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LE ARTROSCOPIE DEL GINOCCHIO Aspetti clinici medico legali

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LE ARTROSCOPIE DEL GINOCCHIO

Aspetti clinici medico legali

Introduzione

L'affermarsi dell'artroscopia del ginocchio in ambito traumatologico ha portato degli innegabili vantaggi dal punto di vista diagnostico e terapeutico, ma sta sollevando numerose problematiche medico legali che elencheremo brevemente:

• la validità dell'artroscopia diagnostica a confronto con TAC e RMN;

• la valutazione delle suture e dei rimodellamenti;

• la valutazione dei processi degenerativi che richiederebbe un'interpretazione anatomo-patologica dal punto di vista della cronologia, che spesso l'ortopedico non è in grado di dare;

• la valutazione degli impianti protesici (legamenti);

• la valutazione di "mal practice" precedente;

• la valutazione in ambito INAIL e pensionistico;

• la valutazione in assicurazioni private o RC;

• le implicazioni penali;

• l'inquadramento della negatività artroscopica in ambito assicurativo/sociale;

• la pretestazione del danno;

• la iatrogenicità;

• la ripetitività delle artroscopie.

Bisogna ricordare come ai sensi dell'Art. 1176/2236 del Codice Civile ed ai sensi degli Artt. 40 e 43 del Codice Penale, le problematiche inerenti all'artroscopia come mezzo diagnostico, l'eventuale avallo di danno pretestato, danni spesso irreversibili alle persone (sequele), comincino oggi ad essere ben sviscerate e quindi perseguibili.

Si può obiettare, genericamente, che da sempre il chirurgo si è imbattuto in queste problematiche, ma nel nostro caso vogliamo sottolineare come spesso la bilancia costo-ricavo non sia equilibrato.

La responsabilità del medico

La responsabilità medica è un tema che negli ultimi tempi ha assunto, in Italia, una nuova

fisionomia che, attraverso un processo evolutivo sempre più rapido, è passata dai profili tradizionali della "responsabilità del medico" alle moderne prospettive della "responsabilità medica".

Con ciò vuol significare che non si è più in presenza di un semplice capitolo di una trattazione generale dedicata alla responsabilità del professionista, ma che qui viene preso in considerazione, piuttosto, un aspetto della tutela della salute dell'individuo in relazione ai pericoli connessi con lo svolgimento di una attività medica, o più in generale, di un trattamento sanitario. Il quadro normativo di riferimento tende quindi a coordinarsi con i principi e con gli obiettivi del Servizio Sanitario (ora specificati negli artt. 1 e 2 della Legge 23. Dic. 1978, n. 833), e trarre ispirazione diretta dalla previsione fondamentale dell’art. 32 della Costituzione (tutela del diritto alla salute).

Lo scopo dunque non è più tanto quello di sanzionare l’inadempimento del medico professionista, quanto quello di assicurare al cittadino che si sottopone a un trattamento sanitario, una tutela preventiva e risarcitoria della propria salute.

Nell’esercizio della professione, il medico chirurgo può incorrere in varie specie di responsabilità di natura legale, distinguibili in penale, civile e disciplinare.

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Le ipotesi di reato più frequenti

Nell’ambito della responsabilità penale, le ipotesi di reato che più frequentemente ricorrono nello svolgimento dell’attività medica, sotto profilo del danno arrecato al paziente, sono comprese nell’ambito dei “delitti contro la persona”: omicidio, lesioni personali, omissione di soccorso, violenza privata. Secondo quanto previsto dall’art. 43 cod. pen., “il delitto ... è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Dal punto di vista della responsabilità civile (argomento che riguarda più da vicino la trattazione di questa tesi) i criteri fondamentali di valutazione della responsabilità medica non sono previsti espressamente ma risultano dall’elaborazione del concetto di colpa professionale, sulla base del coordinamento tra l’art. 1176 e gli artt. 1218 e 2043 del codice civile per quanto attiene,

rispettivamente, la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale. Si può quindi distinguere l’ipotesi in cui il medico arrechi danno al paziente nel corso della cura instaurata a seguito di una esplicita richiesta da parte di quest’ultimo (nell’attuazione cioè del cosiddetto “contratto di cura”), da quella in cui l’operato del medico si svolga a prescindere da un tale rapporto, o al di fuori dei limiti inizialmente previsti: in definitiva allorché manchi un’espressa o tacita manifestazione di volontà in ordine al trattamento terapeutico.

