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Parere sullo schema di regolamento recante:

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Academic year: 2022

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"Criteri per la istituzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali".

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 25 giugno 1998, ha deliberato di esprimere l'allegato parere.

Premessa.

Come è noto, la normativa delegante contenuta nell'articolo 17 commi 113-114 della legge n. 127/1997 ha disposto la modifica della disciplina del concorso per l'accesso alla magistratura ordinaria sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi: semplificazione delle modalità di svolgimento del concorso ed introduzione graduale, come condizione per l'ammissione al concorso, dell'obbligo di conseguire un diploma biennale presso scuole istituite nelle università, sedi delle facoltà di giurisprudenza.

A sua volta, il D.lgs. 17 novembre 1997 n. 398 contenente la normativa delegata di attuazione comprende al capo II, articolo 16, la disciplina generale delle scuole biennali di specializzazione per le professioni legali, facendo richiamo, innanzitutto, all'autonomia didattica degli istituti universitari riconosciuta dall'articolo 17 comma 95 legge 15 maggio 1997 n. 127.

Al terzo comma dell'articolo 16 del citato decreto legislativo, si precisa che le scuole sono istituite presso le Università, sedi di facoltà di giurisprudenza, anche sulla base di accordi e convenzioni tra le stesse; la «ratio» è quella di avviare, sulla base di modelli didattici omogenei, la formazione comune dei laureati in giurisprudenza mediante l'approfondimento teorico, inte- grato da esperienze pratiche, finalizzato all'assunzione dell'impiego di magistrato ordinario ovvero all'esercizio delle professioni di avvocato o notaio (articolo 16 cit. 2º comma). Sempre nel disposto di cui all'articolo 16 è stabilito che il numero dei laureati da ammettere alle scuole viene determinato ogni anno con decreto del Ministro dell'Università di concerto con il Ministro di Grazia e Giustizia; l'accesso avviene mediante concorso per titoli ed esame; il rilascio del diploma di specializzazione è condizionato alla certificazione della regolare frequentazione dei corsi, nonché al superamento delle verifiche intermedie e delle prove finali d'esame.

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Lo schema di regolamento in esame - trasmesso al Consiglio superiore della magistratura dal Ministero di Grazia e Giustizia - viene emanato sulla base di quanto previsto dall'articolo 17 legge 127/1997 comma 114 ultima parte, del seguente tenore: «Con decreto del Ministro dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica, di concerto con il Ministro di Grazia e Giustizia, sentiti i competenti ordini professionali, sono definiti i criteri per la istituzione ed organizzazione delle scuole di specializzazione di cui al comma 113, anche prevedendo l'affidamento annuale degli insegnamenti a contenuto professionale a magistrati, notai ed avvocati». L'articolo 16 comma 8 del d.lgs. n. 398/1997 statuisce che «Il decreto di cui all'articolo 17, comma 114, della legge 15 maggio 1997 n. 127 è emanato sentito il Consiglio Superiore della Magistratura».

2. Considerazioni generali.

I. Vi è un profilo, quello finanziario, sul quale il Consiglio superiore della magistratura non può esimersi dall'interloquire, anche se può farlo solo in termini di carattere generale.

Il Csm ha salutato con estremo favore l'innovazione costituita dalla previsione di un diploma di specializzazione postuniversitario quale condizione per l'ammissione al concorso per uditore giudiziario e, in prospettiva, quale condizione per l'ammissione al praticantato forense.

Nel parere deliberato il 9/10/1997, che qui si allega, sono esposte le ragioni di tale convinta adesione e sono ragioni di alto rilievo istituzionale. Queste ragioni, peraltro, corrono il rischio di trasformarsi in esercitazioni retoriche se le scuole - a causa di errori di impostazione e sopratutto della povertà dei mezzi finanziari per esse previsti - dovessero trasformarsi in mere aree di parcheggio per studenti o in meri prolungamenti della sequenza degli esami universitari.

