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«14 luglio 1964: complotto al Quirinale»

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Capitolo terzo

«14 luglio 1964: complotto al Quirinale»

Le attività illegali del Sifar

La malattia di Antonio Segni, colpito da trombosi cerebrale il 7 agosto, e le notizie dell’emorragia cerebrale prima e poi della morte di Togliatti a Jalta, tra il 13 e il 21 dello stesso mese, smorzarono ogni polemica sullo svolgimento e sugli esiti della crisi del giugno-luglio 1964. Quella vicenda tornò di grande attualità quasi tre anni dopo, sulla scia dello scandalo che stava travolgendo il Sifar per le attività illegali messe in atto negli anni passati.

Le polemiche sul Sifar - il Servizio informazioni forze armate, che era stato creato nel 1949 con l’unificazione delle tre strutture precedenti - ebbero inizio nei primi giorni di settembre del 1966, quando fu rilevata la mancanza nei suoi archivi dei fascicoli intestati ai generali di corpo d’armata Giuseppe Aloja e Guido Vedovato. Una prima indagine stabilì che i documenti erano stati presi in consegna, sin dal marzo precedente, dal capo del servizio, generale Giovanni Allavena, e mai restituiti. Invitato a fornire una spiegazione, il generale rispose di averli distrutti, seguendo una consuetudine che riguardava i fascicoli di tutti i generali nominati capi di stato maggiore della difesa.1 Una ricerca più accurata, anzi, consentì di appurare l’assenza di numerosi altri fascicoli - tra i

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La giustificazione di Allavena era evidentemente inattendibile, sia perché non riguardava il fascicolo di Vedovato, sia perché non mancavano i fascicoli relativi agli ultimi due capi di stato maggiore della difesa.

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quali quelli, assai delicati, intestati al presidente della Repubblica, Saragat,2 e al ministro della Difesa, Tremelloni, - oltre che di una voluminosa pratica riguardante il consiglio nazionale e la segreteria Dc relativa al 1953. Anche in questo caso venne accertato che i fascicoli erano stati consegnati al capo del servizio. Il generale Allavena dichiarò di averli distrutti per eliminare informazioni e indagini estranee ai fini istituzionali del servizio, scegliendo nell’ambito della propria autonomia i carteggi relativi allea massime autorità dello stato e al ministro della Difesa in carica. Le successive indagini, tuttavia, portarono a verificare la scomparsa di numerosi altri fascicoli e anche di 36 “superfascicoli gialli”, custoditi direttamente dal capo servizio, che riguardavano alte personalità e che contenevano notizie di fatti scandalosi, particolarmente adatte a colpire le persone cui si riferivano.3 Ben presto la stampa si impadronì delle notizie e cominciò ad occuparsi sistematicamente delle vicende che riguardavano il Sifar. Ad alimentare ulteriormente le polemiche contribuirono i contrasti, senza esclusione di colpi, che contrapposero il generale De Lorenzo, già capo del Sifar, poi comandante dell’Arma dei carabinieri tra ottobre 1962 e gennaio 1966 e infine capo di stato maggiore dell’esercito, al generale Aloja, capo di stato maggiore della difesa. A causa di quella che fu definita come La

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Le copie fotostatiche di alcune informazioni, di natura prettamente politica, raccolte nel fascicolo intestato a Saragat furono pubblicate nel febbraio 1967 dal giornalista Renzo Trionfera su «L’Europeo». Questi documenti furono riprodotti in: Renzo Trionfera, op. cit. , pp.105-126.

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Successive indagini scoprirono altri fascicoli mancanti, di cui parecchi in data remota e di scarsa importanza, che dimostravano lo stato di grave disordine presente nella conservazione degli archivi dei servizi segreti, dovuto anche al sistema, non conforme alle norme di tutela dei documenti, che permetteva a chiunque di farsi consegnare i carteggi a nome dei capi ufficio, senza lasciare traccia del prelevamento. L’elenco completo di questi fascicoli si trova in: Atti Parlamentari, Commissione stragi,

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guerra dei generali,4 le redazioni dei giornali furono invase da numerosi dossier che da un lato accusavano Aloja di traffici illeciti, dall’altro indicavano De Lorenzo quale responsabile principale delle schedature del Sifar.

Sull’onda delle crescenti rivelazioni, il 31 gennaio del 1967 le vicende del Sifar formarono per la prima volta oggetto di dibattito parlamentare. Il ministro Tremelloni dichiarò di avere nominato una Commissione d’indagine col compito, innanzitutto, di accertare come fosse avvenuta la sparizione dei fascicoli mancanti e di appurarne gli eventuali responsabili e, in secondo luogo, di verificare se nella formazione e nell’utilizzazione del materiale informativo si fossero verificati degli abusi. La Commissione, composta dai generali di corpo d’armata Aldo Beolchini e Umberto Turrini e dal presidente di sezione del consiglio di Stato, Andrea Lugo, concluse il suo lavoro alla fine di marzo e subito riferì al ministro sui risultati raggiunti. Di conseguenza, il consiglio dei ministri, convocato per il 15 aprile, informò con un comunicato di avere ascoltato «una relazione del ministro della Difesa sui risultati dell’inchiesta relativa all’attività del Sifar, nel cui ambito era stato accertato essersi verificate, nel settore informativo, alcune deviazioni rispetto ai fini istituzionali del Servizio».5 Nella stessa riunione venne decisa la sostituzione di De Lorenzo con il generale Vedovato.

La rimozione del generale fu accompagnata da tutta una serie di misure precauzionali che ne testimoniavano, più di qualunque considerazione, il potere raggiunto. Eugenio Scalfari ha descritto quella giornata in un articolo per il numero de «L’Espresso» della

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Mario Tedeschi, op. cit.

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Atti Parlamentari, Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, Relazione di maggioranza, volume I, p.6.

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settimana successiva: «alle undici del mattino di sabato 15 aprile Palazzo Chigi era circondato: raddoppiata la guardia, agenti in divisa all’esterno e nel cortile, agenti in borghese nei corridoi e nelle anticamere della presidenza del Consiglio, isolata dal centralino la sala delle riunioni del Consiglio dei ministri, vietato l’accesso ai commessi, quale che fosse la ragione. Una specie di stato d’assedio in miniatura, che ricordò ad alcuni le giornate del luglio e dell’agosto 1960, quando in quelle stesse sale sedeva il governo Tambroni, mentre a Porta San Paolo la folla tumultuava e i carabinieri della Legione di Roma montavano a cavallo nel cortile della caserma Pastrengo. Sei ore dopo, al termine d’una seduta che aveva avuto momenti altamente drammatici, l’ufficio stampa della presidenza emetteva il comunicato con la notizia della destituzione del capo di stato maggiore dell’esercito, generale Giovanni De Lorenzo, mentre i ministri, uno ad uno, coi volti aggrondati e le cartelle sotto il braccio, s’infilavano nell’ascensore e nelle macchine di stato che ripartivano a tutta velocità».6

Durante la seduta del 21 aprile in Senato, Tremelloni ricapitolò la vicenda Sifar e fornì un primo resoconto sull’attività e sui risultati della Commissione d’inchiesta Beolchini. Subito dopo, il ministro democristiano dell’Interno, Taviani, si assunse “tutta e intera” la

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«L’Espresso», 23 aprile 1967. Il 14 aprile vi era stato un burrascoso incontro tra Lugo, inviato dal ministro Tremelloni, e De Lorenzo, in cui il primo aveva sintetizzato il contenuto della relazione Beolchini e chiesto le dimissioni del generale, prospettando in cambio un successivo incarico di prestigio in un’ambasciata. Il colloquio fu registrato e depositato dal generale De Lorenzo al Tribunale di Roma, in uno dei due processi che lo videro contrapposto ai giornalisti de «L’Espresso». Il contenuto del colloquio è stato reso pubblico, come abbiamo già visto, nel 1991.

