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IL RISARCIMENTO DEI DANNI DA ERRATA DIAGNOSI DI PATOLOGIA TUMORALE

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IL RISARCIMENTO DEI DANNI DA ERRATA DIAGNOSI DI PATOLOGIA TUMORALE

Avv. Renato Ambrosio - Prof. Marco Bona

Premessa

In relazione alla responsabilità per errata/omessa diagnosi di patologie tumorali va posto in luce come si debba distinguere essenzialmente tra due fattispecie diverse:

1) diagnosi di patologia tumorale che risulta poi essere inesistente;

2) omessa, tardiva o errata diagnosi di patologie neoplastiche effettivamente in atto.

In tutta evidenza questa distinzione non incide sul profilo della valutazione della condotta dei soggetti cui si imputa l'errore diagnostico: difatti, in entrambe le ipotesi -ed a prescindere che si controverta in tema di responsabilità penale o civile -si tratta di individuare i canoni comportamentali (diligenza, prudenza e perizia) ai quali il sanitario o il gruppo di medici si sarebbe dovuto attenere e che sono stati invece disattesi nel caso concreto oggetto del giudizio di responsabilità.

Siffatta distinzione incide invece sull'individuazione dei danni risarcibili, essendo le conseguenze dannose radicalmente diverse.

Va altresì osservato che i meccanismi di imputazione della responsabilità civile e penale in relazione ad entrambe queste ipotesi non divergono da quelli che normalmente caratterizzano gli altri settori della responsabilità medicat(1), fatta eccezione -relativamente agli errori diagnostici su tumori effettivamente presenti - per il profilo del nesso causale; al contrario il campo del risarcimento in esame assume aspetti del tutto peculiari sul versante dell'individuazione dei pregiudizi risarcibili.

Per queste ragioni il presente contributo risulta centrato più sulle questioni relative all'individuazione dei danni risarcibili che sul versante dell'imputazione della responsabilità. Occorre comunque svolgere alcune considerazioni preliminari in punto an debeatur e, in particolare, sul concetto e sul ruolo attribuiti alla causalità. In questo settore, infatti, il nesso causale costituisce indubbiamente il principale filtro per distinguere ciò che è risarcibile da ciò che

Studio Legale Ambrosio&Comodo, Torino

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non lo è. E si tratta di una questione che si gioca interamente sul piano, sconnesso e mobile, della causalità giuridica.

Profili di an debeatur nell'attività diagnostica delle patologie tumorali:

il nesso di causa tra la diagnosi errata e le aspettative di vita perdute

Le corti sia penali che civili si sono occupate dell'attività diagnostica in relazione a tutti i settori dell'attività medico-sanitaria(2); pur tuttavia i campi in cui più si sono registrati interessanti sviluppi -e fenomeni espansivi della responsabilità medica collegata agli errori diagnostici - sono sicuramente quelli delle malformazioni fetali(3) e dei tumori(4).

Dalle non numerose sentenze edite in materia di mancata/errata diagnosi di malattie tumorali emerge il seguente quadro:

• le corti, per la valutazione dell'errore diagnostico (e cioè per il raffronto tra il modello di condotta esigibile ex art. 1176, 20 comma, c.c. e la condotta effettivamente tenuta dal sanitario), si affidano in buona sostanza alle opinioni dei consulenti tecnici, essendo del tutto manifesto che solo questi ultimi sono in grado di fornire le cognizioni scientifiche necessarie per stabilire se errore diagnostico vi sia stato o meno; sulla base di questo tipo di contributi tecnici i giudici procedono poi a qualificare la condotta tenuta dal medico (o,se più sono i professionisti intervenuti, le condotte tenute dal gruppo di sanitari) secondo un insieme di regole giuridiche che, come si osservava in premessa, coincidono in larga misura con quelle normalmente applicate in tutti gli altri settori della responsabilità medica;

• ovviamente, se il medico è inserito in una struttura ospedaliera o, più in generale, sanitaria, quest'ultima può essere chiamata, ex art. 1228 e art.

2049 c.c., a rispondere civilisticamente dei danni causati dal comportamento negligente o imperito del proprio personale nell'esercizio dell'attività diagnostica(5);

• i giudici, al fine dell'individuazione del nesso di causa, fanno costantemente riferimento alle probabilità di maggiore sopravvivenza o alle chances di miglior qualità di vita in caso di una tempestiva o

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comunque corretta diagnosi, cosicché la mancata dimostrazione di una perdita di chance di sopravvivenza non incide solo sulla prova dei pregiudizi risarcibili, ma influisce a monte sul nesso di causa e pertanto, in definitiva ed in radice, sull'imputazione della responsabilità; in altri termini, il giudizio di responsabilità si decide in questo settore essenzialmente sul versante del nesso causale.

Per questa via, pertanto e come ora si andrà ad esaminare nel dettaglio, il nesso di causa assume nel campo in esame connotati del tutto peculiari: vi è infatti una evidente sovrapposizione tra la prova del nesso causale e lo spazio logico- giuridico occupato dalle conseguenze dannose; al contempo, il giudice è sostanzialmente chiamato a risolvere un “difficile dilemma fra certa negligenza e incerta conseguenza”(6), e cioè a stabilire -secondo costruzioni comunque giuridiche (anche se a livello declamatorio elaborate sulle indicazioni provenienti da medici legali e specialisti) -se sia ravvisabile un rapporto causale tra, da un Iato, un errore diagnostico accertato e, dall'altro Iato, delle conseguenze dannose che nella maggior parte dei casi si pongono esclusivamente in termini di probabili perdite di chance di vita futura.

Il nesso causale assurge dunque nell'ambito in esame a principale “strumento di selezione”(7) delle azioni.

I giudici penali, In riferimento a questo particolare ambito, hanno sviluppato un approccio sul nesso di causa in base al quale, se da un lato non si richiede la assoluta certezza (in termini prossimi cioè al 100%) che dall'omessa diagnosi sia derivata una diminuzione delle possibilità di una maggiore sopravvivenza né una particolare indicazione percentuale delle chances di vita perdute, dall'altro lato non si ritiene però sufficiente un giudizio ipotetico di mera verosimiglianza.

Ad esempio, Il Tribunale di Roma in Capelli(8), per certo uno dei leading case in materia, è giunto a ritenere che la probabilità, “non qualificabile esattamente”, di una maggiore sopravvivenza possa comunque rilevare ai fini dell'accertamento responsabilità del sanitario. La fattispecie vedeva imputato per omicidio colposo un primario anatomopatologo per errata diagnosi- istologica su due pazienti, una bambina e un anziano di 77 anni, i quali erano poi morti di tumore. Il primario venne condannato per l'errore diagnostico(9) commesso sulla bambina: infatti, stante la “probabilità, sia pure non quantificabile esattamente, di una quanto meno maggior sopravvivenza” e la “possibilità, non quantificabile esattamente, di

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sostanziale modificazione della prognosi quoad vitam”, la corte ritenne che vi fossero elementi a sufficienza per affermare ex art. 40 c.p. a sussistenza e nesso causale tra l'errore diagnostico, che aveva impedito la tempestiva instaurazione della terapia radiante e della chemioterapia, e l'esito letale. Al contrario, il medico andò assolto per il decesso dell'anziano proprio per il difetto del nesso di causa, atteso lo stadio molto avanzato del tumore, l'età e le già compromesse condizioni di salute che sarebbero in ogni caso risultate incompatibili con l'intervento operatorio da eseguirsi in caso di tempestiva diagnosi, i cui effetti sarebbero stati particolarmente distruttivi per l'anziano paziente.

Nella stessa direzione si è sostanzialmente posta la decisione della Pretura di Roma in Capelli(10), che aveva ad oggetto lo stesso imputato del precedente sopra citato ma vicende processuali diverse in relazione alle persone offese: nella specie, il medico andò assolto, poiché, pur essendo stata accertata al di fuori di ogni dubbio la sua negligenza ed imperizia (... a detta di alcuni consulenti intervenuti nel procedimento penale in uno dei casi oggetto dello stesso le cellule cancerose nel tessuto tumorale sarebbero state addirittura visibili anche senza microscopio), non era stato ritenuto ravvisabile il nesso di causa, da intendersi come coincidente con l'accertamento di “serie ed apprezzabili probabilità di maggiore sopravvivenza” dei pazienti.

