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INDICEO OLTRE L IMMAGINE

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Academic year: 2022

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(1)

OLTRE

L’IMMAGINE

1

Da Cézanne a Edmund Husserl: vedere oltre i fenomeni del mondo

2

2

Seurat e il circo, spettacolo popolare e fascinoso

3

3

La maschera e la follia: da Ensor a Nietzsche a Pirandello

4 4

Poeti e artisti “maledetti”, da Baudelaire a Gauguin: la contestazione

delle convenzioni sociali

5

5

La Natura tra metafore e simboli, dalla pittura alla poesia:

Leopardi, Carducci e Pascoli

6

6

Van Gogh e Kierkegaard: il paradosso della fede

8

7

Il piacere dell’esteta: da Klimt a D’Annunzio

10

8

La rassegnazione dell’inetto: da Munch a Svevo

11

9

A passeggio lungo ponti e boulevards. La pittura racconta la Parigi moderna

12

10

Schiele, Montale e il mal di vivere

14

11

Matisse come l’ultimo Leopardi: la solidarietà è l’unica risposta al male

16 12

Chagall come Nietzsche: il vero superuomo è chi sa dire di sì alla vita

17 13

La relatività tra arte e scienza, da Einstein a Picasso: la quarta dimensione

18 14

Le parolibere futuriste: dalla letteratura all’arte

20 15

Da de Chirico a Heidegger: l’arte come disvelamento della realtà

21 16

Il sogno come fonte di conoscenza: Dalí, Freud e il concetto di inconscio

22 17

Da Dalí a Bergson: una nuova concezione del tempo

23 18

Magritte, pittore-filosofo. Dipingere il pensiero:

i legami con Foucault e Schopenhauer

24

19

Ungaretti: nel dolore della trincea, la ricerca d’infinito

26 20

Manifesti pubblicitari per celebrare il boom economico

27 21

Il Neorealismo italiano tra cinema, pittura e letteratura

28 22

Fontana, Montale, Schopenhauer: cercare un varco, squarciare il velo

30 23

Giacometti, Sartre e l’Esistenzialismo: la nausea del vivere

31 24

Le Brillo Box di Warhol e la “fine dell’arte” secondo Danto (ed Hegel)

32 25

Rhythm 0. Dalla Abramovic´ ad Hannah Arendt: la banalità del male

33

26

Le Torri Gemelle, simboli di un mondo ferito

34

(2)

Da Cézanne a Edmund Husserl:

vedere oltre i fenomeni del mondo

1

C’è qualcosa di arcano e di miste- rioso nei paesaggi di Paul Cézanne (1839-1906). Per quanto essi ci ap- paiano, indubbiamente, come il frutto di un’operazione mentale, rie scono a incantarci come e forse anche più delle marine e delle cam- pagne di Monet. Ciò accade perché la ricerca di Cézanne fu intellettua- le e spirituale allo stesso tempo.

L’artista non guardò mai la natura con gli occhi fisici ma con quelli della mente e dell’anima, trasferen- do sulle sue tele «tutta la bellezza che l’universo conosce, dei luoghi e del pensiero, la luce e il cuore quie- to di chi contempla; o piuttosto, il cuore trafitto di colui che cede di fronte all’infinito» (M. Goldin).

Questa attitudine e volontà, pro- pria dell’arte di Cézanne, di tra- sferire la semplice visione fisica a una dimensione “altra”, che può essere mentale così come spirituale, rimanda in modo ine- quivocabile al pensiero del filo- sofo austriaco Edmund Husserl (1859-1938), contemporaneo di Cézanne, considerato il fonda- tore della fenomenologia, un orientamento filosofico secondo il quale i fenomeni non sono che punti di partenza per ricavare, dalla realtà, caratteristiche es- senziali dell’esperienza.

Secondo Husserl, gli oggetti che noi vediamo sono solo “adom- bramenti” che dobbiamo colle- gare in un qualcosa di unitario, il quale a sua volta sussiste in- dipendentemente da noi e dalla nostra attività conoscitiva: ciò che Cézanne avrebbe definito

“l’essenza del reale”. Scrive il

ro come caos e ordine. Non vuole separare le cose fisse che appaio- no sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si sta dando una forma, l’ordine nascente attraverso un’organiz- zazione spontanea». L’arte, per Merleau-Ponty, non è imitazione ma ricerca, attraverso la quale

«il pittore riprende e converte in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vi- brazione delle apparenze che è la genesi delle cose».

filosofo: «Vedendo questa tavo- la, girandole attorno, cambiando la mia posizione nello spazio, io ho costantemente la coscienza dell’esistere di questa sola e me- desima tavola, che rimane in se stessa assolutamente immutata.

Invece la percezione della tavola è costantemente mutevole, anzi, è una continuità di percezioni mutevoli». Noi, insomma, cono- sciamo attraverso una pluralità di percezioni, operando una sin- tesi tra vari adombramenti, rian- nodando ogni «nuova percezione con il ricordo» della precedente.

Ogni oggetto con cui ci rappor- tiamo è prima di tutto una “co- struzione” della nostra mente.

Husserl distingue, conseguente- mente, due forme di conoscen- za. La prima è quella scientifica, ingenua e acritica perché accetta come vera solo la realtà esterna, senza porsi il problema della

«possibilità della conoscenza in assoluto». Vi è poi la conoscen- za filosofica (e noi potremmo dire anche “artistica”), la quale indaga anche fenomeni del tutto slegati dall’esistenza contingente (alcuni critici definiscono questo pensiero come “platonismo hus- serliano”).

Secondo il filosofo francese Mau- rice Merleau-Ponty (1908-1961), esponente novecentesco della fe- nomenologia, Cézanne fu in gra- do, con la sua pittura, di accedere alla trama invisibile dell’essere.

Lo leggiamo in un suo saggio, Il dubbio di Cézanne (1945): «Cé- zanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensie-

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Sviluppa questo tema del rapporto fra la pit- tura di Cézanne e le teorie di Husserl, cercan- do le opere del pittore che meglio ti sembrano incontrare il pensiero del filosofo, scrivi una relazione ed esponila. Costruisci, infine, un tuo percorso interdisciplinare coinvolgendo quan- te più discipline possibili.

verso l’esame di stato Paul Cézanne, La casa dei muri rotti, 1892-94. Olio su tela, 65 x 54 cm.

New York, Metropolitan Museum of Art.

(3)

Seurat e il circo, spettacolo popolare e fascinoso

2

Nella sua ultima grande tela, Il circo, del 1891, Georges Seurat (1859-1891) dipinse una vivace scena circense, con l’immagine di una quarantina di spettatori incappellati, di diversa estrazio- ne sociale, che guardano le evo- luzioni di una cavallerizza e di un acrobata. La scena è osservata da un clown in primo piano, rap- presentato di schiena.

Il circo e i suoi protagonisti furo- no oggetto di analisi sia da par- te della letteratura ottocentesca (Charles Dickens, Émile Zola, Théophile Gautier, Edmond de Goncourt) sia da parte della pit- tura del XIX e XX secolo. Come Seurat, grandi artisti dell’Otto- cento (tra cui Renoir, Degas, Tou- louse-Lautrec) e del Novecento (Picasso, Chagall, Léger, Roualt,

ne e fiabesca lievità, di grazia at- letica e grottesca comicità. Scris- se il grande regista Federico Fellini (1920-1993), a proposito del suo film I clowns del 1970:

«Ecco: nel circo corre un’aria di mattatoio. Vi sono la follia, le esperienze terrorizzanti. Ep- pure, il tendone, quell’odore di bestie hanno per me qualcosa di familiare. La minaccia di mor- te, l’emozione di simili spetta- coli si riallacciano, certamente, alle esperienze dell’antico Circo Massimo. C’è il sangue in mezzo alla segatura». Di questa atmo- sfera, più che del fenomeno in sé, Il circo di Seurat rende fede- le testimonianza. Lo spettacolo raccontato dall’artista francese, infatti, è puramente simbolico, non presenta, né intende pre- sentare, alcun riferimento alla realtà; è da considerarsi, piutto- sto, come una sinfonia di linee e di colori evocativa di un poeti- co immaginario. Le linee rivolte verso l’alto e verso destra espri- mono uno stato di gaiezza e di piacere; i colori caldi, basati sul rosso e sul giallo, sono connessi alla medesima condizione emo- tiva. La schematicità di questo quadro va insomma interpretata come volontà di esprimere le ti- piche emozioni gioiose del circo mediante i colori e la composi- zione delle forme sulla tela.

