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IPOTESI DI ERRORI DIAGNOSTICI IN TIPOLOGIE DI CASI CLINICI AFFERENTI ALL’AMBITO MEDICO LEGALE I.N.P.S.: ASPETTI GIURIDICI, CLINICI E METODOLOGICI

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IPOTESI DI ERRORI DIAGNOSTICI IN TIPOLOGIE DI CASI CLINICI AFFERENTI ALL’AMBITO MEDICO LEGALE I.N.P.S.:

ASPETTI GIURIDICI, CLINICI E METODOLOGICI

Dr. Angelo Porrone - Dr. Federico Cattani∗∗

Riassunto

Gli autori cercano di affrontare, in questa sede, il complesso problema delle più frequenti confusioni diagnostiche che, talora, è possibile accertare in tipologie di casi clinici giunti all’osservazione del medico legale I.N.P.S., con i potenziali riflessi sulla eventuale responsabilità professionale degli operatori sanitari, teoricamente coinvolti, che, ipoteticamente, ne potrebbe conseguire.

Tutto ciò viene verificato, prevalentemente, sotto l’angolo visuale epidemiologico dei casi, non necessariamente già trattati in ambito civilistico o penalistico, ma che sembrano, pur tuttavia, maggiormente riscontrarsi nel corso della fase di accertamento medico legale previdenziale I.N.P.S., in rapporto, specialmente, alle possibili eventuali differenti conclusioni diagnostico- valutative che possono all’uopo formularsi, sulla scorta di una ponderata indagine clinico- anamnestica e strumentale dei casi medesimi esperibili, confrontati, nel merito, con i più aggiornati protocolli settoriali specialistici e nel concetto di un’approfondita disamina critica del, talvolta, corposo e circostanziato materiale documentale a disposizione e degli elementi obiettivi e deduttivi che dalle risultanze della visita stessa, spesso, facilmente, sembrano emergere.

Da ciò deriva un quadro articolato di osservazioni e di proposte che sembrano esaltare il ruolo essenziale del medico esaminatore dell’I.N.P.S., in particolare, e, più in generale, del medico legale accertatore e valutatore in qualsiasi ambito, per la capacità intrinseca di valorizzare ed analizzare criticamente tutti gli elementi conoscitivi del caso, a disposizione, con applicazione puntuale e rigorosa della criteriologia d’indagine propria del metodo medico legale, non escluso

Dirigente medico legale 2° livello - Centro Medico Legale I.N.P.S., Frosinone

∗∗ Dirigente medico legale 2° livello -Coordinatore Centrale Area delle Invalidità– Direzione Generale I.N.P.S., Roma

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quella che fa ricorso alla dimostrazione del nesso di causalità materiale, non solo e non tanto per la verifica di una eventuale condotta medica colposa, ma anche e soprattutto per attualizzare e confermare, ovvero per rigettare, ipotesi diagnostiche non sufficientemente suffragate e confortate da elementi clinici obiettivi e da dati strumentali attendibili, in quanto gravati da un elevato numero di falsi positivi o negativi, quindi, non altrettanto facilmente collegabili e riconducibili alle patologie medesime, spesso, impropriamente, evocate.

Il lavoro è, pertanto, finalizzato piuttosto alla verifica dei casi in senso diagnostico differenziale e trae spunto dall’osservazione clinica per cercare di meglio individuare dei validi protocolli accertativi e valutativi, in senso lato, e, altresì, per focalizzare taluni aspetti ricorrenti sintomatologici e diagnostici, molto utili anche sotto il profilo prognostico e con nette ricadute, quindi, sul giudizio finale stilabile, all’uopo, da parte dei sanitari dell’I.N.P.S. impegnati nell’attività quotidiana medico legale previdenziale.

Fra i criteri medico legali principali, atti a dimostrare l’esistenza del nesso di causalità materiale, fra malattia-evento lesivo e invalidità, quello cronologico, oltre agli altri ben noti qualitativo, quantitativo e modale, ecc., pare assumere, ai fini di una retta classificazione e catalogazione dei fenomeni patologici, una netta preponderanza ai fini documentali ed accertativi clinico-diagnostici previdenziali, ma anche quello di sede e di continuità fenomenica paiono ergersi a parametri valutativi di sempre maggiore interesse e importanza, in quanto consentono, con sempre maggiore frequenza, di focalizzare al meglio ed inquadrare, in modo esemplare, aspetti conoscitivi di carattere nosografico e diagnostico di enorme rilevanza pratica, ai fini obiettivi classificatori, e, al tempo stesso, quindi, di grande ricaduta clinico-prognostica, in relazione alla formulazione di un equo e ponderato giudizio valutativo, in senso stretto, in base al disposto degli artt. 1 e 2 della Legge 222/84.

Una ricca disamina di casi, raggruppati per capitoli di patologie, specie per quelle di maggiore rilevanza epidemiologica e medico legale, fa da sfondo all’approfondimento dell’argomento, pur non sviluppato in modo del tutto esaustivo, nei limiti del lavoro scientifico svolto, da ritenersi, comunque, un’autentica novità nel già variegato panorama della medicina legale clinica, e costituendo, l’argomento affrontato, una materia meritevole sicuramente di specifico studio e di appropriata valorizzazione proprio per l’importanza dei contenuti proposti, tutti inerenti quadri morbosi di eccezionale rilevanza pratica e di notevole costo sociale, svariando i temi in discussione, nel più ampio spettro, in generale, della medicina interna, ossia, ad es., dalle grosse

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affezioni dermatologiche a quelle gastroenterologiche, dalle cardiopatie alle malattie del collagene e a quelle neurologiche, ecc..

Ci si è, pertanto, soffermati ad affrontare gli spinosi problemi posti in essere sia sotto il profilo della sistematicità e della categorizzazione degli elementi di cognizione, in relazione all’approccio metodologico e statistico-descrittivo, in senso lato, proposto, sia sotto l’aspetto della risonanza critica e delle linee guida, da utilizzarsi, all’uopo, nell’ottica dell’ottimizzazione dell’operatività dei cultori delle discipline medico-giuridiche applicative e delle scienze mediche settoriali ed interdisciplinari.

Aspetti giuridici inerenti la responsabilità professionale medica

Il problema della responsabilità professionale medica va valutato sia sotto il profilo giuridico che metodologico medico legale, con particolare riferimento all’errore di tipo omissivo, ossia quello maggiormente ricorrente e più difficile da dimostrare, sotto il profilo della causalità materiale.

Oggettivazione del danno, responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, verifica dell’esistenza di una eventuale “sindrome a ponte”, atta a dimostrare l’evoluzione della concatenazione causale, relazione fra colpa professionale medica e dimostrazione del nesso di causalità materiale, ossia fra danno riportato e condotta medica commissiva od omissiva eventualmente verificatasi, nella singola circostanza, costituiscono altri fondamentali e peculiari aspetti del problema dibattuto, della responsabilità professionale medica, dei quali va sottolineato l’intrinseco valore, pur nelle difficoltà applicative in ambito periziale, laddove se ne voglia documentare e dimostrare l’evidenza.

E’ noto che la nozione comune di danno alla persona è da ritenersi come collegata ad una

“modificazione peggiorativa del modo di essere della persona considerata come entità somatopsichica”, ossia relazionata al concetto di nocumento, pregiudizio, svantaggio, con un’alterazione apprezzabile intervenuta nell’individuo rispetto ad una situazione antecedente, e consiste, altresì, nel passaggio dalla salute alla malattia, ovvero, nell’aggravamento di un fatto patologico preesistente.

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La modificazione peggiorativa assume un valore medico legale quando ad essa si collega, concretamente, un fatto o un effetto giuridicamente rilevante, per cui il danno alla persona consta di due componenti:

1. Un danno biologico, o materiale, rappresentato dall’alterazione di ordine fisico o psichico dell’organismo, ossia una modificazione peggiorativa dello stato anteriore della persona;

2. Un danno “ingiusto”, ossia un danno patito “cum injuria”, ovvero un danno giuridico in quanto tale, quindi sofferto in quanto l’autore dello stesso ha agito infrangendo, “contra legem”, delle norme giuridiche codificate rivolte al mantenimento e alla tutela di beni o interessi della persona, garantiti giuridicamente dalla legge, per cui il pregiudizio dei suddetti beni o interessi tutelati suscita una reazione dell’ordinamento legislativo, rivolta alla riparazione del danno.

Il danno alla persona, considerato nella sua componente biologica, è costituito da tre fattori che rappresentano i cosiddetti determinanti del danno, uniti dal rapporto eziologico e dalla progressione e consequenzialità cronologica che sono, nell’ordine, l’azione lesiva, la lesione e la menomazione.

