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LA RESPONSABILITÀ DEL PRIMARIO

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Academic year: 2022

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LA RESPONSABILITÀ DEL PRIMARIO Prof. Antonio Farneti

La figura primariale nell'ambito dell'organizzazione ospedaliera dei servizi di diagnosi e cura è stata negli ultimi decenni formalmente denominata in vario modo - primario, medico in posizione apicale, dirigente medico di secondo livello, responsabile di unità operativa, del tutto recentemente incaricato di struttura complessa - ma di fatto, nella pratica, essendo impensabile che un reparto di diagnosi e cura o un servizio di tipo specialistico resti senza un coordinatore, non ha perduto quella connotazione di responsabilità della gestione che il termine di un tempo - primario - e le competenze del D.P.R. 128/69 gli attribuivano.

Il termine primario è quindi oggi obsoleto ma, pur in un appiattimento delle funzioni assistenziali quale sembra trasparire dalle recentissime norme di riforma, è pur vero che dovrà delinearsi all'interno di qualsiasi struttura che opera in seno ad un ospedale (così come anche nei sevizi ambulatoriali polispecialistici) una figura medica che, se non altro, abbia funzioni di coordinamento e che dovrebbe rappresentare anche il riferimento per gli indirizzi diagnostico terapeutici e la crescita professionale dei giovani.

È per tale motivo che in questo intervento si continuerà a parlare di

"primario" o di "dirigente del servizio" essenzialmente riferendosi ad una figura di responsabile della struttura alla quale eventualmente verranno attribuite responsabilità e colpe da parte, un domani, della magistratura.

È da ritenere che, pur cambiando le denominazioni, le fonti di responsabilità siano progressivamente aumentate e viene spontaneo domandarsi, esaminando le norme e parlando con colleghi che rivestono questo ruolo, se oggi il primario che per esser tale deve per legge dedicare tutta la propria attività all'ospedale, abbia ancora il tempo per occuparsi di assistenza, di curare o non sia pressoché totalmente assorbito da compiti gestionali che ovviamente esulano dalla vera e

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Undici anni or sono, affrontando lo stesso tema limitatamente alla responsabilità civile, conclusi, con una certa dose di ottimismo, che la responsabilità del primario era sì ampia, non però assoluta, intravedendo argini idonei a limitarla quale ad esempio l'inadempienza degli organi amministrativi gestionali dell'ospedale e in ciò comprendendo carenza di struttura, di apparecchiature, mancanza di manutenzione, indifferenza verso la segnalazione anche reiterata di necessità di adeguamenti tecnici.

Sono stato puntualmente smentito da pronunce giurisprudenziali costanti nel riconoscere anche o solo al primario gli effetti negativi di anomalie o di fatti strutturali: si veda per tutte la recente condanna del primario ad una pena superiore a quella di tutti gli altri imputati per il drammatico incendio in una camera iperbarica in un ospedale milanese.

D'altra parte in un epoca caratterizzata da un'esponenziale incremento delle denunce e delle azioni civili contro il medico era forse difficile ed illusorio attendersi un atteggiamento giurisprudenziale diverso.

Merita di ricordare che la Cassazione (sentenza 4385 del 10.01.95 Sezione IV Penale) ha ritenuto responsabile il primario anestesista della morte di una paziente alla quale, dopo lavori eseguiti sull'impianto di erogazione dei gas nella sala di risveglio, era stato somministrato protossido d'azoto al posto di ossigeno.

Dopo l'assoluzione in 1° grado e la condanna in appello la Cassazione ha affermato il principio che oltre che al responsabile tecnico amministrativo e a coloro che materialmente hanno eseguito il lavoro, al primario compete l'obbligo prima di consentire la ripresa dell'attività "di accertarsi direttamente o delegando... che l'erogazione avvenga regolarmente" o comunque, dopo l’effettuazione dei lavori, che nella fase post-operatoria vengano utilizzati, se disponibili (nel caso di specie lo erano) quegli apparecchi idonei a rivelare

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anomalie nell'erogazione dei gas così da poter intervenire tempestivamente sul paziente.

La responsabilità del primario si estende in tal modo a tutto quanto accade nella divisione o servizio al quale è preposto ed è continua, permanente per tutto ciò che concerne attrezzature, organizzazione, gestione del reparto e tutela della salute del personale addetto; va esente, quantomeno penalmente e quando si versi in errori nella diagnosi e cura dei ricoverati, quando gli stessi siano stati commessi da collaboratori in sua assenza.

Ma anche in tali casi non sempre si potrà escludere anche la responsabilità civile quando si dimostri che l'errore fu commesso per seguire disposizioni o protocolli imposti o suggeriti dal dirigente del servizio.

