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So perfettamente che la recidiva, soprattutto nei confronti di questa platea, costituisce un’aggravante particolare

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Academic year: 2022

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Marco MINNITI, Sottosegretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Ringrazio molto il consigliere Palamara, ringrazio la Scuola del CSM e il CSM per questo invito che ho accolto con particolare piacere. Io ero presente anche al Seminario dello scorso anno, quello evocato dal presidente Legnini.

So perfettamente che la recidiva, soprattutto nei confronti di questa platea, costituisce un’aggravante particolare. Vorrei che i n questo caso fosse

considerata un’esimente, non un’aggravante. La presenza e gli interventi dei professori Caracciolo e Diez mi consentono di non ritornare sui punti

analitici, sulle questioni di specifica considerazione della nascita e

dell’affermazione del fenomeno che richiamerò in alcuni momenti soltanto perché è funzionale alla mia valutazione e alla mia proposta. Noi facemmo il Seminario precedente, quello del marzo del 2015, subito dopo Charlie

Hebdo. Oggi facciamo questo Seminario grossomodo subito do po l’attacco a Parigi del 13 novembre. La prima questione che bisogna porsi è se ci troviamo di fronte a una situazione grossomodo analoga. La mia valutazione è che ci troviamo di fronte a una situazione profondamente differente. Nel senso che l’attacco del 13 novembre a Parigi segna una straordinario salto di qualità. La partita che si giocò n elle ore successive ai fatti di Charlie Hebdo era espressione di un terrorismo molecolare, individuale, di piccoli gruppi, così come era avvenuto in altri paesi del pianeta, in cui c’erano stati attacchi in precedenza. Il 13 novembre a Parigi è avvenuta un’altra cosa, un attacco militare vero e proprio. Si muovono più gruppi, questi gruppi sono fortemente coordinati tra di loro, è probabile che ci fosse un’unica regia, non sfugge a nessuno che per un determinato periodo, piccolo per fortuna, riescono quasi a prendere il controllo di un pezzo importante di una grande capitale europea come Parigi. È evidente che ci troviamo di fronte anzitutto all’esigenza di aggiornare un po’ l’analisi, nel senso che abbiamo una capacità terroristica che insieme può gestire entrambi gli strumenti, quello del piccolo gruppo che viene in qualche modo attivato attraverso il canale della propaganda (che molto spesso viene veicolato attraverso il web), e quello invece delle proprie cellule, organizzate, strutturate, addestrate, che hanno bisogno di

un’organizzazione molto più complessa. Se questo è vero, consentitemi di riprendere qualche elemento analitico che è funzionale al percorso che poi vi proporrò di qui a qualche minuto. Dalle cose che hanno detto sia Caracciolo che Diez, viene fuori che noi abbiamo un nemico - perché io lo chiamerei così, senza infingimenti e mezze parole -, che non ha precedenti nella storia delle organizzazioni terroristiche del pianeta. Non ha precedenti non perché n on ci sia stata in passato la presenza di un fortissimo radicalismo jihadista: Al Qaeda ne era una delle espressioni più significative, anzi l’espressione più significativa che ci potesse essere. Al Qaeda riesce a fare quello che non era neppure immaginabile: l’attacco dell’11 settembre alle torri gemelle che mi fa venire in mente uno slogan del 1968 che recitava pi ù o meno: “Compagni

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siate realisti, pensiamo l’impossibile”. L’attacco alle torri gemelle è

esattamente questo, cioè il massimo del realismo è pensare a una cosa impossibile. Cioè l’idea che con temporaneamente tre aerei vengano dirottati, siano colpite le torri gemelle, che si pensi di colpire l a Casa Bianca e si colpisce il Pentagono. E’ talmente impossibile pensarlo che quando arrivano le prime notizie vengono addirittura sottovalutate perché appare troppo alto l’obiettivo. Rispetto ad Al Qaeda cos’è Islamic State? Islamic State è un’altra cosa per una ragione semplicissima: perché tiene insieme due cose che ma i nella Storia un’organizzazione terroristica è stata capace di tenere insieme.