Volendo classificare il danno, oltre ché in rapporto alla sua temporaneità o permanenza, è possibile suddividerlo, concettualmente in:

• Danno attuale, ossia emergente, presente, al momento della valutazione, tanto sotto il profilo biologico dell’obiettività clinica che sotto quello del pregiudizio dell’interesse giuridico;

• Danno potenziale, ossia che per realizzarsi ha bisogno, nel tempo, che si realizzino determinate condizioni tali da renderlo attuale, ad es., aspetti disfunzionali, che in ragione dell’età della persona offesa, possono concretizzarsi solo allorché una determinata funzione lesa avrebbe avuto modo di esplicarsi, ad una certa età, ovvero manifestarsi al ricorrere di una certa esigenza sociale o relazionale, nel tempo;

• Danno futuro, che è quello che non si è ancora realizzato ma che è prevedibile, con certezza, ovvero con grande probabilità, che si realizzerà in avvenire nonostante le cautele o le cure, potendo lo stesso danno essere configurato nelle seguenti fattispecie di ipotesi che ricorrano:

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1. Quando, in ragione del danno subito, si sia verificata una malattia che abbia un carattere sicuramente inarrestabile e un decorso progressivo, ad es., una determinata malattia neoplastica metastatizzata in cui sia effettivamente ed obiettivamente impossibile ottenere la guarigione clinica, per cui l’exitus sia certamente prevedibile in tempi brevi o medi;

2. Quando sia da ritenersi certo o altamente probabile che si determinerà un aggravamento dei postumi in atto, la cui natura ingravescente sia attestata e avvalorata dalla comune esperienza clinica, come nel caso di effetti stocastici successivi ad una irradiazione occasionale ad certa dose di raggi x che sicuramente avranno modo di realizzarsi in tempi successivi o di certe patologie secondarie post traumatiche che avranno modo altrettanto inderogabilmente di realizzarsi nel tempo, in base a certe condizioni già realizzatesi dei postumi in atto;

3. Quando sia oggettivamente impedito al soggetto, in virtù delle proprie menomazioni, di affrontare nuove necessità lavorative, specie in particolari attività specialistiche settoriali;

4. Quando in rapporto alle proprie menomazioni al soggetto siano limitati o preclusi miglioramenti economici o di carriera, nell’ambito dell’attività abituale intrapresa;

• Danno aleatorio, che è solo possibile ma incerto a verificarsi, anche se sussistono le condizioni e le cause che, ipoteticamente, lo fanno presumere, quindi imponderabile e anche, non risarcibile, a differenza degli altri tre danni predetti che, invece, sicuramente sono da risarcire.

Riguardo all’accertamento del danno, va sottolineato che è indispensabile seguire i canoni della metodologia medico legale con un’indagine diretta a conoscere:

1. La realtà del danno, ossia o la constatazione obiettiva della lesione da parte dell’esaminatore, oppure la conferma delle circostanze e delle cause addotte dal periziando, in quanto da ritenersi responsabili del fatto lesivo; occorre, in ogni caso, obiettivare il danno e verificare se non possa essere interpretato come derivante eziologicamente da altra causa, ovvero in che misura ed entità esista e le cause verificabili che lo possono avere determinato, in rapporto all’anamnesi e alle caratteristiche intrinseche della storia naturale della malattia realizzatasi, anche con l’aiuto della verifica di aspetti clinici peculiari ed integrazione con le risultanze dei documenti esibiti e degli esami strumentali svolti;

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2. Le cause del danno che possono dipendere da fatti naturali oppure da azioni od omissioni umane;

3. La natura del danno che si acquisisce direttamente dai caratteri clinici ed anatomopatologici dello stesso, in rapporto alla sede, all’estensione, alla gravità e alla durata degli esiti della lesione;

4. L’entità del danno, che è collegata direttamente alla natura clinica delle lesioni e alle sue conseguenze menomative;

5. Le conseguenze del danno che risultano dall’analisi di una serie di elementi convergenti che riguardano la lesione e la menomazione, con la loro intrinseca dannosità; vanno rapportate allo stato anteriore del soggetto, più o meno integro o compromesso, ovvero al carattere temporaneo o permanente degli effetti dannosi, anche in relazione a tutti gli altri fattori in precedenza mensionati; si distingue, in tal guisa, un danno-evento, inerente la lesione dell’integrità psicofisica del soggetto da un danno-conseguenza che pertiene l’incidenza sull’attività professionale del danneggiato;

6. Le ripercussioni giuridiche del danno, in cui è necessario distinguere il fatto lesivo, considerato come pura compromissione fisica e psichica della persona, dal fatto dannoso che implica le conseguenze giuridicamente rilevanti del processo morboso instauratosi e che, quindi, costituisce il risultato ultimo dell’evento, al quale il diritto collega la sanzione o la riparazione;

7. L’evoluzione del danno, in senso prognostico, suscettibile di a) permanenza, per tutte le malattie croniche o stabilizzate, o per perdite di arti, sensi o di organi, ovvero per ogni altra condizione morbosa che tenda a radicarsi nell’organismo con carattere di stabilità e di durata, di cui non si possa prevedere la cessazione; b) il miglioramento, per la scomparsa o l’attenuazione della menomazione somatopsichica, anche mediante cure appropriate, ripristinandosi in tutto o in parte l’integrità della persona; c) l’aggravamento del danno, che consiste nel rapido o progressivo peggioramento di una malattia in atto o di un suo reliquato permanente, potendo essere l’aggravamento di tipo anatomico, funzionale o anatomofunzionale, a seconda che la situazione del quadro patologico riguardi la componente anatomica, funzionale o entrambe; per ammettere qualsiasi tipo di aggravamento è necessario conoscere con esattezza e completezza le condizioni preesistenti, non potendosi intuitivamente, altrimenti, effettuare un debito paragone;

l’aggravamento può verificarsi per peggioramento intrinseco della malattia o del postumo permanente, ovvero per concorrenza di altra patologia consensuale sullo stesso organo od

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apparato, con intensificazione delle manifestazioni sintomatologiche e cliniche del soggetto a carattere, a loro volta, di temporaneità o di durevolezza.

Ritornando la discorso della responsabilità professionale medica, dovendosi dimostrare che esiste un rapporto di causalità materiale fra condotta medica colposa e danno prodotto, appare quanto mai opportuno sottolineare cosa è, in effetti il rapporto di causalità.

Il rapporto di causalità materiale, fisica od oggettiva, in ambito giuridico e medico legale è il nesso che intercorre fra due fenomeni per cui l’uno assume la qualità di causa e l’altro quello di effetto, e la cui dimostrazione dell’esistenza assume un significato tutto particolare proprio nel campo della Medicina e del Diritto.

Infatti, nell’ambito del Diritto, l’esistenza del rapporto di causalità è inderogabile esigenza per attribuire un fatto alla condotta dell’uomo e, poi, risalire alla responsabilità penale o civile dell’autore.

In pratica, in medicina legale si indaga sul rapporto causale per stabilire, ad es., se un infortunio o una malattia professionale possono definirsi conseguenza della noxa lavorativa, se un’infermità possa dipendere da una causa di servizio, se, appunto, una condotta medica sia da considerarsi colposa e se la stessa abbia effettivamente prodotto un determinato evento lesivo, se non proprio con matematica certezza, almeno, con alta od altissima probabilità.

Andranno, a tal proposito adeguatamente indagati tutti gli antecedenti del fenomeno in esame, distinguendo gli antecedenti causali, concausali, condizionali, occasionali, indifferenti ed estranei, in rapporto al valore attribuibile a ciascuno di essi nella dinamica del rapporto causale.

La causa, pertanto, può essere definita come quell’antecedente necessario e sufficiente a produrre l’effetto, ossia idonea in senso qualitativo, quantitativo o modale.

L’effetto è, invece, il susseguente, ossia il fenomeno consequenziale, di cui la causa, in base ai risultati dell’esperienza, è invariabilmente ed incondizionatamente l’antecedente.

La stessa causa deve, necessariamente, in modo invariabile ed incondizionato, produrre lo stesso effetto, in ossequio al noto principio “id quod plerumque accidit”, ciò che, quindi, accade nella stragrande maggioranza dei casi, principio che rigetta a priori, ossia che appare antitetico all’altro ben noto aforisma “post hoc ergo propter hoc”, ovvero dopo ciò e dunque a causa di ciò, in cui, grossolanamente, si tiene conto del solo elemento cronologico di cui un fatto precede un evento, senza tenere in alcuna considerazione l’esigenza di dimostrare l’esistenza dell’indispensabile nesso di causalità materiale.

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Antecedenza, necessità e sufficienza sono i tre fattori costitutivi del concetto di causa.