Anche la decisione della Sezione Distaccata di Di Carpi della Pretura Circondariale di Modena, in Fontana(11), che aveva ad oggetto la responsabilità di un sanitario radiologo in relazione all'omessa diagnosi di carcinoma mammario(12), si regge sostanzialmente sugli stessi principi dei precedenti sopra citati. Il giudicante era partito da due premesse: “è un dato ormai acquisito alla scienza ed esperienza in campo medico che le possibilità di sopravvivenza si riducono in modo inversamente proporzionale all'aumento dello stadio del tumore”; dalle considerazioni del perito emergeva che, se la presenza del tumore fosse stata rilevata all'epoca della mammografia, le possibilità di sopravvivenza della vittima, sarebbero state, “senza ombra di dubbio”, “più alte”. Da queste osservazioni il Giudice ha quindi tratto come il comportamento colposo del radiologo fosse eziologicamente collegato con l'aggravamento delle condizioni della paziente, dovuto all'evoluzione del tumore, e il conseguente aumento del rischio di un “anticipo di morte”: “La riduzione delle probabilità di sopravvivenza costituisce lesione punibile ai sensi dell'art. 590 c.p. Potrebbe

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obiettarsi che non è possibile differenziare quantitativamente ciò che va attribuito al ritardo di diagnosi rispetto a ciò che vi sarebbe stato '. comunque da attendersi, rispetto ad una diagnosi fatta quattro anni i prima. Il problema è piuttosto tormentato in dottrina e giurisprudenza: la prova certa che un comportamento negligente, imprudente o imperito del medico sia stato la causa dell'evento è irraggiungibile applicando rigorose regole causali. Per questo motivo la giurisprudenza italiana, da tempo, ha sostituito, nel campo della responsabilità medica, il criterio della certezza con quello della probabilità. Si deve verificare se, la condotta dell'imputato, abbia sostanzialmente aumentato il rischio di un danno o sostanzialmente ridotto le possibilità di guarigione o sopravvivenza”.

Analogamente la Pretura di Ivrea, in Alongi(13), ha ritenuto sussistere il nesso causale sulla base delle indicazioni peritali che avevano evidenziato, nelle conclusioni, come l'omissione da parte del medico avesse “un evidente rapporto temporale con l'insorgenza e l'aggravarsi della neoplasia, perché una corretta e diligente valutazione diagnostica più precoce avrebbe potuto rilevare un cancro agli stadi iniziali o ancor meglio una lesione precancerosa displasica. Di conseguenza, la prognosi dopo l'intervento sarebbe stata più favorevole se non ottima le”.

La giurisprudenza civile, per quanto consta, non sembra divergere in modo particolare da quella penalistica, se non forse, almeno stando ad uno dei pochi precedenti pubblicati in materia, per una maggiore precisione nell'individuazione delle chance perdute. Ad esempio, il Tribunale di Monza in Grendene e altri c.

Milani(14), ritenendo responsabile il medico(15) per l'errore diagnostico e quindi terapeutico che aveva impedito al paziente, affetto da melanoma, di sopravvivere, ha rilevato come il nesso causale possa essere ravvisato nella sottrazione della possibilità di godere del 30% di probabilità di sopravvivere per ulteriori cinque anni. Anche in questo caso il nesso di causa risulta quindi il frutto del riscontro di maggiori probabilità di sopravvivenza, questa volta -come si è rilevato - individuate in una percentuale ben determinata.

Il concetto di causa assume così connotati del tutto peculiari in questo settore: la dimostrazione del nesso causale finisce di fatto con il coincidere con la prova della perdita di chance di maggiore sopravvivenza, e cioè con uno, se non il principale, tra i pregiudizi che seguono normalmente l'errore diagnostico.

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A questo punto però, se questa -come sembra emergere -è effettiva mente l'impostazione seguita dalle corti, vanno operate alcune riflessioni: in primo luogo, infatti, non tutti i conti tornano in relazione ai requisiti posti per la dimostrazione della fattispecie penale del reato di omicidio colposo, e cioè vi è da chiedersi se, ai fini della riconduzione della privazione della vita alla condotta omissiva del medico, la prova della perdita della possibilità di godere di una maggiore sopravvivenza sia tale da soddisfare quanto previsto dalla norma penale (... che ha ad oggetto l'evento letale); in secondo luogo, è opportuno riflettere sull'opportunità di distinguere tra la causalità in ambito penale e la problematica del nesso di causa in sede di responsabilità civile; in terzo luogo, qualche dubbio può altresì sorgere in merito al concetto stesso di nesso di causa che permea questo settore, e cioè risulta opportuno verificare se in effetti la prova di un pregiudizio, quale la privazione di chance di vita, esaurisca veramente la questione della causalità in questo ambito o sia comunque corretto ragionare solo in questi termini; infine, si tratta di riflettere sul ruolo che la causalità scientifica può giocare nell'accertamento del nesso causale, posto che, come inequivocabilmente emerge dalla stessa giurisprudenza citata, in questo settore il divario tra causalità scientifica e causalità giuridica non è affatto marginale, assumendo un peso preponderante la negligenza medica e considerazioni squisitamente giuridiche (surrettiziamente, ad esempio, la signoria sul fatto, lo scopo della norma violata, la causalità adeguata e la prevedibilità dell'evento) rispetto a considerazioni tipiche della causalità materiale.

L'approccio delle corti al nesso di causa tra errore di diagnosi di patologie tumorali ed evento morte va peraltro posto a confronto con la recente sentenza della Cassazione penale in Baltrocchi(16), la quale, chiamata a decidere sulla responsabilità di un medico per omicidio colposo (art. 589 c.p.), si è espressa a sostegno di un'impostazione del nesso causale particolarmente rigoroso essendo ispirato al criterio della “probabilità vicina a cento”. Vi è infatti da domandarsi come si ponga il quadro or ora tracciato per l'errata diagnosi di patologie neo- plastiche con la “svolta”(17) segnata dalla Suprema corte in Baltrocchi: può continuare ad essere considerata sufficiente per stabilire la sussistenza del nesso di causa la prova che la vittima ha perso delle chance di maggiore sopravvivenza (anche in percentuali ridotte), oppure il precedente Baltrocchi va applicato alla lettera anche in relazione all'attività diagnostica di patologie neoplastiche?

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Su questi punti si deve preliminarmente sgomberare il campo dalle facili illusioni che Baltrocchi potrebbe suscitare in relazione all'attuale stato della ricerca di una regola del nesso causale che sia risolutiva delle varie questioni aperte su tale fronte nell'ambito della responsabilità medica. Al riguardo, si osservi infatti che risulta ben difficile inquadrare Baltrocchi come rappresentativo di un orientamento maggioritario sul nesso causale applicabile in riferimento a tutte le attività medico-sanitarie: invero, la responsabilità medica oscilla da anni tra sentenze contrastanti sul tema, ed al momento la questione del nesso di causa nell'ambito medico è lungi dal potersi definire interamente settled, apparendo anzi molto controversa. Del resto, ogni campo dell'attività medica fa a sé, e di fatto vi sono tanti nessi di causa quante sono le specifiche ipotesi di medical malpractice che possono venire in considerazione. Baltrocchi rappresenta invero uno dei tanti passaggi di un processo storico della responsabilità medica che è ancora apertissimo e che, come vedremo oltre, annovera già nuovi importanti precedenti orientati in direzioni diverse. Ciò che più rileva è però che il precedente in questione riguarda una fattispecie che invero risulta decisamente circoscritta sia a livello fattuale(18) e sia, soprattutto, giuridico (omicidio colposo).