In caso di rapporto preesistente sorge l’obbligo di risarcimento, ex art. 1218 cod. civ. (“Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”).

In assenza di tale rapporto, ex art. 2043 cod. civ., a tenore del quale “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

La giurisprudenza ha elaborato un sistema ormai consolidato di principi sulla responsabilità civile professionale: si afferma che l’obbligazione che il professionista assume verso il cliente, per effetto dell’accettazione dell’incarico conferitogli (conclusione del contratto d’opera professionale), ha per contenuto (prestazione) lo svolgimento dell’attività professionale necessaria od utile in relazione al caso concreto ed in vista del risultato che, attraverso il mezzo tecnico professionale,, il cliente spera di conseguire (cosiddetta obbligazione di mezzi o di comportamento e non di risultato). Il

professionista, dunque, ha il dovere di svolgere l’attività professionale necessaria od utile in relazione al caso concreto ed ha il dovere di svolgerla con la necessaria adeguata diligenza. La diligenza che il professionista deve porre nello svolgimento dell’attività professionale in favore del cliente è quella media: la diligenza, cioè del professionista di preparazione professionale media e di attenzione media nell’esercizio della propria attività. Ove il professionista non ponga nello

svolgimento dell’attività professionale la diligenza media, la sua responsabilità verso il cliente per i danni a questo causati, è disciplinata dai comuni principi della responsabilità contrattuale. Perciò il professionista risponde di regola, verso il cliente, oltre che per dolo, anche per colpa lieve. La responsabilità del professionista è, invece, attenuata quando l’attività professionale da svolgere in relazione al caso concreto implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, come all’art. 2236 cod. civ.

Rimane comunque abbastanza elastico il concetto di diligenza media.

Il consenso informato

Il principio della volontarietà dei trattamenti sanitari è ribadito a livello costituzionale in ordine alla libertà personale (art. 13 Cost.: “La libertà individuale è inviolabile”), e soprattutto della salute,

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definita dall’art. 32, “fondamentale diritto dell’individuo” oltreché “interesse della collettività” e provvista di una particolare tutela, quale quella prevista al successivo comma, che rappresenta il fondamento immediato delle attuali previsioni: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Non del tutto conformi allo spirito dell’ordinamento costituzionale appaiono affermazioni secondo le quali la volontà eventualmente espressa all’atto della richiesta di cure mediche varrebbe a giustificare ogni accertamento e trattamento sanitario che dovesse effettuarsi nei confronti del paziente, soprattutto ove si tratti di interventi o accertamenti ritenuti di scarso rischio.

Si tende quindi a distinguere il consenso come espressione di volontà indispensabile ad instaurare un rapporto di cura che, intervenendo in riferimento al singolo atto medico, si configura come strumento di controllo di liceità e di correttezza nello svolgimento del rapporto stesso e quindi, come fonte di responsabilità per l’operatore sanitario.

Tale responsabilità può concretarsi, sul piano penale, nel reato di “violenza privata” (art. 610 cod.

pen.: “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa è punito ...”), o in quello previsto nell’art. 613 cod. pen. (“Stato di incapacità procurato mediante violenza”), a tenore del quale è passibile in pena “chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere e di volere”. Va notato che, quando dal fatto che sopprime la coscienza o la volontà derivi pericolo per l’incolumità della persona, esso è punibile come contravvenzione anche se è consentito, salvo che sia commesso

“a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria (art. 728 cod. pen.): è questa l’unica norma del codice penale che esplicitamente preveda il consenso del paziente ad un

trattamento compiuto da un sanitario.

