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Emerge qui quell elemento di differimento, di distanza che, a nostro avviso, è l azione distanziante del far segno, del segno.

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Academic year: 2022

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LA MORTE ESSENZIALE

Tutto ciò che non è la morte è maschera, è occultamento:

possiamo spingerci oltre e dire che è simulazione. La morte è essenziale, è ciò che esiste di più profondo in noi, la nostra dimensione più intima: per cautela, per sopravvivenza lo spirito la dissimula, apponendole una maschera, un travestimento; lo spirito, cioè, attribuisce realtà ultima all’idea di «destino», lo qualifica come limite per impedirci ogni ricerca ulteriore.

Perché una ricerca ulteriore, una ricerca che vada più a fondo, che scavi maggiormente, approderebbe all’indicibile della morte. Lo spirito stabilisce, postula un termine oltre il quale non si può (o non si deve) andare, circoscrive il campo di indagine, conferendo l’illusione che esso sia tutto il campo indagabile. Ma questa circoscrizione è indebita e per operare in tal senso lo spirito deve sforzarsi e utilizzare artifici. Deve ingannare. Perché la forza suprema possa distruggerci senza urtarci, quindi senza contatto, a distanza.

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Perché la morte possa lavorare su di noi in maniera inavvertita, perché essa possa sopraggiungere come un accidente e non mostrarsi nei suoi caratteri di fatalità.

Perché l’uomo possa rimanere alla superficie delle cose, nell’esteriorità di ogni idea e criterio, “nello scenario intercambiabile, nel mondo convenzionale in cui vive”. Queste parole, tratte da La paura più antica. A proposito di Tolstoj contenuta ne La caduta nel tempo, sono la definizione esatta del mondo creato dallo spirito che, ricordiamolo, metaforizza, lima l’effigie dell’incomunicabile per renderlo trasmissibile, non sopporta i silenzi grevi (il silenzio della morte?) e si innalza al livello dell’astrazione e del concetto.

Emerge qui quell’elemento di differimento, di distanza che, a nostro avviso, è l’azione distanziante del far segno, del segno.

È la freccia di Apollo che colpisce da lontano, è la luce accecante che cancella l’ombra: è la metafisica così come la intende Nietzsche (e, in seguito, Heidegger e la tradizione che da lui trae spunto). La terminologia scelta da Cioran è ancora una volta rivelatrice: la maschera, vocabolo tipicamente nietzschiano, e gli artifici a cui lo spirito deve ricorrere – termine illuminante per la nostra analisi:

ricordiamolo, ci servirà presto – sono sintomi che svelano come la forza all’opera qui sia appunto quella metaforizzante dello spirito, forza che viene a coincidere con la nozione di metafisica. Quella metafisica che deve necessariamente dissimulare la morte, la portata della morte, a costo della sua stessa sopravvivenza, della sopravvivenza dell’uomo attivo. È qui in “questione […] la fuga dalla morte, il rifiuto della morte. Più si è civilizzati (nel senso deteriore del termine), più si rifiuta la morte.

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Per la gente di campagna, per gli antichi abitanti della terra, la vita e la morte erano sullo stesso piano. Il cittadino, invece, accantona la morte, la elude”. Il cittadino, cioè, si preoccupa di “eludere la presenza della morte, per velarla e mascherarla. Questo è il motivo per cui l’uomo occidentale, l’uomo civilizzato si sente male e corre dal medico, dal farmacista”, affidando, come sostiene in maniera molto acuta Luis Jorge Jalfen (l’intervistatore di Cioran nella fattispecie), l’amministrazione della morte alla

“medicina – che è la sua burocratizzazione336”. “Più di chiunque altro, il malato dovrebbe identificarsi con la morte; eppure si sforza di distaccarsene e di proiettarla al di fuori.

Siccome gli è più facile fuggirla che constatarne la presenza dentro di sé, mette in atto ogni artificio per sbarazzarsene.

Trasforma la propria reazione di difesa in uno schema, anzi in una dottrina.

L’uomo comune che gode di buona salute è estasiato di poterlo imitare e seguire. […] Gli stessi mistici usano sotterfugi, praticano l’evasione e una tattica di fuga: la morte per loro è solo un ostacolo da superare, una barriera che li separa da Dio, un ultimo passo nella durata. […] Di nuovo questo bisogno di fare della morte un accidente o un mezzo, di ridurla al momento del trapasso invece di considerarla una presenza, di nuovo questo bisogno di spossessarla337 ”. La burocratizzazione della morte, il suo inserimento in una procedura o in una dottrina, significa ancora una volta ridurne la portata, eluderne la presenza, simulare la possibilità di scongiurarla.

Ma la burocratizzazione della morte, la sua traduzione in una serie di operazioni, in un programma, altro non è che il riflesso esteriore di una forza sotterranea che mira a occultare il cadavere, non è altro che il lato visibile della

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volontà di sistema. E volontà di sistema è solo uno dei tanti nomi della metafisica.