Di conseguenza, i principi stabiliti in Baltrocchi, ancorché apprezzabili sotto svariati profili, non costituiscono necessariamente una “svolta” nel campo della responsabilità medica. Anzi, si può affermare con una certa serenità come il precedente Baltrocchi non possa assurgere a nuovo paradigma della causalità nella responsabilità medica, se non al massimo -come ora si verrà a dire -in ambito penalistico e per il solo reato dell'omicidio colposo di cui all'art. 589 c.p., fermo restando quanto si osserverà in merito al nuoVO orientamento espresso dalle sezioni unite.

Ciò posto, quali potrebbero essere gli effetti di Baltrocchi nel campo qui in esame? la prova di una minore sopravvivenza in termini probabilistici non vicini a cento potrà ancora risultare rilevante ai fini del giudizio di responsabilità, oppure non si potrà più dare luogo a responsabilità dovendosi ritenere il difetto del nesso causale?

La Suprema corte afferma in Baltrocchi un principio sicuramente esportabile anche nell'ambito in questione: la probabilità deve essere “confinante con la certezza” perché “il principio di tassatività - determinatezza e il principio di responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato

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costituzionale, impongono...di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa"(19). E cioè, se si tratta di imputare l'evento morte di un soggetto ad un'altra persona nel contesto del reato di omicidio colposo, risulta del tutto manifesto come ben difficilmente la fattispecie penale possa completarsi con la dimostrazione di una (ridotta) percentuale di probabilità che l'errore (accertato) abbia dato luogo ad una diminuzione di vita(20): per ricondurre l'evento morte all'imputato, e quindi soddisfare i requisiti per la configurabilità del reato in questione, sarebbe ben opportuno l'accertamento di probabilità vicine alla certezza (sebbene non necessariamente coincidenti con il 100%). Baltrocchi pone quindi delle ottime ragioni sul versante penalistico per un mutamento di rotta e quindi per un maggiore rigore, e certo sarebbe condivisibile un suo parziale accoglimento anche con riferimento agli errori diagnostici di patologie tumorali, malgrado ciò possa in taluni casi condurre a situazioni in cui errori macroscopici e difficilmente inaccettabili vengono sì accertati in sede di giudizio, ma non sono poi seguiti da alcuna sanzione penale(21).

Va però da sé che l'insufficienza di percentuali, elevate e quasi vicine al 100%, di probabilità di maggiore sopravvivenza non rileva invece per il reato di lesioni personali colpose di cui all'art. 590 c.p. In questo caso non si tratta infatti di ricondurre la condotta all'evento morte, bensì ad altre tipologie di conseguenze lesive della salute, compresa la privazione di chance di maggiore sopravvivenza.

Diverso è altresì il caso della responsabilità civile in cui sicuramente il precedente Baltrocchi non può svolgere alcun effetto: qui la fattispecie dell'illecito civile di cui all'art. 2043 c.c. e quella della responsabilità per inadempimento (art. 1218 e 2236 c.c.) si completano il momento in cui da un lato è ravvisabile la negligenza medica e dall'altro lato si dimostra che questa ha originato un danno, che non necessariamente deve coincidere con la morte del soggetto, ma può certo consistere in una diminuzione, anche minima, delle aspettative o chance di vita della vittima. Il nesso di causa non coincide però con la prova di una perdita di chance di vita, ma discende de plano, quale fattore autonomo e distinto, dalla dimostrazione della maggiore sopravvivenza che poteva essere garantita da una tempestiva o corretta diagnosi: provati da un lato l'errore diagnostico e dall'altro il pregiudizio in questione, la dimostrazione del nesso di causa, quale spazio giuridico intermedio, è di fatto in re ipsa. Anche solo

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la privazione di un 10% di chance oppure di una “non eludibile soggezione a probabili recidive locali o metastiche”(22) o di un peggioramento qualitativo della vita (ad esempio in quanto si rendono necessari interventi e terapie più invasive) possono quindi soddisfare i requisiti affinché scatti la responsabilità civile(23): ciò, in primis, per il semplicissimo motivo che sul versante civilistico le fatti specie di responsabilità non incontrano le stesse esigenze della norma penale(24) ed assolvono del resto a finalità diverse, non già punire, ma risarcire; in secondo luogo, perché nella fattispecie penale di cui all'art. 589 c.p. l'unico pregiudizio che rileva è la morte(25), mentre in quella civilistica non è solo l'evento mortale a venire in considerazione, bensì ogni altra conseguenza dannosa che possa configurarsi come danno (in senso giuridico del termine(26), ivi comprese anche le perdite di aspettative di vita, che, come meglio si vedrà nei prossimi paragrafi, sono per certo un danno risarcibile, autonomo e distinto dalla perdita della vita.

Peraltro, si deve qui osservare come l'approccio civilistico al nesso di causa (non tanto il suo concetto) venga inevitabilmente a diversificarsi da quello penalistico in conseguenza dell'applicazione di modelli di imputazione della responsabilità radicalmente diversi. In sede civilistica, trattandosi di responsabilità medica, è inevitabile fare riferimento al paradigma dell'inadempimento contrattuale, e, come emerge dalla prassi stessa delle corti, l'inadempimento del medico tende a tradursi automaticamente nell'evento dannoso, presumendosi pertanto il nesso causai e intermedio(27): la perdita di una chance di maggiore sopravvivenza, che ai fini della fattispecie penale potrebbe non bastare per la configurabilità del reato, nell'illecito civile si riconduce quindi in via automatica all'operato del medico, senza necessità di una specifica dimostrazione del profilo eziologico ultronea rispetto alla prova che è insita nell'inadempimento dell'obbligazione.

A tutte queste considerazioni si deve poi aggiungere un dato fondamentale, e cioè come da ultimo, sul tema specifico della causalità in ambito medico, sia intervenuta la decisione della Cassazione penale, Sezioni Unite, 11 settembre 2002, n. 30328. L'importanza di questo precedente è di palmare evidenza, provenendo dalle Sezioni Unite della Cassazione. Orbene, questa decisione sicuramente costituisce un superamento dell'orientamento espresso in Baltrocchi.

Le Sezioni Unite rilevano infatti che, “si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica "certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-

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repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari”. Per La Cassazione non è quindi “sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico

“prossimo ad 1, cioè alla certezza”, quanto all'efficacia impeditivi della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”, Ciò, “ soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s'innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio- patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità”. Sulla base di queste considerazioni le Sezioni Unite vengono pertanto a superare alla radice il criterio della “probabilità vicina a cento” affermato in Baltrocchi: “È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cosiddetta frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch'essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenza tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”.

In particolare, la conclusione cui pervengono le Sezioni Unite è che “Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificare la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la con- dotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con

"alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”. La Cassazione giunge pertanto a ricondurre il problema del nesso di causa entro margini

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decisamente più ragionevoli rispetto al precedente Baltrocchi e non si dubita come siffatto nuovo principio andrà debitamente considerato anche in relazione al campo qui in esame, fermo restando quanto sopra osservato circa la distinzione tra causalità penale e causalità civile.

È comunque opportuno qui rimarcare come nell'ambito della responsabilità civile la perdita di chance di vita sia lungi dall'esaurire la questione del nesso di causa in questo settore(28). Infatti, essendo che la causalità è un istituto che opera sempre tra una condotta e un evento di danno, ne discende che il nesso causale intermedio necessariamente muta a seconda dell'evento dannoso che si ponga come ultimo anello della sequenza causale. Un conto è voler ricondurre il comportamento del medico all'evento morte, ben altra questione è la ricerca di un nesso causale tra la stessa condotta e altri eventi che hanno preceduto la morte (ad esempio, la necessità di un intervento maggiormente lesivo, ma anche la stessa perdita di chance di maggiore vita potrebbe ricadere al di fuori dall'evento morte). Pertanto, è chiaro che tutta la questione, che ruota intorno alla perdita di aspettative di vita come dimostrazione della sussistenza di un nesso di causa tra la condotta e la morte, non esaurisce la tematica della causalità giuridica in questo ambito, poiché basta sostituire la perdita della vita con tutte le, altre conseguenze dannose, che la vittima abbia eventualmente sofferto, per passare ad altre contestualizzazioni del problema della causalità. In altri e più semplici termini, la prova del nesso di causa assume connotati diversi se oggetto dell'azione risarcitoria non è la perdita della vita, bensì, ad esempio, un peggioramento della vita (... ovviamente fermo restando che l'uno non esclude l'altro). Parimenti, la questione muta se si tratta di ricondurre alla condotta negligente ed imperita del medico un danno psichico generatosi dalla consapevolezza di essere stati vittime di un errore diagnostico (ad esempio, il c.d.

