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La traumatologia bellica in età medievale

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Archeologia

La traumatologia bellica in età medievale

Relatore

Prof. Gino Fornaciari

Correlatore

Prof. Antonio Fornaciari

Candidato

Mario Oliverio

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INDICE

Introduzione ... pag. 1

Capitolo I

La Traumatologia bellica e la riconoscibilità delle lesioni ... pag. 4 Limiti alla riconoscibilità delle lesioni: Gli equipaggiamenti difensivi..pag. 15

Capitolo II

La medicina medievale: evoluzione e competenze ... pag. 29 Interventi chirurgici o presunti tali riscontrati ... pag. 39

Capitolo III

La battaglia di Towton ... pag. 51 Casi studio Towton ... pag. 60 Sito di Owenbristy ... pag. 96 Casi studio Owenbristy ... pag. 99 La battaglia di Wisby ... pag. 108

Capitolo IV

Schede di associazione arma - lesione ... pag. 121

Conclusioni ... pag. 159

Appendice

Tabella siti ... pag. 164

Catalogo delle Sepolture ... pag. 165

Bibliografia ... pag. 324

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INTRODUZIONE

Obiettivo di questa tesi vuole essere lo studio della traumatologia bellica in età medievale dal punto di vista paleopatologico, conoscitivo, tipologico e metodologico. Nonostante la violenza interpersonale e le ferite, conseguenze di scontri bellici, siano una costante nella storia dell’umanità, e non certo un’esclusiva del medioevo nell’immaginario collettivo, questo periodo storico è senza dubbio quello maggiormente associato alla guerra e alla violenza. Attraverso le indagini archeologiche e quelle paleopatologiche si può tentare, almeno parzialmente, di ricostruire le dinamiche di alcuni conflitti e approfondire le nostre conoscenze sull’arte della guerra medievale, ottenendo informazioni utili per far maggiore chiarezza su un periodo storico così importante.

La traumatologia bellica in età medievale è un argomento estremamente vasto e interessante che ci permette di comprendere, attraverso l’analisi delle lesioni riscontrate sullo scheletro, come si svolgessero i combattimenti, quali fossero le armi tipiche dell’epoca e le diverse tecniche con cui esse fossero utilizzate dagli eserciti europei.

Al fine di comprendere al meglio tutti gli aspetti della materia, sono stati presi in esame molteplici casi studio e campioni di resti d’individui che presentano tracce di violenza interpersonale, riconducibili ad azioni belliche, da diverse aree geografiche. L’attenzione della ricerca è stata posta sull’Europa Occidentale, considerando un arco cronologico piuttosto ampio, compreso tra il VI e il XIV secolo, in modo d’avere una vasta casistica da analizzare.

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Dal punto di vista conoscitivo, attraverso le analisi, gli studi e i confronti del materiale preso in esame si vuole approfondire la conoscenza sulla frequenza nella localizzazione delle ferite; sulla presenza di lesività nei diversi contesti; sulle varie tipologie di armi utilizzate, catalogando e confrontando le diverse lesioni; analizzare eventuali interventi chirurgici riscontrati sui resti per comprendere meglio quali fossero le pratiche mediche utilizzate all’epoca e per valutarne gli effetti sul paziente.

Dal punto di vista metodologico, la raccolta dei dati è finalizzata alla realizzazione di uno strumento interpretativo, sotto forma di database, che racchiuda nel dettaglio ogni singola sepoltura analizzata e che sia utile, per gli studiosi del settore, a identificare e associare il tipo di lesione con l’arma o strumento che potrebbe averla prodotta.

Come detto in precedenza, la casistica è piuttosto ampia, sia dal punto di vista cronologico sia da quello geografico; tale decisione è stata presa per avere a disposizione un cospicuo campionario da esaminare. Grazie a ciò, è stato possibile eseguire dei confronti esaustivi che hanno reso evidente come tra popolazioni con differenti culture, tecniche di combattimento e diffusione geografica, la localizzazione dei traumi fosse molto spesso la medesima.

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Siti funerari presi in esame nel lavoro di tesi

1

Italia: Cattedrale di S. Pietro (Bologna), Piazza S. Giovanni (Torino),

Necropoli di Campochiaro (Campobasso).

Svezia: Battaglia di Wisby.

Irlanda: Mount Gabmle (Dublino), Owenbristy (County Galway),

Ardrwigh (Leinster).

Regno Unito: Battaglia di Towton (Yorkshire), Buckland (Dover), St.