Al criterio della maggiore o minore rischiosità dell’intervento si fa, per lo più, riferimento per giustificare l’obbligo di richiedere il consenso del paziente. Lo stesso fattore può incidere sulla forma, oltreché sul contenuto del consenso: ammettiamo infatti, in linea generale, che esso possa

“essere manifestato al sanitario, con un comportamento tacito”, ciò che riveli in maniera precisa ed inequivocabile il proposito di sottoporsi al trattamento prospettatogli, ma che man mano che si accentua il rischio delle indagini cliniche e degli atti curativi, specie di natura chirurgica, il consenso deve assumere una forma esplicita, chiaramente espressa e un contenuto sempre più specifico in relazione a quella determinata opera che si intende eseguire. Si richiede infatti che il malato venga reso edotto dalla effettiva natura della malattia e dei pericoli che l’atto operatorio comporta, con la prospettazione anche dei possibili esiti, incidenti sulla sua vita di relazione, cosicché il malato stesso possa decidere tra l’opportunità di procedere all’intervento, stante la ragionevole aspettativa di successo, e la possibilità di ometterlo, in mancanza di prevedibili vantaggi, esclusi in ogni caso dalla certezza di esiti infausti permanenti.

Validità dell’artroscopia diagnostica versus TAC e RMN

E’ interessante iniziare l’analisi degli attuali limiti dell’artroscopia diagnostica intesa e praticata come esame di routine: tale atteggiamento è da proscrivere in quanto sono attualmente a

disposizione dello specialista validissime tecniche diagnostiche per immagine (come ad esempio la TAC che, come riportato dalla letteratura, ha una accuratezza diagnostica complessiva dei due menischi del 90.17% con variabili che vanno dal 89.2% del menisco mediale al 96.1% del menisco laterale, e la RMN che propone una accuratezza diagnostica dell’84% complessiva dei due

menischi, ma è sicuramente più integrativa per quanto riguarda i legamenti) che, abbinata ad un clinica accurata, soddisfano in modo egregio l’istanza diagnostica.

Quindi solo casi selezionati non altrimenti risolvibili (come casi di condrocalcinosi in fase iniziale con corpi mobili o peduncolati non ancora calcificati e quindi con dubbio diagnostico alla TAC, oppure nella risoluzione della tipologia fine della lesione di crociato anteriore, oppure ancora nelle

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lesioni complesse di menisco esterno o nei casi iniziali di condrite (I e II) può essere giustificata la pratica artroscopica a livello diagnostico, nonché quando vi è discrepanza tra clinica e diagnostica per immagini.

Situazione limite per la loro non frequente ricorrenza sono le sospette lesioni isolate di legamento crociato anteriore (LCA) o lesioni meniscali in corso di patologia fratturativa endoarticolare: in tali situazioni, spesso, l’artroscopia diagnostica consente di trattare la lesione principale con interventi

“di minima”, spesso a cielo chiuso con notevoli vantaggi per il paziente.

L'artroscopia diagnostica ed interventi terapeutici

L’artroscopia diagnostica in associazione ad interventi terapeutici ha quindi un range applicativo abbastanza circoscritto a casi limite, questo perché la durata maggiore globale dell’intervento prolunga i tempi di esposizione ad agenti infettivi, aumenta la possibilità di formazione di sinechie articolari e prolunga la durata dell’anestesia con possibilità di complicanze anche gravi.

La prima raccomandazione che ne scaturisce è che se accertamento diagnostico deve essere praticato, questo deve essere il più breve possibile ed in anestesia locale, biblocco sciatico che permette, se necessario, di intervenire chirurgicamente, quindi, di allungare i tempi locali operativi.

Un altro grosso problema che si è venuto delineando non appena i mass media hanno intravisto una concreta possibilità di lucrare su pregresse lesioni, è quello della pretestazione.

E’ questo un nodo cruciale che ci sembra difficilmente risolvibile in quanto risulta spesso complicato per l’artroscopia stabilire e datare la cronologia di certe lesioni (come vedremo in seguito).

Ad esempio, mentre la lesione inveterata di crociato è di facile definizione rispetto ad una lesione recente, molto diversa è la circostanza relativa alla lesione meniscale che rappresenta il più costante oggetto di pretestazione.

(Difficoltà nello stadiare una eventuale pregressa lesione a breve latenza: mentre risulta facile stadiare una lesione a più di un anno di distanza, è estremamente difficile inquadrare nella giusta ottica una lesione di due o tre mesi).

Estremamente aleatorio, infine, è il discorso relativo alle varie condriti e corpi mobili, circa la stadiazione temporale dei quali, credo nessuno si impegnerebbe con convinzione. A ciò aggiungasi l’estrema laconicità che normalmente si riscontra nella descrizione documentale dei procedimenti artroscopici.