«danno da sfiducia» cui si riferisce il Dott. Alberto Anglesio).

È evidente pertanto come tutte queste diverse angolazioni e prospettive dei contenuti della domanda risarcitoria spostino il problema della responsabilità da errore diagnostico delle patologie tumorali (e più segnatamente del nesso di causa) dal ristretto ambito della perdita di vita e di aspettative di esistenza a margini decisamente più flessibili rispetto al versante penalistico dell'omicidio colposo. Invero, diversi sono i confini della responsabilità civile in questo settore, e certo essi vanno ben oltre alla perdita di chance di maggiore sopravvivenza. Il

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che, ovviamente, dovrebbe essere tenuto in debita considerazione sia quando l'avvocato della vittima va ad impostare un'azione risarcitoria, sia quando il medico legale e lo specialista sono chiamati a dare il loro contributo tecnico, e quindi nella stessa formulazione dei quesiti al C.T.U.

Quest'ultima osservazione conduce alla disamina di un'ultima ma importante questione relativa all'individuazione del nesso causale: il contributo del medico legale e dello specialista, visto e meditato sotto il profilo della sua utilizzazione in sede di responsabilità civile.

Sul punto può essere opportuno precisare preliminarmente come, se per certo la medicina legale offra dei contributi essenziali per individuare le chance perdute di maggiore sopravvivenza, pur tuttavia vada altresì tenuto conto come il compito di escludere o meno il nesso di causa sia sempre e comunque una questione di causalità giuridica che spetta ad altri risolvere. È infatti il giudice che in definitiva si trova a gestire, sia pure sulla base delle indicazioni tecniche dei periti, lo strumento del nesso di causa: in questo campo il nesso causale, come già si è detto, non necessariamente coincide con la causalità scientifica, soprattutto trattandosi di un campo in cui il giudizio è “ipotetico” e quindi

“dotato di un grado di certezza inferiore a quella raggiungibile nella causalità attiva”(29). Invero, i consulenti, in relazione alla omessa od errata diagnosi di patologie neoplastiche, non possono che fornire giudizi di tipo ipotetico- probabilistico, e tali rimangono le loro opinioni a prescindere dalla percentuale di probabilità individuata: spetta dunque alle corti -ed unicamente a quest'ultime -il compito di individuare la soglia probatoria che deve essere superata, nel caso specifico, per la ravvisabilità del nesso causale.

Nell'ottica ovviamente dei difensori e dei giudici che devono utilizzare le indicazioni dei medici legali nell'ambito del giudizio di responsabilità, il contributo più utile e corretto, che può provenire dai medici legali e dagli specialisti, non è quindi un giudizio sulla sussistenza o meno del nesso di causa (il giudizio sulla ravvisabilità del nesso causale è un output della decisione su cui solo la corte ha pieno dominio), ma è piuttosto o l'indicazione di parametri (ad esempio percentuali oppure di durata) i quali, sorretti da un'adeguata motivazione che permetta di ricostruire l'iter logico e scientifico (ad esempio citazione di dati statistici), mettano in luce un'eventuale diminuzione delle aspettative di vita, oppure l'indicazione o delle probabilità che dal dato certo (l'errore diagnostico)

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siano derivate o delle diminuzioni di chance di sopravvivenza (anche in questo caso la quantificazione delle chance è auspicabile per la successiva sua monetizzazione) oppure anche solo un peggioramento della qualità della vita (ad esempio dall'errata diagnosi la vittima si è trovata ad affrontare interventi e terapie più invasive). È chiaro comunque che, per quanto osservato sopra, medici legali e specialisti devono debitamente considerare il problema della causalità anche al di fuori della ristretta ottica della perdita di chance, andando ad esaminare questo profilo in relazione a tutte le altre conseguenze dannose (riflessi di natura psichica, peggioramenti della qualità della vita, sofferenze morali, danni estetici, necessità di un successivo intervento maggiormente invasivo(3O), ecc.) che sono individuabili in ciascun caso concreto.

In conclusione sul punto, si può osservare come, se finora la giurisprudenza si sia mossa nell'ottica di uno stretto collegamento tra perdita di chance e nesso di causalità, si tratti ora di uscire da detto cerchio, da un lato ampliando la visuale verso tutte le altre tipologie di danno e dall'altro lato, soprattutto sul versante civilistico, ricuperando la funzione originaria delle chances, appunto utilizzate tradizionalmente nella giurisprudenza francese come parametri per la valutazione del pregiudizio e non già come aghi della bilancia per la prova del nesso causale(31).

Danni risarcibili da errata diagnosi di tumore effettivamente in atto:

i pregiudizi del paziente tra danno biologico, danno esistenziale e chance perdute di vita

La disamina delle diverse tipologie di danno risarcibili è in tutta evidenza particolarmente complessa per diverse ragioni.

In primis, occorre distinguere tra fattispecie fra loro diversissime: infatti, come si è già avuto modo di osservare trattando del nesso di causa, il novero delle conseguenze dannose non si esaurisce con la morte oppure con la perdita di chances di sopravvivenza, ma include altresì sia peggioramenti della qualità di vita -che possono ammontare ad un danno biologico o ad un danno psichico o anche solo ad un danno esistenziale -e sia danni morali che derivano dalla consapevolezza di essere stati vittime di un errore diagnostico o, ex art. 2059 c.c., dall'avere subito un reato, oltre ovviamente i diversi tipi di danno patrimoniale

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ipotizzabili (perdita o riduzione delle capacità reddituali; spese di cura e di assistenza; ecc.). È inoltre opportuno rilevare sin da ora come l'individuazione dei danni risarcibili e la loro quantificazione vari sensibilmente a seconda delle seguenti ipotesi:

1) la vittima dell'errore diagnostico riesce a vivere un arco di tempo tale da riuscire a conseguire il risarcimento del danno;

2) la vittima muore mentre il giudizio avente ad oggetto l'azione risarcitoria è in corso;

3) la vittima muore prima dell'instaurazione del procedimento.

Nelle ultime due fattispecie bisogna altresì distinguere a seconda che la morte sia da attribuirsi, ovviamente sotto il profilo eziologico, alla patologia neoplastica (nel qual caso si può discutere della sussistenza del nesso di causa tra l'errore diagnostico ed il successivo decesso),

Oppure sia dipesa da altri eventi non imputabili all'operato dei sanitari (in questa ipotesi la selezione dei danni risarcibili diventa ancora più critica). Va poi considerato che diversi pOssono essere i soggetti legittimati attivi all'azione risarcitoria: non solo la vittima diretta dell'errore diagnostico, bensì anche i congiunti di questa, o perché la vittima primaria è deceduta a causa dell'omessa/errata diagnosi, oppure - nel caso in cui la vittima sia ancora in vita - in quanto si trovano a sopportare le conseguenze degli errori diagnostici, ad esempio sacrificando la propria esistenza per fornire un adeguato sostegno morale e materiale al malato.

Alle numerose variabili, soggettive ed oggettive, che si intersecano e sovrappongono in questo settore va peraltro aggiunto un ulteriore dato di decisivo rilievo: l'individuazione e la valutazione dei diversi pregiudizi, come si esaminerà nel prossimo paragrafo, è questione assai delicata e controversa già alla sua radice, e cioè in sede medico legale, laddove -per quanto è da trarre da giuristi -si registrano approcci metodologici fra loro diversissimi, oltre che una commistione tra danno biologico e danno da perdita di chances di vita (categorie giuridiche tra loro ben distinte). Da un lato vi è chi applica i canoni valutativi seguiti per la maggior parte delle altre menomazioni dell'integrità psico-fisica (danno biologico individuato in una percentuale sia pure flessi- bile ed indicativa(32)), dall'altro lato altri Autori -e nella pratica sembrerebbero costituire l'orientamento maggioritario

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-preferiscono un approccio medico legale che travalica la semplice indicazione percentuale(33).