C’è una capacità propriamente militare - è stata raccontata qui dal professo r Caracciolo - cioè quella di sviluppare vere e proprie iniziative di campagna militare, conquistare territori. Al Qaeda non aveva questo obiettivo, né aveva le capacità per poterlo fare. Ma accanto a questa capacità di campagna propriamente militare, quella che in gergo si chiama capacità simmetrica, Islamic State ha anche la capacità asimmetrica, cioè è in grado di gestire un attacco terroristico. E, come dimostrato, ha la capacità di gestirlo in vari scenari del pianeta. Questa capacità di tenere insieme simmetrico e

asimmetrico è un punto cruciale per comprendere quello che è avvenuto e quello che forse potrà avvenire. C’è un altro elemento molto importante: la velocità con cui si afferma l’Islamic State. Consentitemi di fare un breve richiamo delle date: il discorso di Al Baghdadi di cui parlava il professor Caracciolo è del giugno 2014. Noi poi abbiamo un’al tra data importante, che è l’agosto 2013. Nell’agosto del 2013 Bashar al-Assad ha utilizzato, nei mesi di giugno e luglio, armi chimiche nei confronti del suo popolo. La comunità internazionale si interroga su quello che deve fare. Non voglio tornare su quella discussione, mi serve per fare capire: in quel momento, quando la comunità internazionale decide che la risposta a Bashar al- Assad è quella di aprire un negoziato per la distruzione delle armi chimiche, Islamic State, che allora si chiama ISIS (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) - poi verrò alla ragione per cui cade una “s” dell’acronimo -, ed è una componente del fronte anti Assad, nemmeno tra le più forti. Sfido chiunque, esclusi gli addetti ai lavori, a dire che nell’agosto del 2013 si aveva una conoscenza particolare di ISI S. Stiamo parlando dell’agosto del 2013; nel giugno del 2014 Al Baghdadi fa quel discorso. E lo fa dopo aver preso il controllo di un pezzo importante dell’Iraq e di un pezzo importante della Siria, attraverso un’operazione

militare non straordinariamente importante e che tuttavia parte dalla fragilità degli Stati e sulla quale indirizza la propria forza offensiva. Il secondo

aspetto: qual è il punto di contatto tra la capacità simmetrica, cioè quella di campagna militare e la capacità asimmetrica? Il punto di congiunzione sta nella figura, che noi abbiamo chiamato dei foreign fighters - cioè dei

combattenti stranieri. Costoro sono il punto che congiunge il simmetrico con l’asimmetrico, cioè i combattenti stranieri sono quelli che vanno in Siria e in Iraq a combattere, sono le divisioni di Al Baghdadi, e son o numeri non piccoli. C’è una discussione come al solito aperta sulle stime, ma stiamo

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parlando intorno ai 25/30 mila uomini. Venticinquemila uomini che vengono da 100 paesi del mondo! Alcune migliaia son o europei, e questo, lo dico en passant, ci interroga molto sull’Europa perché le caratteristiche sociali sono quelle di cui parlava il professor Caracciolo. Ci interroga sul perché e per quali ragioni migliaia di ragazzi e ragazze europei decidono di andare a combattere per Islamic State. È una questione gigantesca, potete ben comprendere. Questi combattenti stranieri sono la forza delle divisioni sul terreno e sono quelli che potenzialmente ritornano per attivare l’attacco terroristico. I combattenti stranieri sono il punto di congiunzione tra i due meccanismi fondamentali di Islamic State. Aggiungo una terza questione, questa un po’ più sociologica, ma vorrei che ci intendessimo fino in fondo. I combattenti stranieri trasferiscono dentro Islamic State una visione e una conoscenza delle culture. Per essere più chiari e più precisi, noi c i troviamo di fronte a una situazione per cui Islamic State conosce meglio le nostre culture (e il veicolo della conoscenza delle nostre culture sta nei combattenti stranieri, sta in quelli che parlano perfettamente l’inglese e poi magari dopo un minuto decapitano l’infedele), noi conosciamo molto poco l oro. E qui sta la corsa anche ad avere un sistema analitico per comprendere, cioè noi dobbiamo compre ndere in maniera molto evidente che di fronte a questo tipo di nemico la cosa che bisogna evitare a tutti i costi è la facile lettura degli eventi. Guardiamoci dalle semplificazioni perché in questo caso non portano granché bene, perché abbiamo di fronte un nemico che è molto complesso.