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responsabilità dell’operato dei servizi di sicurezza dello stato per il periodo in cui era stato ministro della Difesa, cioè tra l’agosto 1953 e il giugno 1958.7

Una parte dell’inchiesta sulle degenerazioni del Sifar, affidata alla Commissione Beolchini, venne resa pubblica durante il primo processo che oppose De Lorenzo al settimanale «L’Espresso». Il documento letto in tribunale e poi acquisito in sede parlamentare, escludendo le parti che a giudizio dell’ammiraglio Henke, nuovo capo del servizio segreto, dovevano considerarsi protette dal segreto militare, risultò decisamente svuotato. La misura venne data dallo stesso Beolchini, intervistato da «Il Mondo» del 25 luglio 1974: «si immagini che al Parlamento è stata comunicata poco più della metà del testo della relazione. Su 81 pagine ne mancano oltre 40 e molte frasi risultano troncate. I testimoni interrogati furono 67, tutti regolarmente registrati magneticamente e verbalizzati. Gli allegati sono 32. Nessuno di essi è giunto in Parlamento. Un intero capitolo è stato saltato a piè pari: quello delle intercettazioni telefoniche». Il generale

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In un dibattito parlamentare del 1968, Cesare Merzagora, diventato senatore a vita, intervenne sulle vicende del Sifar rivelando che «all’indomani della mia assunzione della carica di supplente del presidente della Repubblica, gravemente malato (agosto 1964), il ministro Taviani, con una lealtà e con una correttezza delle quali gli do atto con molto piacere, mi disse “presidente: io ricevo settimanalmente dei rapporti: in parte sono sulla situazione pubblica, sull’ordine pubblico, in parte sono a carattere politico, in parte sono sulla situazione economica. E poi ci sono anche molti pettegolezzi di nessuna importanza: il senatore o il deputato che va in un night, che fa un viaggio in compagnia non legittima, ecc...”. Io lo fermai subito e gli dissi: Taviani, a me interessano soltanto le questioni di carattere generale». Quindi denunciò le responsabilità politiche alla base delle degenerazioni del Sifar: «i militari di solito obbediscono, obbediscono agli ordini che ricevono. Ma quale è quel militare che si sogna di creare un servizio se sa che questo non è gradito? Lo fa se è gradito e se è incoraggiato. Quindi, qui c’è una responsabilità; è inutile negarlo; c’è una responsabilità politica di tutti coloro che hanno ricevuto sul loro tavolo dei rapporti che andavano buttati al macero e che hanno continuato a riceverli». Cfr. Atti Parlamentari, Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, Relazione di maggioranza, volume I, pp.90-91.

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poteva dunque concludere di essere «sorpreso che non l’abbiano sinora pubblicata integralmente, come ho sempre chiesto e lamentato. La relazione che presentai assieme al generale Umberto Turrini e al consigliere di stato Andrea Lugo, se resa nota al Parlamento ed alla magistratura, avrebbe chiarito in tempo molte posizioni, colpito molte deviazioni, risanato molte disfunzioni... Macché segreto militare. La inchiesta ha accertato vere e proprie malefatte e un costume politico inaccettabile».8

Solo alla fine del 1990, l’intera documentazione, espunte le parti che riguardavano riferimenti di carattere esclusivamente privato o familiare, è divenuta disponibile per iniziativa del governo presieduto da Giulio Andreotti.9

Già dalla semplice comparazione delle due versioni - quella limitata dagli omissis presentata al processo e quella integrale - emergono spunti significativi di riflessione.10 Alcune cancellazioni presero di mira affermazioni del tutto generiche, che sembrano assai lontane da ogni plausibile concetto di segreto di stato. Così, dietro la notizia occultata che «l’interrogatorio di taluni ufficiali e sottufficiali è stato reso difficile e poco redditizio per la palese riluttanza o addirittura reticenza a fornire chiarimenti e notizie concrete sull’attività svolta nell’assolvimento degli specifici incarichi»,11 poteva nascondersi solo il desiderio di difendere un presunto “spirito di corpo” e la volontà di

8 Ampi stralci dell’intervista sono riportati da Marco Sassano, Sid e partito americano, Padova, Marsilio,

1975, pp.28-30.

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La relazione della Commissione Beolchini, gli allegati relativi e i verbali d’interrogatorio sono in: Atti Parlamentari, Commissione stragi, Relazione sull’inchiesta Sifar, vol.II, pp.9-752.

10 Le due versioni sono disponibili rispettivamente in: Renzo Martinelli, Sifar. Gli atti del processo De

Lorenzo-«L’Espresso», Milano, Mursia, 1968, pp.251-267; e in: Atti Parlamentari, Commissione stragi, Relazione sull’inchiesta Sifar, vol.II, pp.9-95.

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non apportare ulteriori fonti di polemica. In un periodo dedicato alla ricerca delle responsabilità relative all’attività del servizio - «l’estraneità del ministro della Difesa a questa vicenda è stata implicitamente confermata da tutti gli ufficiali interrogati in proposito» - fu inspiegabilmente cancellato un cauto e vago accenno alle disposizioni impartite a livello politico: «giacché anche coloro che hanno genericamente accennato a disposizioni dell’autorità politica, hanno rifiutato di fare precisazioni».12

Altri omissis, pur riferendosi a questioni di maggiore rilievo, servirono soprattutto a circoscrivere le attività illegali del Sifar, come nel caso della documentazione economica. Alla frase «il servizio ha dimostrato un’autonomia d’azione troppo disinvolta per un organo pubblico», fu cancellato il riferimento specifico «anche nel campo della spesa», che introduceva un periodo, ovviamente non reso pubblico, dedicato alla distruzione dei documenti contabili avvenuta nel gennaio del 1966 e all’amara constatazione che «oggi non è più possibile avere una notizia nemmeno approssimativa sul modo con cui il servizio ha erogato i fondi a propria disposizione».13 Oppure, a proposito della formazione di appunti anonimi, venne portato a conoscenza che «nessuna giustificazione plausibile può essere data di siffatto modo di procedere», mentre fu ritenuta segreto di stato la frase, posta dopo una virgola, «che legittima i più gravi sospetti sull’uso del documento informativo».14 Furono inoltre eliminati alcuni paragrafi che esemplificavano

12 Ivi, p.38. 13 Ivi, pp.41-42. 14 Ivi, p.32.

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le azioni e gli interventi particolari, e tutto il capitolo intitolato «Intercettazione telefonica».15

Le indagini della Commissione Beolchini portarono ad accertare l’esistenza di 156.734 fascicoli, dei quali 99.000 su cittadini stranieri, 24.231 su cittadini che operavano nel settore politico-sindacale, 19.346 su militari, 12.221 su persone che operavano in settori vari e 1.936 su giornalisti. Inoltre, vi erano 46.905 pratiche intestate a enti e organizzazioni, tra le quali 10.000 riguardavano le attività dei partiti politici e dei sindacati, 7.353 le società commerciali, 2.560 i giornali e le riviste.16 L’estensione anomala dei fascicoli si era verificata a partire dal 1959,17 quando con una circolare del 26 febbraio, furono richieste a tutti i capi degli uffici periferici note biografiche e dettagliate

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Nel capitolo che la versione integrale intitola «Azioni ed interventi particolari», riprodotto in tribunale come «Sviluppo attività informativa», oltre ai paragrafi già noti “a” e “b”: a)-Espansione dell’attività informativa; b)-Attività dei partiti, comparivano i paragrafi “c”, “d”, “e”: c)-Servizi particolari; d)-Complotti; e)-Ricerca notizie scandalistiche sulle massime cariche militari. Il paragrafo “c” si soffermava su due casi in cui il Sifar aveva agito a favore di privati; quello successivo rievocava un noto episodio del 1959, che riguardava il tentativo, rivelatosi poi privo di fondamento, di rapire il capo dello stato dell’epoca, Giovanni Gronchi; il terzo riferiva del controllo sistematico attivato da De Lorenzo, per fini di carriera, sulla vita privata di alcuni ufficiali concorrenti.

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Ivi, pp. 174-177.

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Alle successive polemiche, che investirono in pieno il settennato di Gronchi, tra 1955 e 1962, lo stesso esponente toscano replicò che già «all’inizio del mio ufficio di presidente della Repubblica, vale a dire nel 1955, il Sifar mi faceva pervenire periodicamente alcune note di politica interna riguardanti l’indirizzo generale dei partiti, soprattutto di quelli di sinistra». L’ex-presidente affermò quindi che «è assolutamente falsa e infondata l’affermazione che l’Italia dei dossier sia cominciata nei sette anni di Gronchi... Ho appreso ora che questi fascicoli sono esistiti fin dalla riorganizzazione del servizio a seguito della guerra», precisando comunque che essi erano strettamente connessi con gli obblighi derivanti dall’Alleanza atlantica. Cfr. Renzo Trionfera, op.cit., rispettivamente p.101 e pp.20-25.

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notizie sull’attività «comunque svolta» dai deputati e dai senatori.18 Ogni ufficio dovette così compiere un’indagine biografica sui parlamentari compresi nella propria giurisdizione e per ognuno di essi fu formato un fascicolo. Un anno dopo le disposizioni riguardarono le biografie di prelati, vescovi e sacerdoti delle varie diocesi, portando alla creazione di altri 4.500 fascicoli. Sempre nello stesso periodo venne impartita una direttiva che fece aumentare a dismisura la proliferazione dei carteggi: ogni volta che nei rapporti riferiti a una determinata pratica e relativi a eventi di qualche rilievo venivano coinvolte delle persone, dovevano essere formati dei nuovi fascicoli intestati a ognuna delle persone citate.