Sassu, Donghi, Campigli) dedi- carono più di una tela al “più grande spettacolo del mondo”

(per citare l’omonimo film di Cecil B. DeMille, premio Oscar 1954). D’altro canto, il successo popolare del circo, vitale alter- nativa al teatro tradizionale, fu immenso: animali ammaestra- ti, clown, giocolieri, trapezisti e cavallerizzi attiravano vere e proprie folle di appassionati.

Le ballerine in grado di danzare su un cavallo in movimento di- vennero autentiche star. Non di rado, i circhi esibivano anche il triste spettacolo dei fenomeni da baraccone, personaggi ritenuti bizzarri o perché diversi dalla norma (troppo alti o troppo bas- si, troppo grassi o troppo magri) o perché disabili o sofferenti di particolari sindromi o patolo- gie (donne barbute, focomelici, gemelli siamesi). Il circo più fa- moso dell’Ottocento fu il Circo Barnum (che dopo 146 anni di attività, garantita da varie fusio- ni con altre compagnie, ha chiu- so nel 2017).

Del circo ha certamente incanta- to artisti e letterati il fantasioso e suggestivo bagaglio di oggetti, attrezzi, strumenti musicali, co- stumi e quindi di suoni e colori, nonché la sua atmosfera irreale, di sospensione temporale, unita a quel particolare mix di tensio-

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI

Nell’Ottocento, in Europa come negli Stati Uniti, nuovi spettacoli, tra cui la pantomima, il circo, il varietà, il cabaret, la danza libera (genere inaugurato da Loïe Fuller e Isadora Duncan), le “attrazio- ni per la vista” e, per ultimo, il cinema si combinarono agli impulsi vitali della tradizione popolare generando un sistema di esibizioni artistiche ricco e articolato. Approfondisci con una ricerca questo argomento.

verso l’esame di stato Georges Seurat, Il circo, 1891. Olio su tela,

1,85 x 1,52 m. Parigi, Musée d’Orsay.

(4)

La maschera e la follia: da Ensor a Nietzsche a Pirandello

3

Una delle opere più originali di James Ensor (1860-1949) è Au- toritratto con maschere, del 1899. Si tratta di una pantomima di scheletri bardati di piume e di stracci colorati, una fantasia grottesca di maschere e di teschi che sembrano dar vita ai suoi umori più acri, mordenti, cini- ci e patetici allo stesso tempo.

L’artista, al centro del quadro, indossa (per evidenziare la sua radicale alterità) un bizzarro cap- pellino femminile, fiorito e piu- mato, e guarda fisso lo spettatore, alla ricerca di un dialogo diretto.

Nonostante il suo buffonesco tra- vestimento, egli, in realtà, si pre- senta come l’unico essere umano

“normale” in una folla di mostri:

schiacciato e compresso, nella sua condizione di diversità si ri- trova irrimediabilmente solo. La vita, secondo Ensor, è solamente una grottesca finzione.

Scrive lo scrittore e drammatur- go Luigi Pirandello (1867-1936) in uno dei suoi capolavori, Uno, nessuno e centomila, pubblicato nel 1925: «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e po- chi volti». Anche le analogie fra l’opera letteraria di Pirandello (che di Ensor fu quasi coetaneo) e la pittura del maestro belga sono tante e indubbie. Il grande letterato italiano, al pari del pit- tore, basò la propria poetica sul tema della maschera e della fin- zione. Nel suo teatro del grotte- sco, dove si mescolano dramma e comicità, Pirandello fa muovere personaggi costretti a fare i conti con le ragioni di una collettività

mo ucciso!». L’uomo folle, di cui tutti ridono, è invece il profeta del mondo contemporaneo, che annuncia (attraverso la metafora della morte di Dio, da intendersi come morte della morale, della logica, della verità) la crisi eti- ca del mondo contemporaneo, il suo radicale e trionfante ni- chilismo, divenuto condizione dell’uomo moderno.

opprimente, obbligati ad accetta- re un ruolo fisso, ad attenersi a un preciso codice di comporta- mento, nella consapevolezza che il rifiuto delle convenzioni com- porta l’esclusione dal contesto sociale.

Secondo Pirandello, l’individuo può scegliere di adeguarsi alle norme che gli vengono imposte, di indossare di volta in volta la maschera che la situazione ri- chiede; oppure può ribellarsi, ac- cettando il divario tra le proprie necessità e quelle della collettivi- tà. In tal caso, egli diventa «una maschera nuda», incarna (come Ensor con il cappellino da donna in testa) la figura del folle. «Per- ché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi da- vanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vo- stre costruzioni! Eh! Che volete?

Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi. [...] Voi dite: “questo non può essere!” e per loro può essere tutto» (Enrico IV, atto II).

Solo il folle può definirsi libero, solo il folle è capace di vedere e di affermare la verità.

Lo aveva affermato anche il fi- losofo tedesco Friedrich Nietz- sche (1844-1900), in uno dei suoi aforismi più celebri, il n.

125 della Gaia Scienza, noto come Aforisma dell’Uomo Fol- le. Il folle uomo accese una lan- terna alla chiara luce del matti- no, corse al mercato e annunciò la morte di Dio, suscitando la generale ilarità. «Dio è morto!

Dio resta morto! E noi lo abbia-

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Approfondisci il collegamento tra Ensor, Nietz- sche e Pirandello seguendo il filo condutto- re proposto dal testo, individuando opere (artistiche e letterarie) e brani filosofici che possano arricchirlo. Costruisci, infine, un tuo percorso interdisciplinare.

verso l’esame di stato James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899. Olio su tela, 118 x 82 cm. Komaki, Aichi (Giappone), Ménard Art Museum.

(5)

Poeti e artisti “maledetti”, da Baudelaire a Gauguin:

la contestazione delle convenzioni sociali

4

Nel 1888, Paul Gauguin (1848- 1903) dipinse un autoritratto che dedicò «all’amico Vincent»

Van Gogh e che intitolò I mi- serabili. In alto sulla destra si scorge un piccolo ritratto di Émi- le Bernard, amico comune dei due. Nel rappresentarsi, Gauguin volle manifestare la componente primitiva e selvaggia della pro- pria indole. Anche l’intonazio- ne di colore rossastra e il segno incisivo servono a conferire al dipinto una grande forza espres- siva. «Maschera di bandito mal vestito e possente, che possiede una interiore nobiltà e dolcezza.

Il sangue che affluisce al volto e i toni incandescenti dello sguar- do indicano la lava di fuoco che incendia la nostra anima di pitto- ri». In questo modo si descrisse Gauguin, che volle impersonare il ruolo dell’artista ribelle e puro (un simbolo di purezza sono i fiori realizzati in stile giappone- se sparsi sul fondo), non conta- minato dall’accademismo, in- compreso e vittima della società.

D’altro canto, sappiamo bene che Gauguin aveva voluto costruirsi,

anche nella vita reale, il perso- naggio dell’artista misterioso e dannato, con i gesti, gli atteggia- menti, le sue scelte radicali.

Non fu il solo e non fu nemmeno il primo. Già i Romantici, all’i- nizio del secolo, amarono vive- re, descriversi e rappresentarsi come veri e propri bohémien.

Questo termine francese era de- rivato da bohème, parola usata in Francia per indicare gli zingari e, per estensione, uno stile di vita libero, disordinato e anticonfor- mista. Si usava, e ancora oggi si usa, proprio per fare riferimento ai costumi non convenzionali di artisti, scrittori, musicisti e attori che, marginalizzati dalla cultura ufficiale, vivevano alla giornata, spesso eccedendo nell’uso di al- cool e droghe.

Il più grande poeta bohémien, anzi il bohémien per eccellenza, fu Charles Baudelaire (1821-1867), esponente chiave del Simbolismo letterario e autore de I fiori del male (Les Fleurs du mal), una rac- colta lirica pubblicata in una prima edizione nel 1857. Il testo com- prendeva cento poesie che trattano di argomenti cupi, scabrosi, talvol- ta immorali, e difatti Baudelaire venne subito accusato di oltraggio alla morale pubblica e alla morale religiosa e condannato dalla censu- ra a cancellare sei liriche dalla rac- colta. Da quel momento, Baudelai- re incarnò lo stereotipo del poète maudit, del ‘poeta maledetto’, to-

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Una caratteristica che accomunò poeti e arti- sti “maledetti” fu la dipendenza dall’alcool e soprattutto dall’assenzio. Fai una ricerca su questo argomento, raccogliendo in una rela- zione e mettendo a confronto opere letterarie e pittoriche che hanno per tema il consumo di assenzio. Costruisci, infine, un tuo percorso interdisciplinare coinvolgendo quante più di- scipline possibili.

verso l’esame di stato

Paul Gauguin, I miserabili (Autoritratto), 1888. Olio su tela, 45 x 55 cm. Amsterdam, Van Gogh Museum.

talmente e patologicamente dedito ai piaceri della carne, nevrotico, chiuso in sé stesso e autodistrut- tivo. I poeti maledetti (ma questo vale per molti artisti, soprattutto simbolisti, tra cui Gauguin, Van Gogh, Munch) erano vittime del co- siddetto spleen, uno stato d’animo estremo, che combina tristezza, di- sperazione, angoscia esistenziale e comporta l’incapacità di stabilire un rapporto stabile con le persone.