Mary Spital (Grande Londra), Wharram Percy (Yorkshire), Church End in Cherry Hinton (Cambridge).

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CAPITOLO I

La Traumatologia bellica e la riconoscibilità delle lesioni

Un ruolo importante nello studio paleopatologico è affidato all’analisi traumatologica dei reperti. Occorre tener presente che le lesioni, e in particolar modo le fratture, sono i segni più facilmente riconoscibili nel materiale osteoarcheologico. L’osservazione delle lesioni deve però essere fatta su molteplici campioni per fornire adeguate informazioni, attraverso le quali sarà possibile poi la realizzazione di un ―modello traumatologico‖ che permetterà l’indagine di modelli socio culturali delle popolazioni antiche2. L’insieme dei traumi che si possono riscontrare sui diversi reperti fornisce infatti importantissime informazioni per la comprensione delle diverse dinamiche che hanno portato alla morte di un individuo e delle diverse vicissitudini della sua vita.

È possibile fare una prima distinzione tra:

 Lesioni accidentali: tutti quei traumi che sono prodotti dall’individuo stesso o da terzi, senza la volontà di far male, probabilmente per disattenzione o per attività lavorative;

 Lesioni traumatiche intenzionali: tutte quelle ferite prodotte volontariamente, sia con l’intenzione di nuocere a terzi, come le lesioni belliche, sia per altri scopi o motivi culturali, come ad esempio gli interventi chirurgici o le pratiche rituali di trapanazione e deformazione cranica.

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Una seconda e più approfondita differenziazione si può effettuare tra:  Traumi dei tessuti molli: difficilmente osservabili nell’ambito

del materiale osteoarcheologico tradizionale; infatti nella maggior parte dei casi, fatta eccezione per particolari pratiche di conservazione o sepoltura, come la mummificazione, i tessuti molli vanno perduti con la decomposizione3.

 Traumi dello scheletro: le condizioni patologiche più comunemente e facilmente riscontrabili sul materiale osteoarcheologico.

Il trauma dello scheletro che maggiormente si verifica e che più facilmente si riconosce è la frattura, dal latino fractura derivato da

frangere, "rompere"4. Questa può interessare solo l’apparato scheletrico oppure può esser accompagnata dalla lacerazione dei tessuti molli. Si distinguono infatti fratture ―chiuse‖, prive di lacerazione dei tessuti molli, ―aperte o esposte‖, dove il materiale osseo è fuoriuscito dal tessuto epidermico lacerandolo e aumentando notevolmente il rischio di setticemia.

Le fratture si verificano quando si applicano direttamente, o indirettamente, allo scheletro delle forze che superano la resistenza o l’elasticità dell’osso, causandone la rottura. Le diverse forze scatenanti sono: Flessione, Compressione; Rotazione o Torsione, Strappo o

Taglio, Trazione o Tensione5.

Una più completa differenziazione tra i vari tipi di fratture può essere fatta in base alla loro morfologia, ovvero alla direzione, al tipo di

3 Fornaciari, Giuffra 2009, p.148. 4 Enciclopedia Treccani. 5 A. C. Aufderheide, C. Rodriguez-Martin 1998, p.20.

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rottura e all’andamento della rima di frattura: la fessura che separa i due frammenti ossei6. Si identificano così diverse tipologie:

1. Trasversale: maggiormente frequente nelle ossa sclerotiche, la rima di frattura è disposta ortogonalmente rispetto alla sua asse longitudinale, ed è generalmente dovuta a una forza applicata trasversalmente alla lunghezza dell’osso. Un esempio tipico di tali traumi sono le fratture causate da aggressioni con un colpo diretto e violento;

2. A spirale o Spiroidi: la rima di frattura corre a spirale lungo il segmento osseo, avvolgendosi ad esso;

3. Comminuta: tipologia di frattura che si verifica quando l’osso interessato si frammenta in più parti e si riscontrano diverse rime di frattura. Tipica frattura comminuta è quella da Schiacciamento che spesso interessa le vertebre e si verifica per un’eccessiva compressione;

4. Obliqua o a Becco di flauto: la rima di frattura crea un angolo inferiore ai 90° rispetto all’asse longitudinale dell’osso;

5. A legno verde: frattura incompleta tipica dell’infanzia. La rottura non si estende per tutta la lunghezza o lo spessore dell’osso, ma presenta un’interruzione parziale della corticale in senso trasversale, con conseguente irradiazione di frattura lungo l’asse del segmento scheletrico7;

6. Da trazione o Avulsione: dovuta alla separazione dei due monconi per effetto di una contrazione, violenta o improvvisa, del muscolo associato all’osso interessato;

6

Enciclopedia Medica Italiana 1978, pp. 1979-2000.

