (sia teorico che pratico) moderno.

Queste valutazioni positive si inquadrano peraltro in un contesto che vede ancora non compiutamente risolto il problema della valenza del diploma.

Per gli aspiranti magistrati il diploma della scuola forense costituirà in futuro, dopo il regime transitorio, condizione per presentarsi al concorso per uditore giudiziario.

Per quanto concerne gli aspiranti avvocati l’articolo 17, comma 114, della Legge n. 127 del 1997 si limita a prevedere che il diploma sia semplicemente titolo valutabile ai fini del computo del periodo di pratica. Non è quindi chiaro se la frequenza biennale con esito positivo della scuola di specializzazione dovrà essere integralmente computata ai fini del periodo di

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pratica, lo sostituirà soltanto in parte o se semplicemente il diploma della scuola forense costituirà il presupposto per il successivo periodo di pratica. Non è neppure allo stato precisato se l’esame (anche riformato) verrà mantenuto per tutti gli aspiranti avvocati o se il diploma rilasciato dalle scuole, eventualmente integrato con l’attestazione positiva di un periodo di pratica, preventivo o successivo, da svolgersi presso uno studio professionale sostituirà l’esame di stato e costituirà, perciò, titolo direttamente abilitante alla professione di avvocato.

Analoghe considerazioni valgono per gli aspiranti notai.

In questa sede si ritiene opportuno accennare a questa problematica, poiché le diverse soluzioni che saranno adottate avranno immediato riflesso sulla frequenza delle scuole da parte dei futuri giuristi e, quindi, sulla effettiva composizione pluralistica delle stesse, quale momento di effettiva formazione comune di magistrati, avvocati, notai >>.

La frequenza delle Scuole di specializzazione post lauream è dunque destinata, una volta che la riforma sarà entrata a regime, a condizionare in maniera assoluta l’accesso alla magistratura. Al di là degli obiettivi di più immediato interesse per la magistratura – l’elevazione degli standards di preparazione culturale degli aspiranti magistrati e la razionalizzazione, sotto il profilo del dimensionamento, delle prove di ammissione – l’istituzione delle Scuole ha di mira, come detto, un terzo importante obiettivo: l’introduzione di una fase significativa di formazione professionale comune a magistrati e avvocati. Obiettivo che viene spesso invocato in nome della necessità di perseguire una comune cultura della giurisdizione presso le due categorie, di superare loro atteggiamenti culturali di chiusura o di autoreferenzialità corporativa, di appianare diffusi atteggiamenti di antagonismo tra magistrati e avvocati.

Occorre peraltro precisare che i risultati conseguibili con la frequenza di corsi professionalizzanti comuni sono legati, innanzitutto, al fatto in sé dell'innalzamento degli standards culturali delle due professioni. E, per altro verso, è fondatamente presumibile che la comunanza dei programmi, quantomeno fra aspiranti magistrati ed aspiranti avvocati, nell’ambito di una didattica eminentemente rivolta agli aspetti pratico-applicativi dell’attività forense, possa favorire una più approfondita comune percezione dei valori e dei principi del processo, dei diritti e delle garanzie del cittadino, del ruolo del diritto e della legalità. Questa maggiore e più diffusa consapevolezza culturale dei valori di fondo comuni delle rispettive funzioni, è forse l'unica via per accrescere e diffondere, nelle due categorie, la capacità di ricono- scere e rispettare l’altrui punto di vista, di misurarsi sulla cultura che esso determina, e di sentire profondamente, nella distinzione dei ruoli (ed anche nella conseguenziale diversità, in parte,

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delle spinte e delle aspirazioni ideali di cui essi si alimentano), la loro essenziale complementarità nell’ottica dell’arricchimento reciproco delle diverse professionalità.