Nel Nord Italia, possono essere considerati poeti maledetti anche gli scapigliati (così chiamati per- ché portavano i capelli lunghi e arruffati), che contrapposero pole- micamente l’esaltazione del vizio e dell’anarchia alla morale e ai co- stumi borghesi. Il termine da cui prese il nome questo particolare movimento, Scapigliatura appun- to, fu impiegato per la prima volta dallo scrittore milanese Cletto Ar- righi (1828-1906), nel suo roman- zo La scapigliatura e il 6 febbraio (1862), come corrispondente ita- liano del sostantivo bohème. Al movimento letterario parteciparo- no anche alcuni pittori, accomu- nati agli scrittori dalla condotta di una vita sregolata, dalla ribellione alle convenzioni sociali, dal rifiu- to per le regole accademiche.

(6)

La Natura tra metafore e simboli, dalla pittura alla poesia:

Leopardi, Carducci e Pascoli

5

«Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella»: questa im- magine, così vividamente pittori- ca, è un frammento dello Zibal- done di Giacomo Leopardi (256, 1 ottobre 1820). Come per i pittori ottocenteschi, l’immagine del cie- lo stellato suscita anche nel gran- de poeta romantico pensieri che afferiscono a una dimensione filo- sofica ed esistenziale. Ritroviamo questo ideale dialogo con le stelle ne Le ricordanze (1829): «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contem- plarvi / sul paterno giardino scin- tillanti, / e ragionar con voi dalle finestre»; in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829- 30): «E quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando:

/ a che tante facelle? / Che fa l’a- ria infinita, e quel profondo / In- finito Seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?»; ne La ginestra, o fiore del deserto (1836): «Sovente in queste rive, / che, desolate, a bru- no / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte; e sulla mesta landa / in purissimo azzurro / veggo dall’alto fiam- meggiar le stelle». La contempla- zione del cielo stellato diventa, insomma, per Leopardi occasione per interrogarsi sulla condizione dell’uomo, sospeso tra nascita e morte, tra finitezza e aspirazione all’infinito. L’immagine della casa appesa alla stella è in tal senso emblematica: la stella è lontana e irraggiungibile e tuttavia sostiene ciò che è prossimo, domestico, dunque profondamente umano.

dell’umanità intera. In Pianto antico (1871), poesia scritta in memoria del figlio Dante morto a soli tre anni, Carducci affronta, attraverso la ciclicità della natu- ra, il tema della contrapposizio- ne tra vita e morte, confrontando immagini vitalistiche, colorate e luminose, segnatamente primave- rili (il “verde melograno”, i “bei vermigli fior”), ad altre cupe e in- vernali (“la terra fredda”, “la terra negra”) che servono a comunicare il senso della fine di tutto.

Le metafore di Leopardi e Carduc- ci precedono e anticipano la piena simbologia di Giovanni Pascoli (1855-1912), che nella sua poesia dedicò ampio spazio sia alla natu- ra sia al tema della morte (il pa- dre del poeta venne assassinato quando lui era poco più che un bambino). Con Pascoli emerge la figura di un poeta che si ripiega su sé stesso, che si rifugia nella ras- sicurante dimensione delle pic- cole cose, trattate attraverso una serie di simboli ricorrenti, tratti in prevalenza dal mondo campe- stre e contadino: il nido, l’orto, la siepe, gli uccelli, i fiori. I simboli del “nido”, della “casa”, del “fo- colare”, della “culla”, del “grem- bo materno” si rendono testimoni di una costante ricerca di confor- to, sicurezza, rifugio, protezione e, anche, di una regressione del poeta alla dimensione infantile. È la cosiddetta poetica del “fanciul- lino”, che è capace di vedere oltre le piccole cose, che non indaga razionalmente la realtà ma sceglie di dialogare con essa, penetrando la sua essenza profonda e coglien- L’uomo avverte un senso di smar-

rimento di fronte alla sconfina- tezza del cielo stellato; eppure, leggiamo ancora nello Zibaldo- ne, «niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza». Nella sua con- sapevolezza di essere quasi nulla, l’uomo si smarrisce e tuttavia pro- prio tale consapevolezza lo rende grande.

Nella poetica leopardiana, il rife- rimento alla natura non ha quin- di mai, in alcun caso, uno scopo meramente descrittivo. Tale ca- ratteristica si riscontra in un am- pio settore della poesia italiana dell’Ottocento. Giosue Carducci (1835-1907), poeta di profondis- sima cultura, premio Nobel per la letteratura nel 1906, aderì a un classicismo basato sulla ricerca di armonia, chiarezza e bellezza del- la forma. Tuttavia, nella sua poe- sia ricorse spesso a similitudini percepibili dal lettore come sot- tilmente inquietanti. Nella chiusa della poesia San Martino (1883), un cacciatore guarda le nuvole rosse del tramonto, mentre uno stormo di corvi neri si allontana in direzione della notte: «Sta il cacciator fischiando / su l’uscio a rimirar / tra le rossastre nubi / stormi d’uccelli neri, / com’esuli pensieri, / nel vespero migrar».

Gli uccelli richiamano i pensieri fuggenti e alludono al profondo senso di irrequietezza che è pro- prio del poeta ma, nel contempo,

(7)

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Costruisci un percorso sull’esempio di questo testo, cercando elementi simbolici sia nelle poesie del Decadentismo italiano sia nei qua- dri del Simbolismo e del Divisionismo euro- peo. Mettili a confronto, facendoli dialogare, in una relazione scritta. Costruisci, infine, un tuo percorso interdisciplinare coinvolgendo quan- te più discipline possibili.

verso l’esame di stato done i significati misteriosi. Nel

contempo, questa ricerca ossessi- va del nido tradisce “l’incapacità di vivere” del poeta, trae la pro- pria origine da una profonda pau- ra del mondo. Altro simbolo pa- scoliano è la nebbia, che sembra dare sostanza al mistero della vita ed evoca uno stato d’animo di so- litudine e attesa. La nebbia, d’altro canto, è amata dal poeta, perché lo nasconde al Male, così come la siepe che circonda la sua casa. Le campane, nelle poesie di Pascoli, richiamano i ricordi infantili; al- tre volte, però, sanno comunicare sentimenti di angoscia e paura. I fiori simboleggiano sensualità o morte; gli uccelli, infine, non ri- mandano all’amato simbolo del nido ma alludono a una dimen- sione che esula quelle consuete di spazio e tempo e non di rado sono annuncio di morte.

Nell’opera di Pascoli, in particola- re, ha grande efficacia simbolica il richiamo alle componenti del crea- to (il cielo, le stelle) e agli eventi atmosferici (il temporale, il lam- po, il tuono), questi ultimi perce- piti come angoscianti e descritti con sintetica efficacia, tanto da spingere alcuni critici a definire – impropriamente – certe poesie di Pascoli “impressioniste”. In X Agosto (San Lorenzo), una poesia del 1896 dedicata al padre Rugge- ro (assassinato proprio il 10 agosto 1867), le stelle cadenti sono identi- ficate con il pianto del cielo: «San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arte e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla». Intensa e, potremmo dire, fulminante la de- scrizione di un lampo, nella poe- sia omonima, Il lampo (tratta dalla

raccolta poetica Myricae, 1891): «E cielo e terra si mostrò qual era: / la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto:

/ bianca bianca nel tacito tumulto / una casa apparì sparì d’un trat- to, / come un occhio, che, largo, esterrefatto, / s’aprì si chiuse, nella notte nera». Il lampo, squarciando il nero della notte, svela, con un solo bagliore, la condizione della terra (ansimante, sconvolta) e del cielo (nuvoloso, cupo), descritti come se fossero esseri viventi, e illumina per un solo attimo una bianchissima casa (il nido familia- re). L’immagine, nella sua tragicità iconica, pare colta con l’attonito sgomento dell’occhio di un mo- rente ed è metafora della brevità e precarietà della vita.

