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CALAMITA NATURALI Vol.2 Vulcani e Terremoti

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Academic year: 2022

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CALAMITA’ NATURALI Vol.2

Vulcani e Terremoti

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INDICE

1. IL TERREMOTO 4

1.1 INTRODUZIONE 4

1.2 LE ONDE SISMICHE 5

1.2.1 Le onde di volume 6

1.2.1.1 Le onde P 6

1.2.1.2 Le onde S 6

1.2.2 Le onde superficiali 7

1.2.2.2 Onde Rayleigh 7

1.2.2.2 Onde di Love 8

1.3 SISMOGRAFI 9

1.4 INTENSITÀ E MAGNITUDO 10

1.5 ORIGINE DEI TERREMOTI 13

1.6 SISMICITÀ IN ITALIA 14

1.7 I TERREMOTI PIÙ DISASTROSI NEL MONDO E IN ITALIA 16

2. FENOMENI VULCANICI 17

2.1 INTRODUZIONE 17

2.2 PRODOTTI DELL’ATTIVITÀ VULCANICA 17

2.2.1 Gas vulcanici 18

2.2.2 Lave 19

2.2.3 Depositi piroclastici 20

2.2.3.1 Depositi piroclastici di caduta 21

2.2.3.2 Colate piroclastiche 22

2.2.3.3 Surges piroclastici 22

2.2.3.4 Ialoclastiti 22

2.2.3.5 Colate di detriti e colate di fango 23

2.3 ATTIVITÀ VULCANICA 23

2.3.1 Attività parossistica 23

2.3.2 Attività persistente 24

2.4 TIPI DI ERUZIONI 25

2.5 FORMA E COSTITUZIONE DEI VULCANI 27

2.6 RISCHIO VULCANICO E PREVENZIONE 29

2.7 RISCHIO VULCANICO IN ITALIA 31

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1. IL TERREMOTO

1.1 INTRODUZIONE

Il terremoto è un fenomeno naturale dovuto alla dinamica ancora in atto nel nostro pianeta che comporta la liberazione di grandi quantità di energie, in un tempo molto breve.

La presenza di fossili marini in rocce, che ora si trovano a migliaia di metri sopra il livello del mare, costituisce una prova evidente dei movimenti della crosta terrestre.

Tali movimenti sono di solito estremamente lenti, ma a volte, se impediti, possono provocare un aumento di tensione all’interno delle rocce. La tensione però può aumentare al punto tale che le rocce si spaccano, formando una faglia.

Le vibrazioni prodotte dalla frattura delle rocce e dal movimento di queste lungo il piano di faglia si trasmettono attraverso il terreno sotto forma di terremoti. Le scosse possono anche essere dovute a movimenti lungo il piano di un’antica faglia.

Altre cause del terremoto possono essere le esplosioni vulcaniche, forti smottamenti e le frane, ma queste sono tutte cause relativamente leggere e di effetto molto limitato.

La maggior parte dei terremoti ha origine dai movimenti di faglia prodotti all’interno della crosta terrestre Il luogo d’origine del terremoto si chiama ipocentro e da esso le vibrazioni si propagano in tutte le direzioni sotto forma di onde.

La loro velocità dipende dalla densità delle rocce, è massima nei graniti compatti, mentre è minima nelle sabbie e nelle ghiaie. L’intensità diminuisce all’aumentare della distanza percorsa. Il punto della superficie terrestre che si trova direttamente sopra l’ipocentro si

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chiama epicentro. Questo è il punto dove le scosse si avvertono prima e causano i danni maggiori.

A misura che ci si allontana dall’epicentro, le vibrazioni si fanno meno intense.

Le linee che congiungono i punti di uguale intensità si chiamano isosisme e racchiudono una serie di zone isosismiche.

Se la crosta terrestre fosse formata da un solo tipo di roccia, queste zone sarebbero circolari, ma le variazioni locali impediscono questa regolarità.

Chiamato anche scossa tellurica o evento sismico o sisma, il terremoto comunemente è definito come una serie di rapidi movimenti del terreno.

Si tratta in pratica di vibrazioni distribuite nel tempo in diversi modi, per esempio:

• scossa principale, repliche : dove la scossa principale è quella a maggiore energia liberata, mentre le repliche liberano minore energia ed il loro numero diminuisce col passare del tempo.

• Le “repliche” nel linguaggio corrente vengono chiamate scosse di assestamento.

1.2 LE ONDE SISMICHE

Le onde sismiche (scosse) rappresentano l’effetto e la manifestazione del terremoto, e pur durando decine di secondi (anche 100 sec.) sono molto catastrofiche.

Poiché, spesso, si susseguono a brevi intervalli, si parla impropriamente di durate anche maggiori: in tal caso si tratta soltanto di più scosse.

Le onde sismiche si dividono principalmente in due grandi categorie, in funzione di come le onde percorrono il materiale perturbato:

• Onde di volume o Onde P o Onde S

• Onde superficiali

o Onde di Rayleigh o Onde di Love

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1.2.1 Onde di volume

Le Onde di Volume sono quelle onde che si propagano dalla sorgente sismica, attraverso il volume del mezzo interessato, in tutte le direzioni. Si dimostra matematicamente che esistono due componenti della soluzione dell'equazione delle onde, in altre parole, una sorgente sismica genera due tipi di onde di corpo, distinte tra di loro, chiamate rispettivamente:

1.2.1.1 Onde P

Le Onde P sono onde compressionali, dette anche longitudinali o primarie. Esse sono simili alle onde acustiche e corrispondono a compressioni e rarefazioni del mezzo in cui viaggiano; al loro passaggio le particelle del materiale attraversato compiono un moto oscillatorio nella direzione di propagazione dell'onda. Sono, fra le onde generate da un terremoto, le più veloci, e dunque le prime avvertite ad una stazione sismica, da cui il nome di Onda P (Primaria).

1.2.1.2 Onde S

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Le Onde S o onde trasversali sono onde di corpo tali da provocare nel materiale attraversato oscillazioni perpendicolari alla loro direzione di propagazione. Le si può immaginare come onde che si propagano su una corda di lunghezza finita, che viene fatta oscillare muovendone le due estremità.

Un'importante caratteristica di queste onde è che non possono propagarsi in mezzi fluidi.

Non è possibile dunque riscontrarle nel magma presente nel serbatoio magmatico di un vulcano o nel nucleo esterno della terra. Questa caratteristica è stata storicamente molto importante per gli studi geofisici riguardanti la composizione in profondità della terra.

La velocità delle Onde S è necessariamente inferiore alla velocità delle Onde; esse raggiungono velocità che si aggirano solitamente intorno al 60-70% della velocità delle Onde P. Questo è il motivo per cui esse vengono avvertite sempre dopo le Onde P (da cui la denominazione onde S come Secondarie).

1.2.2 Onde superficiali

Le onde superficiali (o onde di superficie) vengono a crearsi a causa dell'intersezione delle onde di corpo con una superficie di discontinuità fisica, la più studiata delle quali è la superficie libera della terra, cioè la superficie di separazione tra la crosta terrestre e l'atmosfera terrestre. Queste onde si propagano guidate lungo la superficie e la loro energia decade esponenzialmente con la profondità (è questo il motivo per cui si dicono superficiali). Queste onde vengono indotte facilmente nelle situazioni in cui la sorgente sismica è poco profonda. È da sottolineare che in caso di terremoto, nell'ipocentro sismico vengono generate direttamente solo Onde P e Onde S, in quanto queste sono le onde di corpo che si propagano all'interno della Terra, attraverso i suoi strati, ma non vengono generate direttamente le onde superficiali.