Parallelamente alla crescita del numero dei fascicoli, mutò anche il contenuto e il carattere dei documenti. Le notizie infatti non vennero più raccolte con specifico riferimento ad attività riguardanti la sicurezza interna dello stato, ma con l’evidente scopo di rappresentare «tutte le manifestazioni della persona, anche quelle più intime e riservate».19 Il tenente colonnello Bianchi precisò al riguardo che il servizio informazioni doveva mirare al risultato di conoscere tutto di tutti. Con il materiale raccolto venivano compilati dei profili: questi, annotò la Commissione, qualche volta venivano rifatti a distanza di tempo, con diverso orientamento, il che accentuava il carattere arbitrario del modo di procedere dell’ufficio.20 Il movimento delle pratiche, poi, subiva delle

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La circolare è stata riprodotta negli allegati alla relazione. Cfr. Atti Parlamentari, Commissione stragi,

Relazione sull’inchiesta Sifar, vol.II, p.117.

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Ivi, p.30.

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Ivi, p.31. A titolo esemplificativo, la Commissione citò alcuni casi significativi, garantendo l’anonimato dei protagonisti. «Nel fascicolo di un illustre parlamentare - sottolineò nella relazione finale - vi è un profilo, formato dal Centro periferico nel 1962, nel quale appare in una luce molto elevata e

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accelerazioni in prossimità di scadenze particolarmente delicate, quali elezioni o nomine.21

A giudizio della Commissione, l’indirizzo impresso al lavoro del Sifar, almeno dopo il 1959, costituiva una grave deviazione dai fini dell’istituto, perché «è inammissibile che un’indagine occulta sull’attività delle persone possa essere compiuta senza che neppure sia adombrato un motivo di sicurezza».22 La relazione finale, quindi, attribuì le deviazioni ai capi del Sifar succedutisi dal 1956 al 1966, cioè ai generali Giovanni De Lorenzo, Egidio Viggiani e Giovanni Allavena, che coprirono la guida del servizio informazioni rispettivamente nei periodi tra 1956 e 1962, 1962 e 1965, 1965 e 1966. Essa riscontrò che le deviazioni furono favorite dalla creazione di un vero e proprio gruppo di potere basato sull’ingerenza personale di De Lorenzo, dall’eccessiva permanenza delle stesse persone negli incarichi chiave e dal totale controllo tanto delle risorse finanziarie, quanto dei sistemi di promozione. Esprimendo la convinzione che le degenerazioni si fossero prodotte all’interno del servizio, la Commissione Beolchini non considerò la portata delle indicazioni che facevano riferimento al coinvolgimento del mondo politico e si limitò a osservare che il metodo utilizzato dal servizio segreto rappresentava «una causa,

senza alcun cenno negativo. Poco dopo, dal raggruppamento Centri C.S. di Roma è stato compilato un altro profilo di intonazione malevola e diffamatoria, sia sulle capacità professionali e politiche, sia sullo stretto ambito degli affari familiari». «Di un altro illustre parlamentare - continuò - era stato tratteggiato un profilo di padre esemplare di una famiglia modello; ma a distanza di pochi mesi (e nell’imminenza di un’importante competizione politica) si danno, in un nuovo profilo, notizie di gravi disordini familiari e di relazioni extra coniugali della stessa persona». Ivi, p.55.

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Su questo punto si veda in particolare l’interrogatorio del colonnello Meneguzzer. Cfr. Ivi, pp.516-517.

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quanto meno potenziale, di inquinamento della contesa politica».23 Furono di conseguenza sminuiti due riferimenti della stessa relazione, caduti sotto il maglio della censura, che accennavano esplicitamente alla strumentalizzazione politica dell’attività svolta dal Sifar. Nel primo passaggio, la relazione rivelò che «si voleva acquisire un materiale informativo d’interesse particolare per determinate situazioni contingenti, da poter esibire come strumento di pressione nei confronti degli uomini più influenti».24 Nel secondo sottolineò l’uso delle notizie raccolte dal servizio segreto fuori degli ambienti militari: «ma la deviazione più grave e più preoccupante è stata quella relativa all’uso di tali notizie fuori del campo militare, in ambienti politici e talvolta anche privati, per finalità che esorbitavano dai compiti d’istituto del Sifar».25 La Commissione, inoltre, non approfondì alcune affermazioni del generale De Lorenzo che, nel corso dell’interrogatorio del 14 marzo 1967, aveva fatto delle chiare allusioni al ruolo svolto dai politici nelle vicende del Sifar, affermando che molte sue indagini erano state effettuate su pressante richiesta di uomini politici. Per esempio, di fronte alla richiesta di spiegare il motivo dei servizi svolti per conto dell’avvocato Carnelutti, rispose: «Segni mi chiamò e mi disse di Carnelutti: “me lo tratti bene, è stato il mio maestro”». Oppure, a proposito di una indagine su Gava, replicò: «fui chiamato dall’onorevole Leone che mi pregò di condurre un’indagine a Napoli». Infine, in relazione a un presunto appoggio alla corrente dorotea della Dc negli anni tra 1962 e 1965, dichiarò che «se ciò è avvenuto in quel

23 Ivi, p.37. 24 Ivi, pp.36-37. 25 Ivi, p.81.

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tempo ritengo che lo si deve al fatto che la Dc ha ravvisato la necessità di chiedere aiuto dato che la sua posizione elettorale si era notevolmente indebolita».26

Le denunce giornalistiche

Nel corso di una acceso intervento alla Camera dei deputati, tenuto il 3 maggio del 1967, il deputato socialista Luigi Anderlini stabilì un collegamento diretto fra le deviazioni del Sifar e le voci sui pericoli eversivi corse durante la crisi del giugno-luglio 1964. «Onorevoli colleghi - disse - credo che tutti ricordiamo la atmosfera assai pesante nella quale si svolse la lunga crisi di governo del luglio 1964. Durante quelle settimane la stampa riportò notizie abbastanza precise su un generale, se non vado errato, a quell’epoca comandante dei carabinieri, ricevuto dal presidente della Repubblica. Il fatto ebbe molto rilievo: lo si interpretò come una energica pressione dei militari per imporre ragione a questi politici riottosi che facevano una gran confusione e non riuscivano a risolvere una crisi di governo... Ci potremmo trovare, signor ministro (forse già abbiamo rischiato di trovarci - io ripenso a quel luglio del 1964 -) di fronte ad una notte come quella che i generali greci hanno recentemente organizzato per strangolare la democrazia greca.27 Io penso a quei 10-15 mila (quanti sono, signor ministro?) fascicoli che si

26

Ivi, pp.706-711.

27

Il 21 aprile 1967 in Grecia era stato realizzato il colpo di stato dei colonnelli. Richard Collin ha sottolineato le straordinarie analogie tra il “Piano Solo” e quello greco denominato “Prometeo”, utilizzato con successo dal colonnello George Papadopoulos. Secondo lo studioso statunitense, i due piani nascono da un unico disegno strategico: un repentino intervento delle forze armate legittimate ad agire da un apparente e incombente pericolo sovversivo di sinistra. In tal modo, una parte consistente dei militari coinvolti, soprattutto di livello inferiore, poteva essere indotta a eseguire gli ordini nella certezza di svolgere un compito puramente difensivo. Cfr. Richard Collin, op. cit., pp.40-42.

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trovavano e probabilmente si trovano, almeno in buona parte, negli uffici del Sifar. Poteva essere, nella mente di qualcuno, la rete entro la quale far cadere l’intera classe dirigente del nostro paese».28

I primi articoli de «L’Espresso» dedicati alla crisi del 1964 nacquero a seguito delle dichiarazioni del parlamentare socialista. Come ha riepilogato anni dopo Gianni Corbi, che allora era vicedirettore del settimanale, alla seduta parlamentare era presente il giornalista Lino Jannuzzi, che subito chiese spiegazioni all’esponente socialista. «Jannuzzi - ha continuato Corbi - tornò a “L’Espresso” per riferire su quel tentativo di golpe che gli era stato descritto in modo così dettagliato. Scalfari era decisamente favorevole ad una immediata pubblicazione. Chi scrive, allora vicedirettore, era perplesso come altri autorevoli redattori che consigliavano prudenza».29

Alla fine, evidentemente, vinse il direttore e «L’Espresso» aprì il numero del 14 maggio 1967 con una copertina esplosiva, in cui era scritto «Finalmente la verità sul Sifar. 14 luglio 1964: complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di stato». In terza pagina compariva, accanto a due grandi fotografie di Segni e De Lorenzo, l’articolo esplicativo di Lino Jannuzzi, intitolato «Complotto al Quirinale». Il giornalista focalizzò la sua attenzione su due avvenimenti accaduti il 14 luglio 1964: da un lato l’ennesima infruttuosa riunione per la ricostituzione del governo di centro-sinistra, dall’altro il rapporto tenuto dal generale De Lorenzo ad alcuni quadri dell’Arma dei carabinieri. Dopo aver richiamato il clima di acuta tensione maturato dalla caduta del governo Moro fino a quel giorno, Jannuzzi si soffermò sul discorso approntato dal

28

Atti Parlamentari, Commissione sul terrorismo, Relazione sull’inchiesta Sifar, vol.I, pp.18-19.

