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Caterina Sagna

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Academic year: 2021

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APPENDICE

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Note biografiche

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Caterina Sagna

Caterina Sagna inizia come interprete nella Compagnia Sutki di Torino, sotto la direzione della madre Anna Sagna. Nel 1980 entra a far parte della Compagnia di Carolyn Carlson al Teatro La Fenice di Venezia, per la quale in- terpreta Undici Onde, Underwood e Chalk Work e partecipa agli spettacoli Al- phabet, Orfeo e Euridice, Anonyymit e Atem di Jorma Uotinen. Terminata l’esperienza alla Fenice, Caterina Sagna decide di seguire la Carlson in Fran- cia, dove partecipa alle coreografie Still Waters, Dark e Light from the Abyss.

Nel 1987 torna in Italia, fonda la Compagnia Nadir e avvia un ciclo di co- reografie, che durerà dieci anni, ispirate a opere letterarie illustri, tra cui Les Bonnes di Jean Genet per lo spettacolo Lemercier nel 1988, La voce Umana di Jean Cocteau (1989), Lenz di Georg Büchner (1990), Quaderni in ottavo di Franz Kafka (1991), gli scritti di Corrado Bertoni per Le sommeil des malfaiteurs (1992), le Elegie di Duino di Rainer Maria Rilke per lo spettacolo Le passé est ancore à venir (1993) e i pensieri di Paul Valéry per La migration des sens (1995). Unica eccezione di questo periodo è Isoi (1994), spettacolo sulla simili- tudine, realizzato con la sorella Carlotta Sagna. Questa prima fase di lavoro, ca- ratterizzata da una ricerca introspettiva e visionaria, si conclude nel 1999 con una trilogia composta dai due soli Cassandra (sul testo omonimo di Christa Wolf) e Esercizi spirituali (da Ignazio di Loyola, interpretato dalla coreografa), e dal duo La testimone, realizzato con la sorella Carlotta Sagna, su testi originali di Lluïsa Cunillé.

Dopo un breve periodo di riposo, nel quale la Compagnia Nadir viene

sciolta, nel 2000, Caterina Sagna fonda in Italia l’Associazione Compagnia

Caterina Sagna. Insieme al nome della compagnia cambia anche l’approccio

alle coreografie: con la creazione di La Signora (2000), inizia un nuovo periodo

caratterizzato da un aspetto inedito della coreografa, quello dell’umorismo e

dell’ironia. Segue Transgedy, assolo per Alessandro Bernardeschi creato al Fe-

stival d’Avignon Vif du Sujet nel 2001, anno che segna l’inizio della collabora-

zione con Roberto Fratini Serafide, autore dei testi e della drammaturgia di So-

relline (tratto da Piccole donne di Luisa May Alcott), Relazione Pubblica, realiz-

zato in collaborazione con Carlotta Sagna (2002), e Heil Tanz! (2004) e Basso

Ostinato (una creazione del 2006), che determina un allontanamento dalla vena

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ironica e un ritorno ai temi metafisici. Nel 2005 la Sagna trasferisce la compa- gnia a Rennes, in Francia, dove Basso Ostinato debutta il 7 novembre 2006, per il festival Mettre en scène del Théâtre National de Bretagne.

Nel giugno 2002, Caterina Sagna ha ricevuto inoltre il premio Nouveau talent chorégraphique dalla prestigiosa Società francese

SACD

- Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques.

Raffaella Giordano

Raffaella Giordano nasce a Torino nel 1961 e inizia lo studio della danza nel 1978 con Carla Perrotti e Anna Sagna presso la Scuola Bella Hutter di To- rino. Nel 1980 entra nella Compagnia Teatro e Danza La Fenice di Venezia, diretta da Carolyn Carlson, partecipando agli spettacoli Undici Onde, Underwo- od e Chalk Work. Nel 1981, quando ancora è sotto le direttive della Carlson, riesce a far parte del Wuppertal Tanztheater di Pina Bausch e partecipare agli spettacoli Kontakthof , Blaubart e Le sacre du printemps. Quando, nel 1984, la Carlson torna in Francia, Raffaella Giordano entra nella Compagnia L’Esquisse, sotto la direzione artistica di Joëlle Bouvier e Régis Obadia, parte- cipando alla creazione di Vertée per il Festival di Carpentras. Alla fine dello stesso anno è cofondatrice della Compagnia Sosta Palmizi con la quale, co- me danzatrice e coreografa, crea gli spettacoli Il Cortile (1985), Tufo (1986) e Perduti una notte (1989).

Questi sono gli anni in cui la Giordano è molto attiva soprattutto come co-

reografa. Nel 1987, infatti, realizza la sua prima coreografia individuale per sette

danzatori, Ssst...., in coproduzione con Bois de la Batie di Ginevra; nel 1988 la-

vora per l’opera Rosamunde al Teatro La Fenice di Venezia, con la regia Codi-

gnola e nel 1991 per la regia di Pugliese nello spettacolo di prosa La Medea di

Porta Medina. Nel 1989 inizia inoltre la sua collaborazione come coreografa per

la Folkwang Hochschule di Essen, in Germania, dove crea per l’omonima

compagnia diretta da Pina Bausch lo spettacolo Inuit e per la quale realizza nel

1995 lo spettacolo Il volto di Aria.

(5)

Nel 1990 prende parte come danzatrice allo spettacolo Il muro, per la re- gia Pippo del Bono e le viene assegnato il Premio della Critica “Danza&Danza”

quale migliore interprete della nuova danza italiana. Nello stesso anno la Com- pagnia Sosta Palmizi si scioglie per ricostituirsi, cinque anni più tardi, in Asso- ciazione culturale Sosta Palmizi diretta dalla stessa Giordano e da Giorgio Rossi.

Nel 1992 debutta a Reggio Emilia con la Coreografia per sei danzatori I forestieri, coprodotto con il Centro della Danza di Reggio Emilia, l’Associazione I Teatri e il Teatro Comunale di Cagli (PS). Nel luglio dello stesso anno coreo- grafa e interpreta l’assolo L’azzurro necessario coprodotto dal Festival di Polve- rigi. Nel 1994 debutta a Torino Danza, in collaborazione con Giorgio Rossi, lo spettacolo Danze rosa blu per sei danzatori. E l’anno successivo, nuovamente insieme a Giorgio Rossi, riunita la Sosta Palmizi in Associazione Culturale, partecipa alla Maratona Internazionale di Danza presente all’interno del XXXVIII Festival di Due Mondi di Spoleto con frammenti da Il cortile. Partecipa poi alle riprese di alcune scene del film di Bernardo Bertolucci Io ballo da sola in cui viene utilizzato materiale sempre tratto da Il Cortile. Sempre dello spesso anno è l’assolo Fiordalisi da lei creato e interpretato, in collaborazione con il Festival Segni Barocchi di Foligno. Nel 1996 è inoltre invitata in residenza presso il C.N.D.C. L’Esquisse di Angers per creare la coreografia per sei danzatori ...et anima mea...

Nel luglio 1999, Raffaella Giordano presenta al Festival Sipario Ducale di Cagli Quore. Per un lavoro in divenire, un progetto sostenuto dal C.N.D.C.

L’Esquisse di Angers, per quattro interpreti. Nel giugno dello stesso anno le

viene assegnato per la seconda volta il Premio della Critica “Danza&Danza

1998/1999” quale migliore coreografa-interprete della nuova danza italiana con

lo spettacolo La Notte trasfigurata/Il Canto della Colomba su musiche di Scho-

enberg; e nel luglio riceve, per la stessa coreografia, il Premio Gardadanza per

la danza contemporanea italiana come migliore spettacolo 1998 ed è premiata

anche come miglior interprete italiana. L’anno successivo, invece riceve il Pre-

mio Speciale Ubu per aver gettato col suo Quore. Per un lavoro in divenire uno

sguardo critico sulla realtà e più in generale per il coraggio e l’intensità delle

scelte coreografiche da lei operate nel suo Teatrodanza aldilà della danza.

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Giorgio Rossi

Dopo aver studiato a Milano presso la scuola Quelli di Grok, Giorgio Rossi frequenta il Conservatoire National des Artes du Cirque et du Mime a Parigi. Tornato in Italia, lavora, dal 1980, con Carolyn Carlson presso il Teatro e Danza La Fenice di Venezia, partecipando agli spettacoli Undici onde, Un- derwood e all’opera Orfeo di Gluck. Tre anni dopo, uscito dal gruppo di danza veneziano fonda il Teatro Alogeno a Milano e, un anno dopo, crea l’assolo Questo e l’altro. Sempre nello stesso anno è cofondatore della Compagnia Sosta Palmizi con la quale, come danzatore e coreografo, crea gli spettacoli Il cortile (1985), Tufo (1986) e Perduti una notte (1989). Nel 1990 si scioglie il nu- cleo dei fondatori della compagnia, ma Giorgio Rossi e Raffaella Giordano man- tengono in vita l’Associazione culturale Sosta Palmizi, di cui diventano diret- tori artistici. Tra le creazioni di Giorgio Rossi, a partire da questa nuova espe- rienza, ricordiamo: Balocco (1992), Edadaus (1993), Danze rosa blu (1994) in coproduzione con il Romaeuropa Festival e in collaborazione creativa con Raffaella Giordano, Sul coraggio Pasatua che va alla fontana (1995), Come nu- vole e E la tua veste bianca (1996), Piume (1997), che riceve il Premio Floren- cio 2000 - Uruguay come miglior spettacolo straniero dell'anno, Ai Giardini (1998), Spara alla pioggia (1999), Otre e E d’accanto mi passano femmi- ne…(2000), Caso e Gli scordati (2001), Lolita (2003), Hic! (2003), Alma (2004), Il vestito della scimmia (2004) e Favolare (2005).

