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POLI-ANTIBIOTICO-RESISTENZA ED INFEZIONI OSPEDALIERE NEI PAZIENTI USTIONATI: STRATEGIE TERAPEUTICHE E PROBLEMI MEDICO-LEGALI

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POLI-ANTIBIOTICO-RESISTENZA ED INFEZIONI OSPEDALIERE NEI PAZIENTI USTIONATI: STRATEGIE TERAPEUTICHE E PROBLEMI MEDICO-LEGALI

Dr. Marco Cortellini1, Dr. Daniele Bollero2

Introduzione

Negli ultimi anni molti progressi sono stati compiuti nella cura e nel trattamento dei pazienti grandi ustionati. La continua evoluzione delle tecniche e delle conoscenze fisiopatologiche ha permesso di ottenere significativi miglioramenti in termini di sopravvivenza e qualità di vita.

Ma non tutte le battaglie sono state vinte: le infezioni continuano a rappresentare un problema certamente rilevante.

Le lesioni cutanee da ustione costituiscono il terreno ideale per la colonizzazione batterica stante la perdita della barriera dermo-epidermica e nelle lesioni di 3° grado la presenza di tessuto necrotico facilita la crescita degli agenti patogeni che possono anche diffondersi nel torrente ematico generando infezioni sistemiche.

In più paradossalmente, i nuovi presidi salva-vita invasivi introdotti nella cura dei pazienti ustionati possono rappresentare un’ulteriore porta di ingresso ai microrganismi: tubi endotracheali e supporti ventilatori, cateteri endovenosi1 e uretrali, drenaggi chirurgici sono armi a doppio taglio, amplificando la colonizzazione da parte di agenti nosocomiali ed aumentando la vulnerabilità alle infezioni2 .

Il paziente ustionato inoltre nella fase acuta sviluppa un quadro di immunosoppressione che lo rende altamente recettivo alle colonizzazioni batteriche e conseguenti quadri settici. In questo senso, sono stati compiuti tentativi, ancora in valutazione, di modulare tale stato mediante l’utilizzo di pool di immunoglobuline aventi lo scopo di aumentare le difese immunitarie nei confronti dei germi patogeni.

La sepsi e le problematiche ad essa correlate (shock settico, patologie d’organo sino a sindromi multiorgano - M.O.F.- Multi Organ Failure) rappresentano a tutt’oggi la maggior causa di morte nei pazienti ustionati, dopo che il problema dell’insufficienza renale precoce quale causa principale di morte si è

1 Dipartimento Farmacologia, Anatomia e Medicina Legale. Università di Torino. Sezione di Medicina Legale (Direttore: Prof.P.Tappero).

2 U.O.A. Chirurgia Plastica - Centro Grandi Ustionati - Ospedale C.T.O. - Torino (Prim. Dott. G. Magliacani)

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grandemente ridimensionato grazie ad un miglior inquadramento fisiopatologico e allo sviluppo di valide terapie reidratanti3.

Il miglior controllo della sepsi è raggiunto quando multipli approcci terapeutici vengono conseguiti: la chirurgia precoce, la terapia nutrizionale e la terapia antibiotica mirata.

La chirurgia precoce nel paziente ustionato ha infatti dimostrato di ridurre l’incidenza di infezioni4, rimuovendo il tessuto necrotico sicuramente altamente colonizzabile. E’ ampiamente provato che l’interfaccia tra tessuto necrotico e sottostante tessuto rappresenti un terreno ideale per lo sviluppo, la colonizzazione e la propagazione di microrganismi patogeni.

Altre strategie includono l’impiego di terapie nutrizionali che stimolano l’apparato immunitario (RNA, acidi σ-3 e σ-6, arginina), e di immunostimolanti non specifici, tipo il glucano e la glutamina5.