Inquadramento del danno in ambito assicurativo

Bisogna poi accennare alla differente accezione ed inquadramento del danno pretestato

rispettivamente in ambito assicurativo, RC e privato, e nel campo delle assicurazioni sociali: dato già abbondantemente recepito dall’utente che ha decisamente virato per la tutela sociale.

Bisogna notare ancora come l’eventuale sommarietà documentale trovi un contraltare costante in ambito privatistico ed RC, mentre questo praticamente non esiste in ambito assicurativo sociale: ne deriva dunque un costante aggravio della spesa sanitaria e previdenziale pubblica.

Meno frequente, ma non per questo di minor importanza, il problema penale troppo spesso sottovalutato, anche se il nuovo Codice di Procedura Penale, tramite l’introduzione del patteggiamento, tende all’attenuazione in sede civilistica.

Il dato più impugnabile è quello della lunghezza dell’intervento, quindi della durata dell’anestesia ed ultimo dell’esponenziale incremento della sua potenzialità aritmogena.

Il magistrato è pertanto in possesso di prove inconfutabili quali la esatta cronologia dell’intervento ed una “data recording” continuato, desunti ovviamente dalla cartella anestesiologica.

Inoltre bisogna ricordare come la sindrome da indennizzo una volta innescata divenga cieca e quindi come si possa ritorcere contro il chirurgo qualora insorgano delle complicanze in corso di

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intervento od esitino dei postumi a seguito del trattamento chirurgico: da questo scaturisce la necessità di caute indicazioni dell’artroscopia; sottolineiamo ancora il concetto della maggior cautela in corso di artroscopia diagnostica.

E’ interessante evidenziare come gli assunti e le certificazioni dell’artroscopista assumano oggi rilevanza sociale e patrimoniale.

Infatti come abbiamo già accennato, mentre esiste un freno dettato dal buon senso e dal rigore medico legale in ambito assicurativo imprenditoriale, stiamo assistendo ad una costante

“escalation” in ambito INAIL e pensionistico in generale, la quale ovviamente grava sulle spalle di ogni contribuente.

La “danza” delle concause, il “ballo” dei contenziosi con gli istituti patrocinati, nonché l’ampia tolleranza INAIL, conducono a sempre più frequente indennizzo di forme degenerative: siamo arrivati al riconoscimento infortunistico in presenza di corpi mobili endroarticolari a breve termine (5-6 mesi dal vantato trauma).

La pretestazione e la simulazione sono ormai tematiche con cui l’artroscopista deve confrontarsi giornalmente ed anche se le sue asserzioni possono essere sempre contestate, cominciano ad avere un discreto peso a livello decisionale in quanto, come abbiamo già detto, non esistono esami strumentali perfettamente fedeli e comunque molti sono i casi limite.

Valutazione di suture e rimodellamenti

Nella stima della chirurgia riparativa è opportuno definire ab initio una premessa: mentre nel caso della sutura del LCA è sempre possibile una buona valutazione degli esiti sia dal punto di vista clinico che dal punto di vista diagnostico per immagini (RMN), non così chiaro e semplice è il caso della valutazione della riuscita o meno di un rimodellamento o di una sutura meniscale.

Questo perché le indagini diagnostiche TAC e RMN, non ci permettono una sicurezza ed una discriminazione sufficiente, mentre la clinica risulta scarsamente oggettiva.

In merito alla valutazione degli esiti permanenti a seguito delle suture riparative e dei

rimodellamenti in caso di lesione meniscale parziale ci sembra che la tecnica si sviluppi su due canali principali: il primo concernente l’effettivo ripristino funzionale della struttura riparata o rimodellata; il secondo riguardante la quantificazione dell’eventuale danno anatomico residuo nelle varie accezioni in relazione al tipo di circostanza assicurativo.

Testare in modo attendibile la qualità della riparazione con mezzi strumentali è ovviamente

impossibile e solo un’ulteriore endoscopia potrà dire della restitutio ad integrum o di eventuali fatti condritici secondari.

E’ sottinteso che tale accertamento strumentale può essere motivato solo da ulteriori necessità terapeutiche e non certo da un’istanza valutativa.

Pensiamo quindi che debbano essere considerati ambedue eventi comunque riduttivi della validità articolare: la sutura vista sotto l’ottica di una iperproduzione fibrotica anomala, il rimodellamento (che è sempre di grado variabile) visto come una costante riduzione dei quanti di ammortizzazione fisiologica. Ma quanto riduttivi?