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generale: «il presidente della Repubblica è molto preoccupato di questa situazione. Dispera ormai che i socialisti si pieghino alla realtà e rinuncino alle loro pretese. Le trattative si trascinano da venti giorni senza risultato... Il presidente della Repubblica non può permettere che si continui così: ha dato a Moro un termine ultimo, fino a sabato prossimo. Se per quel giorno Moro non gli porta l’accordo sul programma, il programma richiesto dalla congiuntura, Segni gli toglierà l’incarico per il centro-sinistra e varerà un governo di emergenza, monocolore, costituito da tecnici e da militari. Non possiamo sapere come reagirà il Parlamento». Per essere pronti a rispondere a ogni possibile evenienza, proseguì il generale, «gli uomini devono essere mantenuti in stato di emergenza e dobbiamo tenerci pronti per attuare in qualsiasi momento il piano ES». De Lorenzo aveva quindi convocato due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli per approntare e rendere operativo il piano Emergenza S. Secondo le notizie in possesso del giornalista, il piano ES era un vecchio progetto, predisposto per le forze di polizia fin dai tempi di De Gasperi, periodicamente ripreso e aggiornato. Consisteva nell’occupazione delle sedi di alcuni partiti, nell’arresto di esponenti politici e nel loro concentramento finale in Sardegna. Per il 14 luglio del 1964 le novità fondamentali si riferivano alle liste, «arricchite, rispetto a quelle precedenti, di un lungo elenco di esponenti della Dc». Ma il colpo di stato non si fece più, «perché Nenni cedette ancora, e Moro e Saragat rimisero insieme un governo di centro-sinistra: l’accordo fu firmato la notte tra venerdì e sabato, appena in tempo». Jannuzzi riferì, quindi, di un successivo colloquio di Segni con Moro e Saragat, durante il quale un ufficiale dei corazzieri udì quest’ultimo urlare al presidente: «basta con queste prepotenze. So tutto del 14 luglio. C’è abbastanza per mandarti dinanzi all’Alta Corte».

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Più tardi, De Lorenzo rivendicò a sé il merito di aver bloccato il colpo di stato. In un incontro riservato, infatti, rivelò: «presi quelle misure perché mi fu ordinato da Segni. E accettai di farlo io, proprio per tenere la situazione sotto controllo, perché non uscisse veramente dall’alveo costituzionale. Fui io stesso a insistere con Segni perché mi comunicasse il nome del nuovo capo del governo e la composizione del ministero. E quando mi accorsi dalla sua reticenza che egli aveva progetti riposti, o addirittura non ne aveva nessuno, e farneticava, forse già minato dal male, protestai e lo dissuasi».30

Le rivelazioni de «L’Espresso» suscitarono vivaci polemiche già a partire dalla sera del 10 maggio, non appena le bozze del settimanale furono note. Il presidente della Repubblica, Saragat, scrisse un telegramma a Segni in cui affermò di avere «letto con indignazione calunniose affermazioni contro la tua persona pubblicate da un settimanale romano. Mentre respingo con disgusto questa vergognosa speculazione, ti esprimo la mia affettuosa e devota solidarietà». A sua volta, l’ufficio stampa di Moro diramò il seguente comunicato: «un settimanale romano, che indulge a fantasiose ricostruzioni giornalistiche alle quali non si è soliti dare smentita, dà notizia nel numero che verrà distribuito domani, ma che è già stato anticipato oggi alla stampa, di un preteso tentativo di colpo di stato nel corso della crisi di governo del luglio 1964 e giunge “a riferire” una frase che sarebbe stata pronunciata in un colloquio, al Quirinale, dell’allora capo dello stato col presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri dell’epoca. La presidenza del Consiglio è in grado di opporre la più netta e ferma smentita a tali notizie».31

30

«L’Espresso», 14 maggio 1967.

31

Le smentite di Saragat e Moro sono state riprodotte in: Atti Parlamentari, Commissione parlamentare

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Dopo un silenzio durato cinque giorni, anche il generale De Lorenzo smentì le notizie fornite da Jannuzzi, negando di aver tenuto un rapporto ai quadri più elevati dell’Arma a metà del luglio 1964, di aver preso in considerazione un piano di emergenza e di avere accusato Segni durante colloqui riservati. Anche la maggioranza dei commenti pubblicati sui quotidiani accolsero le notizie con scetticismo, apostrofandole come calunnie e “farneticazioni”.32 «La Voce Repubblicana», riferendo tanto delle smentite, quanto delle polemiche che iniziavano a montare, affermò la mattina del 12 che «chi minimamente ricorda quei giorni sa benissimo quali preoccupazioni e quali sentimenti correvano. Ci sono coincidenze di avvenimenti che danno luogo a riflessioni e preoccupazioni... che ci fosse una situazione eccezionale, certamente sì». L’«Avanti!», dopo un primo giorno di cautela, seguì con attenzione le rivelazioni del settimanale di Scalfari e titolò il giorno 12, «Un pericolo che c’è al di là dei romanzi», il 13 «Un grave pericolo di destra minacciò la democrazia». Il quotidiano socialista, pur non pronunciandosi sulle accuse a Segni e De Lorenzo, tornò sui pericoli corsi durante la crisi, attaccando, in particolare, la Democrazia cristiana, che «ha mantenuto per anni il paese in uno stato di incertezza, e il rischio di destra, quando si è manifestato, se ha trovato nella Dc forti reazioni, vi ha trovato però anche debolezze e addirittura qualche compiacenza».33 Anche alcuni settori della Dc manifestarono i propri dubbi sul corretto svolgimento della crisi. «Politica», l’organo della sinistra democristiana, affermò che «le rivelazioni non devono essere del tutto fantastiche perché si deve ammettere che i progetti della destra contavano su Segni perché essa sapeva di averlo eletto». Uno dei suoi rappresentanti, Giovanni Galloni,

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In particolare, «Corriere della Sera», 11 maggio 1967.

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commentò che «si ripeteva il dramma che aveva scosso le istituzioni democratiche nelle crisi del ‘57, del ‘59 e più fortemente del 1960, quando fummo condotti quasi sull’orlo della guerra civile… È vero quindi che le nostre istituzioni democratiche hanno corso dei seri rischi nel luglio del ‘64».34

A sua volta, il quotidiano comunista «L’Unità» in un commento del 12 maggio chiese chiarezza perché, «l’opinione pubblica vuole oggi sapere se sia esistito e se esista tuttora, quell’apparato repressivo a cui tutte queste rivelazioni fanno esplicito riferimento, un apparato predisposto per stravolgere l’ordinamento democratico dello stato».

La settimana successiva, «L’Espresso» fornì le prove delle sue affermazioni, che si rifacevano alle testimonianze di Parri, Anderlini e Schiano,35 oltre che a quelle di un generale e due colonnelli che preferirono mantenere l’anonimato.36 Riprendendo quanto

34

Le citazioni furono riportate da Il Secolo d’Italia, 30 maggio 1967.

35

L’esponente socialista affermò di aver appreso le informazioni sui fatti del luglio 1964 da alcuni militari che si erano rivolti al suo studio di avvocato per una consulenza legale, ma rifiutò di farne i nomi trincerandosi dietro al segreto professionale.