Lampi come questi, terribili, po- tentissimi, gravidi di elettricità devastatrice, vennero dipinti qual- che anno dopo dall’allora divisio- nista Luigi Russolo (1885-1947),

giusto prima di iniziare, assieme a Umberto Boccioni (1882-1916), la sua nuova avventura futurista. Il quadro Lampi è spaventosamente carico di energia esplosiva: quasi una divinità distruttiva di fronte alla quale l’umanità, rappresentata dalla città moderna con le sue ci- miniere e i lampioni, sembra esse- re inerme. A differenza di Pascoli, però, Russolo non avrebbe ceduto allo scoramento esistenziale. Egli confidava nella capacità dell’uomo novecentesco di dominare la po- tenza della Natura: da cui si spiega il suo passaggio alla compagine del nascente Futurismo.

Luigi Russolo, Lampi, 1909-10. Olio su tela, 102 x 102 cm.

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

(8)

Van Gogh e Kierkegaard: il paradosso della fede

6

Ad Auvers, appena un mese pri- ma di suicidarsi, Vincent Van Gogh (1853-1890) volle dipingere la piccola chiesa del paese, dedi- cata a Notre-Dame, un minuscolo edificio gotico del XII-XIII secolo.

Leggiamo in una lettera indiriz- zata alla sorella Wilhelmina: «Ho un’immagine più grande della chiesa del villaggio, con effetto in cui la costruzione sembra essere viola contro un cielo di semplice blu scuro, cobalto puro; le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato. Sullo sfondo, al- cune piante in fiore e sabbia con il riflesso rosa del sole. Ed ancora una volta è simile agli studi che ho fatto a Nuenen della vecchia torre del cimitero, solo probabilmente ora il colore è più espressivo, più sontuoso». Van Gogh aveva scelto, per rappresentare la chiesa, una veduta absidale. Come suo solito, aveva trasfigurato completamente ciò che si trovava davanti ai suoi occhi. Nel quadro di Vincent, inti- tolato La chiesa di Auvers, il sen- tiero in primo piano che si biforca così come il prato che circonda l’edificio sono diventati incerti e malfermi. Anche la chiesa presen- ta forme fluide e ondulate, con un effetto vagamente ipnotico. La ter- ra si agita e in tal modo esprime l’agitazione interiore dell’artista. Il cielo invece, simbolo del divino, è calmo e sembra entrare nell’e- dificio e riempirlo totalmente; un cielo che richiama chiaramente la fede di Vincent, l’unica àncora che gli restava per contrastare la per- dita del dominio di sé. Sappiamo che in Van Gogh il pessimismo esi-

Søren Aabye Kierkegaard (1813- 1855), considerato da molti stu- diosi il precursore dell’esistenzia- lismo. Profondamente segnato da alcuni lutti familiari e soprattutto dalla rigidissima educazione im- partitagli dagli anziani genitori, Kierkegaard fu, come Vincent, un uomo profondamente introspet- tivo e malinconico. «Fin dall’in- fanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui pro- fondità trova la sua vera espressio- ne nella corrispondente capacità stenziale, oramai radicato in modo

profondo e come tale inestirpabi- le, conviveva a fatica con una fede coltivata negli anni, contrastata, vacillante ma mai del tutto ricusa- ta. Una fede (in Dio, innanzi tut- to, ma anche nella vita) che non sarebbe stata sufficiente a salvarlo ma che fino all’ultimo, come di- mostra questo dipinto, accompa- gnò la sua faticosa esistenza.

Questa particolare posizione esi- stenziale richiama il pensiero del filosofo e teologo ottocentesco

La chiesa di Auvers, fotografata dallo stesso punto in cui Van Gogh posizionò il suo cavalletto.

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COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Cerca tutte le opere di Van Gogh che hanno come oggetto il sentimento religioso, espresso attraverso le (rare) immagini esplicitamente sacre oppure attraverso il paesaggio o ancora la natura morta. Analizza il rapporto di Vincent con la fede, così come emerge dall’analisi dei dipinti (puoi anche servirti delle sue lettere) e verifica l’assonanza con il pensiero di Kierke- gaard. Fino a quando la fede fu per Van Gogh un baluardo contro la disperazione? Costrui- sci, infine, un tuo percorso interdisciplinare coinvolgendo quante più materie possibili.

verso l’esame di stato di nasconderla sotto apparente

serenità e voglia di vivere»: così racconta il filosofo, che giunse a credersi oggetto di una maledizio- ne divina, per una qualche “grave colpa” commessa nel passato da suo padre. Secondo Kierkega- ard, la dimensione esistenziale dell’uomo è segnata dalla dispe- razione, dall’angoscia e dal senso di inadeguatezza. La disperazione nasce da un rapporto serio dell’uo-

mo con sé stesso, l’angoscia da un rapporto serio dell’uomo con il mondo, il senso di inadeguatezza dall’impossibilità dell’uomo di essere autosufficiente senza Dio.

Infatti, per Kierkegaard (che restò sempre, fondamentalmente, un pensatore cristiano), l’unico esito positivo che angoscia e dispera- zione possono avere è la fede, inte- sa come fiducia assoluta e incon- dizionata nella chiamata divina.

Dio costituisce l’unica possibilità infinitamente positiva. L’uomo che ha fede riconosce la sua insuf- ficienza ma non la vive come un peso perché accetta la sua dipen- denza da Dio. Chi crede sa che non è suo compito compiere il possibi- le: egli non si determina da sé. Da- vanti a tante circostanze della vita, anche faticose e dolorose, esiste quindi una possibilità di riscatto.

Kierkegaard la identifica con il di- vino, con la fede in Dio, che non cancella l’angoscia ma alimenta la speranza. È come se l’angoscia e la malinconia, che connotano per il filosofo la condizione umana, portassero con sé la promessa di un Bene maggiore: una domanda di senso che non può non lasciar- ci indifferenti e ci spinge a cercare una risposta. Certo, l’affidamento totale a Dio (come quello che scel- se di vivere Abramo, nell’Antico Testamento) è paradossale e scan- daloso, è una scelta che non può essere giustificata razionalmente in alcun modo e che rappresen- ta un rischio assoluto. Per tutta la vita Vincent Van Gogh accettò questo rischio: poi, cedette allo sconforto e rinunciò.

Vincent Van Gogh, La chiesa di Auvers, maggio-giugno 1890. Olio su tela, 94 x 74 cm.

Parigi, Musée du Louvre.

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Il piacere dell’esteta:

da Klimt a D’Annunzio

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L’arte, secondo Gustav Klimt (1862-1918), doveva contribuire a scardinare i tabù. Per questo, tra il 1907 e il 1908, l’artista dipinse una seducente immagine di Da- nae, il personaggio mitologico che Zeus, trasformatosi in pioggia, sorprese nel sonno fecondandola.

La posa della donna, stipata nel- lo spazio della tela, rannicchiata con le gambe alzate e idealmente inscritta in una forma ellittica (che allude alla sessualità femminile), è certamente inconsueta e spiaz- zante. Nel viso della giovane dor- miente si coglie un’espressione di languido abbandono e di piacere manifesto. Ella sta sognando e non si fatica a interpretare il suo sogno come erotico. L’avvolge un elegan- te drappo trasparente; una calza di seta nera è scivolata dalla gamba, verso la caviglia. Zeus, sotto for- ma di pioggia dorata, l’avviluppa;

accanto ai suoi organi genitali, un rettangolo nero richiama, esplici- tamente, il membro maschile.

Nella Vienna cattolica e conser- vatrice, Klimt fece dunque scan- dalo: le sue opere e il suo stile di vita vennero giudicati eccentrici, sfrenati e dissoluti. D’altro canto, Klimt dedicò ampia parte della sua produzione al tema dell’eros e delle pulsioni sessuali. Molti dei suoi nudi femminili, soprattutto quelli realizzati a disegno, sono tutt’altro che casti, per gli organi genitali impudicamente esposti e le scene esplicite di autoerotismo.

I tempi erano fecondi: lo psicana- lista e filosofo austriaco Sigmund Freud (1856-1939), fondatore del- la psicoanalisi, pubblicò la sua

nazione italiana della figura del dandy e dell’esteta, in parte alter ego di D’Annunzio, asseconda le sue pulsioni, soprattutto sessuali, respinge il valore della legge mo- rale e spende la sua vita nel godi- mento e nella spensieratezza. D’al- tro canto, spaventato dalla realtà, egli non riesce ad accettare una vita qualunque, e diventa vittima di sé stesso (oltre che succube del perverso fascino femminile della protagonista, Elena Muti, perfetta incarnazione della femme fatale).