Valutazioni diverse fra i vari tipi di rapporto assicurativo

La diversità di valutazione fra i vari tipi di rapporto assicurativo debbono essere tenuti più che mai in considerazione in questa circostanza specifica: nel rapporto assicurativo privato, infatti, a seguito delle due succitate procedure non avremo alcuna diminuzione della funzione articolare ed il danno anatomico sarà ravvisabile solo nei rimodellamenti molto estesi.

Riteniamo pertanto equo un indennizzo tra 1% e 2%.

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Ben diversa ci appare la problematica in ambito RC, in quanto sia la riparazione che la riduzione comportano sì alterazioni minime articolari a breve termine, ma sicuramente influiscono in modo negativo sull’eutrofia articolare con fatti secondari condritici e sinovitici spesso di una certa importanza.

Le valutazioni correnti INAIL ci appaiono comunque nettamente faraoniche in quanto sembra che sia stata scarsamente recepita la profonda differenza circa il danno residuo a seguito di

meniscectomia totale o di meniscectomia parziale; riteniamo pertanto che valutazioni intorno all’11-12% non siano più assolutamente attuali (a seguito di meniscectomia parziale né tantomeno di sutura meniscale) ma debbano essere drasticamente ridotte di oltre la metà.

Vogliamo quindi in definitiva focalizzare il danno anatomico reale residuo che si rifletterà direttamente sul danno funzionale permanente.

A nostro modo di vedere la sutura meniscale riuscita e il rimodellamento convenzionale non

portano ad esiti permanenti dal punto di vista anatomico e possono determinare esiti funzionali solo in misura minima come già abbiamo accennato.

Le eventuali sequele artrosinovitiche dell’artroscopia chirurgica rappresentano una tematica a radice univoca che sarà trattata in seguito e che, se recidivanti, ci appaiono degne di considerazione e valutazione autonoma.

Sutura diretta dei ligamenti crociati

La sutura diretta dei ligamenti crociati, in acuto, non raccoglie ormai adesioni unanimi: una percentuale abbastanza consistente di chirurghi ortopedici preferisce affidare il primo tempo riparativo all’evoluzione naturale ed intervenire in tempi successivi con una sostituzione mista ritenendosi, con tale procedura, più tutelati da un punto di vista meccanico.

Adesso analizzeremo invece gli effetti e gli esiti della sutura diretta termino-terminale.

Come abbiamo già accennato la diagnostica per immagini è in grado oggi di definire in maniera pressoché ottimale la continuità anatomica della struttura ligamentosa ricostruita.

Nella valutazione degli esiti la radiologia va considerata in stretto pendant con il dato clinico oggettivo in quanto limitazioni articolari residue potrebbero essere legate, per esempio, ad un difetto di tensione del legamento stesso od a cospicue aderenze intrarticolari (sinechie).

Quindi ci sembra giusto che la valutazione globale degli esiti debba tener conto dei due parametri suddetti in maniera inscindibile.

Un’artroscopia diagnostica a fini valutativi appare quindi quantomeno di improbabile necessità;

l’artroscopia successiva a riparazione si renderà necessaria solo in caso di gravi limitazioni funzionali post-intervento e sarà quindi una procedura non strettamente diagnostica ma fondamentalmente terapeutica.

Ricostruzione per via artroscopica dei crociati

Il procedimento di ricostruzione per via artroscopica dei crociati, in acuto, è prevalentemente limitato al LCA, in quanto la ricostruzione del legamento crociato posteriore (LCP) è estremamente indaginosa per via artroscopica.

La via endoscopica appare invece idonea alla sutura diretta del legamento popliteo, il quale dopo riparazione non lascia, di solito, apprezzabili reliquati.

Circa le percentuali di valida tenuta meccanica della sutura di crociato in acuto, per via artroscopica e per via artrotomica, riteniamo che esse siano più o meno sovrapponibili con una apparente valida ricostruzione anatomica conferita da un’abbondante tessuto riparativo, il quale, in realtà, pressoché costantemente mostra un certo deficit elasto-meccanico.