L'innovazione comporta un ritardo di due anni nell'ingresso in magistratura delle nuove leve di laureati. Si tratta di un costo notevole per un'istituzione giudiziaria che ha gravi problemi di copertura dei propri organici. Questo costo deve essere compensato da un incremento effettivo e consistente nella preparazione culturale di coloro che si presentano al concorso per uditore giudiziario. Ma perché ciò avvenga - perché cioè le scuole abbiano una efficacia formativa reale - è necessario che esse possano usufruire dei docenti più qualificati, i quali

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debbono in esse svolgere il loro impegno didattico tendenzialmente a tempo pieno e comunque in maniera esclusiva. Le scuole debbono essere poi dotate di strutture adeguate ad ospitare attività didattiche che non si esauriscono nella lezione tradizionale ma che viceversa deve improntarsi ad esperienze fortemente applicative, strutture logistiche seminariali: le biblioteche liberamente accessibili, il personal computer in ciascun posto di lavoro dello studente, la disponibilità continuativa e congrua di docenti per l'assistenza agli studenti e tutte le altre cose che dovrebbero caratterizzare qualunque moderna istituzione di studio superiore debbono essere la regola in queste scuole postuniversitarie, se si vuole che esse servano non a sè stesse, ma alle istituzioni e alle funzioni per le quali sono istituite. Esse, inoltre, debbono essere di- mensionate in modo tale da ospitare nel loro complesso un numero di studenti piuttosto elevato, posto che non debbono rappresentare una incostituzionale selezione anticipata dai futuri magistrati notai e avvocati. Ma, al contempo, ciascun corso post-universitario non può ospitare un numero di studenti superiore a quello che è possibile reperire effettivamente e che può essere determinato verosimilmente intorno alle 100 unità. Ed infine debbono essere previsti adeguati ed adeguatamente diffusi contributi economici agli studenti, al fine di evitare che la riforma determini una selezione per censo.

Occorre che sia assolutamente chiaro che senza queste condizioni, la riforma non sarebbe idonea ad aprire le importanti prospettive in vista delle quali essa è stata pensata, ma rappresenterebbe soltanto un grave danno per i giovani laureati e per l'istituzione giudiziaria. La conclusione è che, se non si ritiene possibile e fin tanto che non si ritenga possibile - magari per motivi collegati a compatibilità finanziarie - soddisfare tali condizioni, allora meglio sarebbe non farne nulla o rinviare la riforma a tempi migliori.

II. Nel complesso, il testo del regolamento in esame si caratterizza per una notevole lacunosità e, in alcuni punti, per una marcata mancanza di precisione. Esso appare utilizzabile, allo stato, come bozza di lavoro per future rielaborazioni, non come testo destinato ad acquisire efficacia costitutiva e precettiva.

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3. Valutazione delle singole disposizioni.

L'articolo 2 prevede l'istituzione, su proposta delle Università sedi di facoltà di giurisprudenza (e anche sulla base di accordi e convenzioni tra università diverse), di scuole di specializzazione per le professioni legali, con decorrenza dall'anno accademico 1998-1999, facendo riferimento, per le modalità di istituzione di tali strutture, a quanto stabilito in sede di autonomia didattica ex articolo 11 legge n. 341/1990. Il richiamo a quest'ultima norma non appare chiarissimo: in particolare non è agevole comprendere se ad essere richiamato è il comma 1 - che peraltro riguarda l'ordinamento degli studi dei corsi di diploma universitario di cui all'articolo 1 (e non del diploma di specializzazione di cui all'articolo 4) e l'ordinamento degli studi dei corsi di formazione finalizzata di cui all'articolo 6 (che sono cosa diversa dalle scuole di specializzazione per le professioni legali). Comunque questa delega in bianco all'autonomia degli atenei appare porre problemi di compatibilità con l'articolo 17, comma 114, della legge 127 del 1997 - secondo cui è il decreto emesso dal Ministro dell'Università, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia, la fonte che deve definire i criteri per la organizzazione delle scuole in questione, pur nel quadro delle regole e dei principi

dell'autonomia universitaria - e con l'articolo 16, comma 2, del d.lgs. 17 novembre 1997 n. 398 - secondo cui avrebbe dovuto essere il decreto in esame a stabilire i criteri per l'attuazione di modelli didattici omogenei per le varie scuole.