Riguardo l’antibioticoterapia, gli schemi di antibiotico profilassi nei pazienti grandi ustionati sono controversi e non in grado di prevenire l’infezione da germi ospedalieri. La prescrizione di una terapia mirata è basata sull’isolamento dei microrganismi dai potenziali siti di infezione: emocolture, broncoaspirati, potter (biopsie delle aree ustionate), tamponi, uroculture.

Dall’isolamento e dal relativo antibiogramma si ottengono le indicazioni per instaurare un’adeguata terapia antibiotica mirata.

Allo scopo di contrastare la diffusione epidemica di infezioni da germi poli- antibiotico-resistenti in questi pazienti è opportuno anche un controllo ambientale adeguato: i pazienti vengono ricoverati in camere singole in cui la ventilazione è assicurata da sistemi di condizionamento che garantiscono un numero elevato di ricambi d’aria. L’aria stessa è sottoposta a filtraggio onde prevenire la contaminazione6.

Recenti studi dimostrano che anche le strutture intorno ai pazienti (letti, comodini, stetoscopi) sono molto spesso contaminati e quindi possono essere importanti fonti di infezioni7,8.

La cross-contamination avviene principalmente usando come vettori gli operatori sanitari (medici, infermieri, fisioterapisti, consulenti esterni, tecnici di radiologia) che spostandosi dal letto di un paziente all’altro fungono da

“involontari” mezzi di trasporto dei batteri.

Trials clinici hanno documentato che il solo accurato lavaggio delle mani può ridurre l’incidenza di infezioni nosocomiali del 30%9 e che applicando un stretto controllo delle norme igienico-sanitarie si previene la diffusione dei germi e lo sviluppo di cloni multi-resistenti10,11 nonostante l’intrinseca difficoltà ad un controllo completo delle norme12.

Anche i supporti invasivi possono essere contaminati dai patogeni ed allo scopo di diminuire le possibilità di colonizzazioni batteriche, la ricerca

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scientifica sta sviluppando cateteri endovascolari costruiti con materiali che non permettono l’adesione batterica13 e nuovi tubi endotracheali.

Poliantibiotico-resistenza: quale terapia?

L’indiscriminato uso di antibiotici in molte realtà ospedaliere ha creato la selezione di particolari ceppi multiresistenti14,15,16. Alcuni Autori hanno infatti riportato lo sviluppo di ceppi multi-resistenti di Pseudomonas e Acinetobacter in pazienti che avevano ricevuto una antibioticoterapia empirica17,18.

L’incidenza di infezioni ospedaliere multiresistenti nei moderni Centri Ustionati e nelle Terapie Intensive è da 2 a 5 volte superiore agli altri reparti ospedalieri19.

Lo sviluppo di poliantibioticoresistenza dei germi patogeni è spiegabile attraverso tre differenti meccanismi: l’acquisizione di nuovi geni, una selezione darwiniana di cloni batterici resistenti o lo sviluppo di ceppi naturalmente resistenti20.

L’antibiotico-resistenza nei comuni patogeni ha reso la terapia di molte infezioni ospedaliere estremamente difficile o virtualmente impossibile nei casi di pan-resistenza14.

Occorre sicuramente puntare alla prevenzione che si attua principalmente in due modi: la prevenzione della selezione di ceppi poli-antibiotico-resistenti attraverso un attento controllo dell’utilizzo degli antibiotici11,21 e in più attraverso l’attenta osservanza delle norme igienico-sanitarie da parte del personale nei confronti dei pazienti interrompendo così la diffusione tra i malati20.