La velocità delle onde di superficie è inferiore alla velocità delle onde di volume, per cui (specialmente se l'evento è distante) il loro arrivo è successivo all'arrivo delle Onde P ed S.

Esistono due tipi di onde di superficie, chiamate coi nomi dei due fisici che per primi le studiarono:

1.2.2.1 Onde di Rayleigh

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Quando un'onda S assieme ad un'onda P incide sulla superficie libera vengono in parte riflesse ed in parte si genera un'ulteriore onda, data dalla composizione vettoriale delle due, che si propaga sulla superficie stessa, chiamata Onda di Rayleigh.

Queste onde esistono sia in semispazi omogenei che disomogenei. Per meglio visualizzarle possiamo immaginare le Onde di Rayleigh come molto simili a quelle che si creano gettando un sasso nello stagno, provocando quindi uno scuotimento o un sussulto sulla superficie d'acqua. Il loro moto è vincolato in uno spazio verticale contenente la direzione di propagazione dell'onda.

Si può dimostrare che se si potesse misurare direttamente il moto di una particella investita da un'onda di Rayleigh vicina alla superficie, questa seguirebbe un movimento ellittico, retrogrado secondo la direzione di propagazione dell'onda. Queste ellissi sono sempre più piccole via via che aumenta la profondità. I punti di contatto tra un'ellisse e l'ellisse inferiore sono dei nodi della funzione, in cui il terreno non si muove.

Le onde di Rayleigh non possono essere udite dall'uomo, mentre molti animali (uccelli, ragni e molti mammiferi) possono avvisarne l'arrivo.

1.2.2.2 Onde di Love

Le Onde di Love sono onde superficiali, anch'esse generate dall'incontro delle Onde S con superficie libera del terreno, ma vengono generate solo nei mezzi in cui la velocità delle Onde S aumenta con la profondità (quindi siamo in presenza di un mezzo disomogeneo) e quindi sono sempre onde disperse. Le Onde di Love fanno vibrare il terreno sul piano orizzontale in direzione ortogonale rispetto alla direzione di propagazione dell'onda.

La velocità delle onde di Love è maggiore di quella delle onde S negli strati più superficiali della crosta, ma minore della stessa negli strati più bassi.

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1.3 SISMOGRAFI

I sismometri sono gli strumenti principali per coloro che studiano i terremoti. Migliaia di stazioni sismiche operano in tutto il mondo, ed alcuni strumenti sono stati trasportati sulla Luna, su Marte e su Venere. Fondamentalmente si puo' pensare ad un sismometro come un semplice pendolo. Quando il terreno si muove la base e la struttura si muovono con esso, ma l'inerzia mantiene la massa del pendolo in posto: sembra cosi' che esso si muova relativamente al terreno. Muovendosi registra come cambiano nel tempo gli spostamenti del pendolo, se "trasformiamo" il moto del suolo in una registrazione su un qualsiasi supporto (un tempo generalmente su carta fotosensibile o su carta, attualmente su supporto "informatico" di vario genere) otteniamo quello che viene definito un sismogramma (i sismografi sono i "registratori" del moto del suolo acquisito dai sismometri). I sistemi di registrazione normalmente in uso oggi operano con concetti un po' diversi.

Il più semplice trasduttore e' uno strumento elettromagnetico (elettrodinamico) ove una bobina si muove in un campo generato da un magnete permanente, come in un altoparlante. In un sismometro passivo convenzionale, la forza inerziale prodotta dal moto del suolo a causa del terremoto sposta la massa dalla sua posizione di equilibrio, e lo spostamento, o la velocità, della massa e' convertita in un segnale elettrico. Questo principio viene oggi generalmente utilizzato solo per i cosiddetti sismometri a corto- periodo.

I sismometri a lungo periodo o broadband sono costruiti in accordo con il principio del

"bilanciamento delle forze". Significa che la forza inerziale è compensata (o bilanciata) da una forza elettricamente generata in modo che la massa si muova il meno possibile.

Occorre che vi sia un certa percentuale di movimento altrimenti non sarebbe possibile osservare la forza inerziale.

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La traccia prodotta da un terremoto tipico (sismogramma), mostra tre fasi distinte:

1. Fase iniziale, che comprende i tremiti preliminari, distinti in tremiti di 1° genere e di 2°genere. I primi, di piccola ampiezza e di rapidissimo periodo, registrano il passaggio delle onde longitudinali (8,5 km al sec), i secondi, di maggiore ampiezza, registrano l’arrivo delle onde trasversali (5,2 km al sec).

2. Fase principale, che comprende la fase delle onde lunghe, delle onde massimali e delle onde a gruppi. L’ampiezza di esse cresce gradualmente, diventa massima e quindi decresce lentamente. Le onde massimali sono quelle che producono danni di maggiore entità.

3. Fase finale, costituita dalla registrazione delle onde di riflessione e di rifrazione o di onde lente, dovute al ritorno di onde che hanno compiuto il giro della Terra.

Gli effetti dei terremoti e delle scosse sono, in superficie, la distruzione degli edifici, le fratture del suolo, le frane, le variazioni idrografiche e gli effetti sul vulcanismo. E’ sorta, pertanto, in vista di tali effetti, l’edilizia sismica, che nelle regioni maggiormente soggette a tali fenomeni tellurici, comprende una serie di norme rigorose che riguardano non soltanto la scelta delle zone geologicamente più’ idonee per la costruzione di edifici, ma anche quella dei materiali da costruzione, oltre che la particolare progettazione strutturale.

1.4 INTENSITÀ E MAGNITUDO

L’intensità di un terremoto è una valutazione qualitativa degli effetti del terremoto valutata cioè in base agli effetti osservati che esso produce.

Per poter confrontare gli effetti prodotti dai terremoti, è stato necessario elaborare delle scale di intensità.

All’inizio di questo secolo il sismologo Mercalli propose una scala suddivisa in 10 gradi, successivamente modificata (introducendo anche altri due gradi) allo scopo di precisare in modo migliore gli effetti del terremoto, tenendo conto anche del tipo di costruzioni della percentuale degli edifici danneggiati.

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La scala in uso da molti anni Italia è la scala Mercalli-Cancani-Sieberg (MCS) con 12 gradi.

E’ una scala “non” strumentale basata esclusivamente sulle osservazioni fatte dalle persone che hanno avvertito il fenomeno sismico ed eventualmente dalla natura e dalla intensità dei danni riscontrati nelle costruzioni. L’importanza della scala Mercalli modificata risiede nel fatto che essa può costituire un utile riferimento ai fini della valutazione dell’intensità dei sismi avvenuti anche in epoche remote, dei quali esistano cronache o descrizioni e pertanto forniscono utili elementi per la determinazione del grado di sismicità da assegnare alle diverse zone.

La scala Mercalli, modificata nella versione chiamata MSK-64(revisione apportata nel 1964 dai sismologi Molvedev, Sponhener e Karnik) di cui l’UNESCO ha raccomandato l’adozione, conserva i 12 gradi ma tenta di definire in maniera più sistematica e quantitativa i fenomeni corrispondenti a ciascun grado. A tal fine sono state classificate le costruzioni che non presentano caratteristiche antisismiche, determinando poi i fenomeni e i danni in termini più dettagliati, permettendo così di definire meno soggettivamente l’intensità di un terremoto.