Infine, se si tiene conto che la tutela risarcitoria delle vittime di eventi di danno quali quelli in esame deve confrontarsi con pregiudizi piuttosto particolari come le perdite di chances e i pregiudizi c.d. «esistenziali», emerge in tutta evidenza come in effetti la disamina dei danni risarcibili in questo settore non solo sia in tutto e per tutto complessa, ma si collochi altresì in un'area di frontiera della r .c.:

le menzionate figure di pregiudizio chiamano infatti in gioco categorie di danno che, pur non potendo più essere considerate delle novità essendo da tempo oggetto di dibattito e accolte dalla giurisprudenza(34), pongono tuttavia delle problematiche ulteriori rispetto all'ormai tradizionale categoria del danno biologico, risultando esse ancora in una fase di affinamento ed in un contesto evolutivo - quello dei danni non patrimoniali diversi dal danno biologico - non ancora giunto ad assetti definiti.

La scarsità di sentenze edite sul tema in esame rende ancora più evi- dente la piena collocazione delle tematiche risarcitorie in questione oltre i margini delle zone più note ed esplorate della r .c. medica: l'interprete si trova quindi a sviluppare ragionamenti sostanzialmente nuovi ed a costruire un sistema risarcitorio ad hoc inedito, che in quanto tale dovrà necessariamente passare al vaglio delle corti e trovare un'adeguata sperimentazione nella pratica, con un maggiore coordinamento tra medici legali, avvocati e magistrati.

Il danno da riduzione delle aspettative di vita e da perdita futura del bene vita

Al di là di ogni dubbio il primo e più grave danno, che una vittima di errori diagnostici del tipo in esame può patire, consiste nella riduzione di aspettative di vita (o perdita di chance di maggiore sopravvivenza(35)), che può anche arrivare a coincidere con la perdita della vita qualora una tempestiva diagnosi avrebbe potuto garantire, entro margini dotati di un elevato grado di certezza, una piena guarigione della vittima.

Ciò posto, con riferimento a questa particolare figura di pregiudizio si pongono essenzialmente tre problemi:

1) la perdita di chance di vita costituisce un danno risarcibile?

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2) se la risposta a questo quesito è positiva, entro quale categoria giuridica di danno è possibile ricondurre questa voce risarcitoria?

3) infine, come si può monetizzare siffatto pregiudizio?

A questi tre quesiti se ne devono poi aggiungere altri due: se una diagnosi corretta e tempestiva avrebbe potuto scongiurare alla radice l'evento morte, è risarcibile allora il c.d. «danno da perdita della vita»? nel caso si ritenesse fondata la risarcibilità di questo pregiudizio, quali sono i criteri di liquidazione applicabili?

In relazione al primo quesito, va qui rilevato come il tema del risarcimento del c.d. «danno da perdita di chances» non sia affatto nuovo agii interpreti italiani, essendo infatti stato oggetto di approfondimenti ed elaborazione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina. Si può anzi affermare che l'idea della risarcibilità del c.d. «danno da perdita di chances», che trova le sue origini oltralpe in Francia, sia ormai da considerarsi ius receptum anche nel nostro ordinamento. Tuttavia, va qui operata preliminarmente una precisazione:

giurisprudenza e dottrina italiane, salve rare occasioni(36), si sono occupate del tema con riferimento a settori della r.c. e pregiudizi nettamente diversi da quelli qui in esame, essendosi infatti concentrate sulla perdita di chances di conseguire utilità economicamente valutabili(37). La figura risarcitoria in questione ha in particolare trovato applicazione in riferimento alla per- dita della possibilità di conseguire vantaggi di tipo economico, come ad esempio l'ipotesi di illegittima esclusione da un concorso oppure il caso dell'impossibilità di partecipare ad una competizione sportiva. Il danno da perdita di chance è venuto così a svilupparsi in una dimensione essenzialmente patrimonialistica, concepito come una figura autonoma di danno, consistente, a grandi linee, nella perdita attuale e concreta di un miglioramento patrimoniale futuro e possibile(40). Parte della giurisprudenza ha altresì ritenuto che ai fini della dimostrazione di siffatta perdita patrimoniale sia sufficiente la prova che le possibilità di conseguire un determinato risultato (economicamente vantaggioso) erano, al tempo dell'evento lesivo, superiori al 50%(41).

Ciò premesso, si tratta qui di seguito di verificare se e come i principi elaborati nel contesto or ora menzionato siano applicabili anche al danno da perdita di chance di vita. Siffatto pregiudizio, in tutta evidenza, ha infatti radici nettamente diverse sotto il profilo dei beni, naturalisticamente e giuridicamente considerati,

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cui si riferisce: esso è non patrimoniale nel senso che la perdita in questione non è quella di utilità economicamente valutabili, bensì, in prima battuta, di beni che, toccando salute e vita, sfuggono per intero alle considerazioni tipiche dei danni patrimoniali. Orbene, proprio tale diversità ontologica rafforza le fondamenta della risarcibilità di questo danno: indubbiamente, anche la perdita di chances di vita può essere ritenuta risarcibile, poiché, se le chances possono rilevare in termini di danno (giuridico) quando rapportate al conseguimento di utilità economiche, a maggior ragione esse devono valere in riferimento alla perdita di possibilità di maggiore sopravvivenza dove, peraltro, sono in gioco beni di rilevanza costituzionale primaria (art. 2 e art. 32 Cost.).

La dottrina che si è espressa sul tema non sembra dubitare della risarcibilità del danno consistente nella riduzione delle aspettative di vita(42); allo stesso modo l'unico precedente edito che si è espresso specificatamente sul punto ha ritenuto pienamente risarcibile questa voce di danno(43).

Trattando del danno da perdita di chances economiche si è altresì accennato alla soglia del 50% che la Cassazione(44) avrebbe individuato come limite per la sua risarcibilità. Al riguardo si rilevi che sia il precedente del Tribunale di Monza in Grendene c. Sabini(45) che la dottrina or ora citata ritengono che sia pienamente risarcibile una perdita di chance di vita anche inferiore al 50%, tra l'altro adducendo a sostegno di ciò la diversità dei beni in gioco (da un lato utilità economiche, dall'altro lato la salute). In realtà che la soglia del 50% non possa applicarsi al caso di specie pare non solo giustificabile in considerazione della particolare va lenza bene leso(46), ma a partire dalla semplice constatazione che la percentuale di probabilità di maggiore sopravvivenza non dovrebbe incidere sulla risarcibilità del pregiudizio, bensì, semmai, sul quantum del danno. E cioè, una volta accettata l'idea che la chance di vita sia un bene oggetto di tutela risarcitoria, non ha senso limitarne la risarcibilità al di sotto di determinate soglie, poiché il pregiudizio risarcibile risiede tutto nella prova della sussistenza di una chance e non nella percentuale cui quest'ultima ammonta, la cui dimostrazione indica invece la sua gravità e sposta il quantum. Siffatta impostazione, etichettata come “strada della parcellizzazione”(47), si regge sulle regole, ben note al giurista, dettate per l'ipotesi del concorso tra fatto del danneggiante e fatto del danneggiato, per la fattispecie prevista per il concorso tra più danneggianti e, infine, per il concorso tra evento naturale e atto colposo: in queste ipotesi

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l'imputazione della responsabilità si gioca sull'incidenza parziale del fatto del danneggiante sulla produzione dell'evento lesivo, al quale, appunto, possono contribuire o altri danneggiati o (con)cause naturali (ivi compresi, ad esempio, preesistenti stati morbosi) o una condotta della stessa vittima. La responsabilità, all'interno di questi schemi di imputazione, viene attribuita e misurata sulla base della sua incidenza, e poco importa se essa sia minoritaria: l'autore del danno viene chiamato a rispondere dei pregiudizi proporzionalmente al suo contributo causale. Questi schemi di imputazione ben possono trovare applicazione alla perdita di chances poiché si ripete la stessa situazione delle fattispecie or ora citate:“il male ed i suoi sviluppi costituiscono il fortuito la forza maggiore; e la negligenza medica è il fattore che ne aggrava le conseguenze anche se in misura non concretamente ma solo ipoteticamente accertabile”(48). Come fondatamente osservato, “nei casi di negligenza medica la quale abbia aumentato il rischio di morte o lesione (o diminuito la probabilità di sopravvivenza o guarigione) sembra che debbano applicarsi i consolidati criteri di ripartizione dell'obbligazione risarcitoria quando i debitori non siano solidali oppure quando concorrano cause umane con cause naturali. Se si considera il fenomeno patologico come un tutt'uno si dovrà determinare la percentuale di incidenza della negligenza del sanitario e preso a parametro 100 il danno complessivo, il risarcimento corrisponderà ad una frazione pari alla probabilità che si è fatta venire meno”(49).