Delineato un quadro per molti aspetti non certo rassicurante, sembra opportuno entrare più nel dettaglio esaminando alcuni dei compiti del dirigente dei servizi alla luce sia delle funzioni a suo tempo previste dal già citato D.P.R.

128/69 sia di quelle contemplate dal D.P.R. 761/79 e dalle disposizioni successive.

L'attività di coordinamento del responsabile di una struttura inserita in ambito ospedaliero si compone di diverse funzioni: organizzativo-gestionale, assistenziale, di controllo sull'attività dei collaboratori (ai quali attualmente la norma attribuisce una pressoché assoluta autonomia) regolare tenuta delle cartelle cliniche, insegnamento ai giovani, suddivisione del lavoro, assegnazione dei pazienti ai collaboratori in funzione della specifica competenza, indirizzo per l'informazione al malato e l'acquisizione di un valido consenso.

Colui che nel corso degli anni e nella stratificazione delle normative ha delineato questa imponente mole di compiti e di responsabilità doveva avere nella mente una figura di sanitario e di uomo inesistente e, di certo, non doveva conoscere la realtà del lavoro in ospedale. Non vi è altra logica spiegazione

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nell'aver incentrato in una sola persona un tal carico di mansioni; oggi poi aggravate da compiti anche economico-finanziari.

Sta di fatto che le norme indicano i compiti e da esse discendono le responsabilità.

Tra queste quella propriamente connessa all'attività assistenziale sanitaria è, come a tutti noto ed è già stato detto, in continuo aumento nel nostro Paese ed è quella che maggiormente preoccupa i colleghi.

Il responsabile del servizio attua in prima persona una parte dell'attività sanitaria e di questa risponde come qualsiasi altro collega che viva nella stessa struttura; è però anche tenuto a fornire indirizzi diagnostico-terapeutici, a controllare l'operato dei collaboratori; collaboratori che per lo più non può scegliere.

Una sentenza non recente del Tribunale di Firenze (25.05.1981 in Dir. Prat.

Assic. 1981 P. 698) affermò che il primario dell'ospedale "è normalmente responsabile del comportamento della sua équipe, in relazione al dovere di vigilanza...". È una pronuncia di giudici civili, ma ben può adattarsi a vicende penali quando risulti che il dirigente del servizio è intervenuto in un determinato caso con consiglio direttivo: ancora oggi non è raro leggere nel diario clinico che è stato consultato il primario, che il paziente è stato visitato da costui che, sentito il primario, si è optato per una determinata alternativa terapeutica o per un tipo piuttosto che per un altro di trattamento.

Nella valutazione dell'attività medica attuata a posteriori in sede di vicenda giudiziaria, anche ponendosi nella prospettiva corretta ex ante, è evidente che l'operato del primario viene esaminato alla luce dell'esperienza, delle capacità tecniche, della prudenza e diligenza che devono caratterizzare il ruolo occupato. In altre parole l'errore scusabile nel giovane può non esserlo se commesso dal più esperto, talché anche la responsabilità professionale vera e

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Tutte le attribuzioni che si sono sintetizzate in precedenza non possono essere certo esaminate compiutamente in questa sede. Meritano però qualche cenno alcune di esse, se non altro per il possibile coinvolgimento sul piano giudiziario.

La cartella clinica, documento tanto importante quanto troppo spesso trascurato, è di competenza del primario che, pur delegandone la materiale compilazione ai collaboratori medici e agli infermieri per quanto di loro competenza, ne resta il responsabile in ordine alla regolarità di tenuta e alla conservazione fino alla dimissione del paziente.

Non sono noti procedimenti per incompleta o inadeguata compilazione della cartella; sono noti casi di comprovato falso per annotazioni postume redatte personalmente dal dirigente del servizio o dallo stesso suggerite ai collaboratori.

Rimandando per una disamina del tema alla letteratura medico legale e alle pronunce giurisprudenziali in argomento va qui ricordato che una corretta, contestuale, ordinata tenuta di questo documento, oltre a rappresentare segno della necessaria diligenza degli addetti a quel reparto, si rivela assai spesso utile strumento per una corretta valutazione ex ante del percorso logico assistenziale operato dal medico; corretta valutazione che non significa ovviamente discolpa;

è tuttavia vero che da una cartella ben tenuta si possono trarre elementi utili per giustificare una scelta o un temporeggiare.

L'attenzione dei mezzi d'informazione, della letteratura medica, delle associazioni medico scientifiche, dei cittadini e della giurisprudenza è sempre più indirizzata, in maniera quasi ossessiva, all'informazione e al consenso.

