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Biologia 33 – DNA – Scoperta 1928: esperimento di Griffith

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Academic year: 2021

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Biologia 33 – DNA – Scoperta 1

Biologia 33 – DNA – Scoperta

1928: esperimento di Griffith

L'esperimento di Frederick Griffith del 1928 fu uno dei primi esperimenti a suggerire che i batteri sono in grado trasferire informazioni genetiche attraverso un processo noto come trasformazione.

In tal modo, esso aprì la strada alla determinazione di quale fosse la natura del materiale genetico.

Che esistesse una qualche sostanza in grado di trasmettere l'informazione genetica (il materiale genetico, appunto) era noto da tempo.

Tra la fine del 1800 e i primi anni del 1900 venne proposto e dimostrato che il materiale genetico fosse racchiuso nei nuclei delle cellule e in particolare nei cromosomi.

Rimaneva però aperta la questione intorno alla materia costitutiva del materiale genetico.

L'ufficiale medico inglese F. Griffith in quegli anni studiava un batterio in grado di causare la polmonite: lo pneumococco (Streptococcus pneumoniae). Nei suoi esperimenti fece uso di due ceppi batterici:

Il ceppo S (Smooth = liscio), dal momento che produce colonie lisce e lucenti (grazie alla presenza di una capsula batterica polisaccaridica che avvolge ogni cellula).

Questo ceppo è in grado di provocare la polmonite.

Il ceppo R (Rough = rugoso), dal momento che produce colonie dall'aspetto "rugoso" (a causa dell'assenza della capsula batterica).

Questo ceppo non è in grado di provocare polmonite.

Schema dell'esperimento

Quando Griffith iniettò batteri R in un topo, verificò che la cavia non si ammalava e non era possibile isolare questi batteri dai tessuti dell'animale.

Quando il medico iniettò batteri S in topo, verificò che l'animale si ammalava, moriva ed era possibile isolare questi batteri dai tessuti dello stesso.

Successivamente prese alcuni batteri S e li uccise in seguito a shock termico. Iniettò poi questi batteri morti in un topo e come c'era d'aspettarsi il topo non si ammalò e non fu possibile isolare i batteri dai tessuti dell'animale.

Da ciò si deduce che, per provocare la malattia, è necessaria la presenza della capsula e i batteri capsulati devono essere ovviamente vivi.

A questo punto Griffith preparò una miscela in cui erano presenti batteri vivi R e batteri morti S (uccisi col calore). Iniettò questa miscela in un topo: quello che ci si aspettava era la NON comparsa di malattia nell'animale (dal momento che non sarebbero dovute sussistere le condizioni appena citate).

In realtà il topo si ammalò e morì; nei suoi tessuti si riscontrarono batteri S vivi.

Conclusioni

Griffith propose l'unica spiegazione plausibile: alcuni batteri R, in seguito all'interazione con batteri morti S si erano trasformati in S.

Evidentemente all'interno dei batteri S morti doveva essere presente una qualche sostanza in grado di conferire ai batteri R la capacità di sintetizzare la capsula polisaccaridica. Questa sostanza è il materiale genetico.

Griffith chiamò il materiale genetico principio trasformante. Erroneamente, come però la stragrande maggioranza degli scienziati suoi contemporanei, riteneva che questa sostanza dovesse essere di natura proteica.

A partire da questo importantissimo esperimento, Avery, MacLeod e McCarty nel 1943 dimostrarono che il

materiale genetico in questione era il DNA (anche se la prova definitiva arrivò solo dagli esperimenti di

Hershey e Chase del 1953

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Biologia 33 – DNA – Scoperta 2 1943: esperimento di Avery

L'esperimento di Avery (Oswald Theodore Avery) e dei suoi colleghi Colin M. MacLeod e Maclyn McCarty rappresenta una delle esperienze fondamentali per l'avanzamento delle conoscenze nel campo della genetica e della biologia molecolare.

Tramite l'esperimento gli scienziati riuscirono a dimostrare che il cosiddetto principio trasformante (ovvero il portatore di informazioni geniche) scoperto nel 1928 da Griffith in seguito al suo famoso esperimento era il DNA.

Schema dell'esperimento di Avery e conclusioni

Avery si procurò una coltura di pneumococchi di tipo S e lisò le cellule (cioè ne ruppe la parete e la membrana cellulare) in modo da ottenere una soluzione nella quale era disciolto il materiale contenuto nei batteri, il cosiddetto estratto cellulare o lisato cellulare.

Il materiale genetico doveva presumibilmente essere uno dei diversi tipi di macromolecole biologiche presenti nei batteri: (proteine, polisaccaridi, acidi nucleici – ovvero DNA e RNA – e lipidi).

Avery e colleghi riuscirono a separare l'estratto cellulare nelle varie componenti macromolecolari appena citate. Successivamente cercarono di capire quali di queste sostanze erano effettivamente in grado di trasformare batteri R avirulenti in batteri S virulenti.

Le cavie sopravvivevano quando trattate con tutte le biomolecole tranne gli acidi nucleici: il materiale genetico doveva essere quindi DNA e/o RNA.

Per capire quale delle due sostanze fosse, divisero l'estratto contenente l'acido nucleico in due aliquote:

una venne trattata con l'enzima ribonucleasi (RNasi) che degrada selettivamente l'RNA e non il DNA, l'altra venne invece trattata con deossiribonucleasi (DNasi) che degrada selettivamente il DNA e non l'RNA.