Risolta così la questione della risarcibilità del pregiudizio, si può ora scendere ad esaminare il secondo dei problemi sopra posti, e cioè quello della qualificazione giuridica del danno da perdita di possibilità di sopravvivenza.

Come si è sopra già posto in luce, si tratta in tutta evidenza di un pregiudizio la cui natura è non patrimoniale. La qualificazione del danno da perdita di chance di vita si gioca pertanto tutta all'interno delle diverse categorie che allo stato attuale si collocano nell'ambito del danno non patrimoniale: danno biologico, danno morale, danno esistenziale (50).

La sentenza del Tribunale di Monza in Grendene c. Sabini(51), che è poi l'unico precedente edito che -a quanto consta -ha liquidato in concreto siffatto danno, ha qualificato la perdita di anni di sopravvivenza come danno biologico (52). Tale qualificazione la si riscontra altresì in medicina legale(53), sebbene -ciò va debitamente precisato - un conto è una categoria di danno medico legale, ben

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altra questione è una categoria giuridica: non necessariamente, infatti, l'etichetta che si utilizza in ambito medico legale deve poi essere accolta in diritto, dove le categorie di danno assumono diversa valenza.

La riconduzione del danno in questione al danno biologico non è sicuramente esente da problemi. Questi sorgono soprattutto dalla definizione che il legislatore ha dato di quest'ultima figura risarcitoria con riferimento alle c.d. «lesioni di lieve entità» da circolazione stradale: “per danno biologico si intende la lesione all'integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico- legale” (legge 5 marzo 2001 n. 57, art. S, 30 comma). Il riferimento al presupposto dell' «accertamento» potrebbe infatti porre qualche problema in relazione alla risarcibilità del danno in questione: in particolare, vi è da chiedersi se nel caso di chances perdute di vita, individuate secondo modelli probabilistici, si possa parlare effettivamente di un loro “accertamento medico legale” e quindi, in definitiva, della sussistenza di un danno biologico. Si deve però al contempo rilevare che lo stesso legislatore, bontà sua, ha consegnato agli interpreti, in sede di riforma del sistema indennitario dell'INAIL, anche un'altra definizione di danno biologico(54): “la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona” (art. 13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000 n. 38)(55). In questo caso il presupposto non è l'accertamento bensì la “valutazione” medico legale. Si aggiunga a ciò che la Tabella delle menomazioni, prevista dall'art. 13 del decreto legislativo n. 38/2000 e contenuta nel d.m. 12 luglio 2000(56), indica dei criteri di valutazione proprio per il danno in esame (in particolare si confrontino le menomazioni di cui ai numeri 133, 134 e 135 della Tabella). In questo ambito, dunque, non dovrebbero porsi particolari problemi nell'etichettare come danno biologico il danno da perdita di chances di vita, posto ovviamente che si condivida l'approccio valutativo seguito nel d.m. 12 luglio 2000, anche se su questo versante va segnalato che, piaccia o meno, trattasi dell'unico baréme avente valore di legge.

Accanto alla soluzione di inquadrare il danno da perdita di chances come danno biologico si prospetta poi quella alternativa del danno esistenziale(57). La giurisprudenza tende a ricondurre entro questa categoria “tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgi- mento della propria vita lavorativa)”(58). Del resto, la stessa

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medicina legale(59) ha dato atto -non senza preoccupazione per “il trabocco del danno biologico in forme particolarmente sfuggenti di danno alla salute determinando contestazioni in ordine alle competenze del medico legale in materia di stima di danno alla persona globalmente considerato” -che nelle diverse fatti specie di errata diagnosi di patologie neo- plastiche “il danno alla salute è di entità tale da andare ben oltre al di là delle conseguenze ordinarie delle menomazioni dell'integrità psico-fisica e cioè del danno biologico”: “infatti per pazienti neoplastici non è sufficiente constatare la perdita di quelle utilità che consentono un'esistenza ordinaria, ma bisogna considerare la compromissione fino alla perdita di molte o tutte le chance (dall'ordinaria qualità della vita sino a quella della stessa permanenza in vita) che l'esistenza stessa avrebbe plausibilmente consentito”, cosicché “la valutazione medico- legale ...può significare apertura al danno esistenziale”. Al di là delle preoccupazioni che può suscitare nel medico legale tale qualificazione - preoccupazioni che nel caso di specie sono sostanzialmente ingiustificate poiché il medico legale (e lo specialista oncologo cui si rivolga) rimane l'unico soggetto in grado di individuare la sussistenza della perdita di chance di vita e di offrire una quantificazione del pregiudizio in questione (ciò a prescindere dalla circostanza che il danno in questione sia biologico oppure esistenziale), va osservato che certamente la categoria del danno esistenziale potrebbe accogliere la perdita di chances in esame. Tuttavia, un conto è una chance di maggiore sopravvivenza, altro conto è quel peggioramento delle qualità di vita che segue all'errore diagnostico e che può anche prescindere dall'accertamento di una perdita di chance. Potrebbe infatti ben accadere che l'errore diagnostico non privi il paziente di chance di vita, ma semplicemente peggiori la sua esistenza per una miriade di fattori che vanno dal doversi sottoporre ad interventi più invasivi al gravare maggiormente sui propri famigliari. In breve, pare che il danno esistenziale possa ritagliarsi un suo preciso spazio con riferimento al peggioramento della qualità della vita piuttosto che in relazione al danno da perdita di chances di vita, a meno che la privazione delle chances si giochi non già sul versante quoad vitam, bensì sotto il profilo quoad valetudinem (e cioè di vita libera da malattia).

Quanto alla riconducibilità delle perdite di chances al danno morale si può qui osservare che, per svariate ragioni, risulta preferibile evitare siffatta soluzione: al

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di là dell'attuale ambiguità che contraddistingue tale figura e delle questioni che potrebbero sorgere dalla diversa disciplina cui tradizionalmente esso si riconduce (art. 2059 c.c.), ciò che più rileva è che, dal punto di vista contenutistico, si tratta comunque di una categoria che risulta più adatta ad offrire una collocazione risarcitoria alle sofferenze, ai dolori ed ai patimenti sofferti dalla vittima ad esempio a causa di trattamenti medici più invasivi oppure per la consapevolezza di avere subito una negligenza medica così grave.

Le considerazioni finora svolte mostrano come sia invero difficile individuare una collocazione ad hoc per il danno da perdita di chances all'interno delle categorie sopra esaminate: per ogni qualificazione vi sono dei pro e dei contro, e certo non si intravedono soluzioni sulle quali vi possa essere pieno accordo da parte degli interpreti. Ecco allora che, al di là delle varie etichette che si possono applicare, forse la soluzione più pratica e che chiude ogni ulteriore disquisizione meramente nominalistica è quella di utilizzare l'etichetta che meglio descrive il danno in questione in quanto non richiede alcun passaggio dal pregiudizio, naturalisticamente inteso, alla categoria descrittiva dello stesso: “danno da perdita di chance di vita”, sic et simpliciter.