L’antecedenza è il prerequisiti per cui è chiaro che un fenomeno non può determinarne un altro se non lo precede nel tempo.

La necessità è un elemento di definizione negativo, ovvero un criterio di esclusione per cui è da ritenersi necessario tutto ciò che non può essere eliminato senza la compromissione o eliminazione totale o parziale del risultato; d’altronde non può essere ritenuto causa l’antecedente che suscettibile di essere eliminato senza che l’effetto manchi o sia differente.

La sufficienza è un elemento di definizione positivo e rappresenta l’idoneità effettuale, ossia l’intrinseca capacità o attitudine di un fenomeno a cagionare un determinato effetto; un fenomeno si può ritenere sufficiente quando è in grado di determinare da solo un certo evento, senza che ci sia bisogno che intervengano altri fenomeni in grado di provocarlo.

Altro concetto assai importante è la differenza esistente fra causalità e causazione, nel senso che, nel primo caso bisogna stabilire, con giudizio ex ante se l’antecedente ha l’attitudine potenziale, ovvero è idoneo, sulla base di un fondato criterio probabilistico, che si avvale del concetto della regolarità statistica intercorrente fra causa ed effetto, a produrre un certo fenomeno atteso, e nel secondo caso se, con criterio ex post, un certo antecedente era in grado, in concreto, ad evento ormai avvenuto, in qualche modo di cagionare quel risultato verificatosi.

Altre differenze importanti riguardano l’esistenza di una causa singola o multipla, ossia se esiste una causa unica o cause multiple, dette anche concause, in grado di agire simultaneamente o sequenzialmente a determinare un certo evento, ritenuto che da sole non sono idonee, in effetti, a produrlo.

Si parla, altresì, di causa immediata e mediata, per cui non vanno solo considerati gli effetti immediatamente seguiti alla causa, ma è possibile risalire causalmente anche a quegli antecedenti causali più lontani ed iniziali che si conseguono, l’un l’altro, mediante il succedersi di fenomeni a catena, in virtù del fatto che ogni fenomeno, causalmente, dipende, a sua volta, da un altro che lo precede e in ossequio al noto principio giuridico che “quid est causa causae est causa causati”;

occorre, peraltro, ricercare anche le cause intermedie che congiungono le cause più lontane, osservate inizialmente a quelle più prossime e finali del processo causale, l’ultima delle quali, conclude, poi, tutta la serie della consecuzione eziologica.

E’ anche possibile operare ulteriori distinguo fra causalità diretta e indiretta, nel senso che nella forma diretta sussiste un legale derivativo regolare tra causa ed effetto, con una serie ininterrotta e concatenata di fenomeni, in quella indiretta si interpongono, invece, ulteriori fenomeni causali che

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si sostituiscono ai precedenti, quali fattori sopravvenuti, dando origine ad un rapporto di causalità nuovo e diverso, con interruzione, quindi, del rapporto causale precedente.

Fra gli antecedenti di valore giuridico spiccano, talora, anche le cosiddette condizioni che pur rappresentando uno stato anteriore necessario per la realizzazione di un certo evento-fenomeno, non assumono dignità di causa ma dispongono all’azione della vera causa, in quanto o rappresentano fattori predisponenti indispensabili all’esercizio della causa vera, offrendo ad essa il substrato in grado di produrre gli effetti, oppure ne rimuovono gli ostacoli atti ad impedirli, o anche sono in grado di cominciare la fase iniziale, quindi, di innescare la causa, ovvero sono energie pure allo stato latente, in grado di essere scatenate.

Occasione, come circostanza favorevole, ma sostituibile con altri momenti simili, tipo atti ordinari o fisiologici della vita, sfumando nella coincidenza, teorie della causalità, riferite all’equivalenza o alla prevalenza, nel primo caso con antecedenti causali tutti ritenuti responsabili della realizzazione dell’evento e nel secondo caso con valore reputato decisivo nella provocazione dell’evento, da parte di taluno degli antecedenti causali considerabili, sono altri aspetti di grande importanza ai fini della rigorosa valutazione dell’esistenza del nesso di causalità materiale.

Un ultimo breve accenno, a tal proposito, merita, comunque la trattazione della relazione intercorrente fra causalità e responsabilità, laddove occorre, in ogni caso impostare metodologicamente la problematica della causalità sull’analisi dell’efficienza propria dell’azione, oggettivamente considerata nella sua materialità di energia fisica estrinsecantesi, ossia in rigoroso e ponderoso ossequio dell’adeguatezza causale a produrre un certo evento, evitando, così di fare ogni riferimento ai fattori psicologici collegati al presunto autore dell’evento lesivo medesimo.

In tal guisa, il problema della responsabilità dovrà essere preso in esame solo dopo avere dimostrato l’esistenza del nesso di causalità materiale fra il fatto e il suo autore.

Partendo, infatti, dal presupposto che la causa è l’elemento fondamentale su cui si può agire per ottenere l’effetto o per evitarlo, sarà anche possibile desumere i necessari collegamenti tra conseguenze prodotte dalla causalità umana e la responsabilità del soggetto agente od omittente, non essendo, poi, così peregrina l’ipotesi che, talvolta, le condotte attive, od omissive, possano, per quanto erronee, apparire in parte o in toto, più o meno indifferenti, ovvero, non prevalenti, rispetto alla verificazione dell’evento dannoso.

La responsabilità resta, altresì, esclusa quando, pur esistendo il nesso causale fra condotta ed evento, quest’ultimo si sia effettivamente verificato esclusivamente per caso fortuito o forza maggiore, fattori del tutto indipendenti dalla volontà del soggetto agente.

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Ciò non è, comunque, vero in penale, laddove l’art. 41 c.p., che disciplina la materia, recita nel modo seguente:

“Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”.

E’, però, anche vero che l’art. 41, 1° cvp, c.p., stabilisce che:

“Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”.

La Medicina Legale, peraltro, segue un metodo proprio d’indagine che imposta la dimostrazione del nesso di causalità materiale sulla base di una serie di elementi di cognizione e valutazione che sono rappresentati dai noti criteri di giudizio, e, più esattamente da:

• criterio cronologico, che si riferisce all’intervallo di tempo trascorso fra il momento di verificazione dell’azione lesiva e la comparsa delle prime manifestazioni di una determinata malattia, in modo tale che si possa determinare se sia compatibile o meno, con i tempi accertati e documentati, l’esistenza di una relazione causale fra l’azione od omissione considerate e il danno prodottosi nell’occasione;

• criterio topografico che riguarda la corrispondenza tra la regione anatomica interessata dall’azione lesiva e la sede d’insorgenza della malattia;

• criterio di idoneità che si basa sull’attitudine dell’azione lesiva a cagionare l’effetto dannoso, ricorrendo ai principi dell’efficienza, cioè della capacità intrinseca di effettiva produzione dell’evento, supposto che l’entità dell’effetto corrisponde, di regola, all’efficienza della causa; la potenzialità patogena viene dedotta in armonia con i principi generali della fisiopatologia, dell’anatomia patologica e della clinica, sulla base di confronti qualitativi e quantitativi, in rapporto alle serie patogenetiche ipotizzabili, ovvero ammissibili o escludibili in quanto incompatibili, ragionando, quindi, in termini di qualità proprie dell’agente eziologico ipotizzato e di entità dell’azione lesiva considerata; si tiene, pertanto, conto della regolarità statistica del fatto morboso rispetto ai singoli fattori eziologici conosciuti, anche riguardo al modo con il quale la causa fu in grado di manifestare e sviluppare la sua azione; in definitiva l’idoneità

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lesiva per avere le qualità necessarie a produrre determinati effetti deve possedere gli attributi indispensabili dell’efficienza, (ossia della capacità di effettiva produzione dell’evento, in ragione, ad es., dell’entità delle lesioni verificatesi o, più direttamente, delle noxae patogene agenti), della proporzionalità tra entità della causa e gravità del danno prodotto e della compatibilità fra tipo di lesioni prodotte ed effetti noti che un determinato fattore causale notoriamente suole produrre;

• criterio della continuità fenomenica, che è dato dalla successione ininterrotta tra i sintomi seguiti all’azione lesiva e quelli propri della malattia in esame, per cui quando si ha questa successione si ha la cosiddetta sindrome a ponte, ovvero si osserva una serie continua di manifestazioni cliniche fra loro concatenate, secondo il principio della consecuzione causale;

• criterio di esclusione, che consiste nell’eliminare ogni altra causa possibile, in modo tale da isolare un solo fattore eziologico al quale attribuire la malattia in esame.