36

Successivamente Lino Jannuzzi rivelò che i tre alti ufficiali dei carabinieri erano il generale Paolo Gaspari e i colonnelli Luigi De Crescenzo e Ezio Taddei. Cfr. Atti Parlamentari, Commissione parlamentare

d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, Relazione di maggioranza, volume I, p.30. Nell’elaborato dal

titolo «Il “Piano Solo” e la teoria del golpe negli anni Sessanta», depositato nel marzo del 2001 in chiusura dei lavori della Commissione stragi, i parlamentari di centro-destra Vincenzo Ruggero Manca, Alfredo Mantica e Vincenzo Fragalà hanno avanzato un’altra ipotesi sull’origine delle informazioni relative al presunto colpo di stato del giugno-luglio 1964. «Le rivelazioni de “L’Espresso” nel ‘67 - hanno scritto i tre parlamentari - furono pilotate, manipolate e gestite dal Kgb. Il colonnello Leonida Kolossov, vicecapo della “residentura” romana del servizio sovietico, ha anche recentemente ribadito di essere stato lui l’autore del “dossier Piano Solo” passato a “L’Espresso”». Dopo aver ricordato che dal “dossier Mitrokhin” emergono i finanziamenti del servizio segreto dell’Unione Sovietica al settimanale romano e agli altri giornali che collaborarono alla campagna sul “Piano Solo” e aver precisato che tale attività ebbe un riflesso anche all’interno del Pci, facendolo arroccare su posizioni arretrate e

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già dichiarato alla Camera il 3 maggio, Anderlini riferì che «nel luglio del 1964 sono avvenute delle cose molto gravi. Vi furono riunioni di militari, rapporti segreti, piani di emergenza, vennero preparate delle liste che prevedevano l’arresto di uomini politici». Pasquale Schiano e Ferruccio Parri confermarono gli incontri con De Lorenzo, che aveva fornito loro le notizie sulla gravità della crisi, sui propositi del presidente Segni e sul ruolo di moderatore svolto dallo stesso generale. In particolare, Schiano precisò che «il 14 luglio del 1964 fu il momento culminante di un lungo periodo di intrighi messi in atto dal generale De Lorenzo e dai suoi uomini negli anni in cui dirigeva il Sifar e poi l’Arma dei carabinieri». Parri si soffermò invece sulla figura del presidente Segni: «tenga presente che avevo un antico legame di simpatia con Segni. Non posso dimenticare che

ostacolando il processo di autonomia da Mosca, la relazione tira le conclusioni della questione. «La campagna di stampa sul “caso Piano Solo” - afferma - in un momento politico cruciale sia sul piano interno che su quello internazionale, comportò la disarticolazione e la progressiva totale inibizione degli organismi di intelligence nazionali, da una parte. Dall’altra, l’attacco ad personam al generale De Lorenzo ha rappresentato la prima azione chirurgica di “killeraggio”, un’azione ad alto contenuto simbolico e con la valenza di un messaggio rivolto a tutti gli apparati dello stato» Cfr. Vincenzo Fragalà-Vincenzo Ruggero Manca-Alfredo Mantica, Il “Piano Solo” e la teoria del golpe negli anni Sessanta in Atti parlamentari, Senato della Repubblica-Camera dei deputati, XIII legislatura, Doc.XXIII, n.64, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi,

Decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti. Elaborati presentati dai commissari, tomo II, Roma, 2001, pp.5-23. Nonostante

un tentativo di rilancio, avvenuto durante un convegno di Alleanza nazionale dell’11 giugno 2003 a cui parteciparono anche Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, l’ipotesi della campagna di stampa manovrata dai servizi sovietici non ha avuto ulteriori sviluppi e a oggi è assai discutibile. Del resto, appare quanto meno inconsueta la decisione di Andreotti, Cossiga, Fragalà e Paolo Guzzanti che, non avendo riscontrato adeguata copertura informativa sul convegno di An e sulla tesi citata, scrissero «una furibonda lettera ai direttori di tutti i giornali, telegiornali e giornali radio del paese». Su questi aspetti, si rimanda a Giuliano Gallo, «Il golpe di De Lorenzo? Inventato da 007 sovietici», «Corriere della Sera», 15 giugno 2003 e a Giuliano Gallo, «“Piano Solo”, fu vero golpe? De Lorenzo divide ancora», «Corriere della Sera», 17 giugno 2003.

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fu un leale e deciso antifascista. Ma notai che negli ultimi tempi appariva cambiato. Era dominato da alcune paure che secondo me andavano molto al di là del ragionevole. Per esempio, la paura d’una catastrofe economica lo ossessionava». Ed alla richiesta di un giudizio a proposito del comportamento del capo dello stato in quei giorni, l’ex presidente del Consiglio rispose che «al di là della buona fede, delle intenzioni e delle condizioni fisiche che a mio parere spiegano l’atteggiamento del capo dello stato, non posso negare che esso sia stato obbiettivamente di notevole gravità».37

Lo stesso Parri tentò una disamina di più ampio respiro degli eventi del 1964 in un articolo intitolato «Anatomia di un colpo di stato», pubblicato il 21 maggio sul settimanale «L’Astrolabio». A suo parere, gli episodi del luglio 1960 avevano fornito al generale De Lorenzo la prova della insufficienza tecnica, come mobilità e capacità deterrente, delle forze di repressione. Egli cominciò, così, un’opera di riorganizzazione che mirava «a creare una forza militare a direzione e disciplina unitaria, tanto potente quanto celere d’interventi, rapida di mobilitazione e di concentrazione... Quando alla rivista del 2 giugno 1964 sfilò la brigata corazzata nella quale aveva riunito i suoi battaglioni mobili, il generale De Lorenzo presentava il suo piccolo esercito personale, superiore per disciplina ed efficienza al resto delle Forze Armate». Parallelamente al potenziamento del settore militare, De Lorenzo creò uno strumento di potere personale all’interno del Sifar, che si orientava a seconda dei mutamenti politici e delle lotte di potere interne alla Democrazia cristiana. Era stata proprio quest’operazione del generale, unita all’avversione di Segni per il centro-sinistra, a gettare le basi per il tentativo eversivo

37

I servizi de «L’Espresso», annunciati con il richiamo «Ecco le prove», furono pubblicati nelle pagine 1-5 del numero del 21 maggio 1967.

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del 1964: «il generale De Lorenzo gioca sulle parole se smentisce il “colpo di stato”: questa è una frase vaga che si attaglia ad interventi variabili tra l’involuzione autoritaria, la soluzione gollista, il repulisti alla greca. Non posso esser sicuro di come si fosse precisato il pensiero dell’onorevole Segni. Per quella certa conoscenza e l’affettuosa stima che avevo dell’uomo non credo pensasse in nessun modo ad un colpo alla greca. Era purtroppo chiaro per me che aveva progettato uno scavalcamento del potere esecutivo».38

Pochi giorni dopo, il settimanale cattolico «Vita», modificando sostanzialmente alcune delle interpretazioni fornite da «L’Espresso», rivelò che in realtà il comportamento di Segni durante la crisi era stato caratterizzato da consapevolezza politica e da estrema correttezza e che, invece, manovre sotterranee erano state promosse da De Lorenzo. «In quelle settimane si svolse dunque un gioco sottilissimo e difficile, che andava condotto con estrema attenzione perché la tela minacciava di lacerarsi ad ogni istante, e perché il filo giusto, l’unico capace di guidare la crisi verso la soluzione logica, doveva essere tenuto d’occhio di continuo affinché non si confondesse con gli altri. Segni era l’elegante tessitore di questo gioco».39 De Lorenzo, al contrario, credeva che la situazione politica

38

Tra la seconda metà del 1967 e i primi mesi del 1968, «L’Astrolabio» fu tra gli organi di stampa maggiormente impegnati nelle denunce delle deviazioni del Sifar, del tentato colpo di stato nell’estate del 1964, del ruolo ricoperto in questo frangente da De Lorenzo e Segni. Parri riepilogò davanti alla Commissione parlamentare gli avvenimenti politici che avevano preceduto e accompagnato la crisi del 1964 e concluse: «era seguita tutta una serie di preparativi che a me dettero la convinzione di una preparazione specifica, predisposta in tutti i particolari, minuziosa e poi lasciata cadere ad un certo momento. Queste voci già correvano negli ambienti parlamentari nel giugno-luglio 1964». Cfr. Atti Parlamentari, Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, Relazione di maggioranza, volume I, p.391.

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fosse prossima ad un totale collasso e che in questo si potesse inserire un suo personale tentativo. «Così in pieno luglio - scrisse il settimanale - il generale fu vittima di un colpo di sole. Fu questo l’unico “colpo” a prodursi realmente in quei giorni. Esso non portò a conseguenze pratiche di nessun genere. Tutto si ridusse ad una riunione dei carabinieri che De Lorenzo considerava fedelissimi: a dispetto delle smentite, “Vita” è in grado di precisare che essa ci fu realmente, e che non si trattò di un normale rapporto ai quadri… Vennero poi alcune mosse velleitarie e adatte solo a “far scena”, quali la sfilata all’alba della brigata corazzata dei carabinieri alla periferia di Roma, e le “missioni speciali” di alcuni “fidatissimi”, per mettere in stato di allarme certe determinate zone. Seguì una serie di telefonate al presidente, nelle quali il comandante dell’Arma “assicurava”, “garantiva”, “chiedeva ordini”, eccetera». Il presidente Segni non solo non era rassicurato da questi atteggiamenti, «ma al contrario traeva ulteriore motivo di preoccupazione tanto è vero che, in quegli stessi giorni, telefonò a una altissima personalità militare per chiedere se nelle forze armate vi fosse del fermento e dell’agitazione: gli fu risposto, naturalmente, che le forze armate erano tranquille, e agli ordini dello stato». L’articolo si chiuse con la convinzione che le iniziative di De Lorenzo erano state strumentalizzate dal Partito socialista come pretesto per giustificare la propria ritirata, che invece era dovuta al fermo e irremovibile atteggiamento della Dc.

