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INTRODUZIONE GENERALE

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LA GLICOLISI

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Il glucosio (Figura 1) è un monosaccaride aldeidico chirale costituito da una catena a sei atomi di carbonio poliossidrilati; rappresenta la principale sostanza nutriente nella maggior parte degli organismi viventi in quanto riveste un ruolo fondamentale in molti processi metabolici. L’enantiomero D è quello maggiormente presente in natura, mentre la sua immagine speculare, l’L-glucosio, non può essere metabolizzato dalle cellule.

Figura 1. a) Glucosio nella proiezione di Fischer; b) glucosio nelle proiezioni di Haworth; c)

D-glucosio nelle conformazioni a sedia.

Il glucosio una volta entrato nelle cellule, può andare incontro a tre principali destini metabolici (Figura 2) :

1. Può essere conservato sotto forma di polimeri ad alto peso molecolare come l’amido e il glicogeno; questo fa sì che le cellule possano accumulare grandi quantità di esosi senza però aumentare l’osmolarità del citosol. Il glucosio così immagazzinato può essere rilasciato rapidamente dai polimeri di riserva e usato per produrre ATP sia in modo aerobico che anaerobico qualora la cellula ne presentasse necessità.

2. Può essere ossidato a piruvato. Questo avviene tramite un processo noto come

glicolisi, la quale rappresenta la principale via del catabolismo del glucosio,

nonché la prima conosciuta e la più studiata. Inoltre costituisce la principale o, in alcuni casi come eritrociti, neuroni e spermatozoi, l’unica fonte di energia per le cellule. Nella glicolisi, una molecola di glucosio subisce dieci trasformazioni

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3 chimiche in sequenza, che portano alla produzione di due molecole di piruvato (molecola a 3 atomi di carbonio). Durante queste reazioni, catalizzate da enzimi che sono stati identificati e purificati, si ha la liberazione di energia che viene immagazzinata sotto forma di ATP e formazione di due molecole di NADH. 3. Può essere ossidato a ribosio-5-fosfato nella via del pentosio fosfato. Questa via

metabolica è indispensabile per la produzione di NADPH e di pentosi come il D-ribosio, fondamentale per la biosintesi degli acidi nucleici.

Figura 2. Le principali vie di utilizzazione del glucosio.

Nella glicolisi (Figura 3) possiamo riconoscere due diverse fasi distinte:

1. Fase preparatoria, nella quale la cellula compie un investimento energetico,

utilizzando due molecole di ATP per fosforilare una molecola di glucosio, in modo da rendere possibile la scissione in due molecole di gliceraldeide 3-fosfato;

2. Fase di recupero energetico, che comprende gli ultimi cinque step della

glicolisi nei quali le due molecole di gliceraldeide 3-fosfato, precedentemente formate, vengono trasformate in due molecole di piruvato con contemporanea formazione di ATP e NADH.

Dal bilancio delle due fasi si ottiene l’equazione complessiva della glicolisi: glucosio + 2ATP + 2NAD+ → 2 piruvato + 4ATP + 2NADH; con un guadagno energetico

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5 Fase preparatoria

Nella prima tappa si ha una fosforilazione del glucosio ad opera di una molecola di ATP; in questo modo viene attivato per le reazioni successive. La fosforilazione avviene sull’ossidrile in C-6 grazie alla catalisi dell’enzima esochinasi (Figura 4). L’esochinasi è un enzima che necessita della presenza di ioni Mg2+ per esplicare la propria azione catalitica, in quanto, il vero substrato non è l’ATP4- ma è il complesso MgATP2-. Inoltre questa reazione deve avvenire in assenza di H2O in quanto questa potrebbe essere una

accettrice del gruppo fosfato derivante dall’ATP. Questo ha portato alla considerazione che l’enzima compia un adattamento indotto, chiudendosi intorno all’ATP e al glucosio dopo che questi si sono legati al sito attivo.

Figura 4. Primo step: fosforilazione del glucosio.

La fosforilazione del glucosio a livello intracellulare riveste un ruolo chiave nel mantenere la concentrazione intracellulare di glucosio bassa in modo da non ostacolare il suo flusso in entrata. Infatti il glucosio entra nella cellula attraverso specifici trasportatori (GLUT), che regolano il flusso a seconda della sua concentrazione intra- ed extracellulare. Una volta fosforilato in modo irreversibile, il glucosio-6-fosfato (G6P) non può più uscire dalla cellula, poiché i gruppi fosforici sono ionizzati a pH 7.0 e la membrana cellulare è impermeabile a molecole cariche; inoltre non sono presenti trasportatori di membrana specifici per il G6P.

Il secondo step prevede una reazione di isomerizzazione nella quale il glucosio 6-fosfato, un aldosio, viene trasformato in fruttosio 6-6-fosfato, un chetosio (Figura 5); questo fa sì che anche il fruttosio possa entrare nel ciclo della glicolisi con la semplice fosforilazione in C-6.

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Figura 5. Secondo step: isomerizzazione del glucosio 6-fosfato a fruttosio 6-fosfato.

L’enzima coinvolto nell’isomerizzazione è la fosfogluco isomerasi. Particolarità di questo enzima è che riesce a catalizzare la reazione in entrambe le direzioni, riuscendo quindi ad ottenere glucosio-6- fosfato dal fruttosio-6-fosfato.

Il terzo step (Figura 6) costituisce il punto principale di regolazione della glicolisi, in quanto mentre i prodotti dei primi due step (G6P e F6P) possono essere sfruttati anche per altri vie metaboliche, il derivato difosforilato è destinato ad essere scisso. La

fosfofruttochinasi-1 (PFK-1) è un enzima piuttosto complesso; infatti è costituito da

diverse subunità e possiede, oltre ai siti di legame per i suoi substrati, siti regolatori di tipo allosterico dove possono legarsi attivatori o inibitori. L’attività dell’enzima è incrementata da basse concentrazioni di ATP e alte concentrazioni dei suoi metaboliti ADP e AMP; se invece ci sono alte concentrazioni di ATP, prodotto da altre vie metaboliche, l’enzima è inibito.

La fosfofruttochinasi-1 aggiunge un secondo fosfato, donato dall’ATP, al fruttosio-6-fosfato, formando il fruttosio 1,6-bisfosfato.

Figura 6. Terzo step: fosforilazione del fruttosio 6-fosfato.

Nel quarto step (Figura 7), l’enzima fruttosio 1,6-bifosfato aldolasi, spesso chiamato semplicemente aldolasi, rompe la molecola di zucchero catalizzando una reazione retroaldolica che dal fruttosio 1,6-bifosfato porta alla gliceraldeide 3-fosfato, un aldosio, e al diidrossiacetone fosfato, un chetosio.

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Figura 7. Quarto step: scissione del fruttosio 1,6-bifosfato.

L’aldolasi può catalizzare anche la reazione opposta, legando insieme le due molecole più piccole per riformare il fruttosio 1,6-bisfosfato (proprio da questa reazione inversa, una condensazione aldolica, deriva il nome dell’enzima). Nelle condizioni intracellulari l’equilibrio è però spostato a destra in quanto, appena formati questi intermedi, essi vengono subito sottratti all’equilibrio per subire le successive trasformazioni.

Arrivati a questo punto, la gliceraldeide 3-fosfato è pronta per la fase successiva di recupero energetico, mentre il diidrossiacetone fosfato deve subire un ulteriore step (Figura 8), dove viene anch’esso convertito in gliceraldeide 3-fosfato.

Figura 8. Quinto step: isomerizzazione del diidrossiacetone fosfato.

L’enzima che catalizza la reazione è la trioso fosfato isomerasi; grazie a quest’ultimo passaggio si ottengono due molecole identiche di gliceraldeide-3-fosfato, pronte per seguire la stessa via; si completa così la fase preparatoria della glicolisi.

Fase di recupero energetico:

La seconda fase della glicolisi inizia con il sesto step (Figura 9) nel quale la gliceraldeide 3-fosfato viene ossidata ad acido 3-fosfoglicerico; a questo viene legato uno ione fosfato ottenendo un’anidride mista chiamata acil fosfato: l’1,3-bifosfoglicerato.

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Figura 9. Sesto step: ossidazione della gliceraldeide 3-fosfato a 1,3-bifosfoglicerato

L’enzima che catalizza la razione è la gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi; l’agente ossidante utilizzato dall’enzima è il NAD+ (forma ossidata del cofattore nicotinamide adenin dinucleotide) che legando uno ione idruro (:H-) si riduce a NADH, mentre l’altro atomo di idrogeno proveniente dalla molecola del substrato che si ossida compare nella soluzione sottoforma di ione H+.