Qual è il senso della sfida? Su questo dico con chiarezza la mia opinione:

penso che il fenomeno non possa essere contenuto, che l’approcci o di contenimento del fenomeno sia un approccio radicalmente sbagliato. Islamic State può essere soltanto sconfitto, non è possibile contenerlo. Meno che mai è possibile fare una trattativa - questo te ma ogni tanto ritorna anche abbastanza singolarmente -, per una ragione semplicissima. Islamic State, quando l’acronimo invece di ISIS diventa IS - quando cade lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante -, manda un messaggio inequivoco. Se poi qualcuno non lo capisse, ce lo spiega Al Adnani, che è il portavoce di Al Baghdadi. Il meccanismo è chiarissimo: loro tolgono il riferimento territoriale all’Iraq e al Levante perché Islamic State, in quanto tale, l o Stato islamico non ha confini. Non è più soltanto ascrivi bile all’Iraq e al Levante, che pure sono realtà chiave del mondo, basta solo ricordare che quelli sono i territori della Mezzaluna fertile, dove è nata la storia dell’umanità. È il mondo, come si può contenere? C’è uno stato terroristico che ha come obiettivo il mondo, come si può trattare con chi ha come obietti vo il mondo? In altri momenti della Storia noi abbiamo avuto movimenti di liberazione nazionale ch e hanno utilizzato strumenti terroristici, ma lì ch i voleva poteva trattare, perché

appunto erano movimenti che si proponevano l’obiettivo di liberare segmenti di territorio. Qui abbiamo un altro meccanismo: l’obiettivo è liberare il mondo!

Come si fa? Come si fa a pensare che si possa contenere? L’altra cosa che dobbiamo toglierci dalla testa, ch e è stato il veicolo di giganteschi errori di cui

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stiamo pagando adesso il prezzo, è il concetto che “il nemico del mio nemico è mio amico ” . Questa è stata una gigantesca filosofia dell’inganno - lo dico brutalmente -, non si può procedere a ridisegna re il mondo con questa filosofia. Vorrei solo ricordare come è cominciata questa cosa: il professor Diez ha parlato dell’Afghanistan, dove nasce Al Qaeda. Ad u n certo punto che cosa succede? Succede che l’Unione Sovietica dell’epoca fa

un’operazione di espansionismo, di dominio, e va a occupare l’Afghanistan.

La risposta dell’altra parte del mondo era stata semplicissima: benissimo, per l’Unione Sovietica l’Afghanistan sarà il punto di logoramento. Così è stato!

Una delle ragioni che poi hanno portato l’Unione Sovietica al crollo e al crollo de l muro di Berlino è stato l’Afghanistan. Tuttavia per logorare l’Unione Sovietica in Afghanistan si è, tra virgolette, sostenuto in maniera molto forte il contrasto jihadista all’Unione Sovietica. Poi, come si è visto, la questione è letteralmente sfuggita di mano. Noi dobbiamo abituarci a pensare che la risposta rispetto a questo tipo di sfida non può essere meramente tattica. Se il mondo risponde alla sfida di Islamic State in maniera tattica, ha già perso prima ancora di cominciare. Perché dall’altra parte abbiamo un pensiero strategico, per quanto aberrante, ma strategico. Terza questione, e vado rapidamente alla conclusione: se questo è, noi dobbiamo avere una risposta che sia capace di muoversi su più terreni. Accanto al merito è indispensabile la contemporaneità della risposta; la mia idea è che, ferma restando

l’identificazione dei campi che per molti versi coincidono con quelli che ha indicato i l professor Caracciolo, sia altrettanto essenziale, oltre

all’identificazione dei campi, la contemporaneità d ell’azione su più campi.