Anche in caso di riparazione di legamento crociato la valutazione del danno varia abbastanza sensibilmente dal rapporto assicurativo privato alla responsabilità civile, in quanto la comparsa di

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shifting patologico femoro-tibiale, inevitabile in varia misura, dopo intervento riparativo, determinerà sicuramente un precoce stato di usura cartilaginea sotto forma di condrosi degna di considerazione nelle proiezioni valutative correlate all’ambito civilistico.

La valutazione dei processi degenerativi

Nell’ottica di una domanda di salute crescente, l’artroscopia sta “veleggiando” con molto favore da parte dell’utenza che spesso vede in questo accertamento chirurgico un momento determinante ai fini pretestativi.

L’informazione non è però ancora arrivata a livello totale per cui spesso la pratica artroscopica danneggia e non favorisce il presunto leso.

Intendiamo evidentemente riferirci in questo capitolo ai processi degenerativi preesistenti ad un trauma e che di detto trauma vogliono invece essere mistificati come conseguenza.

Abbiamo già espresso le nostre considerazioni in merito alla difficoltà che incontra

quotidianamente l’artroscopista nello stadiare cronologicamente le lesioni e questo decisamente è un punto a favore del pretestatore e chiaramente recepito da lui.

Il valore medico legale del referto artroscopico trova quindi in queste circostanze il suo limite più grande: ci sembra giusto attribuire una certa attendibilità al dato artroscopico quando questo venga eseguito nelle immediate vicinanze del trauma.

Non può avere, invece, nessun valore se eseguito a mesi di distanza dal trauma stesso.

In base alle considerazioni sovraesposte, rimane comunque incontrollabile e non fronteggiabile il fenomeno della “sostituzione” a fronte della quale purtroppo l’onere della prova è sostenuto solo dalle certificazioni mediche in quanto il dato anamnestico remoto positivo verrà costantemente e debitamente taciuto.

Patologia meniscale è scarsamente controllabile

Vogliamo in buona sostanza asserire che la patologia meniscale, seppur degenerativa, è scarsamente controllabile, dal punto di vista medico legale, tranne il caso limite, ad esempio, di una cisti

parameniscale che comunque continua a trovare delle strane accezioni.

Diverso è il tema riguardante la patologia dei crociati e muscolo popliteo sulla cronologia delle quali la stadiazione appare piuttosto semplice anche se non esattamente parametrata.

Le condriti, i corpi mobili e le iperplasie sinoviali sono, a nostro modo di vedere, sempre e solo fatti secondari ad una lesione primitiva la quale deve essere ben inquadrata e stadiata da un punto di vista medico legale: in assenza di questa necessaria precisione ci sembra errato e superficiale accettare un effetto sicuramente molto dilazionato nel tempo come effettivamente derivante da una lesione primitiva traumatica non bene identificata. Ci sembra altrettanto errato poi includere tali effetti remoti in una sommatoria maggiorativa in fase valutativa.

In merito alle condropatie ed ai corpi mobili come loro effetto susseguente, vogliamo ricordare come esistano delle forme primitive, forme post-traumatiche e forme degenerative che comunque, dal punto di vista macroscopico-artroscopico non possono essere distinte tra di loro e come pertanto l’utilità diagnostica artroscopica, in questi casi, sia praticamente nulla ed al contrario sia capace di apportare solo confusione soprattutto in ambito assicurativo sociale.

Valutazione degli impianti protesici ligamentosi

Non ci sembra il caso di affrontare, in questa sede, la tematica riguardante gli impianti protesici ligamentosi in quanto già condannati dalle più note statistiche policentriche.

Ci sembra doveroso, invece, spezzare una lancia a favore degli impianti misti i quali possono rendersi necessari in più di una condizione contingente e che, in definitiva, non creano nessun

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problema al paziente ma, anzi, conferiscono, se vogliamo, una stabilità primaria cronologicamente più favorevole (la riabilitazione può essere più tempestiva).

Pur a fronte di una corretta tecnica chirurgica ed in assenza di problemi postoperatori rilevanti, l’esito finale di tali impianti può risultare insoddisfacente. Prima di adire a soluzioni a cielo aperto è consuetudine procedere ad un accertamento artroscopico; ebbene, tale indagine, può essere

considerata irrilevante dal punto di vista legale (nella sua ripetitività) in quanto la sua valutazione sarà sempre e comunque del danno a fine cura.