L’acil fosfato presenta un energia libera di idrolisi molto elevata la quale viene sfruttata dalla cellula per produrre ATP nella settima tappa della glicolisi dove l’1,3-bifosfoglicerato viene trasformato in 3-fosfoglicerato (Figura 10) con liberazione di un gruppo fosfato inorganico che viene trasferito ad una molecola di ADP con l’ottenimento, appunto, di una molecola di ATP.

Figura 10. Settimo step: trasferimento del gruppo fosforico dall’1,3-bifosfoglicerato all’ADP.

La reazione in condizioni intracellulari è reversibile, infatti l’enzima che la catalizza, la

fosfoglicerato chinasi, prende il nome proprio dalla reazione inversa.

L’ottavo step (Figura 11), catalizzato dall’enzima fosfoglicerato mutasi, rappresenta un passaggio chiave per la produzione finale di ATP nella glicolisi; questo passaggio consiste nello spostamento dal C-3 al C-2 del glicerato del gruppo fosforico. Il 3-fosfoglicerato, infatti, non può partecipare alla sintesi di ATP direttamente donando il suo gruppo fosforico all’ADP, in quanto l’idrolisi di questo estere fosforico non libererebbe sufficiente

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9 energia; il 2-fosfoglicerato formatosi, essendo un enolo dell’acido fosfoenolpiruvico, possiede invece l’energia di idrolisi necessaria per produrre molecole di ATP.

Figura 11. Ottavo step: conversione del 3-fosfoglicerato in 2-fosfoglicerato.

La nona tappa (Figura 12), consiste in una disidratazione del 2-fosfoglicerato per dare il fosfoenolpiruvato.

Figura 12. Nono step: deidratazione del 2-fosfoglicerato a fosfoenolpiruvato.

Nell’ultimo step (Figura 13), l’estere fosfato viene idrolizzato per produrre ATP con contemporanea formazione di una molecola di piruvato che, a pH 7.0, tautomerizza rapidamente da un’ iniziale forma enolica nella forma chetonica più stabile.

Figura 13. Decimo step: trasferimento del gruppo fosforico dal fosfoenolpiruvato all’ADP.

La reazione è catalizzata dall’enzima piruvato chinasi, che è un importante enzima allosterico. Questo riveste un ruolo fondamentale nella regolazione della glicolisi in quanto viene inibito da alte concentrazioni di ATP e di altri intermedi importanti per la produzione di energia come l’Acetil-CoA. Viene invece attivato quando diminuiscono i livelli di ATP e aumentano i livelli di zuccheri fosforilati come il fruttosio 1,6-bisfosfato.

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10 Effetto Pasteur

Louis Pasteur, studiando la fermentazione del glucosio operata dal lievito, notò che in condizioni anaerobiche (basse concentrazioni di O2) veniva aumentata sia la velocità che la

quantità totale di consumo di glucosio, rispetto alle condizioni aerobiche (alte concentrazioni di O2). Studi successivi confermarono il verificarsi di tale fenomeno anche

nel tessuto muscolare. Questo fenomeno prende il nome di “Effetto Pasteur”.1, 2

La spiegazione biochimica di questo fenomeno si ottiene confrontando il metabolismo di una cellula in condizioni aerobiche e in condizioni anaerobiche (Figura 14).

Figura 14. Produzione energetica in condizioni anaerobiche e aerobiche.

A livelli normali di ossigeno, la cellula, dopo la glicolisi, catabolizza il piruvato nel ciclo di Krebs arrivando ad ottenere CO2 ed H2O con una produzione di ben 32 molecole di

ATP. A basse concentrazioni di O2, invece, la cellula, una volta avvenuta la glicolisi, non

può proseguire il normale catabolismo del glucosio, con una conseguente produzione totale di sole 2 molecole di ATP. Quindi per ottenere la stessa quantità di energia una cellula, in condizioni anaerobiche, si troverà costretta ad accelerare la glicolisi e quindi ad aumentare il consumo di glucosio. Questo si può quindi considerare come un fenomeno adattativo della cellula, che cerca di adeguare la produzione di ATP alle richieste energetiche cellulari. Questa versatilità metabolica da parte delle cellule fa sì che la produzione energetica possa proseguire anche a concentrazioni variabili di O2.

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I DESTINI DEL PIRUVATO

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Il piruvato, prodotto finale della glicolisi, può subire vari destini a seconda delle condizioni in cui si trova la cellula (Figura 15):

Figura 15. Destini del piruvato.

Condizioni aerobiche:

1. Il glucosio, una volta entrato nella cellula attraverso trasportatori specifici, si trova nel citosol e qui viene degradato a piruvato, con conseguente produzione di energia, attraverso la glicolisi. Il piruvato ottenuto, in presenza di O2, può proseguire il

catabolismo del glucosio. Infatti, una volta formato, viene trasportato dal citosol ai mitocondri dove subisce una reazione di decarbossilazione ossidativa, nella quale perde il gruppo carbonilico sotto forma di CO2. Successivamente vi si lega il

Coenzima-A, con contemporanea riduzione del NAD+ a NADH, formando acetil-CoA che è il prodotto di partenza del ciclo dell’acido citrico (o ciclo di Krebs) (Figura 16); questo rappresenta un crocevia importante di diverse vie metaboliche in quanto molti degli intermedi possono derivare da altri processi biochimici o possono essere il punto di partenza per la formazione di altre sostanze. Ad esempio, i lipidi a catena pari possono essere ossidati completamente, attraverso il processo della β-ossidazione, a formare Acetil-CoA, mentre quelli a catena dispari sono

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12 ossidati ad Acetil-CoA e Succinil-CoA ed entrano quindi nel ciclo. Il citrato, il prodotto del primo step del ciclo, può uscire dal mitocondrio ed essere scisso dall’enzima citrato liasi, che si trova nel citosol, per dare di nuovo Acetil-CoA, che a sua volta può entrare nella biosintesi degli acidi grassi e del colesterolo. Gli amminoacidi possono subire vari processi metabolici e diventare intermedi pronti ad essere catabolizzati nel ciclo di Krebs. Intermedi come gli acidi ossalacetico o α-chetoglutarato sono però anche punti di partenza per la biosintesi di amminoacidi. Infine a partire dal Succinil-CoA si sintetizza il nucleo porfirinico mentre l’L-malato entra nel processo della gluconeogenesi.

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13 Durante questo ciclo di reazioni si produce energia, che la cellula immagazzina attraverso la formazione di ATP e la contemporanea riduzione di cofattori come NAD+ e FAD rispettivamente a NADH e FADH2. I cofattori ridotti cedono poi

elettroni a dei complessi che si trovano sulla membrana interna mitocondriale e che fanno parte di quella che viene chiamata catena respiratoria. L’accettore finale di questi elettroni è l’ossigeno molecolare, che viene trasformato in H2O. Il

trasferimento di elettroni da un complesso all’altro è accompagnato dalla traslocazione di protoni dalla matrice allo spazio mitocondriale intermembrana. Si viene così a creare un gradiente di concentrazione e di carica che permette, attraverso un processo chiamato fosforilazione ossidativa, la formazione di ATP.

Condizioni anaerobiche:

2. Il lievito e altri microrganismi, in assenza di ossigeno, fermentano il glucosio a etanolo e CO2 in un processo chiamato fermentazione alcolica (Figura 17). Il

piruvato, derivante dalla glicolisi, viene in una prima tappa decarbossilato ad acetaldeide, che, a sua volta, subisce una riduzione ad etanolo con la conseguente ossidazione del cofattore NADH a NAD+.

Figura 17. Fermentazione alcolica; TPP = Tiamina pirofosfato.

3. Le cellule del muscolo scheletrico umano, ma anche gli eritrociti, se si trovano in condizioni anaerobiche e quindi non possiedono una concentrazione sufficiente di ossigeno per effettuare la respirazione cellulare, vanno incontro ad un processo che prende il nome di fermentazione lattica (Figura 18), nella quale una molecola di piruvato viene ridotta a lattato, con conseguente ossidazione del NADH a NAD+.

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Figura 18. Fermentazione lattica.