La responsabilità può anche dipendere:

1. da fatto illecito, responsabilità extracontrattuale o aquiliana, per cui il danno cagionato da fatto illecito, ex delicto, obbliga il colpevole a riparare il danno stesso cagionato, essendo l’elemento discriminate dell’illecito, civile o penale che sia, costituito da tre componenti che sono rappresentate dal fatto materiale, dall’antigiuridicità e dalla colpevolezza; dapprima va sempre dimostrata l’esistenza della responsabilità personale individuando il rapporto eziologico tra il comportamento illecito e l’evento dannoso; circa l’antigiuridicità, esistono delle cause giustificative che considerano la legittima difesa, art. 2044 c.c. e lo stato di necessità, art. 2045 c.c.;

2. da inadempimento di obbligazione, che equivale, in sostanza, ad un illecito contrattuale, per cui, in base all’art. 1218 c.c. si stabilisce che l’obbligazione si considera inadempiuta quando il debitore non esegue esattamente la prestazione dovuta; egli è tenuto a risarcire il danno se non prova che l’inadempienza o il ritardo della prestazione medesima è stato determinato da un impedimento derivante da causa a lui non imputabile; quando la prestazione non è esattamente adempiuta o non è affatto compiuta sorge la responsabilità contrattuale legata ad

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una colpa, che per il codice è soprattutto mancanza di diligenza; esiste, poi, un grado della colpa da grave a lieve fino a lievissima, essendo il primo concetto legato alla massima negligenza, al punto da far ritenere l’errore inescusabile, perché lontano dallo scrupolo proprio della generalità degli uomini, il secondo collegabile comparativamente alla diligenza di un uomo dotato di medie capacità, ossia dell’uomo comune, il terzo relazionabile solo a quello delle persone dotate, in modo superlativo, di oculatezza e di prudenza.

Le prove sono i mezzi processuali ammessi per dimostrare l’esistenza di un fatto o di un diritto, così come richiesto dalla legge, in base al disposto dell’art. 2067 c.c..

E’ così che l’attore ha l’onere di provare i fatti e i diritti che egli ritiene di sua spettanza, mentre il convenuto deve provare, a sua discolpa che i diritti accampati dall’attore sono inesistenti ovvero incapaci di dimostrare la sussistenza del nesso di causalità materiale fra danno e presunta condotta colposa.

Nel caso si tratti di responsabilità extracontrattuale, la prova del danno subito e della colpa altrui spetta al danneggiato, proprio in base al disposto generale dell’art. 2067 c.c. che, nella fattispecie, impone l’onere della prova, in tal senso a chiunque voglia far valere un diritto in giudizio dimostrandone il fondamento, mentre nel caso si tratti di responsabilità contrattuale sull’attore grava solo l’onere della dimostrazione dell’esistenza del danno.

Nell’ambito della responsabilità professionale medica di tipo contrattuale si fa obbligo al professionista di eseguire personalmente l’incarico assunto; peraltro, la particolare natura della prestazione medica, proprio per la scarsa conoscenza teorica dei fenomeni biologici e per l’incerto esito del trattamento terapeutico, implica, di regola, solo un’obbligazione dei mezzi e non del risultato, in virtù del disposto dell’art. 2229c.c..

Inoltre la giurisprudenza ha poi affermato il principio che esiste a carico del professionista il preciso obbligo di informare il paziente, in modo specifico e con termini comprensibili, della propria difficoltà di eseguire un dato intervento, per cui il paziente ha la facoltà di acconsentire alla prestazione medica, pur pericolosa, e di accettarne il rischio conseguente, rischio che, comunque, va ripartito tra entrambi i contraenti.

L’attenuazione della responsabilità professionale medica si verifica solo quando la prestazione d’opera implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, in base al disposto dell’art.

2236 c.c., per cui, nel caso in cui la prestazione dei mezzi incontri obiettive e gravi intrinseche

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difficoltà, può essere ritenuta fonte di responsabilità esclusivamente quando il danno al paziente derivi da dolo o colpa grave, ovvero per un errore inescusabile di imperizia.

Secondo l’art. 43 del Codice Penale il delitto “è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Per negligenza si intende, alla lettera, la mancanza di diligenza, che nel caso della colpa professionale medica equivale a mancanza di amore puro per la disciplina abbracciata ed intrapresa, alla mancanza motivazionale di quella passione sincera e di quella premura indispensabili che dovrebbero, normalmente accompagnare e dirigere gli atti medici e, quindi, mantenere costante l’intensità della concentrazione e vigile il livello dell’attenzione, onde evitare di incappare in qualsiasi tipo di errore.

L’imprudenza equivale a mancanza di prudenza, ovvero di previdenza, quella che, invece, dovrebbe informare il comportamento del buon padre di famiglia, ossia di capacità di mutuare dall’esperienza le giuste conoscenze, prevedendo il prevedibile e muovendosi in modo oculato ed accorto, proprio per evitare comportamenti inutilmente rischiosi, anzi scegliendo di volta in volta la soluzione più idonea e più confacente al caso, controbilanciando equamente vantaggi e rischi possibili, quindi costi e benefici, soprattutto evitando ciò che la scienza rigetta e non fa proprio a scapito di ciò che dalla comunità scientifica è universalmente accettato e codificato.

Imperizia è mancanza di perizia, ossia di capacità effettuali di svolgere un determinato compito o risolvere un determinato tipo di problema, laddove oltre a sapere, teoricamente, occorre saper, soprattutto, fare, avendo già sufficientemente appreso le regole fondamentali della disciplina in oggetto e quelle specifiche inerenti un determinato tipo di comportamento da tenere nella singola occasione o prestazione necessitante.

La condotta colposa può assumere due precise forme, ovvero quella della colpa generica e quella della colpa specifica, sottintendendo per:

1. colpa generica, quella dovuta a negligenza, imprudenza o imperizia, ciò che deriva da un’azione contraria, genericamente, alle buone regole di comportamento e di cautela;

2. colpa specifica, quella dovuta all’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline e che, quindi, deriva dalla violazione di precise norme stabilite dalla legge o dall’autorità competente.

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Ciò è molto importante a fini pratici, laddove, nell’ipotesi di colpa specifica la sola violazione di norme imposte per legge basta a dare luogo all’addebito di colpa, senza possibilità, da parte dell’incolpato, di fornire la prova del contrario, non essendo, quindi, egli ammesso a provare l’innocenza contro norma alle quali ha palesemente disobbedito, ciò che implica l’esistenza di una colpa presunta o presunzione di colpa che dir si voglia (per cui calzerebbe bene la locuzione predetta “in re ipsa loquitur” che è, però, rapportata unicamente alla gravità del danno, tale da testimoniare, da sola, la colpa del medico), mentre nel caso di colpa generica, la responsabilità va dimostrata volta per volta, avendo, perciò, l’accusato la possibilità di portare in giudizio le prove da attribuire a discolpa, evidenziando, così, nella circostanza concreta, di essere stato prudente o diligente o di aver agito con perizia.

Gli elementi oggettivi del reato sono compresi nel fatto, che rappresenta quanto l’uomo ha attuato violando il precetto penale, quindi un fatto tipico specifico, essendo il fatto scomputabile, a sua volta, nell’azione e nell’evento.

Ne deriva che l’analisi dell’elemento materiale del reato porta a considerare tre aspetti: l’azione, l’evento e il rapporto di causalità.

L’azione, o meglio, la condotta, consiste in un comportamento umano che produce una modificazione del mondo esteriore, potendosi, di volta in volta, distinguere un’azione in senso stretto, condotta commissiva, da un’omissione, condotta omissiva.

La condotta commissiva o commissione è rappresentata da un’attività, da un fare, mediante movimenti muscolari coordinati che si concretizzano in atti, gesti o parole, considerando, anche che l’azione è, per lo più, un procedimento complesso che richiede una molteplicità di singoli atti corporei, potendo, però, anche essere singola.

La condotta commissiva contempera 3 elementi di cui uno naturalistico, la forza fisica che agisce nel mondo esteriore, uno teleologico, rappresentato dallo scopo a cui tende l’azione umana e uno normativo, realizzando l’azione un comportamento giuridicamente rilevante.

L’omissione consiste in una inattività corporea, il non fare, ossia il non compiere ciò che era stato determinato o prescritto.

L’omissione può attuarsi in due modi:

• sia omettendo di fare ciò che la legge comanda che venga fatto, in rapporto a determinati tipi di evento, come non fare un referto o una denuncia che si ha il dovere di fare, in forza di una norma di legge, o, identicamente, non prestare soccorso;

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• sia non impedendo il verificarsi di un evento che, con uno sforzo di volontà, si poteva impedire, cioè, non agendo affatto o agendo in modo tardivo o incompleto o fuori del luogo prescritto.