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7. Da impatto: alquanto rare e si riscontrano quando il colpo è tale da far incuneare uno dentro all’altro i due monconi dell’osso, causando un accorciamento dell’arto interessato.

Tipologia delle fratture ossee (http://it.dreamstime.com)

Come detto poc’anzi, i traumi dello scheletro, e in particolar modo le fratture, sono gli elementi che maggiormente ci forniscono informazioni sull’attività di un individuo e ogni ferita ha una sua riconoscibilità dovuta allo strumento utilizzato, al modo in cui è stato usato, alla posizione in cui è stato colpito l’avversario. Nel nostro caso i segni lasciati dall’attività bellica sulle ossa sono facilmente riconoscibili e sono interpretabili come indicatori di violenza interpersonale e dell’attività bellica di una determinata popolazione o gruppo sociale8.

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Un primo elemento che può fornire importanti informazioni per la comprensione della dinamica di un combattimento è la localizzazione delle ferite e il loro andamento; è possibile, da questi dati, capire dove fosse posizionato l’avversario e il tipo di colpo che questi ha inferto alla vittima. Si è osservata una generale prevalenza di traumi inferti alla regione fronto-parietale sinistra, con un andamento diagonale che parte dall’alto e procede verso il basso. Questo ci permette di identificare l’aggressore come destrimane e, viceversa, le lesioni poste in modo diametralmente opposto saranno state inferte da un mancino9. Anche questi elementi possono essere molto utili a ottenere una ricostruzione più completa della dinamica di uno scontro.

Altro fattore indispensabile allo studio della traumatologia bellica è la comprensione delle diverse forze in base alle quali si classificano i tipi di traumi da violenza interpersonale:

 Trauma da forza tagliente ―sharp trauma”;  Trauma da forza contundente “blunt trauma”;

 Trauma da forza penetrante o perforante ―penetrating or

puncture trauma‖.

Queste forze causano ferite ben precise che sono morfologicamente riconoscibili poiché prodotte da specifiche tipologie di armi10; per cui riconoscere il tipo di forza che ha prodotto la lesione permette già di ottenere delle prime informazioni sulla tipologia di arma/strumento utilizzato dall’aggressore.

I traumi da forza tagliente sono causati da tutte quelle armi dotate di lama affilata e/o appuntita, siano esse di grandi o piccole dimensioni. Tra le armi in grado di produrre tale forza si identificano in primis la

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Larsen 2015, p. 161.

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spada, l’arma medievale per eccellenza, l’ascia, le armi ad asta e i pugnali di tutti i tipi, ad esempio stiletti o daghe11.

La spada medievale produce generalmente una lesione caratterizzata da un taglio singolo, dritto e stretto, con margini lisci e ben definiti, nonostante esistano numerose tipologie di spade che si sono evolute nel corso del medioevo.

Classificazione tipologie spade di Oakeshott (Oakeshott 1960)

L’ascia solitamente produce una lesione più estesa con un taglio meno preciso e accompagnato da rotture perpendicolari, generalmente dovute all’estrazione dell’arma. Infatti, dato il peso e le dimensioni della lama, capitava molto spesso che l’arma si incastrasse nell’osso e fosse necessario effettuare una torsione per rimuoverla, causando la rimozione di parte dell’osso. Questo poteva verificarsi anche con la spada, qualora il colpo vibrato fosse stato di particolare potenza, ma accadeva più raramente rispetto all’ascia. Generalmente le armi dotate di lama piatta producono tipiche scanalature a forma di V quando questa si incastra nell’osso e deve essere ruotata per estrarla.

11

Per approfondimenti in merito si veda: Oakeshott 1960/1982/1997; C. De Vita 1983; C. Blair, Bosson 1979.

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10 SK 2981 (Patrick 2006)

F1944 (Carty 2014)

Per quanto riguarda i traumi prodotti da forza contundente rientrano in questa categoria tutte le armi prive di lama, che basano la loro efficacia sul peso della stessa e sulla potenza del colpo. Le armi contundenti maggiormente utilizzate nel periodo medievale comprendono la mazza ferrata, il mazzafrusto o morning-star, la

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clava, il martello d’arme e le fionde/frombole, le quali, lanciando proiettili di varia tipologia, producono sempre un trauma contundente.