L’esteta è dunque il poeta/artista/

genio che sceglie di vivere la sua vita come se fosse una raffinatissi- ma opera d’arte, nel culto supre- mo della forma esteriore, e che, non riuscendo ad andare oltre il momento estetico, rinuncia a co- noscere la verità, rimane imprigio- nato nel suo edonismo, vive con ansia e sottile angoscia il tempo della vita che fugge, si rifugia nella sdegnosa solitudine.

opera fondamenta- le, L’Interpretazio- ne dei sogni, nel 1899 e, nel 1905, i Tre saggi sulla teoria sessuale, in cui formulò le sue

teorie sul rapporto fra inconscio e sessualità e definì i concetti di pulsione e di libido. Di tale nuo- vo clima culturale Klimt si fece dunque interprete, nell’arte come nella vita.

La sua figura di uomo e di artista è, in questo senso, accostabile a quel- la dello scrittore e poeta italiano Gabriele D’Annunzio (1863-1938), che di Klimt fu coetaneo. Come il pittore viennese, anche D’Annun- zio (soprannominato il Vate, l’Im- maginifico) fece di sé stesso un personaggio, provocando scandali, ostentando lusso sfrenato, frequen- tando l’élite della società del tem- po, incarnando la figura dell’esteta, ossia di colui che desidera vivere la propria vita come un’opera d’arte, e questo con l’intento di allontanarsi dalla meschina società borghese, che disprezzava, e di evadere in un mondo di pura arte dove vige l’idea- le supremo del bello.

Il primo romanzo di D’Annunzio, Il piacere, scritto nel 1889, vie- ne giustamente considerato co- me la testimonianza più esplici- ta di questa fase, oltre che il pri- mo esempio di prosa italiana del Decadentismo. Il protagonista del romanzo, Andrea Sperelli, incar-

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Analizza, in una relazione, la figura dell’esteta attraverso le opere di Klimt e di D’Annunzio, in- quadrandola nel contesto culturale del Deca- dentismo, e proponi dei collegamenti con altri autori, ad esempio con lo scrittore e dramma- turgo irlandese Oscar Wilde (1854-1900).

verso l’esame di stato Gustav Klimt, Danae,

1907-1908. Olio su tela, 77 x 83 cm. Vienna, Galerie Würthle.

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La rassegnazione dell’inetto: da Munch a Svevo

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Tutti i dipinti di Edvard Munch (1863-1944) prodotti a partire da- gli anni Novanta dell’Ottocento e ancora quelli novecenteschi, rea- lizzati nella drammatica solitudi- ne del suo ritiro norvegese, testi- moniano l’angosciosa condizione di non-vita a cui l’artista sentiva di appartenere: una condizione nella quale egli si percepiva estra- neo perfino a sé stesso, non sa- pendo realmente chi fosse e cosa volesse. Questo suo dolente stato d’animo è ben rappresentato in una serie di opere (5 tele e 2 xi- lografie) realizzate tra il 1891 e il 1902, tutte intitolate Malinconia.

Il soggetto è quello di un uomo solitario, triste e pensieroso, se- duto su una spiaggia, ripiegato su sé stesso, con il capo sorretto da una mano. L’uomo, identificabile con l’artista medesimo, è ritratto nell’angolo destro della tela, in basso. Nella versione del 1892, egli volge le spalle al mare, alla sabbia insolitamente nera come il catrame e soprattutto alle tre figure sul pontile lontano, che si dirigono verso una barca attracca- ta. Munch si sta, in quest’opera, estraniando da tutto: dal mondo e anche dalla vita che gli altri stan- no tranquillamente conducendo,

garne le emozioni. Personaggi di cui accetta e difende debolezze e nevrosi, riconoscendo in esse la manifestazione del rifiuto di ac- cettare le regole e i meccanismi alienanti della civiltà contempora- nea. Guarire dalle proprie nevro- si consentirebbe di essere come i

“sani”, che però sono cristallizzati in una forma rigida e immutabile, definitiva; ma la conquista della normalità comporterebbe la rinun- cia alla forza del desiderio, a quel- la particolare capacità che l’inetto ha di cogliere i nessi del reale, quelli che gli altri non sanno e non vogliono riconoscere. Nel capola- voro letterario di Svevo, Zeno, un uomo che si sente malato e inetto, racconta la propria vita in modo ironicamente disincantato, ricono- scendo il proprio fallimento. Egli matura, alla fine, la convinzione che l’esistenza è tragica e comica insieme e che l’inettitudine è una condizione universale, giacché è la vita stessa a essere malata, e stri- tola tutto e tutti, vanificando ogni patetico tentativo di autoinganno.

La partita con la vita, insomma, se- condo Svevo non può essere vinta.

L’unica via di scampo, per soprav- vivere, è l’acquisizione di una co- scienza sulla condizione umana e il conseguente adattamento alla propria, consapevole inettitudine.

che li porterà lontani da lui, de- stinato a rimanere solo.

Nello stesso anno, il 1892, uno dei più importanti esponenti del Decadentismo letterario italiano, lo scrittore e drammaturgo Ita- lo Svevo (1861-1928), coetaneo di Munch, pubblicò il suo primo romanzo, Una vita, il cui tito- lo originario era L’inetto. Il tema dell’inettitudine, dell’incapacità di gestire la propria vita interio- re e sentimentale, venne poi af- frontato da Svevo anche in due successivi romanzi: Senilità, del 1898, e soprattutto ne La coscien- za di Zeno, pubblicato nel 1928.

E sembra quasi si conoscessero, Munch e Svevo, per come seppe- ro, entrambi, tratteggiare questa emblematica figura della poetica decadentista: l’inetto, appunto, un uomo chiuso nella sua introversio- ne, che non lavora, non costruisce, tende a vivere più in un mondo di fantasia che nella realtà, è pieno di inibizioni e di frustrazioni, avver- te la propria inferiorità, subisce gli eventi senza dominarli, si arrende alle pulsioni dell’inconscio che lo privano di ogni possibilità di scel- ta. Allo stesso modo di Munch, e influenzato da Freud (che studiò con passione), Svevo volle esplo-

rare, nei suoi romanzi psicologici, la parte più profonda dell’ani- mo umano, analizzare i personaggi fin nelle viscere della loro co- scienza turbata, inda-

Edvard Munch, Malinconia, 1892.

Olio su tela, 64 x 96 cm.

Oslo, Nasjonalmuseet.

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Approfondisci la figura dell’inetto sveviano, trovando elementi di raccordo sia con l’opera letteraria di Pirandello e di altri scrittori, come per esempio l’irlandese James Joyce, sia con l’opera pittorica di Munch e di altri artisti che nell’inetto potrebbero identificarsi (per esem- pio Van Gogh ed Ensor). Scrivi una relazione e costruisci un percorso interdisciplinare.

verso l’esame di stato

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A passeggio lungo ponti e boulevards.

La pittura racconta la Parigi moderna

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Parigi, capitale di una grande potenza europea, era diventata, nel corso del XIX secolo, il cuore pulsante della cultura e dell’arte nel mondo. Aveva assunto quel ruolo che già era stato di Firenze e Roma nel Rinascimento. Di que- sto i parigini furono consapevoli e orgogliosi. Come spesso capita nella storia, il rinnovamento del- la fisionomia urbana accompagnò importanti cambiamenti di costu- me. La Parigi fin de siècle, ossia la Parigi del tardo Ottocento, era un luogo tranquillo, prospero- so, ricco di stimoli, bar, teatri e locali pubblici, con i ponti e i boulevards alberati percorsi dal- le carrozze e dai tram a cavalli e i marciapiedi gremiti di persone che passeggiavano, guardavano le vetrine e facevano acquisti nei ne- gozi più eleganti e alla moda op- pure nei nuovi grandi magazzini.

Gli artisti che vivevano a Parigi amavano questa città e, inevita- bilmente, molti di loro decisero di omaggiarla con le proprie tele.

Gli impressionisti, in particolare, rappresentarono gli spazi urbani, esaltando la gradevolezza della vita in città. Claude Monet (1840- 1926), per esempio, dipinse varie opere con le stazioni ferroviarie e i boulevards affollati.