Cioè non abbiamo la possibilità di una risposta classica. La risposta c lassica qual è stata storicamente? Prima facciamo “ a”, poi facciamo “b”, poi

facciamo “c”: noi dobbiamo fa re tutte le cose contemporaneamente. Quando prima parlavo della risposta tattica, mi riferivo anche a un principio di

consapevolezza delle classi dirigenti. Io sono rimasto molto colpito -

qualcuno con cui parlo più spesso dirà “è stato ossessionato” - dalla lettura di un libro di uno studioso anglosassone intitolato “The sleepwalkers”, i sonnambuli. Il libro non c’entra naturalmente nulla con Islamic State, c’entra tuttavia con la ricostruzione di come l’Europa sia precipitata nella prima guerra mondiale. Il libro è molto istruttivo: essendo tale non è stato naturalmente tradotto in italiano, ma verrà il momento in cui questo verrà fatto. E’ molto istruttivo per una ragione semplice, perché racconta come l’Europa precipita nella prima guerra mondiale in maniera quasi

preterintenzionale. Facendo uno studio analitico, come fanno gli studiosi anglosassoni, dei comportamenti dei singoli, si capisce che nessuno d ei protagonisti voleva arrivare alla guerra. Poi al la fine la guerra c’è. Io penso che il punto dell’approccio rispetto a questa questione costituisca già a desso un punto di sostanza. Qual è la risposta? La risposta è essenzialmente su tre campi: il primo campo è quello del contrasto della capacità asimmetrica, quella che ci interessa oggi più direttamente, cioè la capacità di prevenzione

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nei confronti di un possibile attacco terroristico. Noi l’anno scorso, con il decreto antiterrorismo, abbiamo fatto a mio avviso una buon a operazione di risposta, perché abbiamo affrontato il problema - il Seminario che si fece in questa sa la il 2/3 marzo fu fondamentale anche per definirlo -, agendo come sistema Paese: cioè la cooperazione tra corpi dello Stato è fondamentale in un’azione di contrasto. Noi abbiamo fatto un’operazione che da u n lato ha consentito di avere più strumenti di prevenzione, di contrasto e di

repressione. Penso, ad esempio, all’importanza della costituzione della Procura nazionale antiterrorismo, cioè di fronte a un fenomeno di questo tipo avere la Procura nazionale antiterrorismo, che in qualche modo ci serviva a completare quello che già avevamo e cioè il Centro analisi strategico

antiterrorismo, che era i l punto di cooperazione tra Forze di Polizia e forz e di intelligence . Oggi, quasi dopo un anno, noi possiamo trarre un bi lancio positivo del lavoro di quel decreto. Lo si è fatto in un clima di grande

coesione nazionale, anche in un rapporto positivo con il Parlamento. Ma lì c’era un altro punto: che quelle misure non stavano dentro una logica emergenziale. Questo è un altro punto cruciale! La risposta di una grande democrazia rispetto alla sfida del terrorismo non può essere una risposta emergenziale, per la ragione semplicissima che l’uso della violenza così comunicato in maniera brutale, ha un messaggio inequivoco, che è quello di trasferire la cosiddetta sindrome della paura. Io dove arrivo colpisco, dove non arrivo tra smetto la sindrome della paura. Una società aperta, colpita dalla sindrome della paura è una società ch e sta per deperire. Io sono uno, tra virgolette, molto aperto al confronto politico, soprattutto sul terre no del terrorismo noi dobbiamo creare una larga convergenza nazionale, e tuttavia faccio una raccomandazione: maneggiamo con cura la paura. Maneggiamo con cura la paura, perché una democrazia impaurita è una democrazia più fragile, e noi dobbiamo sapere che uno degli obiettivi del terrorismo è abbattere le democrazie. Non ci considerano un punto di riferimento, ma qualcosa da abbattere. Può reggere una democrazia fondata sulla paura e sull’ansia? No! E su questo dobbiamo affrontare una discussione serena ma molto chiara tra di noi. Seconda questione: la risposta, se appunto c’è un campo simmetrico di iniziativa militare, non può che esserci anche sul

terreno militare. Ed è evidente che i segnali che abbiamo avuto anche queste settimane di una rimonta militare in Iraq e Siria, sono segnali importanti perché mettono in discussione il mito della invincibilità di Islamic State. E su questo io credo che sia stato importante il fatto che ci sia oggi sul campo una grande coalizione internazionale. Questa coalizione più è ampia più deve essere omogeneizzata, perché la storia di questa grande coalizione

internazionale è una storia molto complessa. È una storia, per esempio, che deve fare i conti con il mondo arabo che è particolarmente complicato. Non voglio tornare qui alle cose che ha detto il professor Caracciolo che da questo punto di vista mi sembrano abbastanza analitiche, quindi non voglio su questo farvi perdere tempo. Risposta militare: la risposta militare evoca di pe