L’importanza di questo processo risiede nel riottenimento di cofattori ossidati indispensabili per il processo glicolitico. Normalmente la cellula sfrutta l’ossigeno come accettore finale degli elettroni ed in questo modo può continuamente rigenerare i cofattori ossidati per far procedere la glicolisi senza limitazioni. In assenza di quantità adeguate di ossigeno, però, si verificherebbe un blocco della fosforilazione ossidativa con conseguente accumulo di cofattori ridotti. Questo porterebbe al blocco della glicolisi, in quanto risulterebbe impossibile ossidare la gliceraldeide-3-fosfato in assenza del cofattore NAD+. Per ovviare a questa evenienza, il piruvato derivante dalla glicolisi viene sottoposto ad una reazione di ossido-riduzione dove si ha la rigenerazione del NAD+ e la conseguente riduzione del piruvato ad acido lattico, che a pH fisiologico si trova prevalentemente sotto forma di lattato. Quindi, da una molecola di glucosio si ha la produzione di due molecole di NADH e due di piruvato; dalle stesse due molecole di piruvato attraverso la fermentazione lattica si riottengono due molecole di cofattore ossidato NAD+. Si ha quindi un bilanciamento perfetto, così che la cellula possa portare avanti la glicolisi anche in condizioni anaerobiche, senza arrivare al blocco completo della produzione di energia.

La fermentazione lattica è un processo che avviene spesso, soprattutto nel muscolo scheletrico sotto sforzo, situazione nel quale si possono venire a creare momenti di carenza di ossigeno. L’acido lattico prodotto provoca l’acidificazione del tessuto muscolare interessato, con conseguenti dolori e crampi; cessato lo sforzo, durante la fase di recupero che ne consegue, l’acido lattico viene trasportato dal sangue al fegato dove viene convertito in glucosio.

L’enzima che catalizza la reazione è la L-lattato deidrogenasi (LDH), appartenente alla classe delle ossidoreduttasi. L’enzima LDH (Figura 19) è un tetramero le cui subunità possono essere di due tipologie: il tipo H, maggiormente presente nel

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15 cuore e negli eritrociti, e il tipo M, maggiormente presente nel muscolo scheletrico. Dalla diversa combinazione di queste subunità si ottengono cinque isoforme enzimatiche: LDH-1 (H4), LDH-2 (H3M), LDH-3 (H2M2), LDH-4 (HM3) e LDH-5

(M4). Questi isoenzimi differiscono tra loro per la distribuzione tissutale ed inoltre

per piccole differenze cinetiche e di composizione amminoacidica. Ad esempio l’ LDH-1 o LDH-B (H4) è maggiormente espresso a livello del muscolo cardiaco e

degli eritrociti, mentre l’LDH-5 o LDH-A (M4) è prevalentemente presente nel

muscolo scheletrico e nel fegato. La presenza di una particolare isoforma all’interno di una cellula è completamente dipendente dalla quantità dei due monomeri (H, M) disponibili per associarsi.3

Figura 19.3 LDH-1 complessato con NADH e ossammato (in blu); i monomeri sono evidenziati con colori

diversi e il sito attivo è evidenziato in azzurro.

Il meccanismo d’azione dell’enzima prevede un iniziale legame del NADH all’enzima seguito dal legame del piruvato. Il complesso LDH-NADH-piruvato così formatosi subisce una modificazione conformazionale che comporta lo spostamento di un loop specifico nel quale è presente un residuo di Arg109. Questo residuo amminoacidico polarizza il gruppo carbonilico del piruvato, catalizzando quindi il trasferimento di uno ione idruro dall’anello nicotinammidico del NADH al substrato (Figura 20). Altro residuo fondamentale per l’attività catalitica è l’Asp168 che, tramite un legame ad idrogeno, stabilizza la forma protonata dell’anello imidazolico dell’His195, altro amminoacido importante per l’azione dell’enzima in quanto riveste due funzioni fondamentali: lega il piruvato posizionandolo in modo corretto per interagire con il C4 del NADH e funge da donatore/accettore di protoni nella reazione redox. Oltre a questi tre residui amminoacidici, che infatti sono conservati in

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16 tutte le isoforme dell’LDH4, altri amminoacidi sono implicati nel meccanismo d’azione dell’enzima, come per esempio Gln102, Arg171 e Thr246. In particolare Gln102 e Thr246 che, insieme all’Arg109, sono coinvolti nel riconoscimento del substrato e, nello specifico, del gruppo metilico del piruvato che di fatto si trova orientato verso questi residui. Altro residuo altamente conservato è quello di Arg171 che ha la funzione di stabilizzare il piruvato grazie ad una forte interazione, tramite due legami a H, con il carbossilato del substrato. Infine importante è anche l’azione dell’amminoacido Ile250 che, grazie alla sua catena idrofobica, crea l’ambiente ideale per l’anello nicotinammidico del NADH.

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L’IPOSSIA TUMORALE

L’ipossia è un fenomeno causato da uno scompenso tra l’apporto e il consumo di O2

che, nei casi più gravi, può trasformarsi in anossia, ovvero assenza di O2. Molti recenti

studi5 hanno dimostrato che lo svilupparsi di aree tissutali ipossiche spesso coincide con la presenza di tumori solidi in stato avanzato. In questi studi, infatti, venne dimostrato come nelle zone tumorali si misurino valori medi di pressione parziale di O2 molto più bassi

rispetto a quelli riscontrati nei tessuti normali (Figura 21). Inoltre i tumori non presentano una distribuzione di ossigeno costante, in quanto i valori di pO2 possono subire grandi

variazioni passando da una zona all’altra e questo fa sì che le zone ipossiche e/o anossiche siano dislocate in modo molto eterogeneo.6

Figura 21.6 Ossigenazione dei tumori e dei tessuti normali circostanti.

(* misurati in mmHg; ND dati non disponibili)

La caratteristica principale delle masse tumorali è l’elevata attività proliferativa ed è proprio questa la causa principale a cui attribuire le anomalie strutturali e funzionali della microcircolazione tumorale. Infatti, avendo ormai perso i meccanismi di controllo di crescita, le cellule tumorali si dividono molto velocemente ma, soprattutto, senza un’organizzazione definita. Questo porta alla formazione di estese masse tumorali che possono andare a comprimere od ostruire completamente i lumi vasali. Questo comporta un diminuito flusso sanguigno alle cellule, le quali subiscono una drastica diminuzione di O2 fino ad avere zone necrotiche se l’interruzione del flusso è totale.

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18 La massa in neoformazione per continuare nella proliferazione deve però garantirsi un adeguato apporto di ossigeno e nutrienti; per farlo, mette in atto un fenomeno detto

angiogenesi. L’angiogenesi avviene in qualsiasi tessuto in accrescimento, in quanto i nuovi

tessuti, attraverso la liberazione di particolari fattori come Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF), promuovono la formazione di nuovi vasi per avere un’adeguata ossigenazione. Così la massa tumorale riesce a crearsi un proprio microcircolo per soddisfare le necessità metaboliche. Anche in questo caso, come già visto per la crescita tumorale, anche la crescita dei vasi sanguigni non ha un’organizzazione ben definita. I vasi che si formano sono spesso irregolari, tortuosi, possono presentare anastomosi artero-venose e fondi chiusi, mancano di muscolatura liscia ed innervazione e possono avere un rivestimento endoteliale incompleto (Figura 22). Sono proprio queste anomalie nella struttura vasale che portano ad un inefficiente ed incostante trasporto di nutrienti.

Figura 22.8 Vasi sanguigni in un tessuto normale e in uno tumorale.

L’ipossia che deriva dalla situazione di sbilanciamento tra consumo e apporto di ossigeno, tipica di molti tessuti tumorali, può essere dovuto a vari fattori (Figura 23):7

Anomalie strutturali e funzionali della microcircolazione tumorale (ipossia

diffusione-limitata). L’apporto di ossigeno limitato dalla perfusione conduce, in

genere, a forme di ipossia che sono transienti e per questo si parla di ipossia

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Alterazione della geometria diffusionale (ipossia perfusione-limitata). Essendo infatti la proliferazione tumorale più veloce del processo di angiogenesi, intorno ad un vaso si vengono a creare masse tumorali nella quale le zone periferiche si trovano troppo lontane dai vasi sanguigni neoformati per avere un adeguato apporto di ossigeno e nutrienti, poiché l’ossigeno, per arrivare alle cellule più periferiche, deve diffondere attraverso tutti gli strati cellulari sottostanti e di conseguenza, all’aumentare della distanza dai vasi, la concentrazione di ossigeno diminuisce. Quindi, le cellule che si trovano ad una distanza di oltre 70 µm dai vasi sanguigni, non ricevono sufficienti quantità di ossigeno e queste masse periferiche si vengono a trovare in condizioni di ipossia stabile che, per questo motivo, viene definita ipossia cronica, poiché dovuta appunto alla limitazione diffusiva per la particolare geometria tumorale.

• Anemia causata dal tumore stesso o da terapie correlate che portano ad una ridotta capacità di trasporto di ossigeno (ipossia anemica).