La giurisprudenza penale ha ritenuto dolosa, cioè volontaria, la lesione attuata dal chirurgo senza il consenso del malato e, quindi, omicidio oltre le intenzioni la morte del paziente in seguito ad intervento correttamente eseguito, ma non precedentemente autorizzato dallo stesso.

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Oltre al notissimo caso esaminato dai Giudici fiorentini nei primi anni '90 e conclusosi con la conferma della Cassazione, sono note vicende analoghe ancora in corso presso alcune sedi giudiziarie.

La Cassazione Civile, più recentemente, ha sancito l'obbligo risarcitorio in caso di danno non da errore medico, ma da complicanza nota e della quale il paziente non era stato informato e nei confronti della quale non aveva evidentemente potuto operare scelte diverse o assumersi comunque e consapevolmente il rischio.

In questa stagione, dominata dalla cultura del consenso, è intuitivo che all'interno di una struttura ospedaliera deve essere il responsabile, il capo équipe non tanto e solo ad approntare moduli più o meno dettagliati da far sottoscrivere ai ricoverati, quanto a stimolare, a favorire e promuovere nei collaboratori il dovere, non solo giuridico, ma anche deontologico, di una costante comprensibile e adeguata informazione al malato.

Se da un lato oggi si assiste ad uno strumentale utilizzo del presunto o reale mancato consenso per ottenere il risarcimento o per cercare di far condannare il medico, è anche vero che la quotidiana esperienza medico legale porta a raccogliere lagnanze per il frequente e assoluto silenzio dei sanitari nei confronti dei ricoverati o per la comunicazione delle notizie mediche in forma incomprensibile, talvolta in maniera addirittura brutale.

Tuttavia quando il comportamento del responsabile è improntato ad un rapporto umano con il paziente e anche i collaboratori sono indotti ad adeguarsi in tal senso, i pazienti disposti ancora oggi a giustificare l'evento avverso che li ha interessati e a non ricorrere al Giudice.

Il coordinamento di tutte le attività di un reparto, le direttive diagnostico- terapeutiche, la verifica di una loro corretta esecuzione da parte dei collaboratori sono altre possibili fonti di responsabilità colposa: sono state

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verificare se i turni di guardia, il tipo di personale infermieristico nelle ore notturne era o meno idoneo a garantire adeguata assistenza; è stato talvolta chiesto, in sede giudiziaria, di comprovare con casistica di quel reparto che un determinato orientamento terapeutico, pur se calato nel singolo caso, costituiva prassi consolidata; è stato talora verificato quali strumenti utilizzava il primario per vigilare sull'operato dei collaboratori.

Già si è detto a proposito della responsabilità verso la tutela della salute dei collaboratori e sulla vigilanza della strumentazione in uso del reparto.

A quest'ultimo proposito merita ancora di essere ricordato il consiglio fornito da un Magistrato in occasione di un convegno tenutosi a Torino nel 1988: al dirigente del servizio che non trovasse risposta negli amministratori a reiterate richieste di adeguamento tecnico-strutturale e che non potesse chiudere il reparto in quanto di pubblica utilità, è stato suggerito di affidarsi a soluzioni alternative, di fantasia (Cervetti F. La responsabilità legale del primario - Atti convegno Torino - Ed. Ichtig 1991).

Solo marginalmente il medico legale è idoneo ad affrontare il tema della rispondenza delle formulazioni diagnostiche con quanto previsto dal sistema DRG introdotto da qualche tempo nel nostro Paese.

Si è a conoscenza di indagini avviate dalla magistratura inquirente che riguardano questo tema e si riferiscono a strutture private convenzionate: vi è da ritenere che qualora emergessero irregolarità verrebbero coinvolti anche i responsabili di diversi reparti.

Il chirurgo al tavolo operatorio è stato paragonato da un giurista (D'Orsi, La responsabilità civile del professionista, Milano 1981) al "comandante della nave nel momento della tempesta". Fortunatamente in campo medico non è sempre tempesta, se non in urgenza o emergenza; tanto meno non deve essere tempestosa l'attività di un reparto.

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Resta il fatto che la figura del comandante della nave, responsabile di tutto quanto accade al e sul suo vascello, ben si attaglia al coordinatore di struttura, al responsabile comunque di un servizio di diagnosi e cura: è una posizione sempre più carica di oneri e sempre meno di onori; è una posizione che richiede attenzione costante, capacità anche gestionali per le quali il medico non è di fatto preparato e, pur nel massimo rispetto delle disposizioni di legge richiede anche una buona dose di fortuna.

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