La sismologia moderna, sviluppatasi soprattutto in Giappone segue per la classificazione dell’intensità delle scosse un metodo diverso, basato più scientificamente sull’accelerazione impartita dalle onde sismiche ai corpi, cioè precisamente sulla velocità che essi acquistano per effetto sismico, espressa in millimetri il secondo (mm/sec).

I dati necessari per valutare l’intensità sismica si ottengono anche compilando schede predisposte, che successivamente vengono elaborati da sismologi ed ingegneri.

Sulla base di questa elaborazione si individua il grado d’intensità sismica nelle varie località che hanno risentito la scossa.

Se si riportano sopra una carta topografica dell’intensità sismica e si raggruppano i punti di uguale intensità, si ottengono delle aree omogenee, chiamate aree isosisme che danno un’idea abbastanza efficace della distribuzione sulla superficie terrestre degli effetti del terremoto

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Una scala per la misura strumentale della “forza” di un terremoto è stata sviluppata nel 1935 dal sismologo Chales Richter. Il ragionamento originale su cui tale scala si basa è molto semplice:

supponendo che due terremoti con lo stesso epicentro vengono registrati con identico strumento nella stessa stazione, allora il più forte produrrà un sismogramma con ampiezze maggiori rispetto al più debole. Questo vuol dire che l’ampiezza delle onde registrate sul sismografo può venire usata come base per la misura della forza di un terremoto. Questa scala è quella chiamata scala della magnitudo o scala Richter.

La magnitudo quindi è un parametro calcolato strumentalmente e indica in qualche modo l’energia liberata all’ipocentro da un terremoto. Cioè la magnitudo costituisce un criterio fisico ed obiettivo per giudicare la potenza di un terremoto.

Il calcolo della magnitudo non si ottiene da tabelle come l’intensità, ma elaborando il sismogramma ed applicando formule matematiche opportune. In base alla formula matematica adottata e del tipo di onda sismica di riferimento, si ha la magnitudo locale ML(formula di Richter 1935), la magnitudo m (formula di Bath 1945),

la magnitudo M (formula di Bath 1966). Ci sono anche formule che si basano sulla durata del terremoto(generalmente più tempo dura la scossa maggiore è la sua forza).

Terremoti di cui è stata calcolata la magnitudo in questo secolo non hanno mai superato il valore di 8,25.Si è stabilito a posteriori che quello catastrofico di Lisbona (1755) possa aver raggiunto magnitudo 9.

Per dare un’idea, per il terremoto del 1908 è stata calcolata una magnitudo di 7,25 (che corrisponde ad una energia di circa 200 volte inferiore rispetto a quello di magnitudo 8,75).

Risulta evidente che i concetti di intensità e magnitudo sono molto diversi sia come concetti fisici, sia come vengono “misurati”.

L’intensità viene stimata sulla base dei danni provocati e degli effetti osservati dalle persone ed e’ quindi una valutazione soggettiva, non e’ una grandezza fisica e risente anche dell’emotività degli osservatori e varia da zona a zona.

La magnitudo viene calcolata elaborando ed interpretando il sismogramma ed è quindi una valutazione strumentale ed oggettiva, cioè una grandezza fisica caratteristica di ogni terremoto, indipendente dai danni ed effetti prodotti.

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1.5 ORIGINE DEI TERREMOTI

Quantunque i terremoti possano, in teoria, verificarsi ovunque, vi sono in pratica due fasce principali entro le quali hanno luogo più’ dell’80% dei terremoti registrati nei tempi moderni.

Una di queste due è il circolo del Pacifico, che si estende dal Cile al nord dell’Alaska, attraversa il Giappone e arriva fino alla Nuova Guinea. L’altra la fascia mediterranea si estende dalla Spagna e dal Nord-Africa, attraverso l’Italia e il Medio Oriente, per congiungersi con il circolo del Pacifico nelle Indie Orientali.

Altre zone minori si incontrano nell’Atlantico medio e nella valle di Rift, nell’Africa Orientale Tutte queste zone dove sono concentrati i terremoti sono caratterizzate anche dalla presenza di notevoli fenomeni geodinamici (catene montuose, cinture di vulcani, fosse e dorsali oceaniche ecc.); ciò ha dato forza alla teoria della tettonica a zolle, che la maggioranza dei geologi e sismologi accetta come quella che meglio spiega certi processi geodinamici.

Proprio le fasce dove avvengono i terremoti sono state utilizzate per definire i bordi delle zolle in cui, secondo la teoria della tettonica a zolle, si pensa sia suddivisa la parte più esterna della Terra, chiamata litosfera.

Nell’ambito di questa teoria si suppone che i terremoti avvengano in relazione ai lentissimi movimenti relative delle zolle, le quali, a seconda dei casi tendono con moto lentissimo ad avvicinarsi, ad allontanarsi oppure a scorrere l’una accanto all’altra.

Questi movimenti delle zolle provocano notevoli deformazioni negli strati più esterni della litosfera: i terremoti distruttivi, che avvengono di solito a profondità non superiore a qualche decina di chilometri, si producono quando si verificano rotture di parti della crosta terrestre.

Per l’intensità e la frequenza dei terremoti le regioni della Terra si possono dividere in:

regioni asismiche, mediocremente sismiche, altamente sismiche.

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Alle prime appartengono le antiche terre come l’Irlanda, le vaste pianure della ex Russia e della Siberia.

Zone mediocremente sismiche sono la Scandinavia, i Pirenei, la Cina, il Madagascar.

Le regioni altamente sismiche, come già detto, sono allineate lungo linee sismo-tettoniche- vulcaniche, che rappresentano le due direttrici Alpino-himalaiana e Circumpacifica (Ando- giapponese-malese).

1.6 SISMICITÀ IN ITALIA

Il Mediterraneo ed in particolare l’Italia e la zona del Mare Egeo si trovano in una situazione particolarmente complessa ed esistono numerosi indizi che indicano come sia possibile la presenza di zone di “scontro” fra zolle. Questi indizi sono:

• catene montuose (Alpi, Appennini, Balcani ecc.)

• vulcani (Etna, Vesuvio) ed isole vulcaniche (Stromboli)

• diffuse aree di intensa attività sismica (Italia, Grecia, Turchia) con terremoti superficiali, intermedi ed anche profondi (nelle zone del Sud Tirreno, Eolie e Mare Egeo)

Nella Figura sono riportate le aree epicentrali della maggior parte dei terremoti più forti verificatesi in Italia dall’anno 1000 all’inizio del 1980.

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Esclusi i terremoti collegati al sistema “arco calabro-arco delle Eolie”, tutta l’attività sismica in Italia è praticamente concentrata sulla zona terrestre.

Statisticamente sul territorio nazionale si verifica un terremoto distruttivo (paragonabile a quello dell’Irpina del 1980 - magnitudo 6,4) mediamente ogni 25-30 anni. Può’ sembrare quindi che la sismicità del territorio italiano sia molto elevata; in realtà è modesta rispetto a quella di altri Paesi.

Ad esempio, in California (superficie paragonabile a quella dell’Italia) un evento della

“forza” di quello irpino del 1980 si verifica in media ogni 2 anni; in Grecia nel solo 1981 si sono verificati sei terremoti con magnitudo maggiore di 6.