Nel I° caso si parla di reati omissivi propri, o di mera condotta omissiva, nel II° di reati omissivi impropri, o commissivi mediante omissione.

L’evento è sinonimo di effetto o di risultato (come l’exitus) e rappresenta il termine conclusivo dell’azione, ossia la modificazione del mondo esteriore prodotta o non impedita dalla condotta umana.

L’evento è sempre un effetto naturale che incide nella realtà fisica, distinto dall’azione; è anche un effetto giuridico perché realizza un fatto rilevante per il diritto producendo un danno o mettendo in pericolo il bene interesse tutelato dalla legge.

Esso può essere differito quando si verifica dopo un intervallo di tempo dall’azione.

Azione ed evento sono collegati tra loro dal predetto rapporto di causalità materiale.

In ultima analisi, per la sua importanza, è il caso di riportare, in dettaglio, il disposto dell’Art.

1218 c.c., relativo alla Responsabilità contrattuale, compresa quella medica, che così recita:

• Art. 1218 c.c. – Responsabilità del debitore – Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.”, nonché l’Art. 2243 c.c., che regola la Responsabilità extracontrattuale:

• Art. 2243 c.c. – Risarcimento per fatto illecito – “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un fatto ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”.

Di particolare significato e valore appare, poi, una sentenza abbastanza recente, la n. 1688/2000, della Corte di Cassazione Penale, pronunciata il 28 settembre 2000 dalla IV Sezione della Suprema Corte che ha interamente abbracciato l’importante concetto che il nesso di causalità materiale nelle condotte mediche omissive deve essere accertato con probabilità vicina alla certezza.

La Sentenza in parola può davvero rappresentare una svolta, in tema di responsabilità medica per l’universale contenuto legalitario che la sottende, ossia il rispetto del principio di eguaglianza

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davanti alla legge, costituzionalmente garantito dall’art. 3 della Costituzione, per una categoria di cittadini, i medici, per i quali un diritto vivente, sempre più differenziato a loro sfavore, ha squilibrato il suddetto principio in maniera da ritenersi attualmente inaccettabile.

Infatti il criterio di accertamento del nesso di causalità tra le condotte omissive dei sanitari e gli eventi di danno, lesione e/o morte, che nell’ultimo ventennio, a causa di due sentenze, una meno nota la n. 4320 del 12 maggio 1983, l’altra notissima e, per di più, in parte, equivocata, ossia la n.

371 del 17 gennaio 1992, detta sbrigativamente del 30 %, ha subito un’autentica distorsione a carattere ingiustificatamente discriminatorio nei confronti degli esercenti l’attività medico- chirurgica, sostenendo, specie la prima, che al criterio della certezza degli effetti si può sostituire quello della probabilità degli stessi, ovvero della idoneità della condotta a produrli, per cui, all’epoca, la Corte affermava ritenersi sufficienti anche solo poche probabilità, non inferiori, appunto, al limite del 30 %, di successo di un immediato e sollecito intervento chirurgico in una singola fattispecie, per dimostrare l’esistenza del nesso di causalità materiale fra l’omissione, per incuria, del suddetto intervento e la lesione/morte successivamente e conseguentemente all’uopo verificatasi.

La Sentenza suddetta n. 1688/2000 richiama, dunque, alla necessità di imporre il massimo rigore scientifico nella fase delle indagini medico legali sulla condotta medica tanto omissiva che commissiva, non potendosi ammettere nessuna forzatura nell’accertamento del nesso causale tra la condotta e il danno, proprio in pieno ossequio del criterio scientifico che deve restare centrale nel contributo peritale medico legale, non ritenendo accettabile neppure il principio adottato da altre sentenze precedenti di conformare il criterio adottato di probabilità alla dimostrazione dell’esistenza di una probabilità pur seria ed apprezzabile, proprio per non ledere il criterio di esclusione di altre cause, ossia quello incentrato sulla diagnosi eziologica medico legale differenziale, che rappresenta un passaggio metodologico centrale ed essenziale nella teoria corrente riconosciuta della criteriologia forense, attualmente in uso.

Quindi, non più il contestato quoziente del 30 % e neppure il più ragionevole tasso del 70/80 % di probabilità vanno ritenuti, sulla base della novità introdotta dalla sentenza, di volta in volta, limiti accettabili e considerabili nella dimostrazione dell’esistenza del nesso di causalità materiale fra condotta medica ed evento lesivo, ma solo una probabilità così elevata, quasi confinante con la certezza che si può ragionevolmente raggiungere, può essere autenticamente e dottrinalmente accettata come “condicio sine qua non” capace di dare sussistenza alla dimostrazione eziologica del predetto nesso causale, salvo diversi ulteriori indirizzi e sviluppi giurisprudenziali futuri.

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Tipologie di casi clinici con maggiore incidenza di errori diagnostici

Vengono qui esaminate le tipologie più comuni che, in ambito accertativo clinico diagnostico medico legale I.N.P.S. maggiormente ricorrono, distinte per gruppi di patologia, considerate soprattutto per la loro entità e particolare incidenza epidemiologica, sotto il peculiare aspetto dell’eventuale errore diagnostico, considerato, in questa sede, non tanto e non solo per la sola dimostrazione dell’esistenza del nesso di causalità materiale fra condotta errata e danno indotto, ma soprattutto per quanto concerne la ricaduta in ambito medico legale previdenziale I.N.P.S., in termini di giudizio appropriato di invalidità e di inabilità ai sensi degli artt. 1 e 2 della Legge 222/84. Vengono, all’uopo, delineati sufficienti protocolli d’indagine e relativi criteri di valutazione.

Fra le patologie che si prestano, maggiormente, ad una prima sommaria osservazione della molteplice casistica a disposizione dei sanitari previdenziali in ambito I.N.P.S., sicuramente meritano particolare attenzione le malattie gastroenteriche, fra le quali, in primis, spiccano patologie molto comuni e di routinario riscontro quali le frequentissime complicanze dell’ulcera duodenale e quelle delle malattie infiammatorie intestinali, specialmente il Morbo di Crohn, in verità, stranamente, piuttosto sottostimate e spesso confuse con altre patologie e, quindi, etichettate differentemente.

Vista la non straordinaria gravità, talora, di siffatte manifestazioni cliniche e di tali quadri morbosi si potrebbe, effettivamente, eccepire che, apparentemente, tali patologie non sembrerebbero rivestire, a rigor di logica, eccezionale importanza pratica riguardo all’attività istituzionale medico legale I.N.P.S., non rivestendo, nella gran parte dei casi, queste affezioni una risonanza speciale relativamente al giudizio formulabile in base al disposto degli artt. 1 e 2 della Legge 222/84.

In realtà, proprio in quanto suscettibili di essere confuse con altre più importanti e qualificate forme morbose, non escluse quelle internistiche, oltre a quelle ematologiche, neoplastiche o gastroenterologiche, sicuramente di maggiore impatto clinico e prognostico, o, al contrario, in quanto carenti di cura o trattate erroneamente con interventi demolitivi ripetuti, pur inizialmente banali, le malattie del tratto digestivo in atto possono diventare ingravescenti oltre ogni aspettativa e previsione, sfociando spesso, si potrebbe dire, clamorosamente, in stati sindromici eclatanti ed altamente invalidanti.

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Ciò non rappresenta una situazione rara e di scarsa rilevanza epidemiologica, ma, al contrario, per la sua elevata incidenza e per la sistematicità dell’errore diagnostico che, spesso, contraddistingue, curiosamente, tali quadri morbosi, merita sicuramente di essere affrontata e discussa in modo ampio, anche per sottolineare alcuni fondamentali aspetti di carattere clinico e diagnostico differenziale.

Il Morbo di Crohn rappresenta una patologia molto insidiosa sotto il profilo clinico- diagnostico, manifestandosi in modo molto pleomorfo e con un corteo sintomatologico, talvolta assai vario e bizzarro, al punto che la diagnosi medica ne risulta o molto differita nel tempo, non senza la comparsa di ulteriori complicanze e disturbi di vario genere e, spesso, dopo interventi chirurgici ripetuti, anche altamente demolitivi che ne contrassegnano, purtroppo, alterandola, la storia naturale clinica della malattia in atto, spesso, peraltro, senza segni di remissione sintomatologica né soluzione di continuità nel tempo.