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r sé un’altra questione gigantesca, a cui ha alluso il consigliere Palamara all’inizio del suo intervento e cioè che non esiste un’iniziativa milit are se non è compensata da una capacità di pensare a un’in iziativa politico/diplomatica che sistemi in qualche modo il futuro, per renderla più esemplificativa

possibile. Il problema è certo conquistare anche Raqqa - l’enclave in Siria di Islamic State - il problema però è che nel momento in cui si pensa di

conquistare Raqqa bisogna pensare dove è collocata all’interno della nuova Siria. Cioè, che cosa succede di Raqqa, una volta conquistata? Che cosa succede della Siria una volta, tra virgolette, stabilizzata? Che succede della Libia, una volta stabilizzata? Tutto questo n on è una questione che possono gestire le componenti militari, questa è diplomazia par excellence, perché il punto che noi abbiamo di fronte è la sfida che proprio adesso arriva a cento anni. Cioè il punto che ha collassato la visione - uso un termine che no n mi piace solitamente utilizzare - che l’Occidente a un certo punto ha trasmesso dell’altra parte del Mediterraneo. Ed è l’accordo Sykes-Picot di cui par lava il consigliere Palamara. E cioè che a un certo punto, mentre era in corso la prima guerra mondiale , due potenze, Francia e Regno unito, ridisegnano i l Medio Oriente e lo fanno con i confini che adesso guardiamo sulla carta geografica e che sono tracciati con un righello. Io personalmente dico a tutti, quando mi chiedono di parlare di queste cose, e vedo i confini tracciati con il righello “diffidate per principio”. Guardate i confini dell’Italia nel rappor to con l’Europa: sono confini molto frastagliati, sono il frutto di una storia di sangue, di morti, ma è una storia! Quando uno traccia un confine con un righello rende tutto quanto, tra virgolette, paradossalmente più semplice ma anche più drammaticamente complesso. E quando Al Adnani dice “noi siamo per abbattere i confini”, è icasticamente l’idea che rispetto a un Occidente che impone i confini tracciati con il righello, Islamic State fa un’altra operazione:

abbatte i confini. Noi abbiamo bisogno di avere un’ampiezza e un profilo in cui teniamo insieme l’aspetto della prevenzione, l’aspetto militare e l’aspetto del disegno di un nuovo ordine . So che la cosa è particolarmente difficile ma questa è la sfida che abbiamo di fronte, ed è una sfida strategica.

Un’ultimissima considerazione: c’è un punto cruciale su cui si gioca la partita.

Ne hanno parlato sia il professor Diez che il professor Caracciolo, e cioè l’aspetto della comunicazione. Non ci ritorno su, perché hanno detto

ambedue delle cose sagge sul la comunicazione e la battaglia culturale. Però non sfugge a nessuno che lì c’è un aspetto cruciale sotto traccia, e cioè Islamic State è convinto che le democrazie abbiano un punto di debolezza. Il punto di debolezza, nella loro testa, sono le opinioni pubbliche. Nel senso che la democrazia deve rendere conto all’opinione pubblica e quindi pensano che quello sia un elemento di fragilità; da qui l’idea di mandare un

messaggio talmente intimidatorio da colpire il cuore delle opinioni pubbliche.

Se posso permettermi di dire con chiarezza la mia opinione, io penso che non solo questo punto - e cioè che le opinioni pubbliche siano un punto d i

debolezza delle democrazie sia vero -, ma la penso esattamente all’opposto

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e cioè che in una democrazia le opinioni pubbliche sono un punto di forza, non un punto di debolezza. Ed è per questo che la lotta contro il terrorismo di fronte a una sfida così radicale - e io mi permetto di aggiungere così epocale - non può che essere vinta partendo dalla democrazia, partendo dai nostri valori. Una democrazia che dovesse fermarsi o peggio snaturarsi è una democrazia che ha già cominciato a perdere. Io di questo sono

profondamente convinto e vorrei che su questo ci fosse una discussione esplicita e aperta tra di noi. Una democrazia forte, che coinvolge le opinioni pubbliche e il popolo nella battaglia contro il terrorismo è una democrazia che ha gli anticorpi ma soprattutto la forza per vincere questa partita.

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