Rispetto a questo primo comma appare da segnalare sopratutto la necessità di rinviare all'anno accademico 1999-2000 la decorrenza delle scuole, anche al fine di assicurare la predisposizione di un modello omogeneo adeguatamente ponderato, che valga ad evitare iniziative approssimative o comunque sbagliate che poi sarebbe difficile cancellare.

Il secondo comma dell'articolo in rassegna prevede anche, opportunamente, che l'erogazione di risorse finanziarie pubbliche avvenga in modo tale da favorire la contestuale attivazione delle scuole in più atenei, onde garantire l'uniforme distribuzione delle stesse su tutto il territorio nazionale. Questo è un punto di grande importanza per conseguire in concreto il

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funzionamento adeguato dei corsi di specializzazione e pervenire alla finalità di provvedere alla formazione professionale di magistrati, avvocati, notai, mettendo in condizione i laureati, forniti dei necessari requisiti, di frequentare i corsi in zone viciniori al luogo di residenza o dimora, e ciò in ogni parte del Paese. Al riguardo, particolarmente incisivo dovrà essere l'intervento delle Autorità governative in sede di programmazione del sistema universitario ai sensi del D.P.R. n.

25/1998, appunto citato nel secondo comma del presente articolo.

Resta peraltro una eccessiva genericità della formulazione normativa. Questo dato non crea molti problemi nella fase iniziale, ma, per il momento in cui il sistema andrà a regime, è chiaro che la distribuzione delle scuole - e dei relativi posti - nel territorio nazionale potrebbe diventare un problema cruciale. Ma anche per i primi anni di applicazione della legge e di prima istituzione delle scuole, sembrerebbe opportuno regolare la progressiva razionale organizzazione universitaria delle scuole, evitando la concentrazione dei corsi solo presso poche università, e le disfunzioni che deriverebbero da corsi organizzati sommariamente, in mancanza di un'attenta sperimentazione.

Anche sotto questo profilo, la fissazione della decorrenza all'anno accademico 1998/1999 appare eccessivamente affrettata sicché si palesa come indispensabile prevedere che il nuovo sistema non abbia avvio prima dell'anno accademico 1999/2000. A tal proposito bisogna anche tener conto, del resto, che, ai sensi del successivo art. 4 del regolamento in esame, il bando per l'ammissione alle scuole deve essere pubblicato nel mese di maggio per i laureati entro la sessione di febbraio.

L'articolo 3 richiama l'articolo 16 comma 5 del d.lgs. n. 398/1997 che limita l'accesso annuale alle scuole ad un numero complessivo di laureati in giurisprudenza fissato con decreto interministeriale (Ministro dell'Università di concerto con il Ministro di Grazia e Giustizia); vengono contemplati aiuti economici per consentire la partecipazione ai corsi di specializzazione di laureati meritevoli ma privi di mezzi.

In ordine a tale disposto, si evidenzia in primo luogo che avrebbe dovuto essere colta l'occasione per dare un più chiaro senso precettivo alla formula dell'articolo 16, comma 5, del