Oltre all’attività di coreografo e danzatore, Giorgio Rossi si dedica assi- duamente all’insegnamento, tenendo seminari e lezioni in numerose istituzioni.

Michele Abbondanza

Michele Abbondanza si forma a New York con Alwin Nikolais e Merce

Cunningham per tornare in Italia all’inizio degli anni Ottanta, inserendosi nel

contesto culturale più vivo della danza italiana di quel periodo: nel 1982 entra a

far parte della compagnia Teatro e Danza la Fenice di Venezia diretta da Ca-

rolyn Carlson, per la quale interpreta Underwood e Chalkwork. Nel 1984, quan-

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do il rapporto tra la danzatrice americana e lo stabile veneto cessa, un gruppo di danzatori, tra cui Abbondanza, forte di questa esperienza, dà vita alla Com- pagnia Sosta Palmizi. Dopo aver coreografato e interpretato Il Cortile (1985) e aver partecipato alla sola creazione coreografica del successivo Tufo (1986), Abbondanza si stacca dai Sosta Palmizi per proseguire un percorso artistico autonomo, non dopo aver fatto parte, come aiuto coreografo, alla Compagnia che Carolyn Carlson aveva formato a Parigi dopo il ritiro dalle scene veneziane.

All’interno della Compagnia incontra Antonella Bertoni e, insieme, danzano, per la Carlson, in Dark (1988), Steppe (1990), Cornestone (1991), Commedia (1993) e nel film-documentario Città d’acqua prodotto da RAIDUE, fino a che nel 1995 fondano la Compagnia Abbondanza Bertoni, con la didascalia di Associazione Trentina Formazione Produzione Danza e Spettacolo, il cui primo lavoro risale a quattro anni prima, Terramara, per proseguire con Pabbaja- abbandono della casa (1994) e Spartacus - il dì che più non c’è (1995).

Nell’agosto dello stesso anno partecipano al film di Bernardo Bertolucci Io ballo da sola. Negli anni Novanta la coppia prende parte a varie serate d’improvvisazione con i musicisti: John Surman, Steve Lacy, Michel Portal, Bar- re Phillips, Sebi Tramontana e Michel Doneda.

Nel 1993 Michele Abbondanza partecipa con Alessandra Ferri al film La luna incantata prodotto da

RAIDUE

che riceve il primo premio della sezione vi- deo al Festival di Cannes.

Nel 1996 i due coreografi vincono il premio Danza & Danza come “mi-

gliori interpreti” e il premio Cascina per la coreografia. Nello stesso anno si svi-

luppa il sodalizio artistico/produttivo con i registi Letizia Quintavalla e Bruno Sto-

ri che porta alla realizzazione di due lavori: nel 1997 lo spettacolo per ragazzi

Romanzo d’infanzia (vincitore Premio ETI-Stregagatto 1997/98) e nel 1999 Fia-

ba buia. Nel giugno del 1998 stesso anno vincono il Premio Gardadanza “mi-

gliori interpreti”, mentre nel 2000 creano Figli d’Adamo per la Compagnia A-

terballetto di Reggio Emilia e prende forma il Progetto Ho male all’altro intorno

al tema del sacrificio per amore, liberamente ispirato alla tragedia greca. La

prima parte, Alcesti, debutta nel 2002 al Reggio Parma Festival seguita due an-

ni dopo da Medea, in prima nazionale all’Opera Estate Festival di Bassano del

Grappa. La terza parte del progetto, Polis, debutta invece al Festival Oriente

Occidente di Rovereto nel settembre del 2005). Su invito dell’INDA (Istituto

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Nazionale per il Dramma Antico), curano i movimenti scenici dell’Edipo Re con la regia di Roberto Guicciardini, presentato al Teatro Greco di Siracusa per il quarantesimo ciclo di rappresentazioni classiche.

Michele Abbondanza e Aantonella Bertoni studiano e praticano lo zen di cui rimane profonda traccia nelle loro creazioni e nella loro costante attività di formazione e conducono laboratori che prevedono sia lo studio della tecnica sia lo sviluppo della composizione coreografico-teatrale attraverso l’improvvisazione.

Dal 1997 Michele Abbondanza è anche docente di danza presso la Scuola del Piccolo Teatro di Milano diretta da Luca Ronconi.

Roberto Castello

Roberto Castello nasce a Torino nel 1960 e la prima esperienza nel mondo della danza si verifica nel 1980, quando entra a far parte del Teatro e Danza La Fenice di Carolyn Carlson a Venezia, per il quale gruppo danza per le coreografie Undici Onde, Underwood e Chalk Work.

Nel 1984 è poi cofondatore del collettivo Sosta Palmizi con il quale par- tecipa, sia come coreografo che come interprete, alle creazioni di Il Cortile, Tufo e Perduti in una notte.

Nel 1990 lascia Sosta Palmizi, crea lo spettacolo Enciclopedia l’anno

successivo e, nel 1993, fonda, a Lucca, in Toscana, la Compagnia Aldes, rea-

lizzando numerose produzioni teatrali e non, tra cui il provocatorio Siamo qui

solo per i soldi (1994), Biosculture (1998), installazione multimediale modulare

per spazi espositivi, Il fuoco, l’acqua, l’ombra (1998), spettacolo-installazione

creato in collaborazione con Studio Azzurro, Le avventure del Signor Quixana

(Premio Danza&Danza 1999-2000), fino a intraprendere, nel 2002, insieme a

Alessandra Moretti, il progetto pluriennale Il migliore dei mondi possibili, con cui

vince il Premio UBU 2003 per la sezione Teatrodanza. Lo stesso anno

dell’avvio di questo lungo progetto La Biennale di Venezia lo chiama a realizza-

re i video di scena di Waltz Trought Time, produzione conclusiva della direzione

artistica di Carolyn Carlson.

(9)

Nel 2004 La Soffitta, il centro di promozione teatrale del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, gli dedica una personale, a cura di Eugenia Casini Ropa e, nello stesso anno, sia il Festival TorinoDanza che il Centro Espace des Arts di Chalon (Francia) lo invitano per una panoramica sul lavoro della compagnia. Sempre nel 2004 debutta con Disperso, parte

VII

di Il migliore dei mondi possibili, presentato ai Festival Fabbrica Europa e Drode- sera. Il 2005 è il debutto di Stanze, spettacolo per spazi atipici, presentato in va- ri Festival tra cui il Vie Festival di Modena, mentre nell’estate Castello cura la direzione artistica del Festival Rizoma ’05, all’interno della manifestazione Artin- formazione. Roberto Castello è, infatti, fra i promotori di varie manifestazioni di danza contemporanea, quali nel 1996 Arte in movimento e Haiku, Strade Con- temporanee nel triennio 1997-1999, e Atto #0 danza toscana nel 2004.

Dal 2005 è docente di “coreografia digitale” presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera 2 a Milano e presidente dell’ADAC Toscana.

Francesca Bertolli

Francesca Bertolli nasce a Firenze nel 1957 e si trasferisce ben presto con la famiglia a São Paulo in Brasile, dove inizia i primi studi di danza classica.

Tornata in Italia all’età di tredici anni si trasferisce a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Danza, dove si appresta all’attività di danzatrice nel 197. Questo è un periodo importante soprattutto per le conoscenze e le collabo- razioni che la Bertolli effettua con i fenomeni teatrali di quegli anni, firmando, per esempio, alcune coreografie per il gruppo teatrale La Gaia Scienza.

Nel 1980 entra nella Compagnia di Carolyn Carlson presso il Teatro La

Fenice di Venezia, facendo quindi nuove esperienze di danza diverse dalla sua

formazione classica; per la Carlson interpreta gli spettacoli Undici Onde, Un-

derwood e Chalk Work. Dopo che la coreografa americana torna a Parigi, la

Bertolli è tra i fondatori della Compagnia Sosta Palmizi, cui collabora come

autrice e interprete delle prime due coreografie Il cortile, nel 1985 e Tufo, l’anno

successivo. Successivamente la Bertolli sente la necessità di intraprendere una

propria strada artistica, che si basi soprattutto sull’insegnamento e su progetti

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didattici legati alla danza e rivolti ai bambini. Dopo una breve collaborazione con le scuole elementari di Lucca, il progetto decade, per poi essere ripresa in seguito al Teatro Stabile di Bolzano, con la partecipazione di Paola Soccio e la costituzione di Ideadanza.