“Come spegnersi all’interno di un sistema? E come marcire? La metafisica non lascia nessuno spazio al cadavere. Né, d’altra

parte, all’essere vivente. Più si diventa astratti e impersonali, a causa di concetti o pregiudizi che siano (i

filosofi e gli spiriti comuni si muovono ugualmente nell’irreale), più la morte prossima, immediata, sembra

inconcepibile”.

Sia la burocratizzazione che l’astrazione operata dallo spirito mirano all’impersonalità, a espellere dal concepibile la morte prossima, immediata, mediante un’opera di distanziamento. Riprendendo i termini del sopra citato Significato della maschera, il frapporre fra noi e la forza suprema un simulacro apparentemente ultimo quale il «destino»

mira a far sì che l’azione della morte in noi risulti inavvertita, non ci urti, non ci sconvolga.

“In nessun modo legata al nostro livello intellettuale, la morte, come ogni problema privato, è riservata a un sapere senza conoscenze. Ho avvicinato molti illetterati che ne

parlavano con più pertinenza di un metafisico; avendo individuato con l’esperienza l’agente della loro distruzione, vi consacravano tutti i loro pensieri, sicché la morte, invece

di essere per loro un problema impersonale, era la loro realtà, la loro morte”.

Un problema privato, non comunicabile, non trasmissibile, personale: un problema che non assurge al livello del

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concetto, che non si lascia irretire in una definizione, che non è mai conoscenza ma che è sempre un sapere; indipendente dal nostro livello intellettuale, esso si scopre per esperienza. La morte diventa così la nostra morte, la nostra realtà. Di contro l’operazione astraente compiuta dalla metafisica e dal senso comune contribuisce alla collocazione dell’uomo nell’irrealtà: a questo mirano rispettivamente e contemporaneamente sia i concetti che i pregiudizi.

Questa irrealtà in cui si muovono sia i filosofi sia gli uomini comuni è sinonimo della dolce incoscienza dicui Cioran parlava in Al culmine della disperazione; dolce incoscienza che ora siamo in grado di collegare alla medesima azione metaforizzante della metafisica, in quanto istituisce un rapporto simulativo con il tempo: l’uomo comune, infatti, vive come se fosse eterno, come se la sua vita non avesse mai fine.

L’uomo che ha il sentimento della morte, invece, pensa continuamente la propria eternità e la nega in ogni pensiero.

Ancora una volta, il tempo si pone al centro della nostra riflessione: analizziamo nel dettaglio entrambe le percezioni del tempo, sottese alla coscienza o all’incoscienza della morte. Rivolgiamoci, innanzitutto, all’incoscienza, a quella che potremmo chiamare simulazione di eternità: attribuiamoci, a tale scopo, un supplemento di normalità….

Ancora una volta vorremmo mostrare il confronto tra le affermazioni contenute in Sulla morte:

“Una delle più grandi illusioni dell’uomo normalesta infatti nel credere che la vita non debba mai finire, e nel pensare che essa non sia prigioniera della morte. […] La trascendenza della morte si manifesta nel concetto che ne hanno coloro per

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i quali le incertezze della vita non dipendono da un elemento organico o dall’angoscia interiore, bensì da una causa esterna, portando al parossismo la sensazione di essere bruscamente inghiottiti dalla morte. Possiamo dire che in essi

il sentimento della morte è tanto raro che quasi non esiste.

Benché talvolta possa diventare molto intenso, esso è così sporadico da escludere la possibilità che si sviluppi

un’ossessione dolorosa”.

E quelle contenute nelle Variazioni sulla morte:

“Ed è lei, [la morte] la dimensione più intima di tutti i vivi, a separare l’umanità in due ordini così irriducibili, così lontani l’uno dall’altro che vi è più distanza tra loro

che non fra un avvoltoio e una talpa, fra una stella e uno sputo. Tra l’uomo che ha il sentimento della morte e quello

che non lo ha si spalanca l’abisso fra due mondi non comunicanti; eppure entrambi muoiono; ma l’uno ignora la sua

morte, l’altro la conosce; l’uno muore un solo istante, l’altro non cessa di morire… La loro condizione comune li colloca esattamente agli antipodi l’uno dell’altro; ai due

estremi e all’interno di una stessa definizione;

inconciliabili, essi subiscono il medesimo destino… L’uno vive come sefosse eterno, l’altro pensa continuamente la propria

eternità e la nega in ogni pensiero

Colui che ha il sentimento della morte si distingue radicalmente da colui che non lo possiede: pur trattandosi degli antipodi di un medesimo destino di morte, di una medesima definizione tra loro vi è una differenza maggiore di quella che sussiste fra un avvoltoio e una talpa e fra una stella e uno sputo; “uno, [infatti], ignora la sua morte”,

“l’altro la conosce”; uno muore un solo istante – cioè la

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morte sopraggiunge per lui bruscamente, come una sorta di inghiottimento improvviso e inaspettato (in quanto considera le incertezze della vita sempre e solo come accidenti dettati da cause esterne) –, mentre l’altro non cessa di morire, di esperire ogni istante il senso dell’agonia e il sentimento della morte, di negare l’eternità ad ogni pensiero in quanto ogni pensiero è impregnato di tale sentimento.