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decreto legislativo, per quanto concerne la portata determinante degli elementi di cui, secondo la norma, occorre "tener conto" per correggere, incrementandolo, il numero delle ammissioni determinato dal 10 per cento dei laureati in giurisprudenza dell'anno precedente. Si tratta di una determinazione di importante rilievo politico istituzionale, che, come tale, non può essere demandata ad un provvedimento puntuale, quale il decreto annuale, senza che siano meglio specificati gli obiettivi e i parametri di tale determinazione. Quest'ultima, infatti, deve dimensionarsi non solo sulla capacità ricettiva delle scuole, in ordine alla quale è ipotizzabile che ciascun corso non possa ospitare più di 100 laureati, ma anche sull'esigenza che il numero delle ammissioni sia rapportato all'accesso in magistratura, in avvocatura e nel notariato, e che nel rapportarsi a tali sbocchi professionali, tenga conto della selezione rigorosa che la scuola stessa deve operare e - sopratutto - del fatto che la vera e propria selezione finale deve - per precetto costituzionale - essere quella operata dal concorso o dall'esame di accesso alle tre professioni (e non quella operata in sede universitaria), sicché la platea di eligibili che deve uscire dalle scuole deve essere decisamente ampia. In altri termini, deve ancora una volta essere ribadito, che le scuole sono strumenti di formazione e non strumenti per operare la scelta dei futuri magistrati, avvocati e notai. Se si considerano i dati degli ultimi tre anni, il 10 per cento dei laureati in giurisprudenza dovrebbe corrispondere ad un numero pari a 1.500 - 2.000 ammittendi. Si tratta di un numero assolutamente troppo basso rispetto alle finalità che si sono evidenziate, le quali debbono essere considerate prevalenti rispetto alle pur reali esigenze di contenimento degli accessi alle scuole al fine di non pregiudicare la qualità dai processi formativi che vi si svolgono sicchè la percentuale di riferimento deve essere almeno raddoppiata. Si consideri - per quanto riguarda il solo concorso di magistratura - che l'attuale disciplina prevede che alle prove scritte venga ammesso un numero di candidati pari a cinque volte quello dei posti messi a concorso, il quale si aggira di regola sulle 300 unità. Sul problema, il Consiglio superiore della magistratura si richiama a quanto già espresso nel paragrafo 4 del parere deliberato il 9/10/97, che qui si allega.

Anche la materia regolata dai commi 2 e 3 abbisogna di una più puntuale predeterminazione normativa. Come già si è rilevato nel parere deliberato il 9/10/97, la

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previsione del diploma biennale potrebbe impedire di diventare magistrati a coloro che, a causa delle loro disagiate condizioni economiche, non possono permettersi di mantenersi agli studi per altri due anni o che non potrebbero comunque, essendo costretti a lavorare, osservare quella frequenza obbligatoria dei corsi che è prevista e che dovrebbe essere attuata con piena effettività. Il problema è grave, qui come altrove: la Repubblica, secondo l'articolo 3, secondo comma della Costituzione, non può limitarsi a prevedere che l'accesso in magistratura sia possibile per tutti i cittadini in condizioni di uguaglianza formale. E' necessario che non si verifichi che la disparità di condizioni economiche determini una sostanziale preclusione per i meno abbienti, poiché sarebbe un esito ben grave se le giuste riforme che in questo campo sono state elaborate dovessero poi tradursi, per via di un approccio troppo ragionieristico ai profili di compatibilità finanziaria in materia di giustizia e di università, nell'introduzione di una selezione per censo dei magistrati. Questa esigenza sussiste in ogni campo, ma essa deve essere avvertita con maggiore sensibilità per la magistratura, posto che la funzione giudiziaria ha nel principio di uguaglianza uno dei suoi principali valori guida. Il problema deve essere risolto dando la più ampia e concreta attuazione, mediante borse di studio o altre forme di remunerazione, al diritto allo studio consacrato dall'articolo 34, secondo e terzo comma, della Costituzione. In questo senso i commi 2 e 3 dell'articolo in esame appaiono di sconcertante genericità.

L'articolo 4 regolamenta l'accesso annuale alla scuola, disponendo l'emanazione di un unico bando nazionale con l'indicazione dei posti disponibili per ciascuna scuola; le prove si svolgono contestualmente in tutte le sedi, e consistono nella soluzione di quesiti a risposta multipla su argomenti di diritto civile, penale, amministrativo, processuale civile e processuale penale in numero non inferiore a cinquanta. La Commissione giudicatrice, costituita con decreto del Rettore di ciascun ateneo, è composta da due professori universitari di ruolo di cui il più anziano in ruolo sarà nominato presidente, un magistrato ordinario, un avvocato, un notaio. La votazione viene effettuata in sessantesimi, di cui 50 punti possono essere assegnati per la valu- tazione della prova d'esame, 5 in relazione al curriculum degli studi universitari e 5 per il voto di laurea.