Dal 1992 al 1995 con l’attore Bobo Nigrone cura, inoltre, il Progetto Bi- gnami Teatro e Danze, che prevede alcune riduzioni danzate e recitate dei classici:l’una è La storia di Angelica e Orlando, libera interpretazione in chiave ironica, ma sostanzialmente fedele, delle vicende di Angelica e Orlando tratte dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, dove lo stile asciutto ed essenziale del- la recitazione e delle coreografie è sostenuto da una precisa partitura di gesti, parole, suoni e silenzi che determinano un vero e proprio “concerto” per danza- trice e attore; l’altro è Gli eroi, riadattamento dell’Iliade, due spettacoli che han- no molto successo e che sono tutt’oggi replicati senza però la presenza di Francesca Bertolli, sostituita in scena da Mariapaola Pierini.

Roberto Cocconi

La formazione di ballerino di Roberto Cocconi si svolge tra Roma (i cui maestri furono Elsa Piperno e Joseph Fontano), New York (frequentando la scuola di Ruth Currier) e soprattutto Venezia, dove studia con Jorma Uotinen e Carolyn Carlson presso il Teatro e Danza La Fenice diretto dalla coreografa americana e per la quale danza in Chalkwork e Underwood.

Conclusasi l’esperienza veneziana se ne apre una nuova e altrettanto

decisiva per il giovane danzatore: dalle ceneri della Fenice nasce la Compa-

gnia Sosta Palmizi, di cui Cocconi è tra i fondatori; l’ensemble trova un suo o-

riginale equilibrio alternando coreografie firmate collettivamente e lavori dei sin-

goli ballerini, guadagnando in poco tempo i favori della critica. In cinque anni di

attività si susseguono spettacoli come Il Cortile (vincitore del Premio Ubu 1985),

Porto franco di Francesca Bertolli, Puer cum puellula di Michele Abbondanza,

Ssst... di Raffaella Giordano, Dai colli di Giorgio Rossi, Morgana dello stesso

Cocconi, fino ai collettivi Tufo e Perduti una notte, che chiudono, con il triennio

1986-89, una stagione creativa particolarmente fertile.

(11)

Mentre Sosta Palmizi sopravvive nelle mani dei soli Raffaella Giordano e Giorgio Rossi, Cocconi prosegue un percorso individuale che non aveva mai abbandonato (a esempio danzando nello spettacolo Auf dem gebirge hat man ein gerschrei gehort, della compagnia Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch nel 1985), che lo porta a creare e interpretare il duetto Polvere d’ombra (1990) e ad approdare all’insegnamento di danza contemporanea alla scuola del Pic- colo Teatro Città di Udine.

Il 1992 è l’anno di una nuova svolta, con la nascita della Compagnia A-

rearea, a cui lega il suo nome dal primo spettacolo (Lilium, dello stesso anno)

fino a oggi: ricordiamo, tra le sue creazioni, P.E.E.P. Ovest (1994), Q.Q. (1996),

VENTI (1998), Le Mura (1999), La Terra (2001), Le Ultime Cose, (2001), Dentro

(2002), TreQuarti (2002), Tivisitutu (2002, nato per festeggiare il dieci anni della

compagnia), Morir d’amor (2003).

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Incontri

(13)

A colloquio con MICHELE ABBONDANZA

[ Rovereto (TN), Teatro Cartiera, 23 ottobre 2006 ]

Q

UALI SONO STATE LE TAPPE FONDAMENTALI DEL TUO LAVORO CON

C

AROLYN

C

ARLSON

,

SIA COME BALLERINO CHE COME COREOGRAFO E IN COSA SI RIASSUME L

INFLUENZA CHE LA

C

ARLSON HA ESERCITATO SUL TUO ATTUALE LAVORO

?

Carolyn è stata la prima maestra che ho avuto. Una grande fortuna! E

Carolyn, non perché è stata la mia prima maestra, quello è stato una caso, è

soprattutto stata la prima voce in Italia che ha cominciato a unire il discorso sul-

la danza con un discorso di emozione, di poesia, di poetica, quasi una reazione

al formalismo americano che allora Cunningam, che promulgava il ballerino sì

come portatore dell’Universo ma senza un’anima, come facente parte di una

cosa più generalizzata. Lei, invece, comincia a parlare di danza a personam, lei

ti diceva: «tirami fuori la tua danza». Allora era un discorso rivoluzionario. A-

desso sembra quasi naturale che ogni artista porti sulla scena qualcosa che gli

appartiene. Ma allora c’era molto il codice, il danzatore in sé era portatore di un

codice e era molto bravo se riusciva al pubblico quel codice, che poteva essere

il non-classicismo tentato da Cunnigam, la stessa Marta Graham, così rivolu-

zionaria negli anni Sessanta, Settanta, tutto sommato si atteneva di un codice

molto preciso (la “tecnica Graham”). E Carolyn è stata un’anarchica d questo

punto di vista, pur essendo molto tecnica e uscendo da una scuola con un codi-

ce molto forte. Come spesso succede, si diventa grandi maestri in reazione a

una maestria dalla quale hai imparato ma reagisci in maniera opposta. Infatti è

stata la prima ballerina di Nikolais e ha voluto però liberarsi da questi lacci. Poi

ai suoi allievi ha indicato questa strada della libertà che è una cosa che noi con

Raffaellla Giodano, con Roberto Castello, con Giorgio Rossi, con Caterina Sa-

gna, ognuno, in realtà, dietro uno stile completamente diverso, mantiene. Que-

sta anarchia, questa singolarità nell’espressione del gesto anche a differenza di

altri coreografi italiani, che stimo molto, sono riconoscibili da un gesto, noi inve-

ce no. Puoi capire che è un mio lavoro per un’anima che c’è sotto, non per una

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coreografia, e questa non è una cosa così banale. Tante compagnie come

A- TER

sono invece riconducibili a uno stile. Non esiste uno stile Carlson, lei non ci ha passato uno stile, eppure si parla di maestra di scuola. Che cosa vuole dire?

Perché esso è uno stile dell’anima, ci ha insegnato a pescare, non a mangiare il pesce, come si usa dire in oriente, e ognuno sta pescando con la propria ani- ma. La Carlson ci ha trasmesso questo, unitamente a un’alta professionalità, a una attenzione al particolare; non è che noi non studiassimo tecnica, ne face- vamo anche parecchia. Ma quella precisione nella libertà, perché troppa libertà non va bene, troppa precisione neanche. È stata la prima che mi ha parlato del- lo Zen, anche in senso assoluto. Poi io sono stato quello che più di tutti ha se- guito una radice Zen, che sono stato in un tempio ho preso dei voti quasi da monaco (mi sono fermato prima). Quindi per me non posso fare a meno di pen- sare che è lei stata la prima a parlarmi dello Zen. Poi io ho approfondito questo ramo mentre lei è passata ad altro. Per dirti come lei, parlandoti di danza, par- lava della vita. È una figlia della danza, una figlia di quel ramo di danza.

Q

UALE PENSI SIA LA TUA AUTONOMIA RISPETTO AGLI INSEGNAMENTI DELLA

C

ARLSON

?

Io ho tirato fuori la mia italianità. Lei si appoggiava su esempi alti, filosofi- ci, ideali. Io mi sono appoggiato ad Alberto Sordi, a Totò, al mio essere italiano.

Perché c’era il “sugo” italiano, con il bello e il brutto, senza cadere nella sce-

neggiata. Era ciò che a Carolyn piaceva di me. Lei è sempre stata un po’ algida

(madre finlandese, padre americano), pur essendo molto emozionante, emo-

zionata e vibrante, ma non è mai arrivata alle esplosioni di energia italiana, che

gli italiani sanno mettere fuori. E tutti noi del gruppo di Carolyn, poi anche la

Compagnia Sosta Palmizi, hanno seguito questa strada. Per quanto mi ri-

guarda, io ho seguito un modo molto italiano di una gestualità anche molto pra-

tica e narrativa (come in spettacoli come Romanzo d’infanzia) come segno ge-

nerale è sempre quasi espressionista, forte, mentre in Carolyn era sempre tutto

molto suggerito, estetizzante.

(15)

C

OSA NE PENSI DEL RAPPORTO TRA DANZA E COMICITÀ

?

L’ironia fa parte dell’essere italiano, del ridersi e piangersi addosso. Ca- rolyn ci ha fatto vedere che era possibile battere questa cosa e credo che cia- scuno di noi da questo abbia tirato fuori il proprio carattere specifico anche dell’essere latino sia il tragico, la tragedia, il dramma di origine greca e anche l’ironia tipica dell’italiano, la passione l’esplosività, la sceneggiata, l’emotività . Sto parlando sempre pensando a una strada che ho seguito io. Raffaella [Gior- dano], per esempio, è rimasta molto sul lato algido se pur molto vibrante. Quindi il fatto della comicità è una controprova del fatto che Carolyn apre la possibilità di una strada di una visione. Poi ci devi andar dentro tu e fartelo proprio.