I processi De Lorenzo-«L’Espresso»

La Guerra dei sei giorni in Medio Oriente attenuò, per alcune settimane, la portata delle polemiche sul Sifar e sui fatti del giugno-luglio 1964; ma già il 16 luglio «L’Espresso» ripresentò la tesi del complotto in un breve articolo del direttore Scalfari,

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dal titolo «Israele salva De Lorenzo». La mattina del 31 luglio, il colonnello Mario Filippi presentò querela contro i giornalisti Scalfari e Jannuzzi per il delitto di diffamazione aggravata e continuata, per alcune frasi che lo riguardavano, inserite nell’articolo «Complotto al Quirinale». Il periodo incriminato era il seguente: «la riunione finì a tarda sera. Al termine, uno dei colonnelli più giovani, quel Mario Filippi, il cui nome è tornato nelle cronache delle ultime settimane a proposito del fascicolo dedicato dal Sifar a Giuseppe Saragat, si alzò per esprimere a nome dei presenti, il consenso e l’impegno per l’opera del comandante generale. E non mancò, com’era giusto, di raccomandarsi perché nel progettato governo fosse garantita, attraverso la diretta assunzione da parte di De Lorenzo del ministero della Difesa, la presenza dell’Arma». Il colonnello si sentì diffamato anche dall’articolo «Israele salva De Lorenzo» per essere stato annoverato, sia pur implicitamente, tra i comandanti dell’Arma dei carabinieri con i quali aveva complottato De Lorenzo.

Nessuna iniziativa venne invece adottata da Giovanni De Lorenzo nei novanta giorni previsti dalla legge. Così, il 24 settembre «L’Espresso» pubblicò un brevissimo editoriale dal titolo «De Lorenzo in Giappone», successivamente attribuito a Eugenio Scalfari, che censurava l’incarico affidato al generale di recarsi nel paese asiatico per conto di una società di navigazione controllata dallo stato. Solo dopo questo articolo, il generale decise di sporgere querela.40 L’espressione diffamatoria era contenuta in poche righe, in cui il generale De Lorenzo era accusato di aver «tentato un pronunciamento autoritario

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La querela per il delitto di diffamazione doppiamente aggravata nei confronti di Scalfari, presentata ufficialmente il 12 ottobre 1967, fece in tempo a includere anche un altro articolo dello stesso giornalista, dal titolo «La querela di De Lorenzo», che fu pubblicato nel numero del 1° ottobre 1967 subito dopo l’annuncio del ricorso da parte del generale.

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nel luglio 1964» e si assumeva che «il ministro della Difesa Roberto Tremelloni ordinò un’inchiesta che, almeno all’inizio, fu condotta in modo esemplare. Una Commissione accertò gli intrighi ed i complotti dell’ex comandante del Sifar».

Con decreto del 17 ottobre, il procuratore della Repubblica di Roma dispose la riunione dei due procedimenti penali, poiché gli episodi contestati erano ricollegabili tra loro, e il loro invio in giudizio con rito direttissimo davanti al Tribunale di Roma. Il pubblico ministero formulò un capo di imputazione piuttosto ampio, in cui veniva contestata agli imputati - in qualità di autori Jannuzzi e Scalfari, con quest’ultimo chiamato in causa anche come direttore responsabile del settimanale, e di legale rappresentante della società editrice “Nuove Edizioni Romane”, Carlo Caracciolo - la diffamazione pluriaggravata per gli articoli del 14 maggio, del 16 luglio, del 24 settembre e del 1° ottobre.

L’11 novembre del 1967 si aprì il processo De Lorenzo-«L’Espresso», che focalizzò l’attenzione dell’opinione pubblica per i suoi sviluppi imprevedibili e per i clamorosi colpi di scena.41 Fin dall’inizio, le deposizioni dei militari chiamati a testimoniare non solo non rasserenarono il clima teso che si era creato intorno al processo, ma finirono per alimentare dubbi e interrogativi. Il primo generale ad entrare in aula ribadì che De Lorenzo aveva conservato una posizione di potere nell’ambito del Sifar, anche dopo averne lasciato il comando. Poco dopo, il generale Cosimo Zinza, nel 1964 comandante della Legione carabinieri di Milano, cominciò a demolire le tesi sostenute da De Lorenzo. A seguito della crisi di governo, raccontò Zinza, era stato convocato il 27

41

Gli atti del dibattimento sono stati pubblicati in: Renzo Martinelli, Sifar. Gli atti del processo De

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giugno al comando di divisione di Milano per una riunione riservata, a cui erano presenti anche altri comandanti. «Il generale Markert, che aveva indetto la riunione - proseguì - ci fece presente la delicatezza della situazione e il fatto che esisteva nell’aria una certa tensione politica. Ci preannunciò che vi erano cose molto delicate da porre in attuazione all’atto in cui avessimo ricevuto un certo ordine. A seguito di ciò il generale Markert, per la parte di mia competenza, mi consegnò un fascicolo dalla copertina di colore azzurro, contenente un elenco di 44 persone indicate per nome, cognome, domicilio e numero civico, che dovevano essere, dopo aver ricevuto quel famoso ordine di cui ho parlato, fermate e prelevate nottetempo, avviate all’aeroporto di Linate, custodite in un certo ambiente e di lì, quindi, trasferite in aereo in una certa località che non era stata indicata». Poco oltre precisò che «non ci fu detto quando l’ordine sarebbe venuto: noi dovevamo predisporre tutto in attesa dell’ordine che, comunque, sarebbe venuto tramite il comando di divisione», e ammise che «nella riunione non si parlò di colpo di stato, ma ebbi la sensazione che eravamo fuori degli ordini impartiti legittimamente dai poteri legalmente costituiti». Tali predisposizioni erano strettamente legate alla crisi politica, se «subito dopo la formazione del governo Moro, la cosa passò nel dimenticatoio; comunque, nessun ordine pervenne più dopo il 27 giugno 1964».42 Nell’udienza del 16 dicembre, il generale Franco Picchiotti, all’epoca dei fatti capo di stato maggiore, smentì ancora una volta la versione di De Lorenzo, che aveva escluso categoricamente l’esistenza di liste. Egli dichiarò invece che fu proprio De Lorenzo ad annunciargli il 25

42

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giugno 1964 che di lì a poco il Sifar avrebbe consegnato all’Arma dei carabinieri elenchi di persone pericolose per l’ordine pubblico.43

Come conseguenza di queste deposizioni, il pubblico ministero Vittorio Occorsio si convinse dell’innocenza degli imputati, ritenendo pienamente provata la sussistenza di un piano di emergenza relativo all’ordine pubblico, predisposto dal generale De Lorenzo all’insaputa delle autorità di pubblica sicurezza, nonché la compilazione a cura del Sifar di liste di persone da arrestare, consegnate per disposizione del generale De Lorenzo ai comandi periferici dell’Arma. Il magistrato dichiarò, anzi, che la procura della Repubblica aveva deciso di aprire un’inchiesta sui fatti del giugno-luglio 1964, per accertare eventuali responsabilità penali di De Lorenzo. A sorpresa, il tribunale si pronunciò invece contro la chiusura del dibattimento e ordinò un allargamento delle indagini, dato che le circostanze emerse dal processo risultavano, a suo parere, confuse e contraddittorie.

A dispetto delle previsioni e delle stesse richieste formulate dal pubblico ministero, la Quarta sezione penale del tribunale di Roma condannò con sentenza del 1° marzo 1968 Eugenio Scalfari alla pena di un anno e cinque mesi e Lino Jannuzzi alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione; dispose inoltre il pagamento delle spese processuali e il risarcimento dei danni in favore delle parti civili a carico dei due giornalisti e del responsabile delle “Nuove Edizioni Romane”.44

43

Ivi, pp.123-124.