Il primo tipo di patologia con cui più comunemente viene confuso il Crohn resta, sicuramente la rettocolite ulcerosa (RCU), in cui la diagnostica differenziale sembrerebbe, apparentemente, più chiara, trattandosi, nel primo caso, di una ileite regionale che colpisce, classicamente, l’ultimo tratto dell’ileo, in prossimità della valvola ileocecale, potendosi anche manifestare, e, quindi, sconfinare, a livello colico prossimale, con la comparsa frequente di fistolizzazioni di vario genere, addirittura nel 40-50 % dei casi, secondo taluni autori e, per lo più, in assenza di terapia medica specifica, mentre la RCU si manifesta pressoché esclusivamente a livello del colon-retto, ma con costante interessamento rettale, risparmiando, quindi, le altre sedi ed essendo le complicazioni ascrivibili prevalentemente od esclusivamente attribuibili a megacolon tossico, perforazione in peritoneo dell’intestino crasso, con addome acuto, cancerizzazione, ecc., ma pressoché mai con fistolizzazione secondaria, se non in casi molto selezionati e per forme iperacute di RCU, eccezionalmente localizzate a livello primitivo ileale o, più in generale, del tenue, comunque, con diversa espressione clinica sintomatologica, diarrea con scariche alvine molto più ravvicinate e in numero molto più elevato, nelle fasi di poussée di riacutizzazione, con proctorragia tipica, ciò che manca classicamente e totalmente nel Crohn, laddove, sotto il profilo anatomopatologico, nella RCU l’interessamento ulceroso-necrotico secondario è prevalentemente mucoso, con aspetto, in fase acuta, di ascessi criptici, e di pseudopolipi, nella fase cronica avanzata, mentre nel Crohn la localizzazione dell’infiammazione è tipicamente transmurale, a tutto spessore, e segmentaria, con classica alternanza di tratti di intestino del tutto sano, vicino a quelli di intestino malato.

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Per quanto apparentemente assurdi, non sono, purtroppo, rari i casi in cui l’errore diagnostico, con una RCU al posto del M. di Crohn, in atto, comporta l’esecuzione di interventi chirurgici altamente ed inutilmente demolitivi, con sacrificio di tutto l’intestino crasso, per l’apparente evidenza di una pancolite ulcerosa, per cui viene erroneamente e colpevolmente eseguito addirittura un intervento chirurgico di proctocolectomia totale, come verificabile in alcuni casi di comune osservazione, ciò che, invece, nella RCU viene riservato esclusivamente a forme molto resistenti alla terapia medica specifica, con ovvia e dolorosa presenza definitiva di ano preternaturale e, in particolare, intuitivamente, con scarso o nullo beneficio clinico sulla forma di Crohn, che cova, invece esistente.

Altrettanto incredibile può apparire un altro errore diagnostico assai frequentemente rilevabile, nell’ambito della fase accertativa medico legale I.N.P.S., legato alla diagnosi di RCU, più o meno oligosintomatica, ovvero subcontinua, in luogo del cosiddetto colon irritabile o colite spastica funzionale di antica memoria, sulla base di un’assonanza con reciproche stimmate psichiche o psichiatriche franche, comuni, talvolta, alle due patologie, essendo, però, le caratteristiche di insorgenza diverse, con cronicità più lontana e spiccata per la colite spastica, il più spiccato legame con sintomatologie di tipo ansioso-depressivo cronico, un contesto clinico assai diverso, con mancanza di reali poussées evolutive, anche in fase di esordio, nel caso del colon irritabile, la mancanza di vere proctorragie, ancora in quest’ultimo caso, l’assenza di una reale e franca demarcazione iniziale delle manifestazioni cliniche, come nel caso della RCU, in poche parole, la storia clinica naturale diversa, per cui la visita medica e gli accertamenti intrapresi dovrebbero facilmente indirizzare il problema clinico in atto, sotto il profilo dell’iter diagnostico, nel modo più giusto e congruo.

Peraltro, anche le indagini bioumorali che, nel caso di RCU, in fase acuta, dovrebbero apparire francamente patologiche, con elevazione della VES, possibile leucocitosi, alterazione del profilo del QPE in senso infiammatorio, nonché, le numerosissime scariche alvine in caso di vera RCU, le proctorragie, il possibile quadro anemico secondario, lo scadimento delle condizioni generali, l’andamento clinico diverso, tipico a poussées, talora, il tenesmo rettale, le possibili alterazioni della protidemia, in poche parole, il diverso contesto clinico, ecc., dovrebbero rappresentare elementi discriminanti fondamentali atti a distinguere nettamente le due patologie, sennonché, la concomitanza di proctorragie, dal punto di vista anamnestico, anche nel caso di colon irritabile, in quanto associabili alla contestuale presenza, magari di emorroidi procidenti e sanguinanti, come spesso capita, e l’insistenza del paziente, psicolabile, nel chiedere al proprio

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medico curante di indagare su questa sua strana forma di colite della quale, anche in presenza conclamata di un colon irritabile, dimostra, spesso, di non conoscere l’origine e che mai assocerebbe, o molto malvolentieri, al suo precario equilibrio psichico, sono tutti altrettanti fattori che, vista, come detto, anche la natura del paziente, magari patofobico ed ipocondriaco per eccellenza, possono davvero comportare questo erroneo indirizzo diagnostico e spingere le indagini ulteriori verso l’esecuzione di una rettosigmiodoscopia e di una conseguente biopsia.

La convalida, con falso positivo, di una presunta e mal diagnosticata RCU avviene, purtroppo, proprio con il responso della rettosigmoidoscopia e dell’esame istopatologico contestuale svolto; questi esami, lungi dal verificare l’accertata presenza dei tipici markers della RCU, non si dimostrano, ahimè, sempre dirimenti in senso d.d., mentre dovrebbero sicuramente apparire elementi decisivi di distinguo fra le due differenti forme morbose, sia sotto il profilo endoscopico che bioptico.

Tali elementi discriminati istopatologici sono, invece, da ritenersi facilmente valutabili nelle forme acute e croniche di RCU, con l’esistenza di iperemia mucosa diffusa, perdita della vascolarità della stessa mucosa, friabilità mucosale, evidenza di franco essudato costituito da sangue, muco e pus, distribuzione uniforme delle lesioni mucose, con mancanza totale di tratti di area mucosa interposta normale, fino al limite prossimale del segmento malato, presenza di ulcere superficiali, per lo più piccole e confluenti, dal punto di vista macroscopico, e presenza di franca flogosi della mucosa rettale, con tipica infiltrazione di elementi corpuscolari cellulari, leucociti, linfociti e plasmacellule, dal punto di vista microscopico, caratteristici anche per il numero e per la disposizione nell’ambito dell’infiltrato infiammatorio, anche con possibili aspetti necrotici; ancora macroscopicamente è possibile evidenziare l’esistenza di un induito puruloide, nelle forme acute, e di aspetto granulare e dimostrazione di pseudopolipi in aggiunta ad aspetti simili ai precedenti, nelle forme subacute e croniche.

Questo pur grave e frequente errore diagnostico non si riflette, per fortuna, salvo rarissimi casi, sul destino terapeutico del paziente, non comportando, di solito, effettuazione di interventi chirurgici altamente demolitivi, non esistendo, in genere, alcuna indicazione in tal senso, né terapie immunosoppressive ed antinfiammatorie molto incisive, vista, in genere la sintomatologia piuttosto blanda, in ogni caso, del colon irritabile, mentre dimostra di avere un certo impatto diagnostico e prognostico in ambito accertativo medico legale previdenziale, venendo erroneamente etichettata con una forma morbosa subacuta, come la RCU, di diverso spessore ed apprezzamento valutativo,

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per cui raramente o mai da luogo ad una conclamata responsabilità professionale medica, mancando, per lo più, un danno realmente apprezzabile.

Assai diverso appare, invece il caso riferito di interventi altamente demolitivi di proctocolectomia totale, con ano preternaturale, eseguiti erroneamente in caso di Crohn scambiato per RCU, in cui tanto sotto il versante della responsabilità professionale medica che sotto quello squisitamente previdenziale la ricaduta è decisamente molto negativa e il riscontro appare, intuitivamente, assai diverso.

Altresì esemplari ed emblematici appaiono i casi di enteropatie protidodisperdenti perché chiamano, ancora una volta in causa il Morbo di Crohn.

Teoricamente, l’improvvisa ed inaspettata comparsa, in forma diffusa e conclamata, di edemi declivi in soggetti giovani adulti, prevalentemente di sesso femminile, in assenza di forme renali nefrosiche facilmente escludibili, con l’esecuzione dell’esame urine, negativo per proteinuria e in mancanza di franche patologie cardiache, altrettanto facilmente distinguibili con la negatività degli accertamenti cardiologici standard, tipo ecg ed ecocardiogramma, nonché per la mancanza della tipica sindrome dispnoica, ancorché la presenza di ipoalbuminemia ed ipoprotidemia, contestualmente al riferimento anamnestico di dolori addominali diffusi e a sindrome diarroica, ma con numero limitato di scariche alvine e con caratteristiche del tutto peculiari, di feci un po’ formate o semiliquide, dovrebbero tutti già apparire elementi concreti, molto espressivi, se non proprio patognomonici, di un Crohn.