Ciò che si osservò era la trasformazione dei batteri R in batteri S solo in seguito all'aggiunta dell'aliquota trattata con RNasi. Il materiale genetico doveva allora essere necessariamente il DNA.

1953: esperimento di Hershey e Chase

L'esperimento di Alfred D. Hershey e Martha Chase prova definitivamente che il materiale genetico è costituito da DNA e non da proteine.

In seguito a questi risultati incontrovertibili anche gli scienziati che avevano criticato l'esperimento di Avery, MacLeod e McCarty si convincono dell'importantissimo ruolo biologico del DNA.

Schema dell'esperimento

Hershey e Chase svolgevano studi su un fago, ovvero un virus in grado di infettare i batteri; in particolare il fago di loro interesse era noto come "T2". Questo virus è in grado di attaccare Escherichia coli (un batterio utilizzato spesso come modello in questo genere di studi).

All'epoca era noto che T2 era formato esclusivamente da DNA protetto da un involucro proteico.

I due scienziati prepararono in parallelo due colture di E. coli:

Nel terreno di coltura della prima introdussero fosforo marcato radioattivamente (l'isotopo

32

P).

Nel terreno di coltura della seconda introdussero zolfo marcato radioattivamente (l'isotopo

35

S).

I batteri delle due colture metabolizzarono da una parte il fosforo marcato e dall'altra lo zolfo marcato introducendo questi atomi radioattivi nelle biomolecole presenti all'interno delle cellule.

In particolare:

Il fosforo marcato si troverà nei nucleotidi e di conseguenza anche negli acidi nucleici; non sarà presente invece in quantità significative nelle proteine.

Lo zolfo marcato si troverà nelle proteine (in particolare nell'amminoacido cisteina) e non si troverà nei nucleotidi.

A questo punto i ricercatori infettarono parallelamente le due colture batteriche con il fago T2. Questo

virus utilizza l'apparato biosintetico delle cellule di E. coli per replicare il proprio DNA e per sintetizzare le

proteine del rivestimento e quindi per costruire virus completi che causeranno poi la lisi (rottura) della

cellula batterica parassitata.

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Biologia 33 – DNA – Scoperta 3 Dal momento che i nucleotidi e gli amminoacidi utilizzati nella sintesi del DNA e delle proteine virali sono quelli presenti all'interno della cellula batterica infettata (cresciuta nutrendosi degli isotopi radioattivi), ne risulta che i fagi sviluppati dall'infezione nella prima coltura avranno un DNA marcato radioattivamente, mentre quelli sviluppati dall'infezione della seconda coltura avranno il rivestimento proteico esterno marcato radioattivamente.

Hershey e Chase separarono i fagi neoformati (quelli marcati) dai due terreni di coltura e, separatamente, li utilizzarono per infettare altre due colture di E. coli, in questo caso cresciute su terreni "standard" privi di isotopi radioattivi.

Nel caso in cui i fagi infettanti avevano il DNA marcato, in seguito all'infezione gran parte della radioattività veniva misurata all'interno delle cellula batteriche colpite (e nel DNA di una parte dei nuovi fagi sviluppatisi in seguito a questa infezione).

Nel caso in cui i fagi infettanti avevano il rivestimento proteico marcato, la radioattività veniva misurata solamente all'esterno delle cellule batteriche colpite (e non era presente sul rivestimento proteico dei nuovi fagi sviluppatisi in seguito a questa infezione).

Il processo utilizzato per determinare se la radioattività provenisse dall'interno o dall'esterno delle cellule fu il seguente: dopo un certo tempo dall'inizio dell'infezione, il terreno di coltura veniva posto in un agitatore. La conseguente agitazione provocava il distacco del rivestimento proteico dei virus dalla membrana cellulare del batterio (in questo caso si parla di "ombre fagiche" poiché questi rivestimenti proteici non contengono il DNA che è già stato iniettato nella cellula). Il tutto veniva poi centrifugato: le cellule batteriche (contenenti eventualmente il DNA marcato) rimanevano sul fondo della provetta, mentre i rivestimenti proteici dei virus, distaccati dalle membrane cellulari dei batteri, rimanevano in sospensione.

A seconda di dove si misurava la maggiore radioattività era possibile dedurre se la molecola marcata si trovasse o meno all'interno della cellula batterica.

Nel caso del DNA marcato la radioattività si misurò sul fondo della provetta (quindi all’interno dei batteri).

Nel caso delle proteine marcate la radioattività si misurò sul sopranatante (quindi all’esterno dei batteri)

Conclusione

Dal momento che il fago per replicarsi ha bisogno di introdurre all'interno della cellula ospite il suo materiale genetico per poter sfruttare l'apparato batterico di biosintesi, appare evidente che questo materiale genetico deve essere per forza il DNA poiché, come dimostrato, le proteine non entrano nella cellula colpita mentre il DNA sì.

A questo punto rimaneva aperta un'ultima questione: "Di cosa è fatto il materiale genetico degli

"organismi" che non contengono DNA (i virus a RNA)?". La risposta a questa domanda non tardò ad arrivare

in seguito a studi condotti sul virus del mosaico del tabacco (TMV) da Gierer e Schramm (1956) e da

Fraenkel-Conrat e Singer (1957).

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