44

Atti giudiziari, Tribunale di Roma-Quarta sezione penale, Sentenza del processo De Lorenzo-Filippi contro

Scalfari, Jannuzzi e Caracciolo, 1° marzo 1968, pp.636-644. La sentenza fa parte dei circa 8.000 documenti

accumulati, anche grazie alla collaborazione della Commissione stragi, dal Centro di documentazione Cultura della legalità democratica della Regione Toscana, che ha anche raccolto le sentenze sui principali fatti di violenza politica in età repubblicana. Cfr. Centro di documentazione Cultura della legalità democratica, S 1201.

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La chiave di lettura decisiva per la sentenza fu il rifiuto della Corte di prendere in considerazione l’insieme degli indizi e delle testimonianze emerse nel corso del dibattimento come indice di un piano di emergenza per l’ordine pubblico che il generale De Lorenzo aveva ideato e predisposto senza il necessario consenso delle autorità di pubblica sicurezza. Secondo i giudici, «con riferimento alla crisi di governo ed immediatamente dopo la sua apertura, una sola riunione risultava tenuta al Comando generale dell’Arma, a livello e di natura ben diversa da quelle favoleggiate su “L’Espresso”. Che, non misure eversive, di preparazione di un colpo di stato erano state predisposte in quell’occasione ma cautele volte alla conservazione dello stesso e della sua istituzione, in ottemperanza a quei doveri di prevenzione incombenti sull’Arma… La riunione, cioè, o forse meglio l’incontro, che i capi di stato maggiore delle tre divisioni carabinieri avevano avuto, dapprima, col capo di stato maggiore generale, l’allora colonnello Franco Picchiotti, e poi col comandante generale De Lorenzo nella mattinata del 27 giugno 1964».45

Senza il collegamento con la concomitante predisposizione di un piano di emergenza, anche la questione della distribuzione e dell’aggiornamento di liste «di elementi pericolosi per la sicurezza dello stato e dell’ordinamento democratico» fu ridimensionata dalla Corte, tanto da giustificare il commento sarcastico che «con tali liste e mediante l’eventuale neutralizzazione di appena un migliaio di sconosciuti sulla scena politica italiana, il generale De Lorenzo - secondo la fervida fantasia degli imputati - si sarebbe accinto ad impadronirsi del potere!».46 Su questo punto, scrivevano i giudici, il processo

45

Ivi, p.351.

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aveva permesso di verificare se «l’iniziativa del generale Viggiani e la collaborazione da parte dell’Arma ad essa assicurata dal generale De Lorenzo alla fine del giugno 1964, rientrassero nella legalità e di pervenire ad un risultato positivo, non autorizzando il materiale probatorio raccolto ed i principi giuridici riesaminati al fine della determinazione delle rispettive competenze degli organi di polizia, soluzioni diverse».47 Secondo la sentenza, insomma, l’iniziativa di distribuire le liste era partita autonomamente dal Sifar come attività di normale aggiornamento, tanto più opportuna in relazione al momento politico particolarmente delicato ; il supporto fornito dall’Arma dei carabinieri era doveroso e, anzi, apprezzabile; tutta l’operazione, in quanto di routine, non richiedeva alcuna autorizzazione, e nemmeno la conoscenza, da parte del ministero competente.

La Corte aveva maturato queste convinzioni nonostante avesse essa stessa ritenuto provato il collegamento tra la richiesta di aggiornamento delle liste e il quadro politico determinato dalla crisi del primo governo Moro e pur sottolineandone la discrepanza con la testimonianza di De Lorenzo. «A giudizio del Collegio - affermava nella sentenza - sembra doversi disattendere la affermazione fatta nel corso della sua deposizione dal generale De Lorenzo “che le liste non avevano alcun particolare riferimento con la situazione politica del momento”, affermazione probabilmente fatta dal teste col malinteso proposito di mantenere un riserbo… non più conciliabile con l’ampiezza acquistata dall’indagine giudiziale».48

47

Ivi, pp.578-579.

48

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Nello stesso modo aveva giustificato la reticenza del generale quando, in una prima fase, aveva negato di aver «compilato, utilizzato, trasmesso od ordinato di trasmettere liste» con l’accostamento fatto nella domanda a «liste che si riferiscano al presunto colpo di stato o a liste comprendenti personalità politiche nei cui confronti dovevano essere presi provvedimenti limitativi della libertà personale».49 Sempre a proposito della composizione delle liste, aveva ritenuto plausibili le rettifiche fornite dai colonnelli Dalla Chiesa e Azzari, rispetto a quanto dichiarato al vice comandante Manes, per cui avendo sentito parlare di “estremisti” e di “elementi dirigenti dell’apparato” avevano effettuato una loro personale elaborazione mentale traducendo quei termini in attivisti del Partito comunista.

Svuotate la due questioni centrali del piano di emergenza e delle liste, il resto della sentenza si risolse in un elenco di episodi specifici, che non avevano alcuna consistenza probatoria. Così, i giudici passarono in rassegna e smontarono ogni ipotesi allarmistica legata, per esempio, ai movimenti della brigata meccanizzata voluta da De Lorenzo, al reclutamento di milizie civili e all’allestimento della cosiddetta “sala operativa” nel comando generale dell’Arma, finendo per demolire i risultati e persino il rilievo giuridico

49

«Orbene - sottolineavano i giudici - anche se il generale De Lorenzo, limitandosi a contestare l’esistenza di quelle liste, per quegli scopi inequivocabilmente identificati dagli imputati col sovvertimento violento o meglio autoritario delle istituzioni democratiche, senza accennare a quella che era stata la reale portata e l’autentico significato dell’operato del Sifar e dell’Arma nel 1964, non ha, quanto meno, dato l’impressione di voler spontaneamente e a qualsiasi costo contribuire al ristabilimento della verità… ciò non implica che egli sia venuto meno al dovere di dire il vero che su di lui incombe in qualità di testimone». Cfr. Ivi, pp.386-387. Nel secondo esame testimoniale, De Lorenzo aveva affermato «di non aver parlato prima d’oggi al Tribunale di quanto realmente accaduto nel giugno del 1964 perché trattasi di notizie che a mio giudizio dovevano rimanere riservate», e aveva subito dopo ammesso che «se ne ho parlato oggi è perché altri ne hanno parlato in precedenza, superando ogni limite di riservatezza». Cfr. Ivi, p.389.

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della Commissione Beolchini. «Rilevato in via preliminare - scrivevano i giudici - che la Commissione presieduta dal generale Beolchini, autodefinitasi “organo amministrativo straordinario che trae autorità dal mandato del ministro” va ricompresa nella categoria delle c.d. Commissioni speciali di inchiesta amministrative e politiche, che nulla hanno di giurisdizionale anche quando per il compimento di determinati atti sono rivestite di poteri inquirenti riservati al giudice, consegue che le conclusioni a cui la detta Commissione è pervenuta… non acquistano di per sé alcuna autorità nella presente sede». Secondo la Corte, poi, «appare incontestabile che le conclusioni, nei passi in cui vien denunciato l’avvenuto concentramento di potere nelle mani del generale De Lorenzo, si presentano nella veste di categoriche affermazioni, prive di qualsiasi riferimento ad elementi di riscontro e di giustificazione o ad episodi concreti che possano a mo’ d’esempio dar contezza della esistenza e delle reali dimensioni del fenomeno». E comunque, precisa ancora la sentenza, «anche a voler accettare per buone sotto il profilo probatorio le conclusioni a cui è pervenuta la Commissione d’inchiesta presieduta dal generale Beolchini in merito all’asserito concentramento di potere nelle mani del generale De Lorenzo e quindi al contemporaneo controllo del Sifar e dell’Arma dei carabinieri da parte sua, ritiene il Tribunale che tale situazione non è assolutamente ricollegabile ai c.d. fatti del luglio 1964 nel significato loro attribuito dagli imputati, di tentativo di colpo di stato, potendosi rinvenire nella stessa relazione Beolchini elementi che portano categoricamente ad escludere una qualsiasi sua strumentalizzazione per finalità sostanzialmente estranee o peggio contrastanti con i fini istituzionali dei due suddetti importanti organismi militari».50