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1.7 I TERREMOTI PIÙ DISASTROSI NEL MONDO E IN ITALIA

Nel corso della storia, i terremoti hanno provocato parecchi disastri. Alcuni sono stati di

“dimensioni” immense ed il rischio è continuo in molte parti del globo.

Le relazioni che legano i parametri cosiddetti sismici che caratterizzano i terremoti (magnitudo, energia liberata, dimensioni della zona ipocentrale, ecc.) agli effetti (danni alle costruzioni, sconvolgimento del terreno, ecc.) sono estremamente complesse. Dipendono per esempio dalla profondità dell’epicentro, dalla densità di popolazione, dal tipo di costruzioni, dall’ora in cui avviene la scossa principale e dagli effetti collaterali come maremoti (terremoto di Messina), incendi (terremoto di San Francisco), frane, crolli di dighe ecc.

Si riportano di seguito i terremoti più disastrosi con maggiore mortalità, storicamente documentati. Si può notare che le dimensioni dei disastri non sono proporzionali con la

“forza” del terremoto.

TERREMOTI PIU’ DISASTROSI IN ITALIA E NEL MONDO

Data Località Morti Magnitudo Data Località Morti Magnitudo

856 Corinto (Grecia) 45.000 1963 Skopje (Jugoslavia) 1.200 6.0

893 Ardabil (Iran) 100.000 1964 Anchorage (Alaska) 145 8.5

1290 Chili (Cina) 100.000 1968 Belice 254 6.0

1456 Appennino Meridionale 50.000 1968 Khorasan (Iran) 13.000 7.2

1556 Shansi (Cina) 830.000 1972 Managua

(Nicaragua) 18.000 6.2 1693 Catania – Val di Noto 60.00 1976 Città del Guatemala 23.000 7.5

1693 Napoli 93.000 1976 Friuli 965 6.5

1694 Irpinia 1.800 1976 Tanghan (Cina) 655.237 8.4

1731 Peking (Cina) 100.000 1978 Khorasan (Iran) 26.000 7.7

1737 Calcutta (India) 300.000 1980 Irpinia 3.000 6.5

1755 Lisbona 60.000 9 1985 Città del Messico 9200 8.1

1783 Calabria 30.000 1988 URSS - Armenia 25.000 6.8

1857 Lucania 12.000 1990 Iran 40.000 7.7

1868 Ibarra (Equador) 70.000 1993 Maharashtra (India) 20.000 6.4

1883 Ischia 2.000 1997 Unbria 11 5.7

1905 Kanra (India) 20.000 1999 Bursa (Turchia) 15.000 7.8

1905 Calabria 557 7.1 2001 Guyarat (India) 20.000 6.9

1906 S.Francisco 700 8.3 2002 Molise 7 5,6

1908 Messina-R. Calabria 75.000 7.2 2004 Iran 43.000 7.8

1915 Avezzano – Abruzzo 30.000 6.8 2005 Sud Est Asiatico 200.000 9.0

1920 Kunsun (Cina) 180.000 8.5 2009 Aquila 308 6.3

1923 Kwanto – Tokyo 140.000 8.3 1927 Tsingghai ( Cina) 100.000 8.3 1930 Irpinia e Vulture 1.600 6.5 1935 Quetta (Pakistan) 60.000

1950 India – Tibet 6.000 8.4

1953 Grecia Occidentale 1.400 6.0 1960 Agadir (Marocco) 20.000 5.6 1960 Concepcion (Cile) 5.700 8.7

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2. FENOMENI VULCANICI

2.1 INTRODUZIONE

Il vulcanismo è il processo mediante il quale i magmi e i gas ad essi associati risalgono nella crosta terrestre e da una bocca vengono emessi in superficie e nell’atmosfera. Il materiale magmatico si trova in serbatoi magmatici o camere magmatiche in cui è risalito e si è concentrato per fusioni locali e parziali di mantello o di crosta terrestre.

I magmi, per via della loro densità minore rispetto a quella delle rocce circostanti, sono sottoposti a una spinta idrostatica che ne favorisce la risalita e, affinché possano giungere in superficie, occorre che la pressione dei gas possa superare quella delle rocce che li ricoprono. La riduzione di pressione sul magma che risale determina la subitanea e violenta separazione della fase gassosa predisponendo l’eruzione, che è essenzialmente un processo di degassamento.

2.2 PRODOTTI DELL’ATTIVITÀ VULCANICA

Il magma è un fuso prevalentemente silicatico contenente quantità variabili di cristalli e di sostanze volatili. Queste ultime sono disciolte nel magma in condizioni di alta pressione ma si separano con basse pressioni quando il magma risale verso la superficie.

Durante le eruzioni vulcaniche il magma dà origine a due principali tipi di prodotti: le lave e i piroclasti.

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Le lave solidificano da colate di liquido contenente cristalli in sospensione, mentre i prodotti piroclastici sono derivati dalla frammentazione del magma che viene rotto in brandelli con dimensioni molto variabili durante le eruzioni esplosive.

Nei prodotti piroclastici possono essere presenti anche frammenti di rocce preesistenti vulcaniche e non vulcaniche, provenienti dal substrato o dalle pareti del condotto vulcanico.

2.2.1 Gas vulcanici

Durante le eruzioni i gas si disperdono nell’atmosfera e un vulcano può emettere gas anche senza eruttare gli altri componenti del magma.

I gas vulcanici sono costituiti mediamente per più del 90% di H2O; gli altri gas principali sono CO2, CO, H2, SO2, H2S e HCl. L’ossido di carbonio e l’idrogeno sono abbondanti alle alte temperature, mentre l’anidride carbonica e l’idrogeno solforato alle basse. L’anidride solforosa è talvolta presente in quantità rilevante e si trasforma in acido solforico; l’acido cloridrico è frequente in quasi tutti i vulcani.

Il componente volatile più abbondante, l’H2O, viene emesso in quantità che varia da circa lo 0,1% in peso nei magmi oceanici a circa il 5% in vulcani continentali. Una certa parte di questa acqua è di origine meteorica, assorbita dal magma nei livelli superiori della crosta terrestre.

Una componente minore che ha però una certa importanza per i suoi effetti ambientali e climatici è la SO2 che trasformandosi in acido solforico nell’ambiente contribuisce a rendere acide le piogge. La stessa trasformazione avviene nel materiale vulcanico iniettato nella stratosfera in occasione delle maggiori esplosioni vulcaniche: assorbendo le radiazioni solari può causare un temporaneo raffreddamento del clima terrestre negli anni immediatamente seguenti. Infine l’acido cloridrico introdotto nell’atmosfera in queste occasioni può contribuire a intaccare lo strato di ozono assottigliandolo.

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2.2.2 Lave

Il parametro che influisce maggiormente sulla morfologia e sulla struttura delle lave è la viscosità che dipende dalla composizione chimica, dalla quantità di gas e dalla temperatura del magma. Si distinguono lave fluide e viscose; di norma le prime hanno composizione basica, temperatura più elevata e sono caratterizzate da emissione non violenta di gas vulcanici. Le lave viscose sono invece quelle maggiormente ricche in SiO2

e più povere in Mg e Fe; la loro temperatura può essere inferiore anche alcune centinaia di gradi rispetto a quella delle lave fluide e sono spesso associate a eruzioni esplosive. Le lave fluide danno luogo a colate laviche mentre quelle viscose formano sovente domi.

Misure di temperatura delle lave hanno dato valori attorno a 1000 °C con massimi di oltre 1200 °C e minimi di 750 °C.