Camille Pissarro (1830-1903), ver- so la fine della sua carriera, si dedi- cò particolarmente al paesaggio ur- bano, con opere incentrate su Parigi (vedute dei boulevards, dell’Opéra, delle Tuileries e del Louvre) e sui porti di Rouen, Dieppe e Le Havre.

Avenue de l’Opéra fu realizza- ta dalla finestra della sua camera

Camille Pissarro, Avenue de l’Opéra, sole, mattina d’inverno, 1898. Olio su tela, 73 x 92 cm. Reims, Musée des Beaux-Arts.

Claude Monet, Boulevard des Capucines, 1873. Olio su tela, 61 x 80 cm. Mosca, Museo Puškin.

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COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Sul modello di questo testo, scrivi una re- lazione in cui tratti del tema della moderna metropoli ottocentesca, usando materiali tratti sia dalla storia dell’arte sia dalla storia della letteratura.

verso l’esame di stato

Camille Pissarro, Boulevard Montmartre nel pomeriggio, 1897.

Olio su tela. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Camille Pissarro, Il ponte Boïeldieu a Rouen, 1896. Olio su tela, 54 x 65 cm. Parigi, Musée d’Orsay.

Gustave Caillebotte, Il ponte dell’Europa, 1876. Olio su tela, 1,25 x 1,81 m. Ginevra, Musée du Petit Palais.

d’albergo, che si affacciava proprio all’incrocio tra l’Avenue de l’Opéra e la Rue Saint-Honoré. «Forse non è un soggetto troppo estetico» scris- se al figlio, «ma sono affascinato dall’idea di poter ritrarre queste strade di Parigi, che si è soliti defi- nire sporche, ma che sono così ar- gentee, così luminose e così piene di vita, è veramente moderno!». A questo particolare soggetto, Pissar- ro dedicò quindici dipinti, ripren- dendo la strada illuminata dal sole mattutino e pomeridiano, e sotto l’effetto della pioggia e della neve.

In Boulevard Montmartre nel pomeriggio, altro capolavoro di Pissarro, i bordi del viale sono oc-

cupati da una fila di vetture par- cheggiate. I parigini passeggiano sui marciapiedi guardando le ve- trine. Il viale, molto largo, è orga- nizzato in sei corsie, tre in un sen- so e tre nell’altro, con fitte file di carrozze in movimento. L’artista fu attratto soprattutto dalla moderna vitalità di scene come questa, di cui volle suggerire il vivace movi- mento e il senso della confusione.

Pissarro dipinse anche Il ponte Boïeldieu a Rouen. Era, questo, un ponte di ferro di recente co- struzione che l’artista raffigurò in diversi quadri. Nella sua ve- duta dall’alto, Pissarro offre uno scorcio che abbraccia un ampio

spazio, comprendente vaste di- stese di acqua e di cielo, le case e soprattutto l’imponente sagoma del ponte, percorso da carrozze e attraversato dai pedoni.

Ritroviamo l’immagine di un ponte moderno anche nell’opera Il ponte dell’Europa di Gustave Caillebot- te (1848-1894). L’artista offre allo spettatore un’audace inquadratura che ritaglia lo scorcio di un mo- derno ponte parigino, realizzato in parte con una grandiosa struttura metallica, inaugurato sopra la Gare Saint-Lazare nel 1868. Una coppia elegante passeggia godendosi il sole primaverile, un uomo si af- faccia curioso guardando in basso e un cane scodinzolante se ne va per la sua strada. Il contributo più autenticamente impressionista di questo dipinto è ancora una volta riconoscibile negli effetti lumini- stici, che nella pittura di Caillebot- te sono sempre straordinari.

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Schiele, Montale e il mal di vivere

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La dolorosa condizione esisten- ziale di Egon Schiele (1890-1918) è pienamente espressa da alcuni splendidi paesaggi e da rappre- sentazioni enigmatiche di alberi isolati e spogli e da fiori, che as- sumono evidenti qualità antropo- morfe. Schiele amava osservare «il movimento corporeo delle monta- gne, dell’acqua, degli alberi e dei fiori. Dappertutto possiamo notare movimenti simili a quelli del cor- po umano». Spesso, quegli alberi magri, quei lunghi girasoli sfioriti ci parlano di tristezza e solitudi- ne, di una visione sconfortata del mondo e della vita. La natura di Schiele ci pone in contatto diretto con la triste verità del vuoto dell’e- sistenza. «Interiormente, nel segre- to del proprio essere e del proprio cuore, anche in piena estate si può vedere e sentire un albero autun- nale. [...] Tutto ciò che sta vivendo è già morto». Così scrisse Schiele nell’agosto del 1912. Il suo Albe- ro d’autunno, dipinto proprio in quell’anno, ha una fortissima va- lenza simbolica: attraverso la rap- presentazione della pianta secca e avvizzita, l’artista ha ricercato lo specchio dell’esperienza ango- sciosa della precarietà. Quest’al- bero ritorto è, ancora una volta, l’immagine scarna ed essenziale di sé stesso e ad un tempo la tragi- ca prefigurazione della morte che lo attende. Altrettanto si può dire per la sua serie dei Girasoli, che richiama quella, ben più nota, di Van Gogh: con la differenza che il vitalismo dei fiori vangoghiani si è come spento, esaurito. I girasoli di Schiele sono riarsi, appassiti, rinsecchiti. Mentre, nel loro trion-

fo di giallo, i girasoli di Van Gogh rendevano omaggio alla vita ed esprimevano un anelito di speran- za, quelli di Schiele testimoniano la presa d’atto della disillusione, visualizzano quel mal di vivere che accompagnò l’artista per tutto l’arco della sua breve esistenza.

«Portami il girasole ch’io lo tra- pianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il gior- no agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto gialli- no. Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in mu- siche. Svanire / è dunque la ven- tura delle venture. / Portami tu la pianta che conduce / dove sorgo- no bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; /portami il

Egon Schiele, Albero d’autunno, 1912. Olio su tela, 80 x 80,5 cm. Vienna, Leopold Museum.

Egon Schiele, Girasoli, 1911. Matita e acquerelli, 44,5 x 30,5 cm. Vienna, Albertina.

girasole impazzito di luce». Così scriveva, nel 1923, il poeta italiano Eugenio Montale (1896-1981), che di Schiele fu quasi coetaneo, nella poesia Portami il girasole ch’io lo trapianti, contenuta nella raccolta Ossi di seppia, edita nel 1925. C’è tutta la forza di una preghiera, in

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questi versi, e, nel contempo, la confessione della debolezza del poeta, la cui anima è presentata come un terreno bruciato dal sa- lino. Il giallo del girasole (come, altrove, sempre nella poesia mon- taliana, quello dei limoni) è fonte di tenera consolazione, allevia il disincanto del poeta, per cui tutto, alla fine, altro non è che un’illusio- ne. La poesia di Montale, come la pittura di Schiele, nasce dalla do- lorosa meditazione sulla propria condizione esistenziale: quella di chi vive senza vivere davvero. Al fondo della sua poetica è una vi- sione fortemente pessimistica del- la vita, che si esplicita nella sua celebre definizione del “male di vivere”. «Spesso il male di vivere ho incontrato / era il rivo strozzato che gorgoglia / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il caval- lo stramazzato. / Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato».

Così Montale in Spesso il male di vivere ho incontrato, la sua poesia più celebre, pubblicata con Ossi di

Questo tema della “divina indiffe- renza” può essere colto anche nella pittura di Schiele, soprattutto nel- le sue splendide e malinconiche rappresentazioni di città vuote, di- pinte con una scrittura preziosis- sima, di sublime e tormentata ele- ganza. L’assenza apparente di vita, in quelle case accostate e sovrap- poste, spesso contraddetta da mi- nuti dettagli, come per esempio i panni stesi, materializza uno stato d’animo dolente, comunica, a pri- ma vista, un fatale senso di abban- dono. Eppure, riconosciamo un rigoroso ordine di fondo, in queste vedute urbane, una solidità vaga- mente rassicurante nella forma così familiare dei tetti, dei campa- nili, delle finestre, mentre i colori, a volte delicati, altre volte caldi e intensi, alimentano una lieve bra- ma di consolazione. Come, ancora una volta, in Montale, che nella sua poesia I limoni scrive: «Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ra- gazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli albe- ri dei limoni». L’odore dei limoni, allo stesso modo dei panni stesi di Schiele, fa piovere «in petto una dolcezza inquieta» tanto che «il gelo del cuore si sfa».

seppia. Quasi fosse un pittore, il poeta ricerca la concreta determi- nazione di fatti e oggetti. Egli guar- da agli elementi della realtà comu- ne, di un quotidiano segnato dalla sofferenza, come il paesaggio aspro e assolato della sua Liguria: è il cor- relativo oggettivo montaliano, cioè quel rapporto che la parola stringe con gli oggetti che nomina. Oggetti, immagini e voci della natura – «il rivo strozzato che gorgoglia» (il fa- ticoso fluire del ruscello impedito nel suo scorrere), «l’incartocciarsi della foglia riarsa» (l’accartocciarsi della foglia  bruciata dalla calura),

«il cavallo stramazzato» (stroncato dalla fatica) – diventano per lui em- blemi del senso di fatica e di dolore che segnano la condizione umana, di quel «male di vivere» che nasce dalla mancanza di certezze e dalla negazione di ogni illusione (e che richiama l’esclamazione del leo- pardiano pastore errante, nel Canto notturno: «a me la vita è male»).