Nei casi di resistenza a tutti gli antibiotici testati, la terapia nei pazienti con segni clinici di sepsi in atto viene impostata paragonando questi pazienti ai neutropenici. La neutropenia rappresenta infatti il paradigma della perdita dei poteri di difesa verso gli agenti patogeni batterici2 e la particolare fragilità di questi soggetti e la non infrequente presenza di infezioni miste costituiscono un’indicazione assoluta all’impiego di almeno due antibiotici in associazione2 ad alti dosaggi. Quest’associazione, oltre ad ottenere lo spettro più ampio possibile, consente di sfruttare il sinergismo tra questi farmaci. I dosaggi elevati fanno sorgere fondati timori di effetti collaterali (nefro, oto e epatopatie), obbligando il controllo accurato dei parametri laboratoristici legati alla farmacotossicità (concentrazioni basali e di picco dell’antibiotico e stretto controllo delle variazioni cliniche e dei dati di laboratorio). Per quanto riguarda gli antibiotici da utilizzare i dati in letteratura sono discordanti, alcuni propongono di utilizzare un beta-lattamico più un aminoglicoside2, altri sostengono l’uso di nuovi antibiotici ad ampio spettro come carbapenemici e cefalosporine di III generazione22,23, altri ancora raccomandano l’uso di polimixina e colistina24. Altri autori invece suggeriscono una terapia sinergica

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con tre diversi antibiotici (aminoglicosidi-fluorochinoloni-cefalosporine di III generazione)25.

Peraltro, in ampie revisioni della letteratura, non si ritrovano differenze significative tra la terapia con due antibiotici sinergici e la monoterapia con antibiotici ad ampio spettro26 e sempre più attenzione viene rivolta alla ricerca e all’utilizzo di nuove molecole, come per esempio le cefalosporine di IV generazione27.

E’ tuttavia da sottolineare che i dati riguardanti le modeste possibilità terapeutiche disponibili provengono molto spesso da studi non controllati, rendendo ancora più difficoltosa la decisione di quale antibiotici usare28.

Poliantibiotico-resistenza nei pazienti ustionati

Citando la nostra specifica esperienza, negli ultimi anni vi è stato un significativo incremento di isolamenti di Stafilococchi meticillino-resistenti, di bacilli Gram - poliresistenti sino a casi di Pseudomonas ed Acinetobacter resistenti a tutti gli antibiotici testati in laboratorio.

Per quanto riguarda i Gram +, i batteri più frequentemente isolati solo gli Stafilococchi (Aureus, Epidermidis, etc.). Molto spesso i primi isolamenti sono di batteri selvaggi cioè batteri che il paziente importa dall’esterno con un antibiogramma sensibile a tutti gli antibiotici testati. Durante la degenza si assiste ad un progressivo sviluppo di resistenze agli antibiotici (penicillino- resistenza / meticillino-resistenza) sino a quadri estremi di resistenza con sensibilità conservata solo ai glicopeptidi (vancomicina, teicoplanina). Tuttavia in alcuni casi isolamenti di Gram + poliantibiotico resistenti sono presenti sin dai primi giorni di ricovero.

Lo sviluppo di meticillino-resistenza coinvolge più del 50% dei pazienti grandi ustionati con frequenti associazioni di gentamicina-resistenza (30%) e ciproflaxacina-resistenza (35%).

L’aumento delle resistenze nei Gram + obbliga ad utilizzare antibiotici sempre più potenti con aumento del rischio di sviluppare nefro-epato-ototossicità pur permettendo comunque l’instaurarsi di un’antibioticoterapia mirata anche nei casi di isolamenti refrattari a molti antibiotici (terapia con vancomicina e teicoplanina)

Più complessa è la situazione quando entrano in gioco i germi Gram -. Tra questi l’Acinetobacter baumanii, la Stenotropomonas Maltophilia e lo Pseudomonas Aeruginosa sono responsabili di gravi infezioni ad andamento epidemico.

Negli ultimi anni abbiamo isolato ceppi di Acinetobacter Baumanii in emoculture (40%), cannule vascolari (29%), tamponi da essudati (20%),

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broncoaspirati (6%) e uroculture (5%) con frequenza crescente, fino ad interessare nel gennaio 1999 tutti i 5 pazienti in quel momento ricoverati.