In caso contrario il quadro morboso, di per sé, non altrimenti giustificabile, potrebbe dimostrare solo la presenza di una strana e complessa forma di enteropatia protidodisperdente, ovviamente, da indagare adeguatamente e in tempi verosimilmente lunghi e con difficoltà diagnostiche apparentemente evidenti.

Infatti, nell’ambito delle innumerevoli forme descritte di malattie protidodisperdente, comprendenti, in modo disparato, prevalentemente, forme differenti di gastriti croniche, esiti di pregressi interventi chirurgici di gastrectomia subtotale, carcinomi gastrici invasivi e diffusi, altre gastropatie più rare, forme primitive intestinali croniche idiopatiche, linfomi gastrici primitivi o secondari, ecc., quindi le varie forme di malassorbimento primitivo o secondario dell’intestino tenue, o, in casi rari, malattie del colon, ecc., in assenza di elementi clinico diagnostici che

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indirizzino verso forme gastriche, colitiche o extraintestinali, come le richiamate forme congestizie cardiache e le forme nefrosiche primitive e/o secondarie, le enteropatie con malassorbimento assumono, in certi casi, una chiara evidenza diagnostica.

Classici sono i casi, pur di non frequentissima osservazione, di enteropatia protidodisperdente da malassorbimento, soprattutto secondario, clinicamente evidente, in soggetti giovani adulti, in cui viene erroneamente posta diagnosi diversa, fra le svariate forme primitive e secondarie di malassorbimento in precedenza elencate, ancorché molto rare, magari sulla base di riscontri diagnostici istopatologici incidentalmente effettuati sul tubo digerente, ad altro titolo, con evidente erronea mutuata supposizione ed associazione morbosa fra forme, ad es., gastro-duodenali e ileali, pur in assenza di riscontro istopatologico diretto e specifico della forma morbosa invocata.

Si tratta, invece, nella fattispecie, per lo più o esclusivamente di soggetti predisposti, con stimmate ansioso depressive e con precedenti anamnestici di terapie a base di sostanze psicotrope, specie benzodiazepine e ansiolitici, in generale che, in occasione di un rilevante trauma psichico, costituito frequentemente da un lutto familiare, come, ad es., la perdita improvvisa e inattesa di un genitore o di un fratello, possono sviluppare, nelle immediate vicinanze dell’evento stressante luttuoso, un ricco corteo sintomatologico caratterizzato, per lo più, da dolori addominali diffusi mesogastrici accompagnati a 5-7-8 scariche alvine quotidiane di feci semiliquide e associati ai predetti diffusi edemi declivi che sembrano accentuarsi nei mesi successivi o mantenersi più o meno costanti senza che le condizioni generali dell’individuo ne risentano eccessivamente, malgrado la necessità impellente di reintegrare il patrimonio protidemico con apporto esogeno per via parenterale.

Tutto ciò getta, per lo più, nel panico i sanitari che si trovano a dover curare pazienti di questo tipo in apparente carenza di elementi clinico-documentali, sufficienti a dirimere il quesito diagnostico.

Vengono, quindi, nella circostanza, eseguiti numerosi accertamenti, in costanza di ricovero, fra i più disparati, magari in diversi ospedali, proprio in quanto non si riesce a inquadrare sufficientemente la malattia in atto sotto il profilo nosografico e clinico.

Tali indagini, prevalentemente umorali, servono unicamente ad acclarare che:

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• La protidemia è notevolmente ridotta, in base al malassorbimento secondario in atto, a carico prevalentemente dell’ albumina, onde gli edemi diffusi;

• La VES, in questo caso, è molto elevata e gli indici di flogosi sono francamente positivi in senso infiammatorio;

• Rara è l’anemia megaloblastica da deficit della vit. B12, da malassorbimento, mentre presenti, frequentemente, sono le alterazioni degli elettroliti, con ipokalemia ed ipomagnesemia, e la ipocalcemia da malassorbimento secondario di vit. D;

• Il lipidogramma dimostra le alterazioni tipiche della riduzione della quota riferita ai carrier proteici, per cui appare notevolmente sfasato e consensualmente variato in funzione della corrispondente compromissione diffusa del QPE;

• Nel tempo, dopo qualche mese dall’esordio clinico, è possibile assistere ad anemia secondaria sideropenica, sempre legata al malassorbimento;

• Esistono dei disturbi gastroenterici, a tipo sindrome diarroica, con poche scariche alvine, non più di 5-6 o anche più, con febbre, incostantemente, e dolori addominali che simulano un’appendicite acuta, essendo, prevalentemente localizzati e riferiti in fossa iliaca destra, in assenza di rettorragia ma con presenza di sangue occulto nelle feci;

• Fra le varie indagini umorali effettuate, può spiccare una netta positività nella ricerca degli anticorpi antinucleari, ciò che può far dubitare, ma non troppo, la presenza di un LES, o dell’antigene di istocompatibilità HLA B27; può mancare, inizialmente, una leucocitosi;

• Fra gli esami non indispensabili nella fattispecie, effettuati, verosimilmente, a pioggia, può essere eseguita, pur non strettamente mirata al problema, nella fattispecie, ad es., una rettosigmoidoscopia, che può, dietro esecuzione di biopsia rettosigmoidea, per presunto effetto della presenza contestuale di sospette proctiti o altro, dare esito a supposizioni diagnostiche vaghe, su quadri, non meglio precisati, ovvero mal definiti istologicamente, occasionalmente ed incidentalmente presenti a livello mucoso rettale, aspetti casuali che possono essere erroneamente etichettati, in senso traslato, vista la diversa sede, non enteritica, per una qualsivoglia forma primitiva o secondaria intestinale di malassorbimento, laddove, in altri casi simili, un qualsiasi esame gastroenterologico strumentale di altro genere, con biopsia, può altrettanto erroneamente suggerire quadri di malassorbimento, collegati più o meno in modo improprio, a patologie fra le più disparate e le più rare.

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Sono da reputarsi, invece, indispensabili ai fini di una corretta formulazione diagnostica le seguenti ulteriori indagini laboratoristiche, radiodiagnostiche o strumentali, in generale, da eseguire, all’uopo, nonché la giusta valorizzazione di alcuni fondamentali elementi clinici disponibili unita ad un atteggiamento metodologico molto più improntato al rigore scientifico e metodologico, suffragato, in ogni caso da un diverso approccio al quadro morboso in atto e da sufficienti e convenienti valutazioni anche di tipo epidemiologico, orientate verso i tipi di malattia, nel caso, maggiormente ricorrenti; tali sono, quindi, nell’occasione, da ritenersi, sotto il versante degli accertamenti diagnostici specifici, in quanto dirimenti, nel caso di un Crohn:

• Un accurato esame radiologico dell’intestino crasso, magari con doppio mezzo di contrasto, che è, sicuramente, da ritenersi, di grande ausilio diagnostico, permettendo di evidenziare alterazioni della mucosa già nelle fasi più precoci sia della RCU che del M. di Crohn, potendo, invece un normale clisma opaco apparire falsamente normale;

• Un esame endoscopico del colon, che è sicuramente utile nella diagnosi di M. di Crohn del colon, in grado di rilevare ulcere di piccole dimensioni, erosioni aftoidi o profonde, ulcere longitudinale, tutti aspetti che si sviluppano in segmenti di mucosa per altri versi normale; per una valutazione diagnostica più accurata è fondamentale procedere, nel Crohn ad uno studio endoscopico di tutto il colon, non limitandosi al solo retto-sigma, indagine endoscopica che si rivela assi utile anche nel caso che appaia colpito solo il tenue, poiché può essere praticabile una biopsia ileale, potendo, al contempo valutarsi l’eventuale contemporaneo coinvolgimento, piuttosto frequente del colon; la coloscopia permette di definire più precisamente la diagnosi di malattia infiammatoria dell’intestino, essendo in grado di ottenere materiale bioptico per l’esame istologico; inoltre essa è in grado di meglio definire eventuali lesioni polipoidi, stenosi ed aspetti radiologici di incerta interpretazione;

• Lo studio radiologico dell’intestino, che fornisce informazioni essenziali per la diagnosi di malattia infiammatoria intestinale, in luogo, ad es. di altro tipo di affezione, come la richiamata, rarissima, linfangectasia primitiva intestinale; infatti nel M. di Crohn del tenue è l’ileo il segmento intestinale più caratteristicamente colpito, potendosi evidenziare con un accurato studio radiologico di questo tratto, nell’ordine, perdita del disegno mucoso, rigidità dei segmenti interessati, per edema della sottomucosa o, stenosi, per infiammazione contestuale della sottomucosa, con caratteristico aspetto a ciottolato