Q

UALI SONO STATE LE MOTIVAZIONI DELLA NASCITA E DELLO SCIOGLIMENTO DEL GRUPPO

T

EATRO E

D

ANZA

L

A

F

ENICE DI

C

AROLYN

C

ARLSON

?

So che a un certo punto un direttore artistico Italo Gomez che chiamò Carolyn a Venezia. Forse questo è più inerente al perché della venuta della Carlson in Italia e non alla nascita del Teatrodanza. Comunque le due cose si possono anche far coincidere, perché prima dell’avvento di Carolyn in Italia c’era poco o niente, a Roma, Piperno, Fontani. Erano gli anni in cui Carolyn, la- sciando la compagnia di Nikolais, su invito dell’allora ministro della cultura fran- cese, si trasferì a Parigi per proporle una produzione. E lo spettacolo è memo- rabile: Trio. Fu una roba che fece spalancare gli occhi a tutti. E venne anche in Italia, in una memorabile tournée a Roma e a Milano, dove ancora se ne parla.

Il signor Gomez, dopo alcuni anni, dopo l’esaurimento dell’esperienza parigina,

chiama la Carlson a Venezia. Non credo che fosse facile farla staccare da Pari-

gi, ma Venezia, città d’acqua, credo che esercitò su di lei un potere immenso,

per cui ella accettò. Abbiamo avuto questa fortuna immensa. Accettò e venne

nell’’80 in Italia; questo coincise con la nascita del figlio, quindi un momento

creativo. La fortuna non fu solo avere Carolyn, una grande artista, in Italia e noi

essere nell’età giusta: lei non voleva con sé dei professionisti ma dei giovani,

avrebbe potuto avere dei professionisti, anche se in Italia non c’era il Teatro-

danza, c’erano dei ballerini professionisti ed erano quelli che lei odiava. Lei cer-

cava dei giovani forti generosi energici da formare. La fortuna di trovarla in un

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momento creativo straordinario in cui solo una madre può essere, biologica- mente madre, ha allattato suo figlio e, al tempo stesso, ha allattato noi. Io poi sono stato l’unico a tornare a lavorare con lei in Francia. E non era la stessa cosa.

E

QUAL ERA LA DIFFERENZA

?

Non era la stessa. C’è un momento in cui una persona è particolarmente adatta e ha più voglia di formare. Forse anche perché ero io più formato. Sono andato a Parigi quasi come primo ballerino, dove poi ho conosciuto Antonella [Bertoni] e siamo diventati i suoi principali riferimenti in scena. Dieci anni prima a Venezia ero “territorio vergine”.

E l’arrivo di Carolyn coincide con la nascita del Teatrodanza. Ma non su- bito. Carolyn ha seminato in giro, poi noi abbiamo creato: e l’esempio principale è stato Sosta Palmizi. Carolyn nell’84 è tornata a Parigi e noi non volevamo far cadere tutto nel vuoto. Non sarebbe caduto neanche se ci fossimo separati.

Siamo stati vicini. Erano anni duri: il Teatrodanza non esisteva, ci siamo dati una mano a vicenda ed è nata Sosta Palmizi, sulla spinta dell’esperienza avuta con Carolyn, dei successi avuti con lei, del nome “i figli di Carolina” abbiamo da- to credibilità a ciò che facevamo. Non nego, però, che sono stati anni duri, per- ché all’inizio non ci ha dato una lira nessuno, viaggiavamo con un furgone di seconda mano, montavamo le scene del Cortile, giravamo con il tappeto di danza (adesso li hanno nei teatri), scaricavamo trenta metri di tappeto. È stato duro ma, al tempo stesso, propedeutico.

Il maestro poi va ucciso, va abbandonato. È così che sviluppi le tue quali- tà. Con gli insegnamenti di Carolyn ognuno di noi è diventato a sua volta un maestro.

C’

ERA IN

S

OSTA

P

ALMIZI UNA RICERCA CHE PROSEGUIVA IN UNA DIREZIONE DI- VERSA DA QUELLA INDICATA DA

C

AROLYN

C

ARLSON

.

Certo. Il Cortile non ha avuto più da subito a che vedere con quello che

era in precedenza. Carolyn ha smosso una cellula, una vibrazione, un parto che

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è stato poi stato Il Cortile, che non aveva più niente a che vedere con lei, se non per una prossimità, nel talento, nella bravura. Ma espressione di altro. Il senso dell’arte è creare, non copiare. Ed è venuto fuori questo gruppo che ha lasciato a bocca aperta il resto dell’Italia nell’’85. Chi l’aveva mai vista una dan- za a terra, come degli animali? Ma non facendo il mimo o scimmiottando, rap- presentando una novità in questo. E questo coincide con la nascita del Teatro- danza. Dal gruppo di Sosta Palmizi (che, non dimentichiamo, i due [Giordano e Rossi] sono rimasti e si chiamano Sosta Palmizi, ma con la Sosta Palmizi ori- ginaria non hanno niente a che vedere) Caterina Sagna non ne ha fatto parte fin dall’inizio, Roberto Castello si è poi staccato fondando il suo Aldes, io ho fondato la Compagnia Abbondanza Bertoni e così gli altri: tutti abbiamo cer- cato la nostra strada.

Q

UAL ERA IL METODO DI LAVORO CHE USAVATE

? T

UTTI DAVANO TUTTO

?

Assolutamente. Non ci siamo un ritiro a Montepulciano quasi mistico, re- ligioso. Ci siamo presi una pausa a Natale (ricordo che era a cavallo delle feste natalizie) [il 1984] è stato l’anno in cui ha nevicato di più negli ultimi dieci anni, e noi provavamo sotto la neve, al freddo, sembrava l’avesse voluto il cielo. Una scelta di vita. L’arte, come tutte le cose (come fare la missionaria od insegnare in un asilo), è una scelta di vita e rimani separato da tutti e da tutto. E così ab- biamo fatto noi e così è rimasta per ognuno di noi un metodo di lavoro.

E

L

ESPERIENZA È FINITA PERCHÉ AVEVATE ESAURITO CIÒ CHE DOVEVATE O VO- LEVATE DIRE

Io sono stato il primo ad andarmene, fu molto dura ma poi hanno seguito

anche Roberto Castello e Roberto Cocconi. Non è proprio che avevamo esauri-

to il da dirsi, è successa un’altra cosa: i risultati dei Sosta Palmizi si sono avuti

dopo cinque, sei anni; c’è chi ha tenuto duro e c’è chi non ce l’ha fatta. Perché

un anno po’ essere duro, ci metti la fatica, il tempo e non ci guadagni, e può

andar bene; il secondo anno, stessa cosa; ma dal terzo anno comincia a essere

pesante. E anche se con Il Cortile cominciavamo a girare non guadagnavamo.

(18)

È durissima; soprattutto per chi come me e Cocconi che venivamo dall’altra par- te dell’Italia. Sono sopravvissuti i torinesi Giordano, Castello e Rossi. Ma noi vi- vevamo molto lontano e quando la povertà ti attanaglia non c’è cosa peggiore e anche piccole cose come abitare a Torino ti possono salvare. Inoltre, la separa- zione da Sosta Palmizi coincise per me con l’arrivo della lettera del militare; a quel punto no ce la feci più e mollai. Chi ha tenuto duro [Giordano e Rossi] ha avuto il vantaggio di vedere premiata questa forza con delle sovvenzioni che sono tutt’ora il doppio di quelle che prendo io.

O

RA IN

I

TALIA UN

T

EATRODANZA ESISTE

? U

N

T

EATRODANZA PURAMENTE ITA- LIANO ESISTE

,

È ESISTITO

,

ESISTERÀ

?

È esistito, esiste ed esisterà. Però io mi trovo sempre in difficoltà di fronte a questo concetto. Perché noi non abbiamo avuto un fenomeno come la nouvelle danse francese, come la danza olandese in cui era riconoscibile uno stile e tutt’ora. Perché in Italia tutti i fenomeni sono sempre poco categorizzabili, se mi chiedi di riconoscere uno stile del Teatrodanza italiano faccio davvero fa- tica, non perché non c’è , ma perché sono tutti molto differenti. Tra la Casadei e la Giordano c’è differenza. Eppure tutte e due si possono chiamare Teatrodan- za. E questo non è male, perché non siamo stati invasi non abbiamo subito uno stile che pur con delle libertà sia riconoscibile, assolutamente. È più un codice, un nome. Anch’io mi definisco facente parte del Teatrodanza anche se mi piace di più chiamarmi “compagnia di danza”, ma capisco anche che non siamo as- sociabili all’

ATER

o a una Cosimi. Il mio Teatrodanza però è molto diverso da qualunque altro: come Rossi che si avvicina al circo, alle clownerie, con un cer- to tipo di poetica esplosiva, urlata, oppure una Giordano che usa una poetica più suggerita. Sono totalmente diversi.