Il germe inizialmente sensibile a tutti gli antibiotici testati (ceppo selvaggio molto probabilmente “importato” da un paziente) ha acquisito sempre maggiori resistenze, diventando dopo circa un anno di isolamenti in pazienti diversi resistente a tutte le molecole disponibili. La comparsa delle resistenze ha fatto seguito al trattamento con diversi antibiotici (Piperacillina, Amikacina, Imipenem-Cilastatina).

Nei casi con segni clinici di sepsi confermata dall’accertamento batteriologico positivo per germe toti-resistente l’impostazione terapeutica veniva effettuata, su consiglio del nostro consulente infettivologo, assimilando i nostri pazienti a pazienti neutropenici e somministrando alti dosaggi di aminoglicosidi e beta- lattamine.

La sepsi è stata diagnosticata seguendo i criteri proposti dalla Consensus Conference dell’American College of Chest Physician and Society of Critical Care Medicine (1991) cioè la presenza di almeno due dei seguenti segni:

- Temperatura > 38° C o < 36° C

- Frequenza cardiaca > 90 pulsazioni/min.

- Frequenza respiratoria > 20 atti/min o PaCO2 < 32 mmHg

- Globuli bianchi >12.000 /mm3 o < 4.000/mm3 o più del 10% di cellule immature

Sono state inoltre rafforzate le misure di isolamento e disinfezione già esistenti.

I controlli ambientali su lavandini, letti, vasche di medicazione hanno rivelato la presenza di Acinetobacter Baumanii, a testimonianza del ruolo dell’ambiente e del personale nella trasmissione dell’infezione. Proprio i serbatoi ambientali potrebbero essere la ragione della difficoltà di debellare i batteri che sono ricomparsi, già resistenti, su nuovi pazienti dopo un periodo silente.

Per quanto riguarda gli isolamenti di Pseudomonas Aeruginosa, negli ultimi anni una percentuale che oscilla tra il 35% ed 55% dei pazienti grandi ustionati ricoverati presso il nostro Centro Ustioni ha avuto almeno un isolamento di questo Gram -, con un andamento stagionale (nei mesi estivi si è notato un incremento di isolamenti (p<0.05).

Si è anche in questo caso notato un progressivo cambiamento dei ceppi selvaggi in ceppi ospedalieri multiresistenti; ed in più i ceppi ospedalieri hanno mostrato un trend in aumento nel corso degli ultimi anni sino a quadri di pan- resistenza. Un’ipotesi in più per spiegare questo, oltre la pressione antibiotica diretta, potrebbe essere la trasmissione di antibioticoresistenze da parte dei ceppi panresistenti di Acinetobacter precedentemente discussi.

Anche qui la terapia nei casi di sepsi conclamata è stata ragionata con due antibiotici potenzialmente sinergici ma per altro singolarmente inefficaci in vitro.

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Nei casi di isolamenti batteriologici panresistenti occasionali, in pazienti asintomatici, il nostro approccio è conservativo: cioè la quotidiana rivalutazione dei segni clinici e laboratoristici di sepsi, la stretta osservanza delle norme igienico-sanitarie senza prescrizione di alcuna terapia antibiotica.

Infatti nei casi di colonizzazione da parte di batteri panresistenti non è consigliata alcuna terapia per il rischio di selezionare nuovi ceppi29 mentre il controllo delle norme igienico-sanitarie permette di circoscrivere il problema prevenendo la trasmissione intraospedaliera del microrganismo multi- resistente30, nonostante la difficoltà riconosciuta di bloccare la trasmissione dei vettori attraverso questi metodi12.

In ogni caso il nostro approccio clinico-terapeutico in queste situazioni così complesse e problematiche viene discusso ed impostato su suggerimento dei nostri consulenti infettivologi. L’assistenza di uno specialista in Malattie Infettive è, infatti, giudicata fondamentale per aver una visione più completa ed aggiornata possibile11.