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In primo luogo, deve rilevarsi - come già si è osservato - che manca qualunque disciplina in ordine ai criteri per la ripartizione tra le varie scuole del numero totale dei laureati da ammettere alle scuole stesse. Si tratta di un elemento essenziale per la regolazione complessiva del sistema, posto che il tetto dei posti disponibili presso ciascuna scuola rappresenta (in virtù della contestualità delle prove d'esame) il fattore di compensazione della variabilità dei criteri di valutazione delle prove e dei titoli, essendo la valutazione stessa operata in sede locale e presso ciascuna scuola.

La formulazione secondo cui al concorso di ammissione alle scuole possono partecipare soltanto i laureati entro l'ultima sessione dell'anno accademico precedente sembra doversi interpretare nel senso che possono partecipare anche tutti coloro che si sono laureati prima di tale sessione; in caso contrario la disposizione sarebbe incomprensibile.

Che le prove consistano nella soluzione a quesiti a risposta multipla appare implicitamente richiesto dall'articolo 16, comma 5 del d.lgs. 398 del 1997, là dove tale norma prevede che che le prove debbano essere suscettibili di "criteri oggettivi di valutazione" e che esse debbano avere contenuto identico sul territorio nazionale. Una parte del consiglio, peraltro, interpreta diversamente il suddetto articolo 16 e ritiene che sarebbe stata più opportuna una prova consistente in un colloquio su argomenti di diritto civile, penale, amministrativo, processuale civile e di procedura penale.

Sulla formulazione dei quesiti e dei relativi insiemi, così come sulle modalità di svolgimento delle prove, la formulazione normativa appare risentire di alcune impostazioni analoghe a quelle che appaiono aver ispirato la disciplina della prova di preselezione per il concorso in magistratura, e che destano quindi analoghe perplessità di ordine tecnico, tali da far dubitare che la disciplina stessa sia stata scritta sulla scorta delle necessarie competenze specialistiche. In particolare vi è il dubbio di una concezione eminentemente mnemonica della prova per quesiti a risposta multipla, ed il dubbio è reso maggiore dal divieto di utilizzare i codici durante la prova.

Non si comprende a quale commissione faccia riferimento la lettera f) del comma 2.

Per quanto riguarda i punteggi a disposizione della Commissione (comma 5) la limitazione a 5 punti, su un totale di 60, per il curriculum e ad altri 5 per il voto di laurea, sicché

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per la prova di esami restano gli altri 50 punti, appare conforme al dettato dell'articolo 15, comma 6, del D. Lgs. 398/97 all'art. 16 n. 6 e corrisponde all'esigenza di dare maggior peso ad una prova di esame suscettibile di valutazione oggettiva, piuttosto che ai voti di esame e ai voti di laurea, i quali, come è noto, rispondono a criteri di valutazione quanto mai diversificati sul territorio nazionale. Alcuni componenti del Consiglio, leggono diversamente la norma e ritengono che, invece, essa limiti a 10 punti soltanto il voto attribuibile al curriculum degli studi universitari, sicché rimarrebbe liberamente determinabile, nell'ambito dei residui 50 punti, la quota di essi attribuibile per il voto di laurea. Tale interpretazione è ispirata alla considerazione che il voto di laurea (che risulta dalla media dei voti per gli esami di profitto, maggiorato del voto per la discussione della tesi di laurea), sia da valorizzare maggiormente, tenuto anche conto che non si può ipotizzare una diversa valenza del voto di laurea secondo la Facoltà universitaria che lo ha rilasciato.

Nel complesso, comunque, la disciplina dettata dal comma 2 appare estremamente lacunosa e imprecisa.

L'articolo 5 prevede, per ciascuna scuola, la costituzione di un consiglio direttivo composto di dodici membri, di cui sei professori universitari di discipline giuridiche ed economiche, due magistrati ordinari, due avvocati e due notai. Il Consiglio è nominato con decreto rettorale, a seguito di designazioni provenienti dal Consiglio della facoltà di giurisprudenza, dal Consiglio superiore della magistratura, dal Consiglio Nazionale forense e dal Consiglio Nazionale del notariato; dura in carica quattro anni, il Direttore è eletto tra i professori universitari di ruolo. Il Consiglio direttivo cura la gestione organizzativa delle scuole; definisce la programmazione delle attività didattiche, nonché esercita le più specifiche attribuzioni ex articolo 94 D.P.R. 11 luglio 1980 n. 382.