La morfologia superficiale delle colate di lava solidificate varia moltissimo e dipende dalla viscosità del magma, dal tasso di emissione e dall’ambiente di messa in posto. Si distinguono innanzitutto colate di lava caratterizzate da una superficie superiore liscia, che assume spesso forme caratteristiche nei punti in cui il flusso è compressivo; questi tipi di colate si formano quando la lava è poco viscosa, in colate ben alimentate e che fluiscono su pendii poco inclinati. Vengono inoltre distinte colate di lava a superficie superiore accidentata che si osserva su colate di lava viscosa alimentate lentamente e che scendono su pendii ripidi.

Un caso estremo di quest’ultimo tipo di morfologia superficiale delle colate sono quelle dovute a rottura di una crosta compatta che si forma già in vicinanza del punto di emissione, dando origine a blocchi solidi che precipitano sul fronte e sui lati delle colate.

La parte più superficiale di una colata di lava può solidificare per un determinato spessore formando una sorta di tubo di crosta rigida entro il quale la lava continua a fluire. Se il flusso continua anche quando è cessata l’alimentazione, il tubo si svuota completamente originando un tunnel di lava.

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Questo tipo di struttura può raggiungere decine di chilometri di lunghezza ed è assai importante per l’immagazzinamento e la circolazione dell’acqua sotterranea negli apparati vulcanici.

L’ultimo stadio del raffreddamento di una lava può produrre una caratteristica fessurazione colonnare dovuta alla contrazione durante il raffreddamento che porta alla formazione di fratture perpendicolari alla superficie di raffreddamento della colata.

Lave molto viscose si accumulano sopra o vicino alla bocca eruttiva in forma di colate più spesse che estese oppure di domi all’incirca emisferici la cui costruzione può continuare per parecchi anni. La graduale espansione e crescita dei domi porta anche a un’eccessiva pendenza dei fianchi e conseguenti franamenti di qualche parte dei domi stessi. In rari casi la lava estrusa è così viscosa che emerge in superficie come una massa di roccia solida sopra la bocca.

2.2.3 Depositi piroclastici

I frammenti eiettati nelle eruzioni vulcaniche esplosive sono denominati piroclasti o tephra.

I depositi piroclastici possono essere composti da frammenti in gran parte sciolti oppure da materiali coerenti e in questo caso costituiscono le piroclastiti.

Queste, a loro volta, possono essere composti da blocchi o bombe e di tali materiali sono costituiti gli agglomerati e le brecce piroclastiche oppure da frammenti di dimensioni inferiori e in tal caso si parla di tufi.

I frammenti piroclastici sono distinti in juvenili, cristalli e litici.

I frammenti juvenili, derivati direttamente dal magma coinvolto nell’eruzione esplosiva, possono avere un grado di vescicolazione (quantità di cavità presenti) molto variabile e sono perciò rappresentati sia da elementi densi che da elementi vescicolari.

Nei depositi piroclastici vi possono essere juvenili costituiti da piccole schegge di vetro, di solito prodotte dalla frammentazione delle pareti delle vescicole.

I cristalli possono essere quelli presenti in sospensione nel magma e in questo caso sono da considerare juvenili oppure derivare da rocce preesistenti frantumate.

I litici sono frammenti di rocce, sia di natura vulcanica che non vulcanica, preesistenti all’eruzione e vengono definiti litici accidentali. Sono molto importante perché forniscono informazioni sulla costituzione del substrato del vulcano e sulla composizione della camera magmatica.

A seconda della dimensione si distinguono blocchi e bombe in base alla loro composizione.

I blocchi sono costituiti da litici accidentali, le bombe da frammenti juvenili.

Le bombe, parzialmente o totalmente fluide nel momento in cui vengono eiettate, possono assumere una caratteristica forma affusolata per avvitamento in aria e hanno spesso una crosta screpolata per rapido raffreddamento in superficie.

Nelle eruzioni esplosive di maggiore energia è stato proposto il modello della colonna eruttiva dalla quale, contemporaneamente e per meccanismi differenti, si possono generare tutti i tipi di depositi piroclastici possibili. Durante la risalita nel condotto vulcanico, a causa della riduzione della pressione di sconfinamento, i gas disciolti nel magma si liberano provocando un istantaneo aumento di volume del magma e la sua

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frammentazione. La fuoriuscita dalla bocca di gas ad alta velocità fa da propellente all’espulsione di grandi quantità di magma frammentato, di cristalli e di frammenti di rocce solide, materiali che costituiscono la colonna eruttiva. Essa può raggiungere un’altezza di 15/20 km, ma può arrivare fino a 40 km.

Nella colonna eruttiva sono distinguibili due parti: la parte inferiore è un violento getto di gas e particelle con velocità di 200/700 m/s, guidato dalla liberazione ed espansione dei volatili del magma.

Man mano che questo getto sale, la velocità diminuisce per effetto della sua dispersione, del mescolamento con l’atmosfera e dell’azione della gravità sulle particelle trasportate. La parte superiore della colonna continua a salire grazie alla spinta convettiva e all’espansione termica. In questa fase la colonna galleggia nell’atmosfera con velocità di circa 50 m/s. La risalita si arresta quando la colonna raggiunge la stessa densità dell’aria circostante. La nube eruttiva si espande ora lateralmente, assumendo la forma di un fungo o di un pino e viene spostata dai venti.

Dal pennacchio eruttivo ricadono al suolo le particelle che non riescono più ad essere sostenute e formano i depositi di caduta piroclastica. Un incremento di densità o una diminuzione della velocità del getto eruttivo possono produrre un collasso gravitativo della colonna eruttiva e la conseguente formazione di flussi piroclastici.

2.2.3.1 Depositi piroclastici di caduta

I frammenti di varie dimensioni raggiungono la superficie del suolo dopo aver percorso una traiettoria balistica come proiettili scagliati dalla bocca di emissione, oppure si sedimentano a partire da nubi turbolente di gas e materiale in sospensione trascinate da correnti eoliche a varia distanza dalla colonna eruttiva, allorché la velocità di caduta delle particelle supera gli effetti portanti della turbolenza. I depositi piroclastici di caduta che ne

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derivano mantengono di solito spessori uniformi su aree ristrette ma via via decrescenti con l’allontanamento dal cratere e sono in genere ben selezionati.

2.2.3.2 Colate piroclastiche

Le colate piroclastiche, prodotte in eruzioni altamente esplosive collegate con magmi molto viscosi e silicei, sono flussi di materiali piroclastici in sospensione entro gas molto densi e pesanti. Sotto l’influenza della gravità essi scivolano sui pendii come una valanga di neve superando ostacoli e si estendono fino a notevoli distanze dal punto di emissione riempiendo valli e depressioni, con tendenza quindi a smussare le asperità della topografia.

Sinonimo di colata piroclastica è nube ardente e spesso vengono associate a domi che collassano per gravità o in modo esplosivo oppure lasciano fuggire una colonna eruttiva che a sua volta collassa in colata; il franamento di un settore dell’apparato vulcanico può innescare il collasso esplosivo di un domo. In altri casi i flussi piroclastici possono essere collegati con esplosione diretta lateralmente che produce contemporaneamente depositi da caduta, con trabocchi da crateri o con il collasso di una colonna eruttiva.