Figura 23. Ipossia diffusione-limitata e perfusione-limitata

Le zone ipossiche costituiscono un ostacolo per la cura dei tumori, poiché vanno a formare gli strati più resistenti alle chemioterapie e alle radioterapie.

I chemioterapici, infatti, vengono somministrati per via endovenosa e quindi trasportati dal flusso ematico. Così come l’ossigeno, quindi, per raggiungere il bersaglio devono diffondere dal vaso fino agli strati cellulari più esterni; questo comporta che la concentrazione del farmaco diminuisca rapidamente all’aumentare della distanza dal capillare (Figura 24). Ne consegue che le cellule più vicine ai vasi risentono dell’azione

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20 citotossica dei farmaci antitumorali, ma le cellule più lontane, che coincidono appunto con quelle ipossiche, sono raggiunte da concentrazioni di chemioterapici troppo basse e perciò i farmaci non riescono a esercitare il loro effetto citotossico. Per comprendere i motivi della chemioresistenza, bisogna anche considerare che le cellule ipossiche periferiche, oltre ad essere raggiunte da concentrazioni molto basse di farmaci, sono anche cellule con un tasso di proliferazione più basso rispetto alle cellule tumorali più vicine ai vasi, mentre la maggior parte dei farmaci antitumorali hanno come loro bersaglio le cellule ad elevata proliferazione. La resistenza ai chemioterapici è anche dovuta al fatto che l’ipossia causa una “up-regulation” dei geni coinvolti nella resistenza ai farmaci.6

Figura 24.8 Relazione tra distanza dai vasi sanguigni, proliferazione, concentrazione di O2 e concentrazione di farmaco. Nel grafico a destra si vede la relazione tra la frazione di cellule che

sopravvivono all’azione del chemioterapico all’aumentare della distanza dal vaso.

Le cellule ipossiche sono anche più resistenti alle radioterapie poiché le radiazioni, per esercitare il loro effetto citotossico, producendo un danno permanente tramite la formazione di radicali, hanno bisogno della presenza dell’O2 nella cellula.

In condizioni normali, in ogni cellula è presente una piccola quantità di H2O2 che si

forma, grazie all’enzima perossido dismutasi, da acqua ed ossigeno. L’acqua ossigenata presenta un legame singolo ossigeno-ossigeno che, quando viene colpito dalle radiazioni ionizzanti, come i raggi X, subisce una scissione omolitica che porta alla formazione di due radicali ossidrilici (HO) citotossici (Figura 25). La quantità di H2O2 dipenderà dalla

quantità di ossigeno presente nella cellula e quindi, nelle cellule ipossiche, l’effetto citotossico sarà ridotto avendo queste una bassa concentrazione di ossigeno e, di conseguenza, di H2O2.

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Figura 25. Meccanismo della formazione dei radicali ossidrilici citotossici.

I radicali HO• portano alla formazione di ulteriori radicali a carico delle basi nucleiche del DNA. Se è presente ossigeno, questo si lega al DNA danneggiato creando dei perossidi organici stabili che difficilmente vengono riparati e che portano alla rottura delle catene di DNA con conseguente morte cellulare. Invece, in assenza di ossigeno, le basi nucleiche danneggiate possono essere corrette ad opera di composti contenenti gruppi tiolici (RSH) perciò l’effetto citotossico non viene raggiunto (Figura 26). Questo rappresenta quindi un ulteriore forma di protezione della cellula ipossica dall’azione citotossica dei radicali.

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22 Profarmaci attivati dall’ipossia

Le principali strategie antitumorali prevedono, oltre all’asportazione chirurgica, l’utilizzo di chemioterapici, spesso associati con radioterapia. Dalla necessità di ridurre la tossicità e gli effetti collaterali di queste terapie, senza però perdere in efficacia, è nato il bisogno di progettare nuovi profarmaci antitumorali attivati attraverso meccanismi sito-specifici. Per quel che riguarda i tumori caratterizzati da zone ipossiche, una possibile strategia può essere rappresentata dall’attivazione del profarmaco in seguito ad una riduzione, catalizzata da enzimi ubiquitari, che avvenga esclusivamente in condizioni ipossiche; il farmaco ridotto, essendo stabile, svolge la sua azione antitumorale; invece, in presenza di ossigeno, esso viene nuovamente ossidato a profarmaco e diviene inattivo.

Altra strategia può interessare proteine espresse esclusivamente a livello del tessuto neoplastico. Ad esempio, è possibile sfruttare l’ambiente ipossico tumorale, nel quale troviamo una grande quantità di fattore HIF-1 (hypoxia-inducible factor 1), per una terapia genica in cui si possa ottenere un’ attivazione selettiva del profarmaco nel tessuto tumorale (Figura 27). Nei tessuti ossigenati (Figura 27 a), abbiamo infatti bassi livelli di HIF-1 e, di conseguenza, non viene trascritto l’enzima preposto all’attivazione del profarmaco. In condizioni ipossiche (Figura 27 b), come già detto, il fattore HIF-1 viene prodotto in grandi quantità; questo si va a legare a particolari zone promotrici del gene che trascrive per l’ enzima deputato all’attivazione del profarmaco. In questo modo l’enzima viene sintetizzato, ed il profarmaco attivato, esclusivamente nelle zone ipossiche tumorali.

Ultima strategia è rappresentata dalla veicolazione selettiva a livello del tessuto tumorale della sequenza genica codificante un enzima esogeno preposto all’attivazione del profarmaco. Tale effetto può essere ottenuto attraverso varie tecniche tra cui la Gene

Directed Enzyme Prodrug Therapy (GDEPT) o la Virus Directed Enzyme Prodrug Therapy (VDEPT), nei quali si va a cambiare il veicolo che direziona il gene a livello

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Figura 27.6Razionale per una terapia genica ipossia-dipendente.

Tenendo conto esclusivamente della bassa concentrazione di O2 che caratterizza alcune

zone tumorali, è possibile sviluppare profarmaci selettivi. Un profarmaco ipossi-selettivo ideale dovrebbe possedere 3 porzioni distinte:

 Una porzione “interruttore” (trigger) sensibile all’ambiente riducente esterno. Questa porzione, che nei tessuti ossigenati si trova nella sua forma ossidata e quindi “inattiva”, quando raggiunge una zona tumorale ipossica tende a ridursi e a convertirsi nella forma attiva;

 Una porzione “effettrice”, ossia la porzione che una volta attivata svolge l’azione citotossica;

 Un linker che trasmetta l’attivazione alla porzione effettrice.

Tra i principali gruppi che svolgono il ruolo di “trigger” riconosciamo gruppi nitro aromatici, chinonici, N-ossidi e solfossidi. Questi sono gruppi organici facilmente riducibili e, grazie alla redistribuzione elettronica che ne deriva, vanno a formare specie elettrofile reattive o radicali liberi.9

Un esempio di meccanismo d’attivazione di un profarmaco selettivo per le zone ipossiche è rappresentato da una riduzione monoelettronica, catalizzata da reduttasi, che

(24)

24 provoca la trasformazione del profarmaco inattivo in specie radicalica, la quale genera infine il vero farmaco citotossico (Figura 28).

Figura 28.6 Meccanismo tramite il quale i profarmaci agiscono come citotossici ipossi-selettivi.

Se la riduzione avviene in cellule ossigenate, si assiste ad un processo di detossificazione, infatti si può avere il ritrasferimento dell’elettrone spaiato dal farmaco attivo all’ossigeno molecolare con la formazione dello ione superossido, il quale viene poi trasformato dall’enzima superossido dismutasi in H2O2, e del profarmaco di partenza.

Invece, nelle cellule ipossiche, il radicale formato in seguito alla riduzione del profarmaco può causare un effetto citotossico, agendo anch’esso come farmaco vero e proprio.

Un profarmaco di questo tipo è la tirapazamina (TPZ) (Figura 29), il cui meccanismo di attivazione prevede la riduzione monoelettronica da parte di una reduttasi a formare il radicale TPZ•. Questo radicale, in presenza di ossigeno, viene nuovamente ossidato a dare la forma inattiva della TPZ, mantenendosi quindi inattiva nelle cellule non ipossiche. Nelle cellule ipossiche, invece, il radicale TPZ• ha un emivita più lunga e questo fa sì che possa subire un decadimento spontaneo formando quelle che sono le vere specie citotossiche. Il radicale TPZ• può infatti rilasciare un radicale ossidrilico (HO•) per scissione omolitica del legame N-OH, oppure perdere H2O e formare il radicale BTZ•. I radicali HO• e BTZ• sono

i veri agenti citotossici, poichè provocano un danno a livello dell’enzima Topoisomerasi II (l’enzima che determina un aumento o una diminuzione del grado di superavvolgimento del DNA, svolgendo un ruolo fondamentale nella replicazione di questo acido nucleico), portando ad una rottura del doppio filamento di DNA e conseguente morte cellulare.