Tale complessa composizione dell'organo assicura l'intervento nel governo delle scuole degli organi universitari, del C.S.M. e degli ordini professionali, secondo i diversi interessi pubblici o privati, nonché le finalità cui sono preposti detti enti. Il più adeguato e coordinato funzionamento del Consiglio direttivo potrà determinare il migliore svolgimento del corso di

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specializzazione e l'utile formazione comune dei laureati in giurisprudenza orientati ad impegnarsi nell'attività giurisdizionale, ovvero forense, ovvero notarile.

Suscita ferma critica - non comprendendosene la ragione - il fatto che al Consiglio superiore della magistratura, al Consiglio nazionale forense e al Consiglio del notariato non sia dato il potere di designare direttamente i componenti del Consiglio direttivo appartenenti alle rispettive categorie, ma solo il potere di indicare una rosa di eligibili. La norma appare ingiustificata e dovrebbe essere modificata.

L'articolo 6 dispone che l'attività didattica programmata dal Consiglio direttivo venga svolta da docenti dell'Università, nonché da magistrati ordinari, amministrativi e contabili, da notai ed avvocati, questi ultimi (e cioè coloro che non sono docenti universitari) a seguito della stipula di contratti di diritto privato, della durata di un anno.

Potrebbe essere opportuno prevedere la possibilità di reclutare i docenti anche tra i professori universitari fuori ruolo e tra magistrati, notai e avvocati che siano andati in pensione da non più di cinque anni.

Occorrerebbe inoltre prevedere figure intermedie di tutors per seguire gli specializzandi in piccoli gruppi nel loro percorso formativo.

La norma si presenta come insufficientemente specifica, specie per quanto riguarda le modalità di impiego dei docenti universitari, alla luce di quanto già esposto nelle "Considerazioni generali" (par. 2).

L'articolo 7. ha per oggetto una delle parti più delicate e rilevanti dello schema di Regolamento, e cioè il piano degli studi delle scuole.

Secondo il contenuto dell'articolo, la scuola ha la durata di due anni, ed è articolata in un anno comune e nei successivi indirizzi distinti giudiziario-forense e notarile della durata ciascuno di un altro anno. L'ordinamento didattico è definito con l'indicazione dei contenuti

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minimi qualificanti l'indirizzo comune delle professioni legali e quelli successivi specifici. In particolare, l'indirizzo comune ricomprende le seguenti materie: approfondimenti disciplinari ed attività pratiche nel campo del diritto civile, del diritto commerciale, del diritto processuale civile, del diritto processuale penale, del diritto penale, del diritto comunitario, del diritto costituzionale, del diritto tributario, del diritto del lavoro e della previdenza sociale, dell'informatica giuridica, della contabilità di Stato, dell'economia pubblica, dell'ordinamento giudiziario nonché con riguardo alla contabilità ed alla dinamica economica delle imprese. A sua volta, l'indirizzo giudiziario-forense comprende:

approfondimenti disciplinari e attività pratiche in diritto civile, diritto commerciale, diritto processuale civile, diritto penale, diritto processuale penale, diritto amministrativo, deontologia giudiziaria e forense, ordinamento giudiziario e forense, tecnica della comunicazione ed argomentazione. L'impegno didattico comprende lezioni teoriche ed attività pratiche quali esercitazioni, discussione e simulazioni di casi, stages e tirocini, discussione pubblica di temi, atti giudiziari, sentenze e pareri redatti dagli allievi. Le ore di insegnamento, ripartite nei mesi da ottobre ad aprile, debbono ammontare almeno a 400 ogni anno, di cui il 50% debbono essere costituite da esercitazioni pratiche, le quali ultime potranno continuare anche dopo il mese di aprile e svolgersi pure presso studi professionali, scuole del notariato e sedi giudiziarie. Il passaggio dal primo al secondo anno di corso e l'ammissione all'esame di diploma sono subordinati al giudizio favorevole del Consiglio direttivo sulla base della valutazione complessiva dell'esito delle verifiche intermedie relative alle varie attività didattiche espletate.