V

OI

S

OSTA

P

ALMIZI SIETE ANCHE STATI INFLUENZATI DA

P

INA

B

AUSCH

Negli anni Ottanta Pina Bausch girava in Italia. E proprio durante gli anni

della Fenice con Carolina Pina venne a Venezia e fece Kontakthof e noi rima-

nemmo a bocca aperta. Come cinque anni dopo l’Italia è rimasta a bocca aper-

(19)

ta guardando Il Cortile noi siamo rimasti senza parole nel vedere i ballerini ve- stiti normali seduti in fondo, a un certo punto uno di loro (Dominique Mercy) si alza, viene in proscenio e fa una smorfia per cinque minuti: era straordinario nella sua semplicità. Certo che siamo influenzati da Pina Bausch. C’erano dei maestri che ora ce li sogneremmo, abbiamo visto ballare la Bausch, Cunnin- gham, Marta Graham, e quando hai dei grandi maestri puoi apprendere da loro e diventare bravino. C’era un gruppo francese, gli Esquisse si muovevano danzando sulle ginocchia, senza musica e con dei bordoni di sottofondo. E noi abbiamo seguito anche loro. Raffaella andò a ballare con Pina e con gli E- squisse, nel periodo in cui Carolyn ci lasciò; ognuno fece le proprie esperienze e poi, formata Sosta Palmizi, ciascuno, a turno, insegnava agli altri cinque. È stato tutto un passaggio di cose senza accorgersene. Io, per esempio, lavorai con Bob Curtis. Ci fu una commistione di generi e di influenze straordinarie.

I

L SIGNIFICATO DEL NOME

“S

OSTA

P

ALMIZI

E DI

I

L

C

ORTILE

.

Il Cortile era un Kontaktofh, un luogo di contatto, un cortile appunto, dove però ci sono più animali che persone. Luogo d’incontro di tanti lavori che dava- no questo segno di comunità, di luogo di ritrovo e noi abbiamo deciso di dare questo nome per definire un luogo in cui gli animali si incontrano.

“Sosta palmizi” è stato un nome puramente inventato. Volevamo un no-

me che non avesse alcun significato per non desse un senso preciso, ma delle

sensazioni: “sosta” è il fatto di fermarsi, un lavoro sull’immobilità, sui tempi un

po’ diversi rispetto a quelli tradizionali, è un nome strano, quasi più automobili-

stico; e l’altro, “palmizi”, avrebbe dovuto spostare il tutto in un’altra regione, ad

altre temperature. È un nome surreale. Avevamo trovato altri nomi come “la fa-

tal quiete” abbiamo messo in un computer i nomi che ci piacevano, tra cui “so-

sta” e “palmizi”, e il computer li accoppiava. “Sosta palmizi” ci è rimasta impres-

sa per cui l’abbiamo scelta. Con il logo di sei personaggi e mezzo (il curatore)

che sostano sotto una palma. Che poi nei nostri spettacoli non si sostava per

niente, anzi, erano molto dinamici. Esattamente il contrario. Io con i Sosta Pal-

mizi ho fatto solo Il Cortile e Tufo, i due spettacoli più forti. Tufo l’ho fatto come

assistente alla regia (ho firmato come coreografo e non come interprete) e Raf-

(20)

faella dice che ho fatto uno sbaglio perché poi dopo Tufo la compagnia si è sciolta, perché l’equilibrio dei sei non era più garantito; dice che lo sbaglio è sta- to fare uno spettacolo senza di te. Non perché io fossi più importanti degli altri ma perché era un equilibrio quasi perfetto i cui tutti davano qualcosa.

Poi ognuno di noi ha fatto vedere ciò che valevano con tanti sacrifici.

Però fa molta rabbia ricordare come eravamo, e noi eravamo dei mostri delle bestie rare fortissime. Forse Sosta Palmizi si sarebbe conclusa da lì a poco comunque, magari senza rabbia e accidia (siamo arrivati alle carte bollate) ci saremmo separati naturalmente dopo aver fatto qualche altro spettacolo, qualche altro capolavoro (se me lo passi). Non ci hanno aiutato, non ci hanno dato una lira e questo fa rabbia; se io avessi tra le mani un gruppo di ragazzi ta- lentuosi gli darei tutto quello che ho. Ci compravano Il Cortile (che se non mi sbaglio costava due milioni ) e basta; ma dateci un posto, fateci lavorare, fateci crescere! Niente. Avevamo messo in moto la domanda al Ministero ma ci vo- gliono almeno cinque anni di esperienza e noi siamo morti prima. Ora addirittu- ra vogliono eliminare il nome Sosta Palmizi e dividersi in Rossi e Giordano, lasciando Sosta Palmizi come involucro che li contiene. Ma Sosta Palmizi è morta da subito, e, definitivamente, con Perduti una notte, lo straordinario trio che hanno fatto Castello, Rossi e la Giordano.

P

ARLAMI DELLO STRAVAGANTE CONNUBIO

T

EATRODANZA E TEATRO TRADIZIO- NALE AL

P

ICCOLO DI

M

ILANO

. C

OME SEI ENTRATO A FAR PARTE DEGLI INSEGNANTI DI

S

TREHLER

?

C’è lo zampino di Carolyn Carlson. Strehler si innamorò del talento della

Carlson e del suo modo di insegnare e chiese di insegnare al Piccolo. Lei rispo-

se che non avrebbe potuto farlo in maniera periodica ma che avrebbe potuto

indicare chi può insegnare, allievi che aveva molto vicini. E fece il nome di Ra-

faella e il mio. E infine andai a insegnare al Piccolo nel 1996, l’anno prima della

morte di Strehler, poi venne Ronconi a insegnare., la cosa venne molto apprez-

zata e tutt’ora continua. È strano: insieme ai grandi del teatro lirico e di prosa

accademico c’è un outsider come il sottoscritto. Alcuni allievi affermo che è un

bene che ci sia un metodo di lavoro come il mio che tende all’emotività che

bilancia il lavoro più razionale di Ronconi.

(21)

A colloquio con RAFFAELLA GIORDANO

[ Cortona (AR), 24 novembre 2006 ]

I

N COSA SI RIASSUME L

INFLUENZA DI

C

AROLYN

C

ARLSON NEL TUO LAVORO DI COREOGRAFA E BALLERINA

. E

QUALE PENSI SIA LA TUA AUTONOMIA RISOPETTO AL SUO

METODO

”?

È molto difficile rispondere a questo tipo di domande; non è che qui inizia e qui finisce. Non solo, è anche il contesto storico ci sono casi coincidenze e in- croci da cui dipendono i lavori di ciascuno. Come natura vuole le cose vengono sviluppate attraverso la propria esistenza,è inevitabile che ci sia un cammino che si differenzia pur tenendosi legato. Anche perché anche quando si differen- zia completamente, qualcosa inevitabilmente rimane. Io potrei dirti che me ne discosto completamente, che non c’è nessuna traccia, ma è assolutamente contraddittorio perché ciò che è stato il tuo referente primo, che sia poi rivolu- zionato completamente è comunque un punto fisso, una cosa che ti ha influen- zato profondamente, che ti ha dato tutta una serie di input. Sicuramente la sen- sibilità che ho sviluppato verso un orientamento meno formale, ho fatto una ri- cerca sottolineando meno l’aspetti estetici, coreografici tout court. Sento che sono molto legata sia a Pina, sia a Carolina, che agli Esquisse, anche non si vede niente nel mio lavoro oggi, a tutte le persone che sono state fondanti e fondatrici all’interno di un mio cammino verso la sensibilità. Carolina mi ha dato un senso di misura alta, di contatto con una serie di forze energetiche, con delle prospettive profonde anche perché la sua profondità si basa su un livello abba- stanza retratto, legato al sentimento, per me la forza di Carolina è un’astrazione molto forte, anche di purezza legata a quella astrazione. Una quantità di cose che sento essere tutte mie nonostante poi abbia messo a fuoco altre questioni, ho una formazione e una cultura diversa, sono una persona diversa.

Quando le persone sono più “vergini” possono avere un’attitudine più li-

bera, più aperta a percepire una serie di questioni su un cammino che non era

conosciuto più di tanto. Carolyn è sempre stata libera nel suo essere.

(22)

Carolyn mi ha dato il suo insegnamento, le basi. Con la sua generosità mi ha istruito su quello che sono le sue qualità e “credenze”. È una grande ma- estra e ballerina.

P

INA

B

AUSCH HA ESERCITATO UNA GRANDE INFLUENZA SULLA FORMAZIONE DEI

S

OSTA

P

ALMIZI

,

DOVE CIASCUNO PORTAVA QUALCOSA CHE AVEVA APPRESO DA ALTRE FONTI

,

OLTRE AI COMUNI INSEGNAMENTI DELLA

C

ARLSON

.

È chiaro che ognuno porta, non quello che ha imparato, ma se stesso e dentro se stesso ci sono le sue basi, punti di vista, incontri, scontri. A volta è anche inconscio: uno non dice: -ho imparato questo! Porto questo-. Porta se stesso e il mondo che è l’incontro tra ciò che ha recepito e ciò che vive dentro di lui.