Un mal di vivere che, secondo Montale, non può essere superato ma quanto meno attenuato dall’in- differenza, dal distacco dalla realtà che può lenire il dolore.

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Affronta il tema del mal di vivere in un per- corso interdisciplinare scritto in cui metti a confronto l’opera di pittori (Van Gogh, Munch, Kirchner, Schiele) con quella di poeti – tra cui Eugenio Montale e, per esempio, Umberto Saba (La capra), Camillo Sbarbaro (Taci, ani- ma stanca di godere), Salvatore Quasimodo (L’eucalyptus) – e di filosofi.

verso l’esame di stato Egon Schiele, Krumau, case su una strada curva (La piccola città V), 1915.

Olio su tela, 109,7 x 140 cm. Basilea, Israel Museum.

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Matisse come l’ultimo Leopardi: la solidarietà è l’unica risposta al male

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All’atteggiamento distruttivo del- la Brücke tedesca, Henri Matisse (1869-1954) contrappose un ap- proccio costruttivo all’arte e alla vita: egli aprì la pittura alla speran- za in un futuro migliore. In quegli anni tormentati di primo Novecen- to, un uomo della sua cultura non poteva che avvertire il progressivo decadimento del mondo occiden- tale, prossimo a precipitare nel- la Prima guerra mondiale. Ne La danza il suo intento fu allora quel- lo di mostrare un’altra via, una strada alternativa alla violenza e al male, l’unica realmente per- corribile: quella della solidarietà.

In una società sempre più egoista, fondata sul prevalere dell’interesse del singolo a discapito di quello dei molti, l’unica possibile soluzio- ne era assecondare l’impulso sano che ognuno ha di fare del bene, di aiutare il prossimo. La danza nacque, insomma, come l’ultimo appello lanciato dall’arte all’uma- nità, l’esortazione alta e nobile a recuperare l’unità perduta, il senso della comunità. Con quel giroton- do privo di gerarchie, mosso dalla ricerca instancabile della mano protesa, Matisse volle ricordare a tutti gli uomini che possono essere fratelli, al di là di ogni professione religiosa. In questo è il valore uni- versale e straordinariamente attua- le di questo capolavoro.

Prima di lui, a sostenere con altret- tanta lucidità che la solidarietà è l’unica risposta possibile al male in un mondo avverso, era stato Giacomo Leopardi (1798-1837). Il grande poeta romantico riteneva che l’uomo fosse stato felice, un

inutile scagliarsi uno contro l’altro;

meglio essere solidali per affronta- re insieme le traversie della vita e contrastare la vera responsabile di ogni sofferenza: la Natura, madre naturale degli uomini ma, di fatto, crudele come una matrigna («ma- dre di parto e di voler matrigna», scrive il poeta).

«Costei [la Natura] chiama inimi- ca; e incontro a questa / congiun- ta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria, / l’umana compagnia, / tutti fra sé confede- rati estima / gli uomini, e tutti ab- braccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle an- gosce / della guerra comune». Gli uomini si devono quindi unire in una “social catena”. Ecco l’attua- lissimo “solidarismo” dell’ultimo Leopardi, che costituisce il mes- saggio più alto della sua Ginestra.

Un messaggio che, idealmente, Matisse raccolse per passarlo a noi, generazioni del futuro.

tempo, quando – a stretto contat- to con la Natura, madre amorosa – viveva “naturalmente”, cioè di sogni, fantasie, illusioni, forti sen- timenti, grandi ideali: ignaro, in- somma, dei limiti della condizione umana. L’uomo moderno, invece, civile e dominato dalla ragione e dal calcolo utilitaristico, ave- va strappato i veli delle illusioni, aveva conosciuto il vero e quindi perso la felicità. Non per questo, tuttavia, egli deve dimenticare la sua grandezza, che non consiste nella capacità di raggiungere tra- guardi di ingannevole benessere.

L’uomo è grande nell’accettarsi per quello che è: piccolo, debole, fragi- le, ma pur sempre capace di con- cepire l’infinito. Il cuore dell’uomo è in grado di intraprendere le più grandi avventure sentimentali, di sognare, sempre e comunque, una vita migliore. Nel deserto della vita umana, attraverso la poesia (e, ag- giungiamo, attraverso l’arte), per Leopardi si può annunciare un messaggio di fratellanza: gli uomi- ni possono stringersi in un abbrac- cio di solidarietà, per contrappor- re, eroicamente, alla prepotenza cieca della Natura e del Fato, la resistenza alta e nobile dell’amo- re. È quanto deduciamo leggendo La Ginestra o il fiore del deser- to (la sua penultima lirica, scritta nel 1836 e pubblicata postuma nel 1845), in cui Leopardi elegge l’u- mile pianta a simbolo di un’eroica speranza. Solo quando l’uomo avrà deposto il proprio orgoglio vano e capito che la vita è dura lotta per la sopravvivenza, saprà trovare la legge di una nuova fraternità. È

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Esortando alla costruzione di una “social ca- tena”, Leopardi ricorda che, nella lotta contro la Natura violenta, la gialla ginestra, con il suo profumo, consola. Il suo giallo illumina il nero deserto dell’esistenza, allo stesso modo dei limoni di Montale o dei girasoli e del grano di Van Gogh o della spiaggia assolata della Gioia di vivere di Matisse. Dal massimo buio può in- somma scaturire la luce. Sviluppa questo tema con un percorso interdisciplinare.

verso l’esame di stato Henri Matisse, La danza (seconda versione), 1909-10. Olio su tela, 2,60 x 3,91 m.

San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

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Chagall come Nietzsche:

il vero superuomo è chi sa dire di sì alla vita

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Marc Chagall (1887-1985) è stato il pittore dell’amore ma soprat- tutto il pittore del volo. Resi leg- geri dalla loro capacità di amare, i personaggi dei suoi dipinti ven- gono letteralmente sospinti verso intensi cieli blu e in essi si libra- no. Vestiti di bianco (colore del- la purezza), sospinti da un soffio magico e invisibile, gli uomini e le donne di Chagall volteggiano nel cielo blu sorvolando paesi e cit- tà, superando distese di cupole o di tetti addormentati, non di rado mostrati con le gambe divaricate, simili a ballerini o saltimbanchi. Il mondo che Chagall raffigura è, nel vero senso del termine, un mondo rovesciato se non addirittura sot- tosopra. «Molti hanno fatto dell’u- morismo sui miei dipinti», scrisse l’artista. «Non ho fatto niente per evitare quelle critiche. Al contra- rio. Sorridevo – tristemente, certo – della meschinità dei miei giudi- ci. Ma avevo, malgrado tutto, dato un senso alla mia vita».

Nella sua arte del sottosopra, così il-

secondo quanto Nietzsche elabora in una prima fase del suo pensie- ro, avviene all’interno dello spirito umano. Lo Spirito Dionisiaco (la risposta al senso tragico della vita) s’identifica con l’amore per la vita, che è forza creatrice, istinto, sen- sualità, passione, irrazionalità, e si contrappone allo Spirito Apol- lineo, che invece vive nella tran- quillità di un sogno, in equilibrio e razionalità, reprimendo ogni suo istinto naturale. Secondo la tesi nietzscheana più matura, quella della volontà di potenza, solo il superamento dell’umano può pro- durre quell’accettazione gioiosa di ciò che i deboli cercano di sfuggire.