I depositi da flusso piroclastico presentano una scarsa selezione e sono spesso il risultato della sovrapposizione di più unità di flusso, all’interno di ciascuna delle quali di solito la stratificazione è assente. Sono frequentemente riconoscibili canali di degassamento, fessurazioni colonnari di raffreddamento, legni carbonizzati e zone di saldatura.

2.2.3.3 Surges piroclastici

I surges piroclastici sono flussi caratterizzati da una concentrazione molto ridotta di frammenti e fluiscono tanto sotto la spinta dell’esplosione che per azione della gravità.

Sono in genere connessi con esplosioni causate da contatto di magmi con acque sotterranee.

Consistono in raffiche orizzontali a propagazione anulare in cui avvengono movimenti turbolenti di piroclasti in sospensione nei gas che sono molto abbondanti rispetto ai frammenti. Il materiale ammanta la topografia su cui si espande, tendendo ad accumularsi con spessori maggiori nelle depressioni: il corpo deposizionale risultante mostra quindi assottigliamenti e ispessimenti.

I depositi di surges hanno strutture sedimentarie unidirezionali caratteristiche che permettono di ricostruire il loro senso di propagazione.

2.2.3.4 Ialoclastiti

Particolari depositi piroclastici sono le ialoclastiti costituite da frammenti di vetro vulcanico che può avere subito devetrificazione e formanti spesso veri e propri apparati vulcanici sottomarini. Sono generate dalla frammentazione di vetro vulcanico quando il magma basaltico viene emesso a contatto con acqua, probabilmente con due distinti meccanismi. Uno di essi potrebbe essere l’esplosione piroclastica per espansione dei gas consentita dalle pressioni esistenti a profondità non superiori a qualche centinaio di metri e un altro la rapida contrazione termica che determina la rottura in frammenti del materiale eruttato alle maggiori profondità marine.

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2.2.3.5 Colate di detriti e colate di fango

Dopo la loro deposizione, i materiali piroclastici vengono spesso rimaneggiati dall’azione delle acque meteoriche che li fanno franare in colate di detriti e di fango denominate lahar, un termine di origine indonesiana. Questi depositi hanno un aspetto caotico.

2.3 ATTIVITÀ VULCANICA

In relazione al condotto di emissione vengono distinte le eruzioni centrali, localizzate attorno a un punto, da quelle lineari, allineate su grandi fratture. L’attività vulcanica può inoltre essere distinta in parossistica oppure persistente. La prima dura un certo periodo e poi si esaurisce, la seconda si protrae per molto tempo e poi termina di solito con attività parossistica.

2.3.1 Attività parossistica

L’attività parossistica può avvenire a condotto aperto, al termine di attività persistente, oppure a condotto ostruito. In questo caso all’inizio un’esplosione libera il condotto con emissione di ceneri, lapilli e da ultimo lave. Può infine manifestarsi come perforazione iniziale, in un’area ove prima non esistevano apparati vulcanici.

Usando altri parametri per la classificazione, le eruzioni possono essere terminali se si verificano alla sommità del condotto, laterali se avvengono da fratture nell’apparato vulcanico collegate con il condotto ed eccentriche se da fratture apparentemente non collegate con il condotto principale; in realtà queste ultime sono spesso laterali di origine profonda.

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2.3.2 Attività persistente

L’attività persistente può essere eruttiva, di lago di lava, effusiva, esalativa, termale e fumarolica.

L’attività di lago di lava, sostenuta da vigorosi persistenti moti convettivi nei condotti, è caratteristica dei vulcani hawaiiani; questi laghi in genere occupano crateri-pozzo o voragini di sprofondamento simili a piccole caldere.

Nel caso di magmi viscosi l’attività persistente effusiva dà luogo a domi oppure protrusioni.

I domi sono prodotti dall’apporto, in più riprese, di lava che ristagna alla bocca del condotto e in tal caso vengono detti domi endogeni; lave molto fluide che si accumulano presso la bocca in conche o su topografia pianeggiante formano domi esogeni.

Nelle protrusioni solide o semisolide il materiale, molto viscoso, solidificando nel condotto viene espulso sotto forma di guglia; se il gas riesce a sfuggire alla base della guglia, si possono originare delle nubi ardenti.

Nel caso di magmi fluidi l’attività persistente effusiva si manifesta con effusioni lente, terminali o laterali, di lave in colata. Le attività termale e fumarolica sono collegate con il raffreddamento di magmi in profondità e comprendono sorgenti termali, mofete, solfatare, fumarole, soffioni e geyser.

Questi ultimi sono caratterizzati da intermittenza con periodiche espulsioni di vapori misti ad acqua allo stato liquido, che svuotano fratture. Queste vengono successivamente di nuovo riempite da acqua sotterranea che raggiunge la temperatura di vaporizzazione corrispondente alla pressione di carico esistente a quella profondità.

Nell’attività termale l’acqua coinvolta è prevalentemente quella meteorica penetrata nel sottosuolo dove origina falde acquifere e viene riscaldata dal calore terrestre.

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2.4 TIPI DI ERUZIONI

Le classificazioni moderne tengono conto sia dei meccanismi di emissione sia della dimensione e della distribuzione dei materiali emessi. Vengono distinti, con una terminologia che deriva in gran parte da siti geografici, i seguenti tipi di eruzioni:

• hawaiane, emissione non violenta di lava molto fluida che scorre rapidamente, con gas che si liberano in modo più o meno tranquillo e con pochi tephra. A volte nelle fasi iniziali si possono verificare esplosioni con fontane di lava che talvolta raggiungono grandi altezze.

• stromboliane, caratterizzate da attività persistente di fontane di lava che raggiungono centinaia di metri di altezza. Differiscono dalle precedenti perché la lava è un poco più viscosa ed espulsa a brandelli in fontane, con intervalli di pochi minuti: il volume dei piroclasti che costruiscono coni di scorie è in genere uguale o un po’ più grande di quello della lava che periodicamente viene emessa in colate.

• pliniane, altamente esplosive, caratterizzate da grandi volumi di lapilli e ceneri pomicee eiettate in una colonna eruttiva che raggiunge un’altezza di decine di chilometri, con ricadute di materiali su una vasta area. Contemporaneamente o posteriormente all’elevarsi della colonna si producono colate piroclastiche e a volte

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il materiale eiettato è così abbondante che lo svuotamento della camera magmatica dà origine a una caldera per collasso.

In relazione alle dimensioni dell’area interessata dalla ricaduta di tephra vengono distinte le eruzioni subpliniane, pliniane e ultrapliniane. Vengono classificate eruzioni freatopliniane quelle in cui un magma vescicolato interagisce con acqua in prossimità della superficie del suolo formando nell’esplosione una colonna eruttiva di ceneri molto fini che raggiunge grandissime altezze.

• vulcaniche, caratterizzate dall’interazione del magma con le acque sotterranee; si verificano dapprima numerose esplosioni, derivanti dalle pressioni generate dal rapido passaggio dell’acqua allo stato di vapore, e in seguito emissioni di materiali piroclastici e conseguenti colate degli stessi materiali.

• pelane, in questo tipo di eruzione le lave sono molto viscose e hanno temperature relativamente basse; tali caratteristiche limitano le possibilità di una loro fuoriuscita dal cratere per cui tendono a solidificarsi all’interno del condotto vulcanico e ad ostruirlo. Si producono pertanto domi o guglie formate da un ammasso di lave in via di consolidamento o che si innalzano dal cratere anche per centinaia di metri. La crescita di queste protrusioni semisolide è accompagnata dalla fuoriuscita improvvisa di nubi incandescenti, dette nubi ardenti formate da gas e ceneri surriscaldate. Si genera cosi una vera e propria valanga di materiali ad alta

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temperatura, che rotola lungo i fianchi del vulcano ad altissima velocità (in alcuni casi si sono raggiungono i 150 km/h), superando distanze di vari chilometri.