Pina è stata una apertura emotiva molto forte , dal punto di vista intimo, quasi fosse una famiglia, a quel tempo lì. Anche per come erano fuori dal lavo- ro. Sono stata poco perché sentivo che sarei rimasta lì per sempre. Qualcosa mi ha fatto dire –no!- ma ho sofferto anche molto di questo distacco. A Pina de- vo questo sentimento rivolto alle questioni relazionali, “relative”: c’era un lirismo nel gesto e nella comicità che mi toccava molto. Gli Equisse invece avevano un’energia molto forte, erano come dei guerrieri del palcoscenico, molto primiti- vo, avevano delle qualità molto diverse.

Per me, da sempre, è stato chiaro che l’uomo era uno, con due gambe e due braccia, è sempre lui. Non ho mai amato dividere le cose, mi sembrava un’osservazione violenta di guardare le cose. Per me era bello cercare di non escludere le diversità, le possibilità. La questione non era tanto dire prendo un po’ quello e di quell’altro. Però il corpo può generare molti colori, ci sono dentro di lui molte possibilità, pur nelle diversità. Poi c’erano le tecniche più orientali che ho sviluppato in quegli anni di riabilitazione del corpo, lavorando con perso- ne ipersensibili sulla ricostituzione del rapporto dell’organismo con il mondo e con se stesso…

Era un grande mondo che mi girava intorno e che entrava nel mio lavoro.

(23)

P

ER QUALE MOTIVO SI È CONCLUSO IL

T

EATRO E

D

ANZA LA FENICE DI

C

AROLYN

C

ARLSON

?

Carolyn se ne è andata perché il contratto di lavoro che aveva con il di- rettore della Fenice [Gomez] era finito. Era di quattro anni e, finito, se ne è an- data.

I

L LAVORO DELLA CARLSON HA COMUNQUE AVUTO UNA GRANDE IMPORTANZA NEL CAMBIARE LA MENTALITÀ DEL PUBBLICO ITALIANO

.

Questo lo possiamo dire oggi ma al tempo la cosa non era così tangibile.

L’Italia, poi dorme. Ci sono state molte esperienze che sono nate in quegli anni e che poi sono morte, per mancanza di attenzioni, le risorse, la volontà ricono- scendone l’importanza. Probabilmente c’erano delle questioni in teatro econo- miche con il teatro o altre concause che hanno giocato nella conclusione del Teatro e Danza della Fenice.

P

ARLAMI DELLA NASCITA DELLA

C

OMPAGNIA

S

OSTA

P

ALMIZI

.

È nata un semestre prima dell’arrivo mio e di Giorgio [Rossi]. Michele,

Francesca, Cocco e Roberto si erano incontrati a Udine e avevano fissato alcu-

ne tracce, avevano dato il nome alla Compagnia e avevano chiamato quel lavo-

ro Il Cortile. Finita l’esperienza con Carolina, avevamo tanta voglia di lavorare,

avevamo chiesto di essere prodotti dalla Fenice, ma Gomez aveva rifiutato. Per

cui ci eravamo un po’ dispersi, ma la volontà di continuare qualcosa insieme ci

ha fatti riunire qualche mese dopo. Abbiamo poi trovato una residenza a Mon-

tepulciano , abbiamo messo insieme i soldi che avevamo guadagnato con un

lavoro per la televisione Obladì, Obladà e abbiamo cominciato da capo. Aveva-

no un entusiasmo, una creatività molto spontanea, non era costruita. Infatti du-

rante l’ultimo anno con Carolyn durante la tournée in Francia, era il suo com-

pleanno e avevano una decina di giorni a Lione e avevamo deciso, sempre in

modo molto spontaneo di farle come regalo uno spettacolino e così durante le

ore libere avevamo presentato The missing witch. Era per noi normale spostare

dei punti di vista; la palla ha rotolato e la cosa ha trovato poi un suo posto. Ab-

(24)

biamo trovato il posto a Montepulciano grazie a una conoscenza di Giorgio, e i soldi ci venivano da questa cosa che avevamo fatto per la televisione: cercava- no dei danzatori per fare dei fumetti in carne e ossa in un programma sperimen- tale condotto dalla Dandini. Quei soldi ci hanno permesso di creare Il Cortile.

E

COME AVETE FATTO A PORTARE IL VOSTRO LAVORO AL

T

EATRO

N

UOVO DI

T

ORINO

?

Abbiamo debuttato a Montepulciano e poi con una serie di eventi siamo tornati a casa [Torino], una piazza importante.

P

ER QUALE MOTIVO VI SIETE POI TRASFERITI A

T

ORINO

?

Noi non abbiamo mai avuto una sede, né una sala prove. Però io e Ro- berto [Castello] eravamo di Torino, Giorgio [Rossi] vi si è trasferito, mentre con gli altri ci trovavamo quando potevamo. L’ufficio l’abbiamo fatto a Torino e quin- di c’era poi una sede e anche la persona che ci aiutava era di Torino, si è quindi creata una sede principale. Le prove le facevamo però qua e là dove trovavamo delle stanze (atroci). Ma non siamo mai stati fissi da alcuna parte.

Q

UALI SONO LE CAUSE CHE HANNO PORTATO ALLA FINE DELL

ESPERIENZA DEL- LA

S

OSTA

P

ALMIZI

?

La fine della Sosta Palmizi è dipesa da una serie di concause molto complesse che andavano dalla difficoltà economica in generale, dalla nostre personalità molto forti e anche eventi della vita che ci hanno messo in difficoltà.

Quando Michele è andato a fare il militare nessuno gli ha detto di non andare,

ma è vero che da quella cosa per me lì c’è stata una chiarezza: non volevo fare

il secondo spettacolo senza Michele. Avevo proposto alla Compagnia di aspet-

tare Michele per fare il nuovo spettacolo. Ma la compagnia decise di farlo u-

gualmente, forse per la paura di non stare al passo con le questioni e per me fu

un periodo molto doloroso. La Sosta Palmizi, comunque è finita dopo Perduti

una notte, anche se in quegli anni ci sono state tante vicissitudini. Il Cortile è

(25)

stato l’unico spettacolo on cui eravamo tutti e sei. Però poi la Sosta Palmizi è stata anche Tufo e Perduti una notte. Certo che Il Cortile è stato lo spettacolo che ha avuto più successo, lo spettacolo più riuscito, in qualche modo, più spontaneo, fatto con più comicità. Poi ci siamo confrontati con altre difficoltà:

Cocco [Roberto Cocconi] è andato a fare il militare, non c’erano molti soldi, etc.

Michele dopo il militare sarebbe anche rientrato ma aveva proposto di fare un assolo ma non era stato accolto.

Comunque abbiamo lavorato gratis per tutta una vita.

C’

È STATO DA

I

L

C

ORTILE A

P

ERDUTI UNA NOTTE UN PERCORSO ARTISTICO

. Come vita vuole, le cose si evolvono.

Q

UAL È IL TUO RAPPORTO CON L

INSEGNAMENTO

,

OGGI

?

Questo strumento di relazione è sempre stato molto importante e ho ela- borato il mio lavoro in larga misura attraverso questa dinamica. Poi quello che trasmetto dovresti chiederlo a quelli che lo ricevono. Ho avuto tanti momenti e luoghi in questo spazio dell’insegnamento. Mi piace, è importante per me per- ché ricevo molto da tutti, c’è uno scambio. Tutto quello che si gioca nello spazio dell’insegnamento si gioca poi sulla scena. È vero, però che durante le prove non c’è da avere pronto qualcosa. È sempre stato un unto centrale e anche per costruire i miei spettacoli uso questo processo di studio, di attraversamento, di scoperta, non cerco materiale per costruire lo spettacolo, ma lo spettacolo è fi- glio della autenticità del nostro processo di lavoro.

È

COME DICEVI PRIMA

,

CHE LA PERSONA È UNICA

,

CI SONO DELLE

LINEE

CHE

CONVERGONO A LUI E RECEPISCE

,

ANCHE INCONSCIAMENTE

,

DEGLI ELEMENTI CHE SO- NO POI PER LUI IMPORTANTI PER LA REALIZZAZIONE DELLO SPETTACOLO

.

Precisamente.

(26)

P

ER QUANTO RIGUARDA IL

T

EATRODANZA ITALIANO

,

SI PUÒ DEFINIRE UN

T

EA-

TRODANZA IN

I

TALIA OGGI

?

Esiste in modo disorientato, disordinato con pezzi mancanti, con oblii, con difficoltà. Non c’è niente di lineare che possa avere una storia conseguita.