Il dato che va subito evidenziato è che 200 ore di insegnamento all'anno (400:2) sono assolutamente insufficienti e rappresentano una indicazione che desta sconcerto. Nè si comprende perché l'insegnamento debba limitarsi al periodo da ottobre ad aprile. Il Consiglio superiore della magistratura ritiene che debbano prevedersi almeno 20 ore di insegnamento alla settimana per otto mesi all'anno e quindi all'incirca 600 ore di insegnamento, alle quali dovrebbero aggiungersi congrui periodi di attività pratica presso studi professionali o uffici giudiziari.

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Vi è poi da segnalare che, mentre per il comma 5 le attività pratiche di cui al comma 6 debbono rappresentare il 50 per cento del totale delle ore di attività didattica, per il comma 6 stages e tirocinii non possono superare, in ore, il 10 per cento del totale.

Il comma 6 stabilisce poi che l'attività didattica è svolta in forma "interattiva e modulare".

Nel complesso, e con riferimento al complesso di questa regolamentazione, non appare inopportuno segnalare la necessità di dare al testo precettivo contenuti più precisi e specifici ed espressi con maggior chiarezza e concretezza.

Lo stesso rilievo deve essere fatto e con maggior ragione a proposito dell'allegato 1, contenente quella che viene definita "l'indicazione dell'obiettivo formativo e l'individuazione dei contenuti minimi".

Secondo alcuni componenti fra le materie di insegnamento dovrebbero essere compresi il diritto romano, il diritto internazionale (materie su cui verte la prova orale del concorso per uditore giudiziario a norma dell'art. 123 ter. O.G., così come aggiunto dal D.Lgs.

398/97) nonché il diritto ecclesiastico, su cui verte la prova orale dell'esame per avvocato.

Gli altri componenti hanno invece ritenuto maggiormente formativa una più spiccata concentrazione dei corsi sulle materie fondamentali.

A questo riguardo, anzi, è stato rilevato un eccessivo affollamento di interessi nell'allegato 1, dove sembrano enumerate tutte le materie delle quali possono avere occasione di occuparsi magistrati e avvocati nel corso della loro professione. Questa sorta di enciclopedismo non appare avere alcuna validità didattica e sembra essere foriero di superficialità. Si suggerisce, quindi, una drastica riduzione delle materie, ad un numero tale da rendere realistico pensare ad un loro insegnamento e ad un loro studio approfonditi, sia dal punto di visto teorico sia mediante il confronto con la sperimentazione della pratica professionale. La contabilità pubblica, l'economia delle imprese, la dinamica economica delle imprese (qualunque cosa voglia dire questa espressione) possono formare oggetto di sporadiche escursioni informative, ma di certo sarebbe fantasioso ipotizzare che possano essere prescritte come "contenuti minimi qualificanti"

dei corsi.

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Nel complesso può dirsi che gli articoli 6 e 7 e l'allegato 1 lasciano sostanzialmente non regolati l'ordinamento e il modello didattici delle scuole ed il loro piano di studi.

L'articolo 8 stabilisce che il diploma di specializzazione è conferito a seguito del superamento di una prova finale consistente in una dissertazione scritta su argomenti interdisciplinari con giudizio espresso in settantesimi. La Commissione esaminatrice, nominata dal Consiglio direttivo della scuola, è composta da sette membri, di cui quattro professori universitari, un magistrato ordinario, un avvocato ed un notaio.

Anche questa disposizione si segnala per la sua mancanza di precisione, non essendo neppur chiaro se la dissertazione scritta debba essere redatta al momento, in quale luogo, con quali ausili, ecc., mentre la previsione del carattere interdisciplinare degli argomenti sui quali essa deve vertere appare troppo indeterminata.

L'articolo 9 costituisce una norma di rinvio, richiamando l'applicazione, in quanto compatibili e per quanto non previsto, delle disposizioni di cui al D.P.R. 10 marzo 1982 n. 162 (norme in materia di riordinamento delle scuole dirette a fini speciali, delle scuole di specializzazione e dei corsi di perfezionamento).

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