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della mucosa, potendosi anche evidenziare tragitti fistolosi soprattutto nell’area ileocecale; in particolare è caratteristico l’aspetto dell’ileo terminale, stenotico ed irregolare, onde l’aspetto a ciottolato della mucosa, potendo a tal punto il tratto colpito apparire stenotico a tal punto da risultare di aspetto filiforme, detto segno della cordicella di Kantor, potendo il tratto immediatamente a monte risultare caratteristicamente dilatato, per cui, tratto filiforme, area a ciottolato ed ansa dilatata a monte costituiscono la cosiddetta triade di Bodart, non frequente ma patognomonica; la TAC nel Crohn può consentire di valutare la presenza di anse intestinali ispessite e di distinguere anse ispessite e aggrovigliate, in caso di flemmone delle stesse, per l’infiammazione, dalla presenza di un ascesso intraddominale, dovuto ad altre cause; in generale l’indagine radiologica consente di ottenere utili informazioni riguardo ai caratteri e all’estensione della malattia infiammatoria intestinale;

• La caratteristica presenza di indici di flogosi alterati in senso infiammatorio, la VES aumentata, il QPE e, consensualmente, il lipidogramma, alterati, con riduzione della quota di albumine e aumento delle alfa 2 proteine, delle mucoproteine e della PCR, gli elettroliti ematici ridotti, l’ipoprotidemia con prevalente ipoalbuminemia, anche con presenza di edemi, la presenza di sangue occulto nelle feci, ecc., anche se inizialmente in assenza di leucocitosi, sono tutti classici segni umorali del M. di Crohn, in grado, sicuramente, di categorizzare, sotto il profilo nosografico la malattia fra quelle più tipicamente infiammatorie, per cui andrebbero facilmente escluse, in tal caso, tutte quelle notoriamente di altro genere.

Fra i sintomi clinici di esordio, la diarrea con massimo 5-6 scariche alvine al giorno, i dolori addominali riferiti tipicamente in fossa iliaca destra, i possibili edemi declivi diffusi, l’incostante iperpiressia, in assenza, comunque, di altri sintomi generali, per cui al di fuori delle sfera del digerente, il paziente sembra godere, per lo più di discreta salute, le possibili ma non frequentissime complicanze extraintestinali, in poche parole, il tipico e conosciuto andamento pleomorfo delle stesse manifestazioni cliniche di esordio della malattia, dovrebbero fare immediatamente pensare a questa malattia che, dal 1936, anno in cui è stata scoperta, ad oggi, ha subito un notevole incremento sotto il profilo dell’incidenza e della prevalenza epidemiologica, presumibilmente dovuto all’aumento contestuale globale di tutte le forme di malattia psicosomatica conosciute, anche se, evidentemente, innescate su un terreno di predisposizione autoimmunitaria, con classico

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assetto HLA B27, per gli antigeni di istocompatibilità, e con possibile positività, magari degli anticorpi antinucleari lupici o del fattore reumatoide, si inseriscono cause scatenanti e slatentizzanti la malattia di Crohn.

Una non rara complicanza intestinale del Crohn può essere offerta da crisi subocclusive o francamente occlusive dovute alle tipiche stenosi della parete ileale o, più in generale del tenue, per interessamento edematoso primario, come visto della mucosa e della sottomucosa, ovvero a distanza, in forme più latenti e meno conclamate, quale complicanza tardiva non adeguatamente prevenuta farmacologicamente, dovuta alla frequente reazione fibrosica secondaria presente, in modo segmentarlo nel Crohn, con quadri di addome acuto, apparentemente, di non giustificata origine e atto chirurgico conclusivo che si rende, quindi necessario, di resezione dell’ansa intestinale e risoluzione del quadro occlusivo manifestatosi.

Si può arrivare fino al caso limite in cui il paziente, recatosi per la prima volta in Ospedale per una crisi subocclusiva od occlusiva intestinale, vera e propria, portatore di un M. di Crohn non ancora precocemente diagnosticato, pur avendo, verosimilmente accusato, in precedenza, i classici sintomi intestinali predetti, anche se non in forma acuta e in assenza di sintomi manifesti di malassorbimento che possono anche mancare, in circostanze con coinvolgimento parziale regionale ileale, e pur con segni aspecifici di flogosi, venga immediatamente condotto in sala operatoria e sottoposto ad intervento chirurgico per addome acuto, senza che poi venga fatta diagnosi di ileite regionale, M. di Crohn, anche dopo esecuzione dell’esame istologico che dovrebbe, apparentemente, essere risolutivo, in questi casi, ed indirizzare decisamente la diagnosi.

Pur essendo interessato in modo transmurale la parete intestinale, dal ricco infiltrato infiammatorio e pure essendo, per lo più interessato il mesentere, l’apparente aspecificità dell’infiltrato, carente di tipici e specifici markers a sostegno della diagnosi, la diffusa presenza di fibrosi secondaria, il margine di resezione quasi sempre libero da coinvolgimento residuo, il timore inizialmente paventato di un tumore stenosante intestinale, pur assai raro a quel livello e la conferma successiva dell’assenza di infiltrazione neoplastica per una assai più banale e generica infiammazione intestinale di n.d.d., sono tutti elementi particolari che possono depistare le indagini e ritardare o, finanche, non consentire la formulazione istopatologica di una diagnosi specifica di malattia infiammatoria intestinale cronica.

Gli episodi occlusivi o subocclusivi possono, pero ripetersi nel tempo, non essendo ancora, nel frattempo, stata formulata la diagnosi giusta, per cui, negli anni successivi al primo episodio di addome acuto, il paziente può essere trattato più volte chirurgicamente, sempre per lo stesso

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motivo, finendo per subire ulteriori resezioni intestinali in grado di provocare nel tempo una tipica sindrome dell’intestino corto, ciò che potrebbe verificarsi, ipoteticamente, solo dopo diversi anni e numerosi interventi chirurgici addominali subiti.

Nel frattempo, magari, la sintomatologia clinica non rimane silente, costellata da dolori addominali ricorrenti, febbricola o franca iperpiressia, astenia, diarrea con le caratteristiche predette, ecc., ma anche caratterizzata da episodi di acuzie, con fistolizzazioni, ovvero con presenza di ascessi perirettali o, più raramente, raccolte saccate peritoneali o retroperitoneali che si caratterizzano oltre che per i sintomi addominali e/o per l’iperpiressia, anche, sotto il profilo laboratoristico, per la leucocitosi anche imponente, con valori possibili e verificabili che vanno da 50 a 100 mila leucociti/dl di sangue, ciò che, in modo improvvido, può, erroneamente, perfino, dare l’impressione di una forma morbosa di tipo leucemico, magari “frustra”.

E’ vero che l’esordio di un Crohn, come detto, malattia molto pleomorfa, può essere data da un’occlusione intestinale e che la forma iniziale, per la sua aspecificità e repentinità, che inizialmente può far discutere sull’esistenza di una possibile forma di adenocarcinoma stenosante intestinale, può effettivamente dare luogo a qualche perplessità e qualche dubbio, ma il successivo prosieguo delle manifestazioni cliniche, con crisi dolorose addominali ricorrenti, a poussées subentranti, anche di tipo occlusivo, dovrebbe illuminare sulla effettiva natura del quadro morboso in atto, di malattia infiammatoria intestinale e non far banalizzare la sintomatologia ostruttiva a conseguenza inattesa, magari, di aderenze intestinali prodottesi a seguito dei diversi interventi chirurgici addominali effettuati, mantenendo, per lo più, oscura ed indecifrabile la diagnosi effettiva, non adeguatamente supportata, magari dalle incerte risultanze dell’esame istologico all’uopo eseguito sull’ansa intestinale resecata.

Esiste anche un criterio diagnostico iniziale di sede riferito alla localizzazione della prima ansa intestinale colpita che è, in genere, tipicamente, il tratto finale dell’ileo che precede la valvola ileocecale, con dolore irradiato, quindi, in fossa iliaca destra.

Facilmente intuibili sono le conseguenze di tale errore diagnostico, anche sotto il profilo valutativo medico legale, che comportano l’esecuzione di terapie chirurgiche demolitive, non prive, a lungo termine, di complicanze a distanza, da malassorbimento dovuto alla stessa malattia infiammatoria associata alla riduzione dell’area di assorbimento intestinale, per le numerose resezioni delle anse che si vanno a compiere, in luogo di quelle mediche, prevalentemente basate su corticosteroidi per via generale, nelle fasi acute e salazopirina, essendo, invece la terapia chirurgica riservata ai casi poco rispondenti o molto resistenti farmacologicamente.

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