Quando avevamo cominciato noi esisteva già, c’erano delle persone che lavo- ravano in questa direzione. Sicuramente adesso siamo di più. Teatrodanza è stato un modo di chiamare l’evoluzione della danza un po’ moderna, un po’ con- temporanea, era un tentativo di dire una danza che è viva da cent’anni e che sembrano passati solamente due anni. Perché nel nostro Paese c’è un buco di memoria, non stiamo inventando niente di nuovo, siamo figli degli spostamenti che sono stati fatti precedentemente. È il tentativo di dire una danza che si spo- sta dalla danza di fine Ottocento che rispecchiava una data società, dei valori, delle valenze e delle forme per parlare di questi valori. Adesso viviamo in una società molto diversa ma che non esisterebbe se non ci fosse stato tutto que- sto. È tutto figlio di quello che viene prima, che ci piaccia o che non ci piaccia, consapevoli o inconsapevoli. Il Teatrodanza è da tempo un termine che è entra- to a far parte delle discussioni, è stata la Germania a inserire questa parola in Europa, come in Francia c’era la nouvelle danse française. Personalmente mi sento più legata a una “danza d’autore” (come il cinema) che rispecchia mag- giormente la contemporaneità, che non nega niente alla tradizione, che evolve in un terreno che è quello della tradizione; perché una elevazione, un allargare le braccia sarà sempre quello da quando la danza esiste, poi la ricerca di altre valenze, cosa voglio dire, come voglio “toccare”, in senso largo, cosa voglio comunicare, nel senso di trasmettere, di scoprire, di far circolare determinate in- formazioni, questioni. Quindi, sì, il Teatrodanza esiste, con delle grandi difficoltà e con delle strade molto diverse; non essendoci mai state delle scuole, dei luo- ghi adibiti di confronti, non essendoci stato questo, poi questo e quest’altro tutto è vissuto in modo disorganizzato e disordinato nel Paese. Forse, proprio perché noi [Sosta Palmizi] abbiamo avuto un tipo di scuola comune, si notano in noi, nel nostro modo di insegnare dei tratti comuni, vedo cosa passa, cosa arriva che abbiamo in comune, è evidente, con tutte le nostre differenze. Fosse anche soltanto una possibilità di conoscere una misura di qualità di un certo tipo.

Il Teatrodanza, quindi, non ha dei connotati così precisi. Dato che non ci

sono degli spazi protetti, gerarchici precisi, per cui anche noi ci siamo confron-

(27)

tati con giovani che facevano un tipo di danza molto differente. C’è un notevole movimento e gli italiani sono dappertutto, anche con grande qualità, si scoprono italiani in posti bizzarri, che insegnano o compiono percorsi personali di ricer- ca… Ci sono tante sorprese nel nostro Paese. Purtroppo, questo, da alito a del- le ignoranze: non sappiamo dell’esistenza degli altri, facciamo le cose in modo parrocchiale pensando di essere i soli a farlo, non vogliamo confrontarsi forse per la paura di essere derubati del cibo o dell’ascolto del pubblico, di avere concorrenza. Ci sono una infinità di difficoltà. Ci vorrebbero delle leggi più ido- nee dal punto di vista istituzionale. Essendo noi fautori di tutto, dell’insegnamento, del carico del furgone, del lavaggio dei costumi, alla scoper- ta di come tenere insieme delle persone che vivono lontane a patto di non ave- re delle compagnie fisse, di non avere abbastanza soldi; c’è un lavorio un’energia per trovare delle strategie alternative per andare avanti che è anche una cosa che alcuni di noi, di questa generazione, ha già ucciso, altri vanno a- vanti ma con delle difficoltà estreme. Perché è una lotta continua, una militanza che si reinvesta ogni giorno. E questo può essere considerato come una ric- chezza, perché ogni volta non ci “sediamo”, ma le cose le facciamo solo perché sono necessarie per la nostra evoluzione interiore, perché ci sono dei buchi e- conomici che vanno coperti…

Tutti quelli che fanno danza nel nostro Paese sono in grandissima diffi-

coltà. Negli altri Paesi non è così, e negli altri Paesi si domanderebbero come

fanno in Italia. Qui c’è molta superficialità.

(28)

A colloquio con GIORGIO ROSSI

[ Cortona (AR), 24 novembre 2006 ]

C

OME SEI ENTRATO A FAR PARTE DEL

T

EATRO E

D

ANZA

L

A

F

ENICE DI

C

A- ROLYN

C

ARLSON E PER QUALE MOTIVO POI IL GRUPPO SI È SCIOLTO

?

Sono entrato perché sono andato a fare un seminario nella pasqua del 1980 a Orange con Larrio Ekson. Mi dette il suo numero di telefono e mi disse di chiamarlo dopo un paio di mesi. Io lo chiamai e mi disse che Carolyn faceva un seminario a Como e se ero interessato potevo andare perché aperto a tutti.

E lì legai subito con Roberto Castello, Raffaella Giordano e Francesca Bertolli.

Sono entrato come gli altri del gruppo, attraverso questo “provino” tenuto da Carolyn.

La compagnia di Carolyn Carlson si è sciolta perché i sindacati l’hanno

fatto sciogliere. Lei è letteralmente crollata di fronte al lobbysmo sindacale dei

macchinisti, degli operatori del teatro. Noi eravamo tutti molto giovani (dicianno-

ve, vent’anni) e se volevamo essere ballerini “normali” dovevamo sottostare alle

leggi sindacali per cui ogni cinquanta minuti di prove spettano cinque minuti di

pausa, che non si possono fare più di quattro ore di prove al giorno, etc. Invece

con Carolyn si poteva provare dalle undici del mattino fino alle sette di sera op-

pure un giorno non lavorare, a seconda di quello che richiedeva il suo metodo

di lavoro, cosa desiderava fare. Per ovviare al problema sindacale venivamo

pagati come primi ballerini, guadagnando tanti soldi, quelli che ci permisero poi

di fare Il Cortile. Carolyn è poi crollata per queste pressioni che le venivano

dall’organizzazione teatrale. Io, nell’ultimo anno non ci sono stato perché ero

talmente discolo che Carolyn mi consigliò di uscire dal suo gruppo. E la ringra-

zio ancora oggi per questo. Fu un segno educativo per la mia vita, anche se, in

quel momento, mi sentii crollare il mondo sotto i piedi: ero ballerino privilegiato

della compagnia, ho anche sostituito Larrio [Ekson]. Ma è stato meglio così per-

ché ho poi passato i più begli anni della mia vita.

(29)

D

OPO AVER LASCIATO LA

C

OMPAGNIA

T

EATRO E

D

ANZA DI

C

AROLYN

C

AR-

LSON

,

QUALI ESPERIENZE HAI FATTO

?

Ho lavorato con Dominique Petit a Parigi. Poi a Montpellieur con Jean Roceau e con Antonio Viganò. Poi con un gruppo punk e a Milano con due atto- ri di canto, primo spettacolo che faceva il

CRT

nel 1983 e i gruppi giovanissimi che facevano parte di questa rassegna erano Raffaello Sanzio e Padiglione Italia, gruppi di danza che stavano nascendo in quel periodo. Padiglione Italia non esiste più, ma Andrea Taddei, uno dei fondatori, è oggi scenografo. Ho poi fatto un assolo a Montepulciano intitolato Questo e l’altro prodotto dal Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano e che ha dato la possibilità alla Sosta Palmizi di risiedere nella cittadina.

S

OSTA

P

ALMIZI È NATA A

U

DINE SENZA DI TE A

R

AFFAELLA

. P

OI VI SIETE TRA- SFERITI A

M

ONTEPULCIANO

.

Sì. E ci siamo completamente autoprodotti per Il Cortile. A Montepulciano c’hanno dato una stanza per alcuni giorni per effettuare le prove.

C

OME È STATA L

ESPERIENZA DI

O

BLADÌ

O

BLADÀ PER RAIDUE

?

Eravamo molto giovani e soprattutto Raffaella e Francesca avrebbero potuto fare carriera nella televisione, ma la loro hanno sempre continuato per la loro strada, seguendo la propria etica. E io ne sono contento.

L’esperienza a

RAIDUE

è stata innanzitutto molto divertente.

E

VI HA PERMESSO DI RACIMOLARE I SOLDI NECESSARI PER PRODURRE

I

L

C

OR- TILE

Due grandi sfortune abbiamo avuto all’epoca e che ci trasciniamo

tutt’ora. Innanzitutto che non c’era un Dipartimento dello Spettacolo (come non

c’è anch’ora) in grado di riconoscere gli artisti e non poi da parte nostra non

siamo stati in grado di organizzarci. Abbiamo avuto un organizzatore che sper-

perava soldi e non ci organizzava gli spettacoli.

(30)

C

OSA RAPPRESENTAVA LO SPAZIO SCENICO IN

I

L

C

ORTILE

?

Ugo Volli ci fece la stessa domanda e ognuno di noi scrisse un tot di pa- gine su cosa era per lui quello spazio in cui si muoveva.