Nietzsche usa il termine “superuo- mo”, da intendersi come ‘oltre-uo- mo’, per designare quell’umanità capace di superare la malattia del- le catene. Non si deve essere come il cammello, che si fa comanda- re e porta un grande peso, quello dell’ignoranza; non si deve essere come il leone, che acquista consa- pevolezza e uccide il dragone. Si deve amare la vita come un fan- ciullo, che vive senza pregiudizi, trasparente e puro, disinteressato a questioni esistenziali che non può comprendere, ma che soprattut- to ha voglia di vivere, è spinto da energia infinita, mostra gioia e stu- pore verso tutto. E che quindi vola, come gli uomini di Chagall.

logicamente liberata e liberatoria, si colgono echi del pensiero di Fried- rich Nietzsche (1844-1900), il grande filosofo tedesco. Per ognu- no di noi, il dolore prende forme diverse. Passiamo la nostra vita a pensarci, a parlarne, a studiarlo.

Forse però sbagliamo a concentra- re tutte le nostre forze nella com- prensione e schematizzazione del nostro dolore. È quanto sostiene Nietzsche, per il quale è inutile e completamente sbagliato cercare di comprendere la vita secondo i criteri razionali che la tradizione metafisica e filosofica ci ha tra- mandato. Essa, secondo il filosofo, non è un meccanismo, una rigida sequenza di cause ed effetti. L’u- nico modo per reagire alla doloro- sissima presa di coscienza che la vita non ha senso, né tantomeno uno scopo, è abbandonarsi in toto alla vita medesima, con un corag- gioso “dire di sì”. È l’accettazione stessa dell’esistenza, non come sopportazione dolorosa ma come accettazione gioiosa. Ed è ciò che,

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Approfondisci il tema del superuomo nietz- scheano trovando altri possibili collegamenti con l’arte e la letteratura. Crea un percorso scritto interdisciplinare.

verso l’esame di stato Marc Chagall,

Il viaggiatore, 1917. Grafite e acquerello su carta, 38,1 x 48,7 cm. Sam and Ayala Zacks Collection.

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La relatività tra arte e scienza, da Einstein a Picasso:

la quarta dimensione

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Erano fertilissimi di idee e di in- tuizioni in ogni campo, anche scientifico, gli anni durante i quali il giovane Pablo Picasso (1881- 1973), appena venticinquenne, stava lavorando febbrilmente, con schizzi, studi e varianti, a Les demoiselles d’Avignon, ossia all’opera che avrebbe segnato una svolta non solo nella sua carriera ma nello sviluppo dell’intera arte occidentale. Anni straordinari, senza dubbio, la cui vivacità in- tellettuale e culturale non può essere ignorata se si vuole capire a fondo il senso della ricerca pi- cassiana. Sicuramente, la potenza deflagrante di questo quadro, al netto dei precedenti cezanniani, sta nel definitivo e radicale ab- bandono del sistema prospettico tradizionale. La prospettiva de- costruita di Picasso, in opere in cui l’immagine veniva scompo- sta e ricomposta in una sola ma complessa visione multicentrica, stava non soltanto mandando in frantumi la concezione classica dello spazio ma proponendo una nuova, rivoluzionaria concezione di dimensione spazio-temporale.

Per quanto potesse, a quella data, non esserne ancora del tutto con- sapevole, Picasso applicava alla sua nuova pittura la teoria della quarta dimensione. Già in un suo scritto del 1911, Guillaume Apol- linaire (1880-1918), poeta e teori- co del Cubismo, avrebbe afferma- to: «Sinora le tre dimensioni della geometria euclidea hanno soddi- sfatto l’inquietudine che il sen- timento dell’infinito suscita nei grandi artisti. I nuovi pittori non

fatto diversa dal tempo... e anche questo è vero. Vi sono, in effetti, molte dimensioni superiori. Una di queste è il tempo, un’altra è la direzione di curvatura dello spa- zio, e un’altra ancora è quella che può condurre verso universi total- mente differenti che esisterebbero parallelamente al nostro».

Riconducendoci all’inizio del XX secolo, in fisica, e con particolare riferimento alla Teoria della rela- tività, la quarta dimensione ven- ne riferita al tempo. Fu nel 1905 (quindi poco prima che Picasso mettesse mano alle Demoiselles) che un giovane fisico tedesco, Albert Einstein (1879-1955), 26 anni appena compiuti, inviò alla si sono certo proposti, più degli

antichi, di essere geometri. Ma si può dire che la geometria è per le arti plastiche ciò che la grammati- ca è per l’arte dello scrittore. Oggi gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni euclidee. I pit- tori sono stati portati naturalmen- te, e per così dire intuitivamente, a preoccuparsi delle nuove possibi- lità di misurare lo spazio che, nel linguaggio figurativo dei moderni, sono indicate con il termine di quarta dimensione».

Ma cos’è la quarta dimensione? La questione è scientificamente mol- to complessa, ancora oggi non è pienamente risolta e il dibattito re- sta aperto. Spiegava, negli anni Ot- tanta del XX secolo, il matematico Rudy Rucker: «Nessuno è in grado di indicare la quarta dimensione, eppure essa ci circonda. Essa è ar- gomento di meditazione per filo- sofi e mistici; i fisici e i matematici la utilizzano nei loro calcoli. La quarta dimensione è parte inte- grante di molte serie teorie scienti- fiche, e allo stesso tempo viene ab- bondantemente sfruttata in campi di discutibile reputazione, come lo spiritismo e la fantascienza. La quarta dimensione è una direzio- ne diversa da tutte le direzioni dello spazio normale. Alcuni di- cono che la quarta dimensione è costituita dal tempo e, in un certo senso, questo è vero. Altri affer- mano che la quarta dimensione è una direzione dell’iperspazio af- Pablo Picasso, Testa, studio per Les demoiselles d’Avignon, 1907. Olio su tela, 96 x 33 cm. Basilea, Öffentliche Kunstsammlung Basel, Kunstmuseum.

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rivista «Annalen der Physik» un articolo in cui rivide completa- mente la concezione classica del tempo e dello spazio. Einstein, as- serendo che non esistono sistemi di riferimento assoluti, teorizzò una nuova forma di spazio-tempo quadridimensionale unificato, a cui riferire tutti gli eventi del no- stro universo. Sulla scorta delle nuove teorie di Einstein, lo spazio non andava più misurato soltanto attraverso l’altezza, la larghezza e la profondità ma tenendo con- to di un nuovo fattore, il tempo, senza più prescindere dall’idea di movimento. Picasso conosceva l’articolo di Einstein? Non possia- mo asserirlo. È più probabile che l’artista conoscesse (attraverso le accese discussioni del suo gruppo di amici intellettuali) le teorie del matematico e fisico francese Hen- ri Poincaré (1854-1912), che già nel 1902 aveva, prima di Einstein, affrontato il problema della neces- sità di un approccio non euclideo alla geometrizzazione del mondo fisico. Sicuramente, invece, Picas- so conosceva il pensiero del filo- sofo Henri Bergson, che nel 1884 aveva teorizzato la spazializzazio- ne del tempo. È quindi lecito af- fermare che Picasso si fece, come Einstein, partecipe dello spirito di quegli anni e che il pittore e il fisico, separatamente, giunsero con le loro due opere – il quadro e l’articolo – alle due medesime conclusioni: che non esistono si- stemi di riferimento privilegiati e che la concezione plurimille- naria dello spazio classico anda- va ricusata. Einstein, attraverso un nuovo modello matematico, e Picasso, attraverso una geniale intuizione artistica, elaborarono,

successivi del tempo, e nella sua opera finale ripropose, sintetizza- ti in una sola immagine, i molti aspetti che di quella realtà aveva potuto indagare: in una efficacis- sima sintesi spazio-temporale.

nella sostanza, lo stesso concetto di relatività. Per millenni, gli ar- tisti avevano operato rimanendo fermi e riproducendo, nelle tre dimensioni, una realtà in modo più o meno fedele a quanto i loro occhi vedevano. Perfino la realtà inventata con la fantasia era per molti versi comunque “verosimi- le”. Sostenuto dall’insegnamento di Cézanne, ispirato dalle nuove teorie fisico-matematiche, Picasso nel dipingere si immaginò in mo- vimento, indagò la realtà da molti punti di vista, quindi in momenti

COMPETENZE INTERDISCIPLINARI Dopo aver approfondito il tema della relatività ristretta di Einstein e della quarta dimensione, rifletti su come questa nuova concezione dello spazio ha profondamente influito sullo svilup- po della cultura del Novecento, in tutte le sue manifestazioni, proponendo un percorso inter- disciplinare per illustrare il tuo pensiero.

verso l’esame di stato Pablo Picasso, Nudo femminile, studio per Les demoiselles d’Avignon, 1907. Olio su tela, 81 x 60 cm. Ginevra, Collezione Heinz Berggruen.

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