Non c’è possibilità di comunicazione tra questi due mondi: il possesso, anzi l’essere posseduti dal sentimento della morte apre un abisso tra queste due categorie di uomini; entrambi vivono e muoiono, ma non vivono la stessa vita e, soprattutto, non muoiono la stessa morte. Per gli uomini comuni, infatti, il sentimento della morte è talmente sporadico (anche se potenzialmente molto intenso) da non poter diventare un’ossessione, da non poter assurgere a tormento costantemente ripetuto, a incubo perenne.

Essi vivono nella magia, dice Cioran in un altro luogo di Al culmine della disperazione, e “le illusioni della magia negano l’irreparabile del mondo, ricusano la morte come realtà ineluttabile e universale. Soggettivamente questo fenomeno è di grande importanza. [L’uomo che ne gode] vive infatti come se non dovesse mai morire.

Ora, l’intero problema della morte si riduce alla coscienza che ne ha il soggetto. Per chi non la possiede, entrare attraverso la morte nel nulla non ha alcuna importanza. Il sentimento costante della morte porta al parossismo della coscienza. Nella magia, la coscienza non è pervenuta a questa autonomia dalla vita, che le conferisce la natura di una forza centrifuga, bensì conserva ancora un carattere vitale”. Nella magia “c’è […] tutta la pienezza di un’integrazione nel flusso

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vitale, tutta l’esuberanza dell’agire nel senso e nella direzione immanenti alla vita”: per dirla nei termini opposti, cioè nei termini dell’assenza, non c’è coscienza o meglio “la coscienza non è pervenuta a questa autonomia dalla vita” che è il “parossismo dellacoscienza” stessa causato dal “sentimento costante della morte”; pertanto ha “ancora un carattere vitale”, non è divenuta “una forza centrifuga”.

Come ora è chiaro, questa magia di cui parla Cioran è sinonimo di quel delirio che sostiene e inventa la vita di cui si è parlato nel paragrafo riguardante la noia. A questo stadio la coscienza pulsa ancora all’unisono con la vita, non è “questa non-partecipazione a ciò che si è, questa capacità di non coincidere con nulla” che si declina, come abbiamo visto, nei termini di una forza centrifuga. Notiamo che questa deriva della coscienza è causata dalla presenza perenne, dalla costanza del sentimento della morte: “Il pensiero della morte asservisce coloro che assilla. Libera solo all’inizio; poi degenera in ossessione, cessando così di essere un pensiero”.

Cioran qui introduce la doppia portata di tale sentimento, di tale pensiero: liberatore solo all’inizio (vedremo fra poco cosa si intenda qui per liberazione) – quando è ancora pensiero – e assillante padrone poi – quando “degenera in ossessione” e cessa di essere un pensiero.

Cioran lo afferma con “una competenza di suppliziat[o] e di erudit[o]”:

“Quando ero giovane pensavo di continuo alla morte. Era un’ossessione, ci pensavo persino mentre mangiavo. Tutta la mia vita era dominata dall’idea della morte. Un pensiero che

non mi ha mai abbandonato, ma che col tempo ha perso d’intensità. É sempre una ossessione, ma non è più un pensiero. Le faccio un esempio: qualche mese fa ho incontrato

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una signora, e abbiamo parlato di un nostro comune conoscente, che non vedevo da molto tempo. Lei diceva che era meglio non rivederlo, perché era troppo infelice. Non faceva che pensare

alla morte. Le ho replicato: «A cos’altro vuole che pensi?».

Alla fin fine non ci sono altri argomenti”.

Qui Cioran istituisce una differenza, a nostro avviso molto profonda, tra ossessione e pensiero. Cercheremo, nel capitolo seguente, di render conto di questa differenza, di questa degenerazione. Riteniamo per ora sufficiente aver compreso come si presenta il sentimento della morte. Come abbiamo detto sopra, tale ossessione può svilupparsi solo se qualcosa sopraggiunge a incrinare la nostra salute, se uno squilibrio ci permette un accesso alle nostre profondità: se si passa, per dirla nei termini del giovane Cioran, dalla magia al parossismo della coscienza. Ormai conosciamo il movimento che, secondo Cioran, crea la coscienza: ci soffermeremo pertanto solo sugli elementi di novità che qui verranno introdotti.

“Non ci è dato identificare il momento in cui si opera, a danno della nostra sostanza, un processo di erosione. Sappiamo che ne risulta un vuoto in cui si instaura gradualmente l’idea della nostra distruzione. Idea vaga, appena abbozzata: è come

se questo vuoto si pensasse da sé. Poi, trasfigurazione sonora, dal più profondo di noi sorge una nota, che per la sua

insistenza può paralizzarci oppure trasmetterci un impulso.

Saremo dunque prigionieri della paura o della nostalgia, al di sotto della morte o al suo stesso livello. Sarà la paura, se questa nota perpetua il vuoto in cui è apparsa; la nostalgia,

se lo trasforma in pienezza. Secondo la nostra conformazione vedremo nella morte sia un’insufficienza che un’eccedenza di

essere”.

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