Alla verifica artroscopica possono essere messi in evidenza sinoviti reattive o difetti di posizionamento dell’impianto.

Secondo noi l’aspetto sinovitico può condizionare i quanti di indennizzo (in plus) mentre,

relativamente al secondo problema, la sua risolvibilità non ne fa argomento di discussione medico legale se non in ambito di rivalsa nella legittimitazione passiva all’indennizzo.

Valutazione di “mal practice” precedente

A tutt’oggi non ci sembra ben focalizzato il problema del rilevamento di eventuali mal practice precedenti, in quanto esiste un costume di scudo deontologico causa di sicuro nocumento esistenziale e patrimoniale nei confronti dei pazienti. A nostro modo di vedere, le situazioni

conflittuali con cui il medico artroscopista deve confrontarsi sono riassumibili in quattro situazioni paradigmatiche:

a) procedimenti chirurgici, artroscopici e non, descritti in atti ufficiali e rilevabili come non eseguiti o parzialmente eseguiti, ovvero eseguiti in modo diverso all’indagine artroscopica (lesione meniscale pregressa non trattata oppure sutura di LCA non effettuata. Procedimento a cielo aperto pregresso di cui si rivela la diversità reale in artroscopia);

b) artroscopie precedenti che non hanno rimosso la causa patologica, fondamentalmente per problemi di difficoltà tecniche o per esplorazioni incomplete;

c) porte di accesso evidenti non seguite da indagini endoscopiche;

d) ipovalutazioni o ipervalutazioni della patologia presente e cioè fondamentalmente errori di diagnosi.

Un problema veramente spinoso con cui l’artroscopista deve confrontarsi e che di conseguenza il medico legale deve valutare su di un terreno deontologico insidioso, è quello delle “Artroscopie compiacenti”. Gli assicurati infatti hanno “scoperto” da qualche anno come l’avallo documentale clinico e strumentale di una pretestata lesione, possa, rivelarsi molto proficuo dal punto di vista lucrativo.

Questa situazione pone l’artroscopista di fronte a pesanti problemi e decisioni dal punto di vista deontologico.

Per quanto riguarda i precedenti errori di diagnosi il coinvolgimento dell’artroscopista non esiste.

Valutazione in ambito INAIL e pensionistico

Anche in ambito assicurativo obbligatorio il diffondersi a livello routinario della pratica

artroscopica ha portato ad un ridimensionamento riduttivo delle valutazioni, le quali ci sembrano comunque a tutt’oggi molto generose rispetto ai quanti correnti i RC o in rapporto assicurativo privato.

In ambito INAIL infine sussiste la spinosa questione dei processi degenerativi (condriti di vario grado) che sono comunque valutate, a nostro modo di vedere, ingiustamente, per carenza precipua dei crismi dell’infortunio.

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Difficile, in conclusione, attribuire una degenerazione articolare di grado variabile ad un flap- lesione meniscale primitiva o ad una qualsivoglia lesione meniscale anche più estesa.

Diverso è il discorso a proposito della degenerazione secondaria a pregressa rottura di crociato, dove effettivamente la instabilità articolare residua può condizionare una rapida usura articolare.

Il problema fondamentale nella gestione assicurativa obbligatoria è la impossibilità a datare le eventuali lesioni riscontrate di sicura origine metatraumatica da parte dell’artroscopista. Unica eccezione la pregressa lesione di crociato in merito alla quale delle precisazioni temporali, se pur grossolane, possono essere fatte.

Valutazione in assicurazioni private o in RC

In questo ambito assicurativo l’artroscopia ha portato molto chiarezza definendo in maniera pressoché esatta i quadri patologici che in era pre-artroscopica erano difficilmente definibili in indagini routinarie (artrografie).

Ha permesso altresì di inquadrare i limiti della validità diagnostica delle moderne tecniche di immagini, le cui percentuali di falsi positivi e falsi negativi sono già state illustrate.

Complessivamente l’indagine e cura endoscopica ha ridotto sensibilmente le percentuali del danno una volta riconosciute.

“Negatività atroscopica”

La pratica artroscopica già da tempo aveva portato lumi e chiarimenti in ambito assicurativo sociale, soprattutto riguardo a tematiche da sempre oggetto di valutazioni tutto sommato

estremamente soggettive: intendiamo parlare dei vari quadri degenerativi attribuiti più o meno ad eventi traumatici (tra l’altro questo capitolo si interseca intimamente con il problema della pretestazione).