Aspetti medico-legali:

Lo sviluppo della resistenza agli antimicrobici in molti batteri patogeni costituisce tutt’oggi un serio problema nel controllo delle malattie infettive, e, come dimostrato dalla letteratura, si sta assistendo ad un incremento delle infezioni ospedaliere nei reparti di Terapia Intensiva e Grandi Ustionati da parte di microorganismi gram + e gram – poliantibiotico resistenti che creano non pochi problemi nell’efficacia delle terapie antibiotiche impostate.

Le maggiori difficoltà dell’attività medico-chirurgica, accompagnate da una evoluzione della giurisprudenza, hanno portato ad un aumento dei contenziosi, con un rischio non più trascurabile di essere chiamati a rispondere penalmente e civilmente dei danni derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale del medico, creando di fatto uno scontro fra due interessi comuni: da una parte l’opera del medico che ha come obiettivo il raggiungimento della salute del paziente, dall’altra il desiderio di “star bene” proprio di ogni essere umano.

Necessariamente quando dall’intervento del professionista scaturisce un danno al paziente, questi interessi tendono a divergere, configurando una possibilità nient’affatto astratta che il paziente denunci il medico per un reato, o che gli chieda un risarcimento dei danni civili, configurando in concreto un contenzioso penale e/o civile che di volta in volta introdurrà nuove problematiche medico-legali in tema di responsabilità, talvolta di difficile inquadramento e soluzione.

E’ quindi naturale, per il medico, che si trova in una delicata situazione clinico-terapeutica, chiedersi: quali possono essere le conseguenze giuridiche che possono derivare da un probabile insuccesso, quando si è costretti, nella

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realtà, ad utilizzare strategie terapeutiche non ancora standardizzate nei casi di microorganismi poliantibiotico-resistenti se non addirittura pan-resistenti?

Analizzando dal punto di vista medico-legale il problema, innanzitutto bisogna esaminare quello che è il rapporto giuridico esistente fra il medico ospedaliero e il paziente, valutando quindi successivamente gli elementi di una eventuale responsabilità professionale legata alla condotta del medico stesso.

Normalmente la responsabilità civile in cui può incorrere il medico ospedaliero nell’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’azienda sanitaria presso cui è assunto, nell’assolvere l’incarico conferitogli dal paziente, è di natura contrattuale, contratto regolato dagli art. 2230 c.c. e segg., e il cui inadempimento delle obbligazioni può essere causa di danno risarcibile secondo quanto disposto dall’art. 1218 c.c., articolo che configura la fattispecie dell’illecito contrattuale, addebitabile a chi non ha seguito quelle regole di comportamento che gli erano state imposte e che egli avrebbe dovuto seguire con la dovuta diligenza (inadempimento dell'obbligazione da parte del debitore).

Giustamente l’operato del medico non è più considerato incensurabile ed insindacabile e verrà pertanto ritenuto perseguibile quando da una sua condotta non conforme alle regole dell’arte siano scaturite conseguenze dannose per il paziente: una volta accertata la causalità nella produzione di eventi sanitari dannosi, il secondo elemento fondamentale da esaminare, per definire la fattispecie “responsabilità professionale” del medico, è la nozione di colpa, che nella sede di valutazione giuridica viene intesa come una conseguenza di diversi comportamenti dettati da negligenza, imprudenza e imperizia: in concreto la mancanza della dovuta diligenza deriva una condotta superficiale e malaccorta, mentre la mancanza della perizia deriva da un comportamento difettoso rispetto a quello che avrebbe tenuto nella stessa circostanza un professionista dello stesso livello “intellettuale”31.