(25)

25

Figura 29.6 Meccanismo d’attivazione della Tirapazamina.

In generale, questi profarmaci non sono capaci, una volta attivati, di uscire dalle cellule ipossiche in cui sono stati generati. Questo limita molto l’efficienza di questi profarmaci ed è per questo che è nato un grande interesse nella progettazione di profarmaci che possano diffondere dalla cellula di origine, generando un effetto bystander, estendendo così l’effetto citotossico non solo alle cellule ipossiche ma anche a quelle adiacenti.

Tuttavia è importante considerare che, sebbene l’ipossia sia una tipica caratteristica dei tumori solidi, nell’organismo umano esistono tessuti come fegato, midollo osseo, cute, testicoli, retina e cartilagini che presentano fisiologicamente una moderata ipossia. Per ottenere una migliore selettività e diminuire il rischio di effetti secondari indesiderati, i profarmaci dovrebbero quindi attivarsi esclusivamente a valori di pO2 molto bassi,

comportando una migliore selettività nei confronti del tumore e un’azione limitata alle zone più esterne del tumore dove è presente un’ipossia più marcata. Quindi è possibile concludere che il profarmaco ideale dovrebbe avere sia una zona interruttore che si attiva solo in presenza di pO2 molto basse che una porzione effettrice in grado di dare un effetto

bystander, permettendo di eliminare le cellule adiacenti radioresistenti caratterizzate da

una più alta concentrazione di ossigeno.

Dalla necessità di ottenere profarmaci con queste caratteristiche sono nati composti come SN23862 (Figura 30), una mostarda azotata che viene attivata attraverso una riduzione monoelettronica ad opera di reduttasi sul gruppo nitro in posizione 2. Tale evento causa un cambiamento nella distribuzione elettronica nell’anello aromatico, aumentando la reattività della parte alchilante. SN23862 viene rapidamente inibita da concentrazioni molto basse di ossigeno. Oltretutto studi recenti hanno confermato il suo effetto bystander.6

(26)

26

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27

L’EFFETTO WARBURG E IL FENOTIPO GLICOLITICO

Il normale metabolismo del glucosio (Figura 31) ha come passaggio chiave nella produzione energetica la fosforilazione ossidativa (OXPHOS). Questo è un processo ossigeno-dipendente che avviene nei mitocondri e dal quale si ottengono grandi quantità di ATP, la principale fonte energetica delle cellule. L’ossigeno-dipendenza è dovuta al fatto che l’accettore finale degli elettroni, donati dai cofattori ossidati NADH e FADH2, è

proprio l’ossigeno. Per ovviare a questa dipendenza, la cellula può produrre energia tramite la glicolisi che avviene nel citosol e non richiede O2. Come già visto, questo processo è

tuttavia meno efficiente nella produzione di energia in quanto vengono prodotte solo due molecole di ATP per ogni molecola di glucosio contro le 32 molecole di ATP per molecola di glucosio che si ottengono dal ciclo di Krebs e dalla fosforilazione ossidativa. È quindi comprensibile che le cellule, quando dispongono di sufficienti livelli di O2, generino

ATP tramite OXPHOS. Tuttavia, le cellule possono continuare la produzione energetica anche in assenza di ossigeno, tramite lo “shift” verso il processo glicolitico. Questo viene definito Effetto Pasteur (pag 10).

Figura 312. Metabolismo del glucosio.

Nella prima metà del 20° secolo, Otto Warburg osservò per la prima volta che le cellule tumorali, nonostante la presenza di adeguati livelli di O2, tendono a preferire la glicolisi

come processo di produzione energetica. Questo fenomeno, chiamato glicolisi aerobica o

effetto Warburg, è stato successivamente e ripetutamente osservato in diversi tipi di linee

cellulari tumorali10. Questo fenomeno è stato poi dimostrato tramite ulteriori studi2 che hanno posto a confronto il consumo di glucosio in cellule di tumore al seno non invasive

(28)

28 (MCF-7) e metastatiche (MDA-MB-231) in condizioni di normossia e ipossia (Figura 32). Come si evince dalla figura, dallo studio è emerso che il consumo di glucosio aumenta sia passando da una situazione di normossia ad una di ipossia (P = effetto Pasteur), sia confrontando linee cellulari aventi fenotipo non invasivo con quelle di tipo metastatico (W = effetto Warburg). Queste osservazioni indicano che l’alterazione del metabolismo del glucosio da parte dei tumori è più di un semplice adattamento all'ipossia. La sua persistenza anche in condizioni normossiche e la sua correlazione con l'aggressività del tumore indicano che il fenotipo glicolitico conferisce un vantaggio proliferativo significativo durante l’evoluzione del cancro e deve, pertanto, essere una cruciale componente del fenotipo maligno.

Figura 32.2 Confronto tra la velocità di consumo del glucosio in cellule di tumore al seno non-invasive

(MCF-7) e metastatiche (MDA-MB-231). P: effetto Pasteur; W: effetto Warburg.

La prima spiegazione del fenomeno della glicolisi aerobica fu data dallo stesso Otto Warburg diversi decenni fa. Egli ha proposto che lo shift glicolitico effettuato dalle cellule tumorali, nonostante adeguati livelli di O2, sia dovuto a danni irreversibili ai mitocondri,

sede dell’attività OXPHOS. Quest’ipotesi veniva sostenuta dal fatto che diverse linee cellulari dei tipi di cancro più comuni presentavano una diminuita espressione di ATP sintasi, un complesso proteico necessario per la fosforilazione ossidativa. Inoltre, sono stati osservate mutazioni mitocondriali, che possono portare a malfunzionamenti nell’OXPHOS, in varie cellule tumorali. Ad esempio, è stato dimostrato che l'inattivazione del gene p53, uno dei geni più comunemente mutati nelle patologie neoplastiche, può innescare l'effetto Warburg; il gene p53 è coinvolto nell’attività del citocromo c ossidasi, un complesso proteico fondamentale nella fosforilazione ossidativa. Tuttavia, dati recenti

(29)

29 hanno mostrato che l’inibizione della glicolisi nelle cellule tumorali può aumentare l'attività OXPHOS; ciò sembra indicare che l'effetto Warburg non è causato da danni di tipo irreversibile ai mitocondri. Quest’ultima osservazione è supportata dal fatto che l'effetto Warburg è stato osservato anche in cellule sane proliferanti, che non presentano quindi danni irreversibili nel processo di fosforilazione ossidativa10.

La comparsa di un fenotipo glicolitico, quindi, può essere, almeno inizialmente, intesa come un adattamento all'ipossia locale, salvo poi rappresentare invece un vantaggio per la crescita tumorale, in quanto fondamentale per la selezione di un fenotipo maligno che assicura alle cellule tumorali la sopravvivenza (Figura 33).

Figura 33.2 Modello dell’evoluzione tumorale.

Nello sviluppo di un carcinoma di tipo invasivo, infatti, lo shift metabolico presenta numerosi vantaggi. In primo luogo, cellule aventi fenotipo glicolitico, mediante la glicolisi aerobica, sono in grado di alterare il microambiente locale in modo da renderlo innocuo per sé, ma fatale per le altre popolazioni cellulari. In secondo luogo, l'acidificazione del microambiente facilita l'invasione tumorale sia attraverso la morte delle cellule sane adiacenti che attraverso la degradazione acido-indotta della matrice extracellulare (ECM), oltre alla promozione del fenomeno di angiogenesi. Una delle conseguenze principali della variazione del metabolismo nelle cellule tumorali, infatti, è l’accumulo di acido lattico che, a pH fisiologico, si trova nella forma deprotonata. Questo porta, quindi, ad una notevole acidificazione dell’ambiente extracellulare che, alla lunga, provoca la morte delle cellule sane.

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30 Il processo di carcinogenesi inizia con il passaggio del tessuto normale ad uno stato iperplastico, che diventa poi una neoplasia interstiziale, la quale evolverà nel carcinoma in

situ. La proliferazione di cellule normali è controllata da vari fattori tra cui la vicinanza con

altre cellule, la matrice extracellulare (ECM) e la presenza di fattori di crescita, che rappresenta il primo step da superare per la proliferazione tumorale, in quanto in questa prima fase la disponibilità di substrati come ossigeno e glucosio non è limitante. Una volta superati questi fattori di controllo, lo sviluppo tumorale prosegue con la diminuzione della disponibilità di ossigeno. Come è stato detto precedentemente, all’inizio il tumore cresce in un ambiente non vascolarizzato e, a causa della veloce proliferazione, si creano velocemente aree ipossiche. A questo punto, solo le cellule che cambiano il loro metabolismo e passano alla glicolisi aerobica sopravvivono. Il cambiamento metabolico, però, non è solo un adattamento transiente; infatti anche in condizioni di normossia le cellule continuano a sfruttare la glicolisi come fonte per la produzione di energia. Questo dimostra che lo shift metabolico è collegato a veri e propri cambiamenti genetici.