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Sulla base di queste premesse, appaiono scontate le conclusioni che la Corte raggiunse alla fine del dibattimento. «L’attenta, minuziosa verifica di tutte le risultanze processuali - scrissero i giudici - impone, a parere del Collegio, una sola conclusione e cioè che non una delle affermazioni contenute negli articoli degli imputati ha mai avuto concreto fondamento di verità e, in sostanza, che sotto il profilo della verità reale, pel cui accertamento l’indagine è stata fin qui condotta, tutte le tesi formulate dallo Jannuzzi e dallo Scalfari, sul loro giornale e al dibattimento, si sono dimostrate irrimediabilmente false. Falsa la principale proposizione che gli imputati clamorosamente rappresentarono all’opinione pubblica del tentativo di colpo di stato operato nel luglio 1964 dall’allora presidente della Repubblica on. Antonio Segni con la attiva complicità del generale De Lorenzo e con lui dell’Arma dei carabinieri; falsa quella su cui aveva prudentemente ripiegato all’udienza lo Jannuzzi di un tentato pronunciamento militare da parte del solo comandante generale dell’Arma e dei suoi fidi; falsa infine l’ipotesi, ancor più subordinata, prospettata sempre al dibattimento dallo Scalfari di provvedimenti di emergenza ordinati dal generale De Lorenzo al di fuori ed al di là di ogni competenza e di ogni concreta esigenza. Falsità consapevoli e certamente preordinate per un illecito scopo che, ad essere benevoli, può quanto meno individuarsi nell’intendimento degli imputati di condurre sul loro giornale una clamorosa campagna di stampa innestandola sullo “scandalo” del Sifar, che dopo il dibattimento parlamentare e le conclusioni della inchiesta amministrativa andava allora incamminandosi sulla via del ridimensionamento e della definizione».51

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I giudici precisarono anche che in nessun modo il giudizio espresso era stato condizionato dagli omissis apposti ad alcuni documenti: «conclusioni, le predette a cui il Collegio è pervenuto a seguito dell’esame critico doverosamente spinto in profondità, secondo criteri di obiettiva e rigorosa analisi di tutte le risultanze che sono state acquisite con ampiezza e sostanziale libertà al processo. Risultanze e conclusioni sulle quali non ha mai, neppur minimamente, pesato, il segreto militare opposto dalla competente autorità, specie in ordine ad alcuni punti contenuti nelle dichiarazioni allegate al rapporto Manes».52

L’ultima parte della sentenza, che faceva da periodo introduttivo alla somministrazione delle condanne e delle relative pene, fu dedicata alla valutazione del rilievo diffamatorio contenuto negli articoli in esame: «non può, né potrebbe, giammai contestarsi capacità offensiva alle attribuzioni di cui sono stati gratificati i querelanti presentati in maniera clamorosa come responsabili di fatti gravissimi, sia sotto il profilo giuridico-penale che sotto quello etico-sociale. Responsabili, cioè di uno dei più gravi reati previsti dal Codice Penale e dal Codice Penale militare di pace quale l’attentato contro la costituzione dello stato; di un reato reso ancor più pesante dalla qualità di appartenenti alle Forze Armate della Repubblica rivestite dal De Lorenzo e dal Filippi e soprattutto dal fatto dell’appartenenza di entrambi - ed uno con l’altissimo grado di comandante generale - all’Arma dei carabinieri che istituzionalmente è preposta alla difesa della sicurezza dello stato, nella sua Costituzione e nelle sue istituzioni. Delitto, presentato alla opinione pubblica in maniera tanto più odiosa perché i querelanti, ed in specie il generale De Lorenzo, avrebbero coinvolto nei loro illeciti piani, dimentichi dei doveri di fedeltà alla

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Repubblica solennemente assunti con il giuramento, l’Arma dei carabinieri - la prima Arma dell’esercito - spingendola ad operare contro lo Stato; delitto, raffigurato al pubblico dei lettori in maniera ancor più detestabile perché gli asseriti responsabili, venendo meno ai loro doveri di lealtà e di onore militare, invece di respingere sdegnosamente e di denunciare l’invito a tramare contro la sicurezza dello stato che sarebbe stato loro rivolto dall’allora presidente della Repubblica, se ne sarebbero fatti complici approntando i mezzi per realizzarlo concretamente. Delitto, infine, denunciato a tutta la nazione come fatto meritevole della indiscriminata e generale esecrazione, perché diretto a sopprimere o quanto meno a gravemente limitare quel bene inestimabile che è la libertà, mediante l’instaurazione violenta di una dittatura militare o comunque di un governo autoritario. Portata diffamatoria, quindi indiscutibile, resa ancor più ampia dal mezzo di divulgazione usato dagli imputati, dalla reiterazione degli attacchi e dal particolare risalto che fu assicurato alla campagna di stampa, addirittura annunciata, prima ancora della pubblicazione del giornale che conteneva le cosiddette “rivelazioni” sul “complotto al Quirinale”. Risalto, conferito anche dalla chiassosa veste tipografica che si volle dare al numero del 14 maggio de “L’Espresso” con la prima pagina vivamente colorata, disegnata e con titoli a caratteri di scatola, onde evitare che il giornale passasse inosservato, o meglio per più efficacemente aggredire l’attenzione del pubblico sollecitandolo anche visivamente con un’adeguata opera di suggestione».53

Nel curare la pubblicazione degli atti qualche mese dopo, il giornalista Roberto Martinelli ha inteso invece sottolineare il forte impatto che il dibattimento ebbe sull’opinione pubblica italiana, anche al di là del suo esito finale, per il livello delle

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personalità chiamate a testimoniare, per la diffusione di parti di documenti fino ad allora segrete e per la presa di coscienza dei pericoli che si celavano dietro una concezione malata dei rapporti tra politica e militari. «Il processo - ha scritto Martinelli - è durato tre mesi e venti giorni, ventidue udienze sono state dedicate all’istruttoria dibattimentale, sette alle arringhe dei rappresentanti dell’accusa e della difesa, una alla sentenza. Sono venuti in aula a testimoniare due ministri in carica, un ex presidente del Consiglio, il segretario di un partito di maggioranza, un deputato, un ex deputato, il vicecomandante dell’Arma dei carabinieri, 17 generali, 7 colonnelli. Agli atti del processo sono stati allegati numerosi documenti. Per la prima volta è stata resa nota, sia pure in parte, la segretissima relazione della Commissione di inchiesta Beolchini sulle deviazioni del Sifar. Il dibattimento ha sconcertato l’opinione pubblica, ha gettato ombra e discredito sulle più alte gerarchie militari, ha rivelato episodi non certo edificanti, ha denunciato i pericoli che possono derivare dal connubio tra militari e politica, ha confermato ancora una volta che il potere militare deve essere tenuto ben distinto da quello civile e restare sempre subordinato ad esso».54

Il processo di appello, richiesto dai giornalisti de «L’Espresso», non fu mai celebrato perché il 18 dicembre del 1972 il generale De Lorenzo ritirò la querela, imitato il 9 gennaio del 1974 dal colonnello Filippi. La prima sezione penale della Corte di appello di Roma dichiarò così, in data 17 gennaio 1974, non doversi procedere contro Scalfari e Jannuzzi «in ordine al reato loro ascritto perché estinto per rimessione della querela».55

54 Renzo Martinelli, op.cit., pp.14-15. 55

Atti giudiziari, Tribunale di Roma-Prima sezione penale della Corte di appello, Sentenza di non doversi

procedere nei processi De Lorenzo-«L’Espresso», 17 gennaio 1974. Ora in: Centro di documentazione Cultura

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Contemporaneamente, il generale decise di ritirare una seconda querela contro il settimanale romano, che era nata a seguito dell’articolo «Il generale Gaspari accusa l’ex capo del Sifar - Perché De Lorenzo fa ancora paura», pubblicato il 9 marzo del 1969. A fine maggio di quell’anno, il generale aveva denunciato l’autore dell’articolo, Carlo Gregoretti, il nuovo direttore della rivista, Gianni Corbi, e il generale di corpo d’armata Paolo Gaspari, quale autore della lettera pubblicata nel corpo del testo, sentendosi diffamato per «tutto il contenuto dell’articolo, giacché in tutte le sue righe si coglie l’imputazione offensiva e diffamatoria di fatti circostanziati con caratteri di determinatezza che sono presentati con ingannevole apparenza di verità e possibile credibilità da parte del comune lettore». In particolare, la querela metteva in risalto, a titolo di esemplificazione, alcune frasi tratte dalla lettera del generale Gaspari e precisamente i passi nei quali si affermava che «la gerarchia militare… ha nel suo seno tanta forza di tradizione da poter espellere da sé chi ha fornito così repellenti ed eloquenti prove d’indegnità», e che De Lorenzo era «un uomo che il paese dovrà ricordare per il pericoloso attentato ch’egli ha fatto alle pubbliche istituzioni».56

Il processo di primo grado si era concluso con la sentenza della Prima sezione penale del Tribunale di Roma, in data 12 maggio 1970, che aveva visto l’assoluzione degli

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Atti giudiziari, Procura della Repubblica del Tribunale di Roma, Querela presentata da De Lorenzo contro

Corbi, Gregoretti e Gaspari, 31 maggio 1969. Ora in: Centro di documentazione Cultura della legalità

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