Essendo necessaria la colpa del medico ai fini del risarcimento, bisogna inoltre sottolineare che la colpa stessa non discende dalla mancanza del risultato, bensì dalla mancanza dell’impegno impiegato nell’adempiere la prestazione: si tratta in sostanza di una obbligazione di mezzi non ricollegabile ad un risultato che seppur auspicato non è stato ottenuto, per cui non si potrà imputare ad un qualsiasi medico di non aver guarito, ma il non aver posto in essere tutti quegli strumenti che la scienza medica prescrive in quel caso, a prescindere dall’evento lesivo per l’integrità fisica e/o psichica del paziente e che legittimerebbe un’azione di risarcimento extracontrattuale; si può quindi asserire che l’obbligazione contrattuale è soddisfatta nel momento in cui il medico adotta tutte le tecniche necessarie ed adeguate allo scopo di guarire il suo paziente32.

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Il Legislatore ha previsto inoltre che, secondo quanto disposto dall’art. 2236 c.c., la responsabilità del prestatore d’opera per imperizia, e non per negligenza o imprudenza, può sussistere solo in caso di dolo o di colpa grave quando il caso che gli è stato affidato sia di particolare complessità, in quanto non ancora sperimentato o studiato a sufficienza o perché ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire33 o comunque quando il caso presenti

“caratteristiche di straordinarietà o eccezionalità e non sia ancora stato adeguatamente studiato dalla scienza o sperimentato nella pratica”34; questo articolo non è applicabile ai cosiddetti interventi di “facile o routinaria esecuzione”, ossia che “non richiedono una particolare abilità, essendo sufficiente una preparazione professionale ordinaria, con un rischio di esito negativo o addirittura peggiorativo minimo”35, in tal caso se “il risultato dell’intervento è peggiorativo, nel senso che le condizioni del paziente sono deteriori rispetto a quelle preesistenti, opera una presunzione della inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale”36 .

Sulla base di quanto detto sopra consegue che non sussisterà colpa civile se il professionista avrà impiegato tutti quegli accorgimenti tecnici e tutte quelle conoscenze possibili in relazione al trattamento di quel caso specifico, viceversa vi sarà colpa allorquando l’errore sarà imputabile all’ignoranza di norme scientifiche elementari non più oggetto di discussione.

La responsabilità penale del medico nasce quando dallo svolgimento dell’attività diagnostico-terapeutica consegue un reato previsto dal Codice Penale quali la morte o la lesione personale del paziente37.

La responsabilità penale per colpa professionale è quella più direttamente legata all’attività del medico stesso e, analogalmente alla responsabilità civile, richiede che l’opera del medico sia viziata da un comportamento negligente, imprudente o imperito.

Oggi, però, la responsabilità penale del medico per colpa professionale sotto il profilo dell’imperizia, e non della negligenza e dell’imprudenza, è oggetto di contrastanti valutazioni da parte della Corte di Cassazione: un orientamento ritiene che il medico possa rispondere a titolo di dolo o di colpa grave allorchè la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ricongiungendosi di fatto a quanto disposto dall’art.2236 c.c.38,39,40; l’altro, più severo, ritiene invece che l’applicazione della predetta norma non possa avvenire con interpretazione analogica, per cui il medico risponderà in ogni caso per fatti commessi almeno con colpa lieve41,42,43.

Fatte queste premesse, è universalmente riconosciuto che un valido parametro di riferimento, al fine di valutare le modalità di comportamento dell’operato del medico, è costituito dai cosiddetti “protocolli medici” o “linee guida” elaborati dalla comunità medico-scientifica37, e che costituiscono degli standards per valutare se il medico si sia discostato dai principi assodati della

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sua arte; nella maggioranza dei casi, però, tali protocolli non godono del “dono dell’immutabilità” essendo continuamente corretti in funzione delle nuove problematiche che si presentano nello sterminato campo della medicina:

talvolta non riescono ovviamente a completare le lacune derivanti dalla mancanza di interpretazioni ufficiali da parte della scienza medica, non costituendo quindi più una guida quanto piuttosto un parametro ormai obsoleto dal quale il medico si deve necessariamente discostare, affidandosi quindi a percorsi terapeutici non standardizzati ma comunque in fase di studio da parte della comunità medico-scientifica.