Ci sono vari motivi per cui la produzione di ATP attraverso la glicolisi rappresenta un vantaggio nella crescita tumorale:11

1) la massa tumorale è costituita da cellule in rapida proliferazione, che necessitano di elevate quantità di ATP e la glicolisi rappresenta il modo più veloce per produrre energia in grandi quantità;

2) le cellule che presentano una glicolisi aerobica possono vivere in condizioni variabili di pressioni parziali di ossigeno; queste fluttuazioni si vengono a creare, come già visto, a causa di un’emodinamica incostante dei vasi sanguigni e per la distanza degli strati più esterni del tumore da questi vasi. Ovviamente, per le cellule che si basano esclusivamente sulla fosforilazione ossidativa per generare ATP, questa situazione diventerebbe insostenibile portandole a morte.

3) le cellule tumorali generano acido lattico, il quale è il principale prodotto finale della glicolisi aerobica. La presenza di tale acido condiziona l’ambiente circostante, favorendo l'invasione tumorale. Il lattato che viene prodotto dalle cellule tumorali, infatti, può essere preso dalle cellule stromali (tramite i trasportatori MCT1e MCT2) per rigenerare piruvato, il quale può essere nuovamente estruso, per rifornire le cellule tumorali adiacenti, o può essere usato per l’attività OXPHOS. Questo genera un “microecosistema” in cui cellule tumorali e cellule sane si trovano impiegate in vie metaboliche complementari, che garantiscono la sopravvivenza e la crescita delle cellule tumorali.

(31)

31 4) i tumori possono metabolizzare il glucosio attraverso la via del pentoso fosfato (PPP) per generare nicotinammide adenina dinucleotide fosfato (NADPH) che assicura una difesa della cellula contro gli agenti chemioterapici. Inoltre NADPH può contribuire alla sintesi di acidi grassi. L’importanza della via del pentoso fosfato nelle cellule tumorali è stata dimostrata dall’ iperespressione, in diversi tipi di tumori, dell’isoforma 1 dell’enzima transchetolasi (TKL1) che controlla la fase non ossidativa di questa via metabolica.

5) le cellule tumorali utilizzano prodotti intermedi della via glicolitica sia per la produzione di energia che per reazioni anaboliche. Ad esempio, il glucosio-6-fosfato può essere sfruttato anche per la sintesi di glicogeno oppure di ribosio 5-fosfato, il quale è coinvolto nella sintesi di acidi nucleici. Il diidrossiacetone fosfato, invece, viene sfruttato per la sintesi di trigliceridi e fosfolipidi, mentre il piruvato per la sintesi di alanina e malato. Nei tumori, per aumentare la capacità metabolica, troviamo altamente espressa una particolare isoforma dell’enzima piruvato chinasi, la PKM2, la quale oscilla da una forma ad alta attività (tetramerica) ad una a bassa attività (dimerica). La forma dimerica, a bassa attività, offre il vantaggio che i metaboliti a monte del piruvato tendono ad accumularsi e sono quindi disponibili come precursori per la sintesi di amminoacidi, acidi nucleici e lipidi.

Come già detto, una delle principali conseguenze che accompagnano la comparsa di un fenotipo glicolitico è l’acidificazione dell’ambiente extracellulare, dovuto alla grande produzione di acido lattico, che viene escreto dalla cellula (Figura 34). La generazione in eccesso di lattato che accompagna l'effetto Warburg potrebbe apparire come un uso inefficiente delle risorse cellulari. Ogni lattato espulso dalla cellula comporta uno spreco di tre atomi di carbonio che, altrimenti, potrebbero essere utilizzati sia per la produzione di ATP che per la biosintesi di macromolecole. Questo spreco è tuttavia efficace per la proliferazione cellulare perché permette una più veloce integrazione degli atomi di carbonio nella biomassa, che a sua volta facilita la rapida divisione delle cellule. Non essendo, infatti, i nutrienti presenti in quantità limitante, non è necessario ottimizzare il metabolismo per ottenere una più alta resa di ATP. Al contrario, per sopravvivere, le cellule tendono a massimizzare il tasso di crescita; quindi le cellule che convertono il glucosio in biomassa in modo più efficiente, prolifereranno più velocemente12.

(32)

32

Figura 342. Acidità nei tumori. A) Rapporto tra pH, pO2 e distanza dal vaso nelle cellule di tumore al seno non invasive (MCF-7). B) Visualizzazione grafica del pH extracellulare in vivo di tumore al seno

metastatico (MDA-MB-435).

L’ambiente fortemente acido che si viene a creare è fortemente ostile alla crescita delle cellule sane, che infatti tendono a morire. Invece le cellule tumorali ipossiche mostrano un meccanismo di adattamento all’ambiente acido, che si manifesta attraverso la resistenza all’apoptosi o attraverso l’up-regulation dei trasportatori di membrana, così da mantenere stabile il pH cellulare. L’ambiente acido rappresenta quindi un forte meccanismo di selezione tumorale, che porta all’aumento delle possibili mutazioni genetiche, con un conseguente aumento dell’invasività tumorale.

Nonostante il passaggio al fenotipo glicolitico, le cellule tumorali ipossiche risentono ugualmente dello scarso apporto di O2 e nutrienti, così tendono a presentare una maggiore

motilità, aumentando quindi la loro capacità metastatica. Uno degli strumenti tramite il quale le cellule tumorali possono favorire la motilità è proprio l’acidificazione dell’ambiente extracellulare, in quanto causa, come già detto, sia la morte delle cellule sane vicine, favorendo l’invasione dell’ambiente circostante, che la degradazione della matrice extracellulare (ECM), che facilita l’ingresso nel torrente sanguigno. Le cellule che riescono a raggiungere il lume vasale si riversano quindi nel flusso sanguigno e possono andare a creare dei focolai tumorali secondari, le metastasi. Questi nuovi focolai mantengono le caratteristiche del tumore primario, tra cui il fenotipo glicolitico, sebbene si trovino in un microambiente più favorevole, con ossigeno e nutrienti sufficienti. Questa può essere visto come un’ulteriore dimostrazione che il fenotipo glicolitico deriva inizialmente da un fenomeno adattativo, ma che successivamente è seguito da una serie di cambiamenti genetici permanenti.

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33 Sebbene la glicolisi aerobica non sia una caratteristica applicabile a tutti i tipi di tumori, il significativo aumento dell’uptake di glucosio può essere sfruttato per evidenziare la presenza di tumori primari o metastasi, così come per seguire la risposta del tumore alle terapie a cui viene sottoposto. Questo è possibile grazie a una particolare tecnica diagnostica: la tomografia ad emissione di positroni combinata con la tomografia computerizzata (PET/CT), che usa come marcatore l’analogo del glucosio 2-(18 F)-fluoro-2-desossi-D-glucosio (FdG) (Figura 35). La sensibilità e la specificità di questa tecnica vanno intorno al 90%; la sensibilità è dovuta al fatto che la FdG-PET ha difficoltà nell’evidenziare lesioni più piccole di 0.8 cm3; mentre la specificità è data dal fatto che ci sono anche altre cellule sane che possono accumulare il FdG.

Figura 35.2,12 A) PET FdG di un paziente con linfoma : i linfonodi mediastinali (freccia porpora) e sovraclavicolari (freccia verde) evidenziano un elevato uptake dell’FdG da parte del tumore. Anche la vescica (freccia gialla) mostra un’alta attività di uptake a causa dell’escrezione del radionucleotide. B) Variazione nell’up-take del glucosio in paziente con tumore stromale gastrointestinale (T) prima e dopo trattamento di 4 settimane con inibitore delle tirosinchinasi (sunitinib). Anche la vescica (B) e i reni (K) sono

evidenziati, in quanto deputati all’escrezione del radionucleotide.

I meccanismi molecolari e l’espressione genica

Negli ultimi anni i meccanismi che stanno alla base dello shift metabolico delle cellule tumorali ipossiche sono stati oggetto di numerosi studi (Figura 36).11,13,14

(34)

34

Figura 36.11 Cambiamento del metabolismo cellulare in cellule tumorali.