E cioè la perdita di chances di vita entra in gioco come categoria autonoma, alla quale, a seconda dei casi, si affiancano le altre voci di danno di cui si dirà nei prossimi paragrafi.

Ciò posto, per la dimostrazione e quantificazione di questo tipo di pregiudizio il punto di partenza, come già si è avuto occasione di osservare, è inevitabilmente quello del contributo offerto medico legale (e dallo specialista), poiché si tratta di acquisire dati, che hanno base squisitamente scientifica, e di compiere delle valutazioni che certo sono di stretta competenza di medici legali e specialisti.

Solo questi ultimi due soggetti sono nelle condizioni di affermare se effettivamente la vittima abbia subito un pregiudizio di questo genere e di fornire dei parametri per valutarne, sia pure in via indicativa e probabilistica, Il l'entità.

In tutta evidenza il problema della individuazione e della valutazione i medico legale di questo pregiudizio è, come si è già posto in luce, particolarmente complesso: quanto sopra riportato relativamente al nesso causale dimostra ampiamente come sia difficile giungere, in sede medico-legale, a delle indicazioni sufficientemente precise ed univoche. Sia sufficiente a questo proposito, rinviando per ogni altra considerazione allo scritto qui pubblicato di

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Sergio Bonziglia, citare in : questa sede quanto si trova affermato da parte di autorevole medicina legale: “la complessità del problema valutativo attualmente non consente di fornire indicazioni corrispondenti ai canoni seguiti per gran parte delle altre menomazioni”(60).

Resta tuttavia fermo il fatto che l'avvocato e il giudice necessitano di ricevere delle indicazioni dal medico legale o dallo specialista oncologo, poiché certo non se le possono inventare: per il risarcimento del danno in questione è cioè necessario che la perdita di chances sia in qualche modo individuata attraverso dei parametri che permettano di costruire successivamente il quantum in valori monetari.

A questo punto sorge però un problema non da poco. Infatti, per quanto è dato constatare dalla medicina legale sono sostanzialmente due gli approcci valutativi:

il primo è quello che, partendo dall'impossibilità di fare ricorso ai criteri consueti, individua un x% di probabilità di sopravvivere alla malattia oppure in x anni probabili di vita in più od ancora in x% di probabilità vivere x anni in più, distinguendo poi se si tratti di anni liberi da malattia oppure anni che sarebbe stato comunque vissuti in malattia ma in condizioni sufficientemente buone; il secondo è quello che è ricavabile dal d.m. 12 luglio 2000, in cui vengono individuate alcune patologie neoplastiche e quindi valutate in termini percentuali secondo un metodo del tutto coincidente con il metodo utilizzato per tutte le altre tipologie di danno biologico, salvo poi nella pratica delle correzioni in base al quantum di chances perdute. Ad esempio, le “neoplasie maligne che non si giovano di trattamento medico e/o chirurgico ai fini di una prognosi quad vitam superiore a 5 anni; i pazienti richiedono speciali cure ed assistenza, sono sostanzialmente abili allo svolgimento delle necessità primarie ed agli atti del vivere comune” (voce 134) viene valutata “fino a” 60%. Si tratta, in tutta evidenza, di metodi valutativi radicalmente diversi tra loro, cosicché, ai fini della quantificazione del danno qui in esame, occorre pertanto distinguere a seconda delle valutazioni che caso per caso vengono fornite dal consulente, e cioè non è dato oggi applicare un solo modello di liquidazione valido per tutte le ipotesi.

Nel caso in cui il medico legale indichi solamente, in termini percentuali, le possibilità di sopravvivenza del soggetto, la quantificazione del danno non potrà che seguire una sua strada autonoma rispetto a quanto avviene normalmente per il danno biologico.

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Un esempio di come si possa procedere al calcolo del danno da per- dita di chances è offerto dal Tribunale di Monza in Grendene e Sabini c. Milani(61), a quanto consta unica sentenza ad essersi occupata espressamente della questione:

“secondo criteri valutativi tabellari di fonte giurisprudenziali correntemente applicati e perciò assunti a diritto vivente, il valore uomo di una persona avente 75 anni di età è misurabile in L. 693 milioni (corrispondenti alla quantificazione di una lesione che abbia prodotto una diminuzione del 100% della sua validità biologica), Questo valore, diviso per 75 (anni), dà la misura del valore uomo per ogni anno di sopravvivenza; moltiplicandolo per cinque (anni) si ha la misura, pari a L. 46.200.000, della perdita di sopravvivenza (per cinque anni di vita)”(62). Il Tribunale, che interveniva a seguito di condanna penale che aveva ritenuto responsabile il sanitario per la morte del paziente, ha altresì aggiunto che, se in ipote- si il giudice penale non avesse ritenuto il nesso causale tra l'errore diagnostico e l'evento morte, si sarebbe dovuto (“sul piano meramente civilistico”) diminuire il danno, individuato in L. 46.200.000 (23.860,31 euro), del 70% “in considerazione del fatto che appunto non di perdita certa di sopravvivenza si trattava ma della perdita della possibilità di sopravvivenza, ricorrente nel 30% dei casi, in capo a persona già entrata nel processo di morte”(63). Del tutto evidente, dunque, come nel caso di specie abbia giocato un ruolo essenziale l'avvenuto accertamento in sede penale del reato di omicidio colposo, con conseguente individuazione del nesso di causa tra condotta omissiva del sanitario e morte del soggetto.

La pratica insegna tuttavia che, all'interno del primo approccio valutativo, le indicazioni che provengono dal medico legale si diversificano sensibilmente a seconda dei casi, cosicché si possono altresì ipotizzare altri metodi di quantificazione del danno. Ad esempio, può verificarsi che il medico legale, a fronte di ritardi diagnostici superiori ai sei mesi, indichi un peggioramento prognostico valutabile in una data percentuale al mese (ad esempio, 0,4%) ed individui in un numero x di mesi (superiore a sei mesi) il ritardo diagnostico. Su questa base è dato giungere ad un x% per quanto attiene alle possibilità di sopravvivenza, riducendo il ritardo le chances dell'attività chirurgica (ad esempio, si ponga che siano 30 i mesi cui ammonta il ritardo diagnostico: siffatto periodo inutilmente intercorso ha aumentato la possibilità di disseminazione del tumore di 0,4% x 30 = 12%). A questo punto si tratta essenzialmente di andare ad

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individuare, in termini probabilistici e in via ovviamente indicativa, quanti anni di vita la vittima aveva come prospettiva di vita: ciò significa individuare la vita media del soggetto in base al sesso (in base ai dati ISTAT per gli uomini è fissata in 75 anni, mentre per le donne in 82 anni) e sottrarre a questo gli anni già vissuti, individuando quindi l'aspettativa di vita residua. Questo parametro va poi confrontato con i dati or ora evidenziati: ad esempio, se la vittima è un uomo di 45 anni con aspettative di vita media di 75 anni, ha dinanzi a sé una vita residua di 30 anni, diminuita del12%, e pertanto le chances di esistenza perduta ammontano a più di tre anni, più precisamente 1.314 giorni (30 anni x 12% = 3,6 anni; 3,6 anni x 365 giorni = 1.314). A questo punto per la monetizzazione del danno si tratta di individuare, in via equitativa, una somma giornaliera che dipenderà da una moltitudine di altri fattori, tra i quali anche la circostanza se si sarebbe trattato o meno di vita libera da malattia (e quindi perdita di chance non solo quad vitam ma anche quad valetudinem). Si ponga come somma minima, soggetta comunque ad adeguamenti in via indicativa, la somma di 50 euro al giorno, che corrisponde grosso modo al quantum normalmente individuato per l'invalidità temporanea totale, posto comunque che andrebbe attribuito un certo qual rilievo alla circostanza che un conto è stare male e ritornare poi ad una vita normale, ben altra questione è la perdita totale di godere di un giorno di vita sia pure in condizioni di invalidità totale. Orbene, la somma da corrispondersi, nell'esempio prospettato, i sarà dunque di 65.700,00 euro (50 euro x 1.314 giorni).