• surtseyane, sono freatomagmatiche prodotte cioè dall’interazione esplosiva di magma, in genere basaltico, con acqua superficiale poco profonda o sotterranea.

Nell’esplosione si formano surges e si ha caduta di piroclasti; quando nel corso dell’eruzione si interrompono i contatti con l’acqua si ha transizione ad attività stromboliana.

Alcune delle eruzioni sopra descritte sono il risultato dell’interazione dell’acqua superficiale e sotterranea con il magma e sono dette freatomagmatiche; frequenti sono i lahar con esse collegati.

Se il magma non partecipa direttamente all’eruzione provocata dalla vaporizzazione delle acque sotterranee e i tephra prodotti derivano dalle rocce accumulate nella bocca eruttiva o da quelle delle pareti dei condotti si hanno eruzioni freatiche.

Esplosioni di gas, solitamente per vaporizzazione di acqua freatica, possono formare condotti generalmente attraverso rocce sedimentarie poco piegate.

2.5 FORMA E COSTITUZIONE DEI VULCANI

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Il tipo di attività vulcanica dipende soprattutto dal contenuto in silice dei magmi, all’aumentare del quale l’attività diviene via via più esplosiva.

Eruzioni caratterizzate da bassa esplosività, con emissione quasi solo di colate di lava danno origine ai vulcani a scudo, con fianchi a debole pendenza.

Vulcani misti e vulcani a strato sono il risultato di alternanze di colate di lava e di materiale piroclastico; i fianchi hanno maggiore pendenza rispetto a quelli dei vulcani di lava.

Eruzioni fortemente esplosive danno luogo a vulcani di materiali piroclastici.

Numerosi dicchi di rocce ignee, disposti in vario modo tagliano spesso gli apparati vulcanici.

Forme caratteristiche sono le caldere, depressioni circolari di dimensioni maggiori dei crateri, dovute all’abbassamento della parte centrale dell’edificio lungo faglie anulari, in genere per l’evacuazione della parte sottostante durante l’eruzione. Simili alle caldere ma di dimensioni minori sono i crateri-pozzi, di solito effimeri e che spesso si ingrandiscono per coalescenza con altri vicini.

Edifici vulcanici costruiti dai prodotti emessi da eruzioni freatomagmatiche sono gli anelli di tufi e i coni di tufi. I primi hanno bastioni bassi e pendii dolci e sono attribuiti a eruzioni secche nelle quali il vapore prodotto è surriscaldato e i piroclasti vengono messi in posto asciutti. I secondi hanno bastioni molto alti rispetto al diametro del cratere e sono il risultato di esplosioni freatomagmatiche umide che producono vapore e depositi umidi, coesivi e fangosi.

Altri vulcani prodotti da eruzioni freatomagmatiche hanno un rilievo poco accentuato se confrontato con la larghezza del cratere il cui diametro varia da diverse centinaia di metri a diversi chilometri. Il fondo del cratere, che di solito si trova a una quota inferiore a quella del piano della campagna circostante, può essere riempito d’acqua che forma un laghetto.

In grandi edifici vulcanici come i vulcani a scudo, i vulcani a strato e i vulcani misti, l’enorme accumulo di materiale può provocare delle instabilità gravitative che causano franamenti parziali dei fianchi degli edifici.

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2.6 RISCHIO VULCANICO E PREVENZIONE

Le regioni vulcaniche hanno da sempre attratto l’insediamento umano. I suoli derivanti dalla disgregazione e dall’alterazione dei materiali vulcanici sono infatti notevolmente fertili. Le colture, specialmente nelle regioni tropicali e subtropicali come nelle isole indonesiane, in Giappone, nell’Italia meridionale, risalgono i versanti dei vulcani fino alle colate laviche più recenti che, non essendo ancora alterate, non sono utilizzabili. Villaggi e città sono sorti ai piedi o sui fianchi dei vulcani.

L’uomo è quindi costantemente convissuto con il pericolo, pur essendo la storia antica e recente costellata di eventi catastrofici. Nel 1982 in Messico l’eruzione del vulcano El Chichòn provocò 1000 vittime, mentre quella del 1991 del Pinatubo nelle Filippine, che eiettò nell’atmosfera quasi 5 km3 di materiali piroclastici, uccise 500 persone. Le eruzioni più violente e distruttrici sono certamente quelle di tipo esplosivo, come le pliniane o le peleane, ma anche quelle effusive sono in grado di provocare notevoli danni. Le colate laviche possono distruggere i centri abitati (Catania alle pendici dell’Etna è stata semidistrutta nel 1669), incendiare e danneggiare colture e boschi, ricoprire i terreni agrari che restano poi inutilizzabili per secoli.

In particolari regioni della Terra, come l’Islanda o la catena andina, dove i vulcani sono ricoperti da ghiacciai, le eruzioni provocano la fusione di enormi masse di ghiaccio; le acque che ne derivano si caricano di detriti e producono colate di fango spesso devastanti.

Sono fenomeni frequenti in Islanda, dove i torrenti prodotti dalla fusione dei ghiacciai ad opera delle eruzioni vulcaniche vengono denominati jökullhaupt. In questa regione la scarsa densità della popolazione limita solitamente i danni alle persone quando si verificano eventi di questo tipo; sono però sempre notevoli quelli alle vie di comunicazione (strade e ponti vengono distrutti e ricoperti da detriti grossolani). Perdite elevatissime di vite umane si sono verificate invece sulle Ande, dove intere cittadine sono state spazzate via da immani colate di fango, anche in questo caso prodotte dalla fusione di ghiaccio e neve in seguito ad eruzioni vulcaniche.

Si ebbero 25?000 vittime, ad esempio, nel 1985 ai piedi del vulcano Nevado del Ruiz in Colombia, quando una colata di fango seppellì la città di Armero.

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Una situazione di rischio vulcanico molto particolare è costituita dall’accumulo di biossido di carbonio sul fondo di laghi che si trovano all’interno di crateri. La liberazione improvvisa di questo gas può determinare nubi letali che si riversano nelle valli circostanti il vulcano.

Un fenomeno di questo tipo avvenne nel 1986 in Camerun e provocò la morte di 1?700 persone in un raggio di 25 km dal lago.