La causa di molte caratteristiche tipiche del fenotipo glicolitico è da ascrivere all’attivazione del fattore di trascrizione HIF-1; questo è un eterodimero costituito da due subunità: una subunità β costitutivamente espressa ed una subunità α sensibile alla concentrazione di ossigeno. L'espressione genica del fattore HIF-1 permette alle cellule di rispondere all’ipossia mediante adattamenti alla diminuita disponibilità di ossigeno; inoltre gioca un ruolo critico nella glicolisi, nell’omeostasi dell’ossigeno, nel rimodellamento dei tessuti, nel metabolismo dei grassi, oltre a regolare processi come l'angiogenesi o l'eritropoiesi. L’attivazione, in ambiente ipossico, del fattore di trascrizione HIF-1 è principalmente regolata tramite modificazioni post-traslazionali che portano alla stabilizzazione della subunità alfa ossigeno-labile. In condizioni di normossia, la subunità HIF-1α è idrossilata su due residui di prolina altamente conservati, Pro402 e Pro564, ad opera di una famiglia di prolil-4-idrossilasi (PHD). Questi enzimi catalizzano una reazione di idrossilazione, che richiede ossigeno e 2-ossoglutarato come substrati, oltre a ferro e acido ascorbico come cofattori. L’idrossilazione di HIF-1α permette il riconoscimento di questa da parte della proteina von Hippel-Lindau (VHL ubiquitin ligasi) che ne causa la degradazione. Essendo l'ossigeno un substrato necessario per la reazione, in condizioni di ipossia l’idrossilazione di HIF-1α diminuisce, portando a una stabilizzazione del fattore. Una volta stabilizzato, HIF-1α dimerizza con la subunità HIF-1β ed insieme, legandosi al DNA a livello di una sequenza 5'-RCGTG-3' (dove R indica un residuo di purina),

(35)

35 promuovono la trascrizione di tutta una serie di geni, che traducono per un’ampia gamma di proteine (Figura 37).15

Figura 3715. Stabilizzazione del fattore HIF-1

Tra i geni che vengono trascritti, fondamentale importanza per la crescita tumorale hanno quei geni che sono coinvolti nella stimolazione della proliferazione. Nelle cellule normali, questa stimolazione è data dai fattori di crescita che, attivando i recettori tirosin kinasici, innescano due diverse vie kinasiche di trasduzione del segnale, che sono ERK (Extracellular signal-regulated kinase) e PI3K (Phosphatidylinositol 3-kinase). La mutazione a vari livelli di una di queste vie può portare alla formazione del tumore. Queste vie sono anche implicate nei processi metabolici tumorali, in particolare attraverso l’attivazione del sistema PI3K/Akt. Akt, un gene che codifica per enzimi appartenenti alla famiglia delle protein kinasi specifiche per serina e treonina, è un oncogene che promuove la sovraespressione del trasportatore GLUT1 e l’aumento della traslocazione del trasportatore GLUT4 dalle vescicole intracellulari sulla membrana cellulare. PI3K, attivando il gene Akt, stimola la glicolisi sia direttamente, tramite la regolazione degli enzimi glicolitici, sia attivando il gene mTOR, il quale altera il metabolismo potenziando il fattore HIF-1. L’enzima LKB1, invece, attraverso l’attivazione della chinasi AMPK (AMP Activated Protein Kinase), si oppone al fenotipo glicolitico inibendo mTOR. L’attivazione del fattore HIF-1 aumenta l'espressione dei trasportatori del glucosio (GLUT), degli enzimi glicolitici e dell’isoforma 1 dell’enzima piruvato deidrogenasi chinasi (PDK1), che blocca l'ingresso del piruvato nel ciclo di Krebs tramite l’inibizione dell’enzima piruvato deidrogenasi (PDH). L’enzima PDK1 HIF-1-dipendente può essere considerato un valido target nel trattamento dei tumori ipossici in quanto, nelle cellule tumorali, spesso è

(36)

36 presente una iperpolarizzazione della membrana mitocondriale, che è a sua volta collegata ad una diminuzione dei canali del K+ voltaggio-dipendenti (Kv): questo costituisce un meccanismo essenziale per la sopravvivenza delle cellule tumorali, in quanto previene l’attivazione di fattori proapoptotici. Di conseguenza, l’inibizione della PDK1 (per esempio con l’acido dicloroacetico, DCA) e quindi l’attivazione della PDH, con il conseguente ripristino del ciclo di Krebs, diminuirebbe l’iperpolarizzazione della membrana mitocondriale, conducendo la cellula tumorale a morte. L’HIF-1, in collaborazione con un altro oncogene, il Myc, promuove anche la sovraepressione del fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF), che stimola una elevata attività angiogenica. Il gene Myc collabora con il fattore HIF-1 anche per l'attivazione di diversi geni che codificano proteine glicolitiche, ma aumenta anche il metabolismo mitocondriale. Il gene p53 si oppone al fenotipo glicolitico attraverso la soppressione del gene Tigar (TP53-induced glycolysis and apoptosis regulator), la cui espressione porta a un abbassamento dei livelli di fruttosio 2,6-bifosfato nelle cellule, con conseguente inibizione della glicolisi e una diminuzione della concentrazione intracellulare di specie reattive dell'ossigeno (ROS), che porterebbero a morte cellulare; l’espressione di questo gene può quindi modulare la risposta apoptotica di p53. Altri meccanismi tramite il quale il gene p53 si oppone al fenotipo glicolitico sono un aumento dell’attività mitocondriale tramite l’attivazione della proteina SCO2 (coinvolta nella sintesi del citocromo c ossidasi) e l’ espressione del gene PTEN, il quale agisce come soppressore del tumore attraverso la regolazione del ciclo cellulare, impedendo alle cellule di crescere e dividersi troppo rapidamente. OCT1 (noto anche come POU2F1) agisce in maniera opposta per attivare la trascrizione dei geni che guidano la glicolisi e sopprimere la fosforilazione ossidativa. L’enzima piruvato chinasi M2 (PKM2), infine, colpisce la glicolisi rallentando la reazione catalizzata dalla piruvato chinasi, deviando il substrato in vie biosintetiche alternative (Figura 38)16.

(37)

37

Figura 3816. Meccanismi molecolari che portano all'effetto Warburg. Le linee tratteggiate indicano la perdita di funzionalità da parte del gene p53.

È già stato spiegato come la glicolisi aerobica provochi un’acidificazione dell’ambiente extracellulare per l’elevata produzione di acido lattico e la conseguente estrusione di protoni. Questa avviene grazie all’azione di vari trasportatori di membrana, come gli scambiatori Na+/H+, attivati da fattori di crescita, ipossia e pH bassi e le pompe protoniche come i V-type H+ ATPasi e F1F0 ATPasi. Quest’ultime in genere sono espresse nelle

membrana mitocondriale, dove partecipano alla fosforilazione ossidativa, ma nelle cellule tumorali sono espressi anche a livello della membrana cellulare. Nei tumori si riscontra anche una sovraespressione HIF-1-dipendente dei trasportatori MCT4. L’MCT è un trasportatore che cotrasporta fuori dalla cellula un protone con una molecola di lattato, così

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38 ché quest’ultimo non raggiunga mai alte concentrazioni intracellulari. L’HIF-1 promuove anche l’espressione delle isoforme 9 e 12 dell’anidrasi carbonica (CA9 e CA12). Questi enzimi transmembrana promuovono l’idratazione della CO2 extrcellulare, generando H+ e

HCO3−. Il bicarbonato viene subito catturato da un trasportatore anionico associato

all’anidrasi, così da avere non solo un aumento dell’acidità extracellulare, ma anche un mantenimento del giusto pH intracellulare. L’acidificazione dell’ambiente extracellulare promuove i processi di invasione e metastasi tumorale, a cui contribuiscono anche alcuni enzimi come le metalloproteasi pH-dipendenti o enzimi HIF-1 -dipendenti come la lisil ossidasi (LOX). Quest’ultimo è un enzima Cu2+-dipendente appartenente alla classe delle ossidoreduttasi, che favorisce la formazione di legami crociati tra l’elastina ed il collagene della matrice extracellulare favorendo la metastatizzazione.

Molte delle proteine sopracitate possono essere considerate dei “markers” tumorali endogeni strettamente legati all’ipossia, in quanto tale proteine risultano sovraespresse in tessuti con una scarsa concentrazione di O2. L’ossigeno però non è l’unico fattore che

regola la loro espressione, in quanto un fattore fondamentale è risultato essere anche il pH cellulare, che di solito nei tumori assume valori minori rispetto al pH fisiologico, in un range compreso tra 6.1 e 7.4.