Quanto presentato nella parte clinica della comunicazione rivela casi emblematici della difficoltà di gestione delle infezioni sostenute da microorganismi resistenti agli antibiotici incontrate nel Reparto di Chirurgia Plastica-Centro Grandi Ustionati dell’ Ospedale CTO di Torino, come anche in altre unità di terapia intensiva.

Queste infezioni unite alle condizioni generali spesso compromesse del paziente ricoverato, costituiscono una miscela esplosiva, che può culminare in un insuccesso terapeutico, nonostante siano state seguite le più aggiornate e autorevoli conoscenze scientifiche in materia.

Di fronte a tali evidenze può il medico essere ritenuto responsabile di inadempimento e quindi perseguibile penalmente e civilmente per un presumibile errore tecnico che ha viziato il suo comportamento professionale in caso di esito non favorevole della terapia impostata?

Alla luce di quanto detto precedentemente, in questo frangente ci possiamo trovare di fronte ad una “prestazione che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà” (art. 2236 c.c.), in un professionista che, nell’esecuzione della terapia medica, non pecca né di omissione di diligenza né di una inadeguata preparazione verso il caso clinico a lui proposto, tanto che nella diagnosi, nella terapia e nell’isolamento dei pazienti critici si è attenuto a quello che la letteratura propone in queste specifiche circostanze, non potendosi però affidare ad alcun protocollo terapeutico predefinito, visto che il problema del trattamento delle infezioni ospedaliere da parte di microorganismi multiresistenti è ancora oggi oggetto di dibattito e di studi approfonditi, quindi in continuo divenire.

Riteniamo che in questa specifica situazione l’insuccesso sia un evidente “error scientiae”44 , siamo di fronte cioè a problemi scientifici irrisolti che possono rendere inevitabile l’errore, se di errore si può parlare, a causa di una incompleta conoscenza del problema, dove in alcuni casi non esiste un efficace ed univoco metodo di trattamento e dove quelli esistenti possono offrire rimedi talvolta insicuri per la certezza di successo terapeutico. E’ più che plausibile ammettere che, in queste circostanze, la condotta del medico non risulta viziata da un errore tecnico, inammissibile o inescusabile, ma risponda alla

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obbligazione di mezzi dovuta e rispettata dalla prestazione del professionista sanitario.

Conclusioni

Il controllo delle infezioni risulta di fondamentale importanza nel trattamento e cura dei pazienti ustionati. Il miglioramento delle tecniche e delle conoscenze fisiopatologiche ha permesso infatti di trattare sempre più adeguatamente i pazienti ma, a tutt’oggi, le infezioni rappresentano la maggiore causa di mortalità della malattia da ustione.

Gli antibiotici hanno sicuramente garantito un maggior margine di cura ma, negli ultimi anni, si è assistito ad un progressivo sviluppo di ceppi batterici multiresistenti fino a quadri di panresistenza.

In più questi germi superselezionati, colonizzando anche l’ambiente di ricovero del paziente (letti, lavandini, vasche di balneazione), si sono dimostrati poco facilmente eradicabili.

In attesa che strategie terapeutiche più efficaci (nuovi antibiotici, immunomodulatori, etc.) possano incidere significativamente su queste problematiche, un corretto approccio si basa quindi:

- sull’attuazione delle misure di profilassi della trasmissione delle infezioni in modo estremamente rigoroso

- sull’effettuazione di precisi protocolli di igiene ambientale

- sul controllo dei potenziali vettori (operatori sanitari) particolarmente numerosi nelle terapie intensive

- sulla collaborazione con i consulenti infettivologi

Dal punto di vista medico legale, riteniamo che, sia in sede penale che in sede civile, è opportuno tenere conto delle difficoltà tecniche incontrate nella soluzione di un determinato caso clinico, ritenendo certamente e unicamente responsabile il professionista che, di fronte a casi di straordinaria difficoltà, abbia agito con imperizia grave, o con negligenza o imprudenza di grado ordinario.

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