Ebbene crediamo di cogliere proprio in questi giorni un dato significativo e cioè che solo ora, sull’onda del revisionismo pensionistico, si sta cominciando a tener conto di referti artroscopici tutto sommato fino a ieri ignorati o quanto meno sottovalutati.

Ancora la pretestazione trova spazio nelle pratiche artroscopiche a causa delle note difficoltà nel

“datare” la cronologia della lesione in merito alla quale abbiamo già avuto modo di sottolineare;

possiamo essere certi della datazione solo relativamente alle lesioni dei crociati.

Ricordiamo come la lesione meniscale possa avere delle spie indirette circa la sua vetustà (condrite satellite), ma non sempre le localizzazioni topografiche consentono delle strette analogie causa effetto.

Pertanto, in merito al problema della pretestazione, riteniamo superiore per l’estremo rigore l’iter conoscitivo tradizionale medico legale, per il mezzo, la causalità, l’occasione, l’idoneità lesiva, la corrispondenza cronologica.

Per quanto pratica chirurgica facile, nella stragrande maggioranza dei casi, l’artroscopia può causare danni ai pazienti.

Riteniamo che la circostanza più comune di danno sia l’eccessiva disinvoltura nella ripetitività dell’indagine o indagine-cura artroscopica.

Non è raro infatti imbattersi in soggetti che sono stati ormai già sottoposti a due-tre indagini artroscopiche.

Ebbene, dal punto di vista isto-patologico la procedura non è totalmente innocua, in quanto i tramiti di accesso provocano comunque cicatrice sinoviale con possibilità di metaplasia della medesima e la ripetitività della procedura ci sembra da proscrivere specialmente con l’uso reiterato di una porta centrale (accesso trans-rotuleo).

In merito ad ipotizzabili danni cartilaginei di natura ovviamente meccanica, nella ripetitività artroscopica non si hanno ancora studi istopatologici validi in merito, ma ci sembra a livello

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intuitivo che reiterate aggressioni articolari non debbano essere totalmente innocue per il mantello cartilagineo, specialmente nei quadranti sotto carico.

Sono queste considerazioni che avvalorano in maniera definitiva l’inutilità ed il possibile danno della cosiddetta “artroscopia diagnostica” la quale purtroppo viene a tutt’oggi praticata; pensiamo che tranne che in casi del tutto eccezionali dovrebbe essere collocata a giusta ragione nel capitolo delle mal practice.

Conclusioni

Concludendo la trattazione degli aspetti medico legali dell’artroscopia di ginocchio, possiamo affermare che essa offre caleidoscopiche sfaccettature e dobbiamo in definitiva riconoscere la complessità dell’argomento.

Mentre da un punto di vista clinico la validità diagnostica e terapeutica dell’artroscopia, in particolare quella del ginocchio, è stata abbondantemente dimostrata ed è quindi uno strumento fondamentale nelle mani del medico ortopedico esperto, non bisogna però dimenticare che si tratta pur sempre di una tecnica invasiva e come tale presenta delle ben precise indicazioni e dei limiti che non devono essere superati.

I problemi che l’artroscopia solleva dal punto di vista medico legale non sono pochi, a fronte della legislazione del nostro paese e in relazione all’utenza italiana.

Da qualche tempo peraltro abbiamo constatato un arroccamento negativo da parte delle compagnie di assicurazione, che in linea di massima ci sembra eccessivo per i motivi che crediamo di avere sufficientemente esposti, ed in base alla considerazione già espressa che la pratica artroscopica consiste pur sempre in una aggressione articolare non scevra di reliquati (soprattutto se ripetuta), e non certo assimilabili ad una semplice artrocentesi.

Crediamo comunque, in definitiva, che dalla semplicità e dalla disinvoltura con cui questa pratica chirurgica viene ormai gestita scaturiscano non poche problematiche medico legali, delle quali abbiamo cercato di sottolineare qualche aspetto, ma che riteniamo comunque in complessa e costante evoluzione.

F. Po, G. Calvosa, M. Candela, L. Antola Istituto Fisiopatologie dell'Apparato locomotore, Pisa Direttore Prof. A. Faldini

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