Sono quindi stati portati avanti studi17 per approfondire l’andamento dell’espressione

genica di CA9, GLUT-1, LDH-A e della LOX al variare della concentrazione di ossigeno e del pH in diverse linee cellulari tumorali (Figura 39).

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39

Figura 39.17 Espressione dell’mRNA di CA9, GLUT-1, LDH-A e LOX nelle cellule SiHa e in quelle FaDuDD, a diverse concentrazioni di O2 e a diversi valori di pH.

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40 Gli esperimenti sono stati condotti esponendo, per 24 ore cellule provenienti dal carcinoma a cellule squamose della cervice uterina umana (SiHa) e cellule del carcinoma a cellule squamose della faringe umana (FaDuDD), a varie concentrazioni di O2 e a vari gradi

di acidosi, misurandone poi i livelli di mRNA relativi alle singole proteine. I risultati ottenuti in ogni misurazione vengono poi messi a confronto con i livelli di mRNA a concentrazioni di ossigeno atmosferico (21%).

Dai grafici si evidenzia che l’espressione genica di CA9, in entrambe le linee cellulari a pH fisiologico (7.5), è aumentata di circa 100 volte passando dalle condizioni di normossia (21%) a concentrazioni di ipossia (1% di O2) e resta all’incirca al solito livello tra 0.01 e

0% di O2. Una lieve acidosi (pH 7.0 e 6.7) non va ad influenzare l’andamento appena visto,

infatti le curve relative a tali pH ricalcano quella a pH 7.5. In cellule SiHa, a pH 6.5, non si sono verificati cambiamenti importanti nell’andamento dell’espressione proteica, nonostante all’1% di O2 si raggiunga il valore massimo di espressione di CA9 relativo a

questa linea cellulare. Invece, nella stessa linea cellulare a pH 6.3, l’andamento dell’espressione genica di CA9 cambia drasticamente: i livelli di mRNA subiscono un brusco aumento in corrispondenza dell’1% di O2 raggiungendo valori simili a quelli a pH

7.5, mentre i livelli di espressione sono molto più bassi a concentrazioni di O2 pari allo 0%

e allo 0.01%. In cellule FaDuDD, valori di pH 6.5 hanno dato una risposta intermedia,

mentre a pH 6.3 si è verificato un aumento ancora più limitato di mRNA.

GLUT-1 e LDH-A hanno curve con andamenti molto simili tra loro, ma anche con un maggior grado di complessità legato alla variazione di acidità. Nelle cellule SiHa, ai valori di pH 7.5, 7.0 e 6.7, l’mRNA mostra un leggero aumento passando da 21% allo 0.01%, con un livello massimo superiore di 4-5 volte e quello in normossia. Invece a pH 6.5 e 6.3 mostrano un picco all’1% di O2, che risulta maggiore rispetto a quello a pH fisiologico.

Nelle cellule FaDuDD il cambiamento di acidità non influenza in modo considerevole

l’espressione delle proteine.

L’espressione dell’enzima LOX ha mostrato una andamento crescente a pH 7.5 fino allo 0.01% di O2 in entrambe le linee cellulari, con un livello massimo 10 volte più alto rispetto

alle condizioni di normossia. Nelle cellule SiHa si è verificata una situazione simile a quella per CA9 in presenza di pH acidi: l’espressione a pH 6.3 è circa allo stesso livello di quella a pH normale all’1% di O2, invece va diminuendo allo 0.01% e 0% di O2. Nelle

cellule FaDuDD i livelli di espressione a pH intermedi, ovvero 6.5, 6.7 e 7.0, si sono

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41 Da questo studi si evince che la variazione del pH può avere una forte influenza sull’espressione di geni indotti dall’ipossia, comunque l’entità dell’espressione genica varia molto a seconda del gene preso in considerazione, del livello di acidosi e della linea cellulare tumorale. Gli effetti esercitati dal pH variano molto passando dalla soppressione dell’espressione dell’mRNA indotta dall’ipossia, come nel caso di CA9 a pH 6.3, ad una forte induzione dell’espressione genica, come nel caso di GLUT-1 e LDH-A a pH 6.3 e 6.5.17

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42

L’ISOFORMA 5 DELLA LATTATO DEIDROGENASI (LDH-A)

COME NUOVO TARGET ANTITUMORALE

In molti carcinomi è stato osservato un cambiamento della fisiologia mitocondriale ed un’iperpolarizzazione, ossia un aumento del potenziale della membrana mitocondriale (∆ψm).18 Queste alterazioni sono state collegate ad una diminuita attività OXPHOS nelle

cellule tumorali. Tramite un particolare studio,19 è stato possibile capire la relazione che

esiste tra l’insorgenza del fenotipo glicolitico, che come abbiamo visto, risulta essenziale per la crescita tumorale e la comparsa di un fenotipo maligno, e il metabolismo mitocondriale. In questo studio, veniva bloccata la conversione del piruvato in lattato tramite una rimozione stabile per via genetica, utilizzando shRNA (sequenza di RNA che riduce l’espressione del gene target), dell’LDH-A in cellule di tumore al seno appena formate, nelle quali era stata riscontrata un’elevata dipendenza dal glucosio, un elevato potenziale di membrana mitocondriale e nelle quali l’LDH-A aveva mostrato un’elevata attività (Figura 40).

Figura 40.19 Curve di proliferazione, in condizioni fisiologiche di O2 (A) e in condizioni di ipossia (B), .di cellule tumorali Neu4145 (controllo), di cloni in cui è stata soppressa l’espressione dell’LDH-A (L2-5 e L2-10) e di cloni dove dopo l’iniziale soppressione è stata ripristinata la capacità di sintesi dell’LDH-A

(L2-5.c15).

Nell’esperimento è stato preso in esame come linea cellulare di controllo Neu4145. Queste cellule sono state trattate con tre shRNA (L1,L2 e L3) e sono poi stati isolati una serie di cloni che presentavano vari livelli di diminuzione dell’espressione dell’LDH-A.

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43 Tra i vari cloni isolati, sono stati scelti l’L2-5 e l’L2-10 che mostravano una diminuzione della quantità di LDH-A rispettivamente del 69% e del 75%. Inoltre l’espressione dell’enzima è strettamente collegata all’attività, infatti negli stessi cloni è stato riscontrato anche una diminuzione dell’attività rispettivamente del 60% e 70%. In condizioni fisiologiche di ossigeno, la proliferazione delle cellule con una diminuita espressione dell’LDH-A (L2-5 e L2-10) è solo leggermente ritardata rispetto al controllo. Mentre in condizioni di ipossia (0.5% O2), la velocità di proliferazione delle cellule modificate (L2-5

e L2-10) rispetto al controllo è diminuita di circa 100 volte. Per capire se la riduzione della crescita tumorale può essere effettivamente attribuita alla diminuita espressione e quindi all’attività dell’LDH-A, nelle linee cellulari prese in considerazione è stato introdotto il cDNA (DNA complementare nella sequenza di basi ad un determinato mRNA stampo, sintetizzabile in laboratorio grazie all’enzima trascrittasi inversa) corrispondente all’LDH-A umano (L2-5.c15). La proliferazione cellulare anche in condizioni ipossiche torna paragonabile al controllo, confermando che l’attività dell’enzima LDH-A è indispensabile per la crescita di cellule tumorali ipossiche.

Studi successivi20 si sono, invece, concentrati sullo studio di un altro parametro tumorale altamente associabile all’attività dell’enzima LDH-A e cioè il volume del tumore. Nell’esperimento sono state prese in esame linee cellulari appartenenti a tumori al seno non invasivi (MCF-7) e metastatici (MDA-MB-231), entrambe trattate con shRNA. È stato osservato come nelle linee cellulari trattate con shRNA il volume della massa tumorale si riduca drasticamente rispetto al controllo, sia per le linee cellulari di tipo non invasivo che metastatiche. È inoltre possibile osservare che il tasso di crescita, nelle successive tre settimane, è molto più basso nelle cellule trattate con shRNA rispetto al controllo (Figura 41). Queste osservazioni portano alla conclusione che l’enzima LDH-A riveste un ruolo fondamentale sia per il mantenimento vitale delle cellule tumorali che hanno sviluppato il fenotipo glicolitico, che per lo sviluppo e l’espansione della massa tumorale.

Figura

Figura 1 .  a) D-Glucosio nella proiezione di Fischer; b) D-glucosio nelle proiezioni di Haworth; c) D- D-glucosio nelle conformazioni a sedia
Figura 3. La glicolisi. 1° Fase: fase preparatoria; 2° Fase: fase di recupero energetico.
Figura 14. Produzione energetica in condizioni anaerobiche e aerobiche.
Figura 15. Destini del piruvato.
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