Tipologie di armi contundenti (C. De Vita 1983)

Le armi contundenti, in particolar modo le mazze da guerra, provocano sul materiale osseo fratture depresse ed estese dai cui margini si dipartono fratture radiali, diversamente nel caso del martello da guerra o d’arme si riscontrano fratture depresse circoscritte.

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Le lesioni causate da pugnali, stiletti, daghe o simili armi dotate di lama più piccola sono solitamente identificabili come ferite da ―punta‖. Data la minore lunghezza di queste lame, era insolito che esse fossero usate per effettuare traumi taglienti, generalmente causati da fendenti; si mirava piuttosto a colpire l’avversario di punta, cercando di far penetrare il più possibile l’arma.

Nel XIII secolo fa la sua comparsa un tipo specifico di arma utilizzata proprio in questo modo, lo sfondagiaco o smagliatore: un’arma bianca manesca con breve lama a quadrello o diritta, irrobustita in punta per sfondare le difese di maglia12.

Sfondagiaco o Smagliatore

Questo particolare tipo di arma era spesso usato per la pratica della ―misericordia‖, poiché riusciva a infilarsi facilmente nelle parti rigide dell’armatura13.

Questa pratica era generalmente svolta alla fine della battaglia, quando i vincitori si aggiravano sul campo di battaglia per finire i moribondi prima di depredare i corpi degli oggetti di valore e dell’equipaggiamento.

Le lesioni da forza penetrante sono solitamente attribuite alle frecce, agli strali, ai quadrelli o ai verrettoni da balestra. Anche in questo

12

De Vita 1983, p.18 Tav.33, 35.

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caso, così come per le spade, esistono diverse tipologie di queste armi, caratterizzate da varie forme e dimensioni della punta o della sezione dell’asta, ognuna delle quali può lasciare una traccia evidente e riconoscibile14.

Tipologie di punte databili tra XIII e XIV secolo (Thordeman 1939, p. 134)

Come si evince dalle immagini, esistevano una moltitudine di tipologie di cuspidi di freccia e di quadrelli che servivano a svolgere compiti diversi in determinate situazioni. Sarebbe impossibile illustrare ogni tipologia, per cui verranno illustrate solo alcune per rendere l’idea della loro varietà. Solo per la balestra le fonti documentarie indicano tre tipologie di dardi principali:

 Strali: usati anche dagli archi e raramente da alcune tipologie di balestre portatili, composti da aste di legno dotate di alette laterali in piume di uccello (impennate), nella cui sommità veniva innestata una punta di ferro di foggia variabile (ferrate), detta pillottum;

 Quadrelli: le munizioni standard delle balestre portatili. Si distinguevano in base al tipo di arma che li lanciava, in ―quadrelli ad duos pedes et staffam‖, usati dalle balestre più grandi, e ―minuti‖. Entrambi erano caratterizzati da

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una punta di ferro con cuspide a quattro spigoli e gorbia15 cilindrica, dotati di due sole alette laterali in piume.

 Quadrelli crossi, definiti anche quadrelli de tornum o

quadrelli ad verrocchium: identificavano i proiettili lanciati

dalle balestre da postazione fissa.

Il termine quadrello sarà poi gradualmente affiancato e sostituito da

verrettone o guirrettone nel corso del XIV secolo16.

Poiché risulterebbe qui impossibile esporre in maniera esaustiva l’intera evoluzione degli armamenti medievali, nelle righe sovrastanti si è svolta una trattazione rapida, prendendo in esame solo le principali macrocategorie utili ai fini dello studio della traumatologia bellica medievale17.

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Era così chiamato il cono metallico nel quale si andava ad innestare l’asta lignea. Non è usato solo per le armi da tiro, ma per qualunque tipologia di armi dotata di un’asta lignea.

16 R. Farinelli, C. De Luca 2002, p. 465. 17

Per approfondimenti in merito si veda: Laking 1920-22; Mann 1960;Oakeshott 1997; Wiedemer 1967; Giorgetti 1969;Boccia, Coelho 1975; Boccia 1982;Troso 1988; Nicolle 1988; Venturoli 2003; Jones R. 2011;

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Limiti alla riconoscibilità delle lesioni: Gli equipaggiamenti difensivi

Come si è visto nel paragrafo sulla traumatologia, esistono molteplici tipologie di armi che sfruttano le tre forze principali in grado di produrre traumi: tagliente, contundente, penetrante.