Tenendo conto della continua situazione di pericolosità che esiste nei dintorni dei vulcani attivi, è chiaro che, specialmente in tempi recenti, si sono moltiplicati gli sforzi per tentare di prevedere le eruzioni e per limitarne i danni. Un vulcano si definisce attivo non solo quando è in eruzione, ma anche quando si hanno notizie di eruzioni in tempi storici, la qual cosa può far ipotizzare una sua riattivazione in futuro. Le previsioni delle eruzioni devono quindi basarsi su un’accurata ricerca storica e sul monitoraggio dell’evoluzione in atto. Il primo tipo di ricerca fornisce la datazione precisa delle eruzioni in un determinato sito e consente di determinare, seppure approssimativamente, i tempi di ritorno del fenomeno. Il monitoraggio, effettuato mediante appositi osservatori situati sul vulcano e negli immediati dintorni, e fondamentale in quanto un’eruzione è solitamente preceduta da segni premonitori. Devono essere compiute osservazioni in continuo sull’attività sismica della zona, poiché si è osservato che le eruzioni sono quasi sempre precedute dall’aumento del numero di sismi a bassa intensità. Questi sono provocati dall’apertura di fratture, attraverso le quali i magmi possono incanalarsi verso la superficie, oppure dai movimenti di risalita del magma stesso (in tal caso i sismi presentano ipocentri con profondità sempre minore man mano che l’eruzione si avvicina). Anche le deformazioni che si producono nel suolo (variazioni di pendenza dei versanti) vengono rilevate con appositi strumenti (clinometri oppure strumentazioni che fanno riferimento a satelliti) e possono fornire interessanti informazioni sulle probabilità di eruzione. Le deformazioni sono infatti il risultato del rigonfiamento del settore sommitale dei vulcani provocato dal magma in ascesa. Importante è anche il monitoraggio termico e geochimico dei gas e dei vapori emessi dai vulcani in fase di quiescenza (fumarole); variazioni della loro temperatura e dei loro caratteri chimici possono intatti indicare spostamenti dei magmi e modificazioni delle loro caratteristiche.

Nessuno di questi segni premonitori, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche fornisce tuttavia indicazioni sicure sul verificarsi dell’eruzione. È quindi opportuno predisporre nelle aree vulcaniche densamente popolate sia progetti per il contenimento dei danni che le colate di lava potrebbero arrecare agli edifici ed alle infrastrutture sia piani di emergenza per l’evacuazione della popolazione. Al fine di contenere danni e pericoli si ricorre alla costruzione di sbarramenti atti ad arrestare per qualche tempo la lava e farla deviare lungo alvei appositamente predisposti. Qualche risultato si ottiene anche raffreddando rapidamente con grandi quantità di acqua la superficie della lava per favorirne il consolidamento e il rallentamento; tale metodo e stato usato nel 1973 durante l’eruzione di un vulcano sull’isola di Heimaey in Islanda, sulla colata che si era diretta verso il porto, minacciando di ostruirlo e di bloccare completamente l’accesso all’isola.

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2.7 RISCHIO VULCANICO IN ITALIA

In Italia si trovano tracce di attività vulcanica attribuibili a tutte le fasi della sua storia geologica, dalle lave basaltiche delle Alpi Carniche (Paleozoico) a quelle sottomarine dell’Appennino e della Sicilia (Mesozoico), fino alle rioliti e alle trachiti dei Colli Euganei (Cenozoico). Per quanto riguarda il rischio, l’interesse viene riservato soprattutto ai fenomeni vulcanici più recenti (del Quaternario e in particolare degli ultimi 10000 anni).

Il concetto di rischio vulcanico comprende sia la probabilità che un’eruzione possa verificarsi, sia i danni alle persone e alle cose che quell’evento potrebbe provocare. È chiaro che il continuo aumento numerico e dimensionale delle aree insediative, agricole, industriali e commerciali, estende notevolmente il rischio.

In Italia un’area vulcanica ad altissimo rischio è sicuramente quella del Vesuvio, attualmente in fase di quiescenza, sulle cui pendici vive circa un milione di persone.

Nell’attività di questo vulcano sono stati riconosciuti almeno sei grandi cicli a partire da 17000 anni fa; ciascuno di questi è iniziato con un’eruzione di tipo pliniano ad alta esplosività, seguita dalla caduta dei materiali iniettati in atmosfera e da flussi piroclastici.

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L’eruzione del 79 d.C. che distrusse Pompei, segnò l’inizio del ciclo più recente, la cui ultima manifestazione risale al 1944. Dal 1631 al 1944 si è verificata una ventina di piccoli cicli eruttivi, separati da periodi di stasi di qualche decennio. È chiaro che nel caso di un’eruzione di grande entità la protezione attiva (per esempio la costruzione di barriere) avrebbe una ben scarsa efficacia. Secondo recenti simulazioni al calcolatore dei vulcanologi che mantengono sotto stretta sorveglianza il Vesuvio, nel caso di un’eruzione di notevole entità in poco più di dieci minuti tutta la fascia compresa in un raggio di 7 km attorno alla bocca del vulcano sarebbe sottoposta a completa distruzione. Si attuerebbe la successione di eventi verificatasi nel 79 d.C.: caduta di pomici, flusso di cenere e di materiali piroclastici, colate di fango. Il versante più a rischio, tenendo conto della direzione dei venti ad alta quota, sarebbe quello sud-orientale. Lapilli e pomici potrebbero accumularsi per uno spessore di oltre 20 cm fino a Eboli e Savignano. Nella fascia compresa fra Ottaviano e Torre Annunziata gli spessori dei materiali piroclastici potrebbero superare i 4 m, mentre tutta l’area comprendente Torre Annunziata, Torre del Greco e i sobborghi sud-orientali di Napoli, sarebbe minacciata da colate di fango e di materiali piroclastici.

Di fronte a queste eventualità, l’unica possibilità è la difesa passiva, la capacità cioè di riconoscere e interpretare i segni premonitori che indicano ravvicinarsi di un’eruzione per mettere in atto i piani di emergenza che consentano l’evacuazione dell’area. È chiaro che si tratta di piani di notevole complessità logistica e organizzativa, che devono basarsi anche sulla disponibilità e la presa di coscienza di chi vive in queste aree; fondamentale è quindi l’opera di divulgazione dei problemi e dei rischi legati al vulcanismo. Per quanto riguarda il Vesuvio è stato predisposto, allorché si manifestino evidenti indizi di una possibile imminente eruzione, un piano nazionale di emergenza, che consenta l’allontanamento dalle zone a rischio di oltre mezzo milione di persone.

Piani di evacuazione della popolazione sono stati predisposti anche per l’isola di Vulcano nelle Eolie, dove l’elevata concentrazione di turisti durante l’estate renderebbe sicuramente più complesse le operazioni di sgombero. Il pericolo maggiore è rappresentato, come per il Vesuvio, da esplosioni e colate piroclastiche, cui potrebbero aggiungersi emissioni di gas nocivi.

Per i vulcani la cui attività è prevalentemente effusiva, come l’Etna o lo Stromboli, gli interventi possono essere di tipo attivo, con la deviazione cioè del flusso lavico. Sull’Etna i rischi maggiori sono rappresentati dall’apertura di bocche crateriche secondarie, che potrebbe verificarsi dalla sommità fino ad una quota di 300/400 m, e dalle colate laviche che, come già è accaduto in diverse occasioni, potrebbero arrivare fino alla costa.

Interventi diretti sulle colate laviche dell’Etna sono stati effettuati con un certo successo in occasione di eruzioni recenti. Le colate, che minacciarono gli abitati di Nicolosi nel 1983 e di Zafferana Etnea nel 1992, furono deviate facendo saltare con esplosivi una parte degli argini entro cui scorreva la lava e ostruendo il canale principale di scorrimento.

Va infine aggiunto che per i vulcani come l’Etna e lo Stromboli, dove le manifestazioni eruttive sono frequenti, le situazioni di rischio si sono accentuate in tempi recenti.

L’eruzione, effusiva o esplosiva, costituisce infatti un richiamo irresistibile su curiosi, che tendono a ignorare blocchi e divieti pur di fotografare colate di lava o crateri che eruttano ceneri e lapilli.

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