Può altresì verificarsi che sia individuata dal medico legale solo una percentuale di chances di maggiore sopravvivenza senza indicazione del numero di anni presumibilmente persi. In questa ipotesi la quantificazione del danno potrebbe assumere come parametro base il quantum, che verrebbe liquidato alla vittima a fronte di un 100% di invalidità permanente, diminuito proporzionalmente alla percentuale cui ammontano le chances andate perse, fatte salve eventuali ulteriori riduzioni in via equitativa a seconda di eventuali altri fattori (altre patologie in corso, ecc.).

Radicalmente diverso è il caso in cui il danno in questione sia calcolato assumendo come parametri indicativi quelli di cui oggi al d.m., 12 luglio 2000: in questa ipotesi il danno in questione verrà monetizzato l'esattamente come un qualsiasi altro danno biologico. Si tenga tuttavia 1 presente che in questo caso il

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quantum risulta non solo corrispondente a delle perdite di chances, bensì ad altri fattori che nelle soluzioni precedenti dovrebbero trovare diversa collocazione risarcitoria: infatti, in siffatta ipotesi, per quanto è dato ricavare dalla medicina legale(64), la percentuale di invalidità non è data solo dall'aspettativa (persa) di sopravvivenza “libera da eventi annullanti il bene salute anche 5010 in via temporanea”, bensì anche da altri due “fattori invalidanti”: da un lato il grado di disabilità indotto dal processo neoplastico, dall'altro lato l'efficacia del trattamento e le caratteristiche di questo (ad esempio se locale o generale, se palliativo o radicale).

In considerazione di quanto finora rilevato emerge dunque come il quantum del danno da perdita di chances di vita vari notevolmente a seconda dell'impostazione seguita dal medico legale e dunque delle indicazioni valutative sulle quali avvocati e giudici si trovano a lavorare(65).

Risulta pertanto chiaro come allo stato attuale non sia possibile fornire principi univoci per la quantificazione del danno da perdita di possibilità di sopravvivenza: per l'avvocato che assiste la vittima e per il giudice che interviene a mettere l'ultima parola in ordine alla correttezza del quantum individuato da chi agisce in giudizio si tratta pertanto di andare a sviluppare ragionamenti logico- giuridici che risulteranno sostanzialmente diversi a seconda dei dati che provengono dal medico legale e dallo specialista, con un approccio che allo stato attuale deve necessariamente variare caso per caso.

In una prospettiva futura non vi è tuttavia ombra di dubbio che il sistema vada razionalizzato alla radice e, soprattutto, debba in qualche modo risolversi l'attuale assenza di specularità tra il danno da aspettativa di vita così come concepito in medicina legale (in cui vi può esse- re una commistione tra danno biologico e danno da privazione di possibilità di maggiore sopravvivenza) ed il danno (giuridico) da perdita di chance di vita. Tale processo di razionalizzazione -dal punto di vista delle esigenze del sistema risarcitorio -dovrebbe passare attraverso una distinzione netta ed inequivocabile tra perdite di chances di vita e gli altri danni, a partire da quello biologico: impostazione su cui si dovrebbe plasmare il contributo del medico legale.

Rimane comunque ferma la necessità di attribuire in via equitativa la giusta rilevanza alla perdita di un bene così fondamentale qual la vita.

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Diverso è il discorso nel caso in cui il medico legale indichi che un tempestiva o corretta diagnosi avrebbe permesso una guarigione completa dalla malattia: in questa ipotesi la vittima ha perso chances di vita corrispondenti al 100% di tutte le sue aspettative, e dunque il danno -sicuramente risarcibile poiché una diversa soluzione sarebbe del tutto ingiustificata -dovrebbe coincidere con il quantum che le corti, favorevoli al risarcimento del c.d. «danno da perdita della vita», sono solite riconoscere a tale titolo. Sulla monetizzazione dell'ultima voce risarcitoria va in particolar modo osservato che la giurisprudenza tende ad assumere come parametro di riferimento il valore del danno biologico cui la vittima avrebbe diritto se avesse riportato il 100% di invalidità permanente, con una diminuzione di detto valore in considerazione dell'età della vittima e delle aspettative di vita della stessa.

Danni da peggioramento della salute e della qualità della vita

Accanto alle eventuali perdite di chances di vita, va qui rilevato come l'errore diagnostico possa sicuramente rendere più gravosa la vita residua sia sotto il profilo delle condizioni di salute (anche psichiche) e sia sul versante più ampio della personalità del soggetto, il quale si ritrova la sua esistenza interamente stravolta. Le conseguenze derivanti dal peggioramento della vita possono essere inquadrate sotto più voci risarcitorie, ivi compreso il danno esistenziale, soprattutto laddove non si ritenga ravvisabile il danno biologico così come definito oggi dalla legge.

Va altresì osservato che i danni (biologici, morali, esistenziali, patrimoniali) da peggioramento della salute e, più in generale, dell'esistenza della vittima dell'errore diagnostico possono, allo stato attuale, alternativamente:

• affiancarsi al danno da perdita di chances quali ulteriori voci risarcitorie;

• ricomprendere il danno da perdita di chances (ad esempio, quando non siano individuabili con precisione le chances perdute o vengano applicati i criteri di valutazione di cui al d.m., 12 luglio 2000)(68);

• coincidere con il danno da perdita di chances: quest'ultima ipotesi si registra quando la perdita di chances non consiste nella privazione di anni di vita (quoad vitam), ma di vita libera da malattia (perdita di chances quoad valetudinem).

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Ciò premesso, la decisione del Tribunale di Monza in Riboldi c. U.S.L. n. 28 Vimercate(69) appare decisamente interessante per meglio comprendere quali possano essere le voci risarcitorie qui in questione e quali siano i loro rispettivi contenuti. In detto precedente, infatti, si è dato luogo al risarcimento dei seguenti danni: 1) “danno biologico ed alla

vita di relazione”: il Tribunale ha liquidato, con un approccio equitativo puro, a questo titolo la somma, richiesta dall'attrice, di lire 240 milioni attribuendo rilevanza, per la loro enorme incidenza nella sfera biologica e relazionale della vittima, alla sua “sottoposizione ad un secondo intervento chirurgico molto più radicale di mastectomia”, alla “indiscutibile notevole incidenza, su di una giovane donna (di soli 34 anni all'epoca dei fatti) di tale più invasivo intervento, sia in termini di menomazione biologica, sia in termini di pregiudizio estetico e relazionale (essendo, per di più, notoria l'attenzione delle più recenti tecniche chirurgiche, ove tempestive, ad infliggere menomazioni il più possibile limitate all'apparato mammario femminile)”, alla “altrettanto indiscutibile incidenza, sia in termini di menomazione biologica temporanea che di danno biologico permanente dei trattamenti chemioterapici pre e post operatori determinati dal ritardo diagnostico”, alla “parimenti non eludibile soggezione dell'attrice a probabili recidive locali o metastatiche”; 2) “danno morale”: il Tribunale, ritenuto astrattamente ravvisabile il reato di lesioni personali colpose (gravissime o, quantomeno, gravi), ha ritenuto di liquidare altresì la somma di lire 200 milioni (nella misura richiesta dall'attrice) a titolo di danno morale, comprensivo, sotto il profilo dei suoi contenuti, sia del “notevole riflesso (in termini di sofferenza psico-fisica) delle menomazioni aggiuntive inferte dal tardivo secondo intervento chirurgico, della necessità di sottoporsi a trattamenti chemioterapici pre e post operatori, del pregiudizio estetico arrecato ad un apparato non secondario per una completa e piena affermazione della propria femminilità”, e sia al perturbamento morale e psichico (“ reputa questo Giudice che, ancor più marcatamente, debbano essere messe nel conto del danno morale le ansie, le sofferenze, le angosce inevitabilmente derivanti all'attrice per effetto delle (purtroppo) aumentate possibilità di recidiva locale e metastica”(70)).

La soluzione del Tribunale di Monza è stata dunque quella di distinguere tra due voci risarcitorie: da un lato il danno biologico, dall'altro lato il danno morale. Si osservi in particolare che il danno biologico assume nella sentenza dei contenuti

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