Condizione essenziale per il conseguimento di quest’ultimo obiettivo enunciato dal legislatore è la centralità da riconoscersi alle Scuole anche ai fini dell’accesso alle professioni di avvocato e di notaio, mediante una collocazione della frequenza dei corsi di specializzazione nell’iter di abilitazione professionale organica e strutturata e non soltanto compatibile con le attuali condizioni di ammissione agli esami e concorsi. Diversamente, il restringimento del target dei laureati interessati ad accedere alle Scuole non integra un fatto puramente numerico, di rilevanza logistica e finanziaria, ma implica lo snaturamento del progetto iniziale. E’ questo il rischio sotteso alle previsioni contenute nello schema di regolamento in commento.

Il C.S.M., dapprima, sottopose all’attenzione del legislatore e degli organismi forensi l’opportunità di configurare il diploma di specializzazione come condizione per l’accesso al praticantato e non soltanto come opzione facoltativa che consente di evitare tale praticantato, come invece previsto dall’art. 17, comma 114, della L. n. 127 / 1997; successivamente, pose in rilievo, come sopra richiamato, un più ampio ventaglio di possibilità di valorizzazione della frequenza dei corsi al fine di garantire la partecipazione pluralistica agli stessi degli aspiranti magistrati, avvocati e notai.

Venuta meno la prospettiva del condizionamento alla frequenza delle Scuole dell’accesso alle professioni forense e notarile – sia per ragioni finanziarie che per l’opposizione delle categorie interessate, segnatamente l’avvocatura, in relazione alla previsione di un numero chiuso di laureati da ammettere ai corsi troppo limitato rispetto agli aspiranti all’esercizio delle professioni legali – la Conferenza dei Presidi delle Facoltà di giurisprudenza ha reiteratamente segnalato la necessità di riconoscere al diploma di specializzazione valore pienamente sostitutivo della pratica forense ed esentativo delle prove scritte dell’esame di avvocato.

Gli organismi rappresentativi dell’avvocatura hanno tuttavia mantenuto invariato il proprio avviso circa l’indefettibilità, per la corretta formazione degli aspiranti avvocati, di un periodo, quantomeno annuale, di pratica forense convenzionalmente intesa: un atteggiamento evidentemente determinato da sottovalutazione o ritenuta insufficienza delle attività pratico- applicative svolte secondo i moduli didattici full time proposti dalle Scuole di specializzazione per le professioni legali. Peraltro, in alternativa alle Scuole di specializzazione, con analogo valore e frequenza non obbligatoria, ai fini della riconosciuta necessità di una formazione teorico-pratica integrativa della preparazione universitaria, il C.N.F. ha dato impulso

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all’istituzione di Scuole forensi, costituite sotto l’egida del Centro per la formazione e l’aggiornamento professionale degli avvocati e dei Consigli provinciali dell’Ordine.

La valutazione del diploma di specializzazione recepita dallo schema di regolamento si allinea a quest’ultima impostazione del problema della formazione post-universitaria e consente che il positivo esito del corso sostituisca, sia pure in modo non automatico, un anno di pratica.

Tale disciplina non sembra tuttavia valorizzare adeguatamente il fatto che l’ammissione alle Scuole, la cui frequenza implica un impegno full time, e il conseguimento del diploma finale sono soggetti a prove selettive. Inoltre, a prescindere dall’intento di uniformazione della disciplina perseguito, con riferimento al periodo transitorio di durata biennale dei corsi di specializzazione, si registra la dilatazione ad un triennio, rispetto all’ordinario biennio di pratica, del periodo minimo di attesa per la partecipazione all’esame di avvocato ed al concorso notarile.

In conclusione, il riconoscimento al diploma di specializzazione di un valore parzialmente sostitutivo della pratica professionale induce all’espressione di un parere comunque favorevole allo schema di decreto ministeriale, pur non sottacendosi, nei suesposti termini, le perplessità che la disciplina proposta induce con riguardo all’effettiva possibilità che le Scuole di specializzazione per le professioni legali assolvano al ruolo di formazione pluralistica che ne determinò l’istituzione e non finiscano invece, in breve volgere, con l’impoverimento dei contenuti culturali e delle prospettive, per costruirsi in funzione di segmento della procedura concorsuale di accesso in magistratura.”

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