Il Cortile era prima di tutto uno spazio di una visibilità altra di ciò che ci si aspettava da noi. Dopo aver fatto Undici Onde, e gli altri Chalk Work e Under- wood un movimento enfatico, astratto, un po’ post-moderno americano

Noi non abbiamo inventato nulla, se non il fatto che eravamo in un lin- guaggio della danza astratto evocativo ed energetico con una forza in campo alta, nel senso che è astratta, come la musica: la danza e la musica sono arti che stanno in cielo, il teatro sta in terra (creato da un codice parlato, da un pen- siero..). Noi eravamo giovani e carini ma allo stesso tempo eravamo “sporchi”, ci rotolavamo per terra, con degli stracci per abiti.

D

OPO

I

L

C

ORTILE AVETE INTRAPRESO UN ALTRO PERCORSO CON

T

UFO

?

Rivedendoli si vede una grande crescita, una maturazione interna alla compagnia. Perduti una notte è il più potente dei tre, non finito perché non c’era la presenza degli altri.

Quando Il Cortile è uscito il mondo della danza ci ha isolato, mentre il te- atro di ricerca e di sperimentazione ci ha fatto lavorare tantissimo in Italia, nelle rassegne noi eravamo con Raffello Sanzio, La Gaia Scienza, Falso Movi- mento, il Teatro Settimo, tutti questi gruppi che facevano parte del teatro di immagine, che poi hanno fatto il teatro italiano degli ultimi vent’anni.

Tufo è stato un ritornare alla danza, come se poi volessimo riaffermare la

danza; questo non è stato un errore, ma ha determinato uno spostamento di i-

dee rispetto al percorso del Cortile e del desiderio che egli portava di creare

qualcosa di diverso da tutto ciò che avevamo fatto fino a quel momento. In Tu-

fo, c’era un ritornare alla danza pura, coreografare. Il Cortile era invece uno

stanziamento, Tufo era un viaggio, due cose molto diverse. Il Cortile è il cortile

dove vivono personaggi che sono sotto il tiro del cecchino oppure sono il popolo

del Kurdistan o gli Armeni, come me li immaginavo io, gente cioè che ha una

propria stanzialità e al tempo stesso non gli è riconosciuta questa esistenza (gli

Armeni si trovano solo lì, non sono sparsi nel Mondo come gli ebrei, per esem-

(31)

pio). Hanno fatto svariate ipotesi su cosa rappresentassimo sulla scena: c’è chi ha detto che eravamo dei post-atomici, dei sopravvissuti oppure degli animalI;

ma quando emettevamo quella specie di grugniti noi li chiamavamo “fare i gru- gniti”, non “fare il maiale”. Usavamo sempre nomi legate a delle azioni fisiche.

Comunque noi siamo degli animali ma quando vediamo che qualcuno esce dal canone del muoversi viene etichettato come “animale”, invece sono un uomo che do libero sfogo al mio istinto. Anche perché non c’è imitazione, in re- altà non c’è niente di animale: per esempio quando emettiamo il grugnito ci muoviamo danzando, sembriamo più egiziani che animali, ma dal momento che facciamo quel verso siamo paragonati ai maiali. Abbiamo sempre evitato ciò che era espressione corporea come mimesi, abbiamo più inventato un linguag- gio evocativo che sostituisse i rigidi codici della danza (passé, pliè,..), che ci ha portato a essere dei performance più che dei danzatori. Infatti ci accusavano, quando eravamo con la Carlson, di non avere tecnica, ma in scena Carolyn ci dava anche un assolo da eseguire e mi ricordo che una volta venne anche Bé- jart a farci i complimenti.

La Carlson dunque era riuscita a prendere dei “non-danzatori”, non pre- parati a livello tecnico, appositamente scelti da lei, ha preso delle persone “vuo- te” di tecnica ma “piene” di volontà, di ispirazione, di personalità, di creatività;

ovviamente poi lei ci ha inculcato una tecnica, una formazione che, per esem- pio, Roberto [Castello] usa ancora oggi nel suo modo di muoversi alla Nikolais.

Raffaella, invece, è ormai spiritualità pura; per me è emotività, emozione, com- mozione. Come l’ultimo spettacolo che sto facendo con Paola Turci in cui lei canta il suo repertorio e io ripercorro tutte le mie danze degli ultimi quindi anni.

E io danzo con lei che canta creando quasi una danza libera duncaniana, ma

dentro ci sono una tecnica, un controllo, una sensibilità estreme. È come il Tai

Chi: quando ripeti un movimento tante volte te e il movimento diventate la stes-

sa cosa, non c’è più l’esecuzione, si esegue, tu sei il guidatore di qualcosa che

già esiste e non qualcosa che ti attacchi in quel momento, come il jazzista che

suona e lui è la musica non il suonatore. Dal gesto passa un’emozione perché

non siamo macchine, ma il gesto è più competente, più competente è la tecni-

ca, maggiore è l’emozione. La Carlson ci insegnava che se siamo in totale a-

scolto di voi l’errore non c’è perché tutto, anche un inciampo, uno sbaglio, si in-

(32)

tegra con voi, diventa l’imperfezione che (come dicevano i giapponesi) crea l’esecuzione perfetta.

C

ON

P

ERDUTI UNA NOTTE LA VOSTRA INTENZIONE ERA INVECE QUELLA DI TOR- NARE A QUALCOSA DI TEATRALE

?

C’era una scenografia, un luogo come gli altri, ma fatto più di atmosfere.

In Perduti una notte ognuno di noi ha trovato delle modalità, un carattere, un co- lore che è diventato poi un nostro segno distintivo, c’è un preciso modo di rela- zionarsi con lo spazio e di energia impegnata; una originalità di portare avanti un elemento che fai proprio. Per esempio la Carlson è molto brava ma non è o- riginale. La cosa che ci ha stupito molto è che Perduti una notte ha avuto un successo pazzesco in posti come Barcellona e Berlino, ma non in Italia.

I

L RAPPORTO CON LA MUSICA E CON LA PAROLA

. Q

UAL ERA PER VOI

S

OSTA

P

ALMIZI E QUEL È PER TE ADESSO

?

Nei Sosta Palmizi la parola non esisteva, c’erano onomatopee come il grugnito oppure parole singole come «beautiful», o lo squittio di Francesca Ber- tolli in Il Cortile, in Tufo non c’era niente e in Perduti una notte c’era solo il verso del gufo eseguito da Raffaella.

Per quanto riguarda il mio rapporto con la parola… ho iniziato a usare la parola nel 1992 con Balocco perché in Rapsodia per una stalla (dell’anno pre- cedente) c’erano solo delle onomatopee; invece con Balocco ho incominciato a dire le poesie, poi questa cosa è cresciuta fino a ce in La favola esplosa ci sono due testi, due favole. La poesia è stata per me una scoperta importante che uti- lizzo spesso associata alla musica (per esempio ho eseguito una struggente poesia d’amore in spagnolo su una musica punk-barocca). La poesia riesce a esprimere qualcosa di altro, immagini, e in questo è molto simile alla danza: c’è una poesia di Quasimodo che dice «salgo vertici aerei precipizi» e quando uno danza avviene esattamente questo. Invece il testo, il romanzo descrive in un linguaggio che non coincide con il linguaggio della danza.

La musica ha una sua costruzione precisa, matematica, una drammatur-

gia interna che ti prende per mano come un onda ti accompagna; il linguaggio

(33)

del corpo è più difficile perché deve entrare in una coreografia e la dote della musica è “armonizzarsi” proprio con quel linguaggio, con la danza. Il danzatore deve entrare in ascolto con la musica, capire i frammenti interni.

P

ENSI CHE IL

T

EATRODANZA IN

I

TALIA SIA NATO CON I

S

OSTA

P

ALMIZI O QUAL- COSA GIÀ ESISTEVA

? E

QUALCOSA È CONTINUATO

?

In Italia è iniziato prima il “teatro di immagine” come la Socìetas Raffael- lo Sanzio. Noi Sosta Palmizi siamo sicuramente entrati a far parte di quel mondo. Nel 1982 la Majnoni [che faceva parte della compagnia di Carolyn Car- lson] era compagna di Fontani, uno dei fondatori di La Gaia Scienza con Gior- gio Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi e, per questo, venivano spesso a parlare con noi; poi in quel periodo uscì L’hotel di Falso Movimento e da quel momento lì Enzo Cosimi e Virgilio Sieni cominciarono a fare gli spetta- coli. Ognuno di noi italiani è figlio della danza di Marta Graham, Carolyn Car- lson, Cosimi e Sieni, la compagnia di danza Efesto l’unico gruppo ad aver vinto il Festival di Bagnolet in quegli anni. Ci sono delle cose che contemporanea- mente vengono fuori e diversi gruppi di Teatrodanza negli anni Ottanta c’erano.

Sicuramente noi siamo noi, abbiamo avuto una maestra con una metodologia, una illuminazione molto precisa, quindi noi abbiamo creato un segno, un modo personale di fare danza.

U

NA ITALIANITÀ DEL

T

EATODANZA

Sicuramente. Anche se l’Italia non ci riconosce per questo. Dovremmo

invece avere un teatro e fare i nostri spettacoli tranquillamente senza dover pe-

nare per i tagli dei fondi o per cercare sovvenzioni all’attività.

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