I segni che le diverse armi possono lasciare sullo scheletro non sono sempre facilmente riconoscibili, occorre tener presente che gli armati dell’epoca erano provvisti di equipaggiamenti difensivi che potevano attutire e smorzare l’effetto del colpo ricevuto.

Per cui, per questo studio, è fondamentale trattare almeno parzialmente tale argomento, poiché la presenza o meno di specifici equipaggiamenti difensivi indossati dai combattenti può alterare sensibilmente, o persino obliterare, i segni prodotti da una determinata arma, rendendo così molto più complessa la riconoscibilità della lesione e la corretta identificazione della tipologia di arma utilizzata. Durante l’analisi dei materiali e dei documenti presi in esame sono stati rinvenuti alcuni casi che esemplificano l’importanza degli equipaggiamenti difensivi per la protezione degli armati. Uno dei casi è l’individuo SK 42 proveniente dal sito di Owenbristy in Irlanda, un maschio di età compresa tra i 24 e i 29 anni che presenta un totale di 127 ferite differenti18. Tutte queste lesioni sono localizzate esclusivamente sullo scheletro post-craniale e questo fatto risulta singolare dato che, come osservato in precedenza, il bersaglio preferito nei combattimenti era proprio la testa per cercare di rendere inoffensivo l’avversario il prima possibile. La totale assenza di traumi

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sul cranio della vittima permette di supporre che questa dovesse essere dotata di una buona protezione, forse un elmo indossato su un camaglio, che potrebbe aver scoraggiato gli avversari dal mirare alla testa e quindi concentrare i colpi sulle parti maggiormente esposte. Altro esempio è dato dai resti di un individuo sepolto nella necropoli molisana di Campochiaro in località Morrione – Vicenne; si tratta di un individuo adulto di età compresa tra i 50 e i 55 anni, di sesso maschile19.

I resti rinvenuti nella tomba n. 102 mostrano una ferita impressa, di forma lanceolata, riconducibile a un trauma da forza tagliente verosimilmente prodotto da una pelekia, ascia da battaglia a una lama tipica delle truppe bizantine dell’epoca20.

La presenza di rimodellamento osseo e la buona cicatrizzazione del trauma indicano la sopravvivenza dell’individuo, presumibilmente dovuta alla scarsa penetrazione dell’arma nel tavolato cranico, grazie alla presenza di un equipaggiamento difensivo, probabilmente un elmo longobardo che avrebbe attutito il colpo altrimenti mortale.

Naturalmente da sempre, nel corso della storia, c’è stata una correlazione stretta tra l’evoluzione dell’armamentario militare e l’evoluzione dell’equipaggiamento difensivo; quanto più le armi

19

Idem, N° 102 Rubini, Zaio 2011.

20

Per approfondimenti si veda:Treadgold 1995; Bartusis 1997.

Elmo di Niederstotzingen, Württembergergisches Landesmuseum, Stuttgart. Foto: www.archeologia.com

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d’offesa diventavano potenti ed efficaci, tanto più si evolvevano le varie protezioni21. Un chiaro esempio di questa correlazione è dato dai numerosi cambiamenti che si iniziarono ad effettuare nell’equipaggiamento difensivo in seguito all’avvento del nuovo metodo di combattimento proprio della cavalleria, la tecnica della

carica a lancia tesa che pare sia stata introdotta inizialmente dai

Normanni alla metà dell’XI secolo e che, in seguito alle loro conquiste, si impose a partire dagli inizi del XII in tutta l’Europa occidentale e nell’Oriente cristiano, diventando poi talmente diffusa che venne adottata anche da alcuni principi musulmani22.

L’adozione di questa nuova tecnica, temibile per efficacia e devastante per potenza, portò necessariamente a un cambiamento e a un potenziamento delle armature e di tutte le protezioni che sia i fanti sia i cavalieri utilizzavano. L’equipaggiamento difensivo maggiormente utilizzato fino all’introduzione dei nuovi metodi di combattimento portati dai Normanni era la

brunia23, una cotta di pelle o tessuto rinforzato ricoperta di scaglie o anelli di maglia intrecciati, diffusa dall’VIII all’XI secolo e che si pensava fosse stata introdotta dai Celti. Inizialmente copriva solo il tronco, ma andò poi evolvendosi e allungandosi; e durante il dominio romano si

21 Per approfondimenti in merito si veda:Laking 1920-22;Oakeshott 1960; Giorgetti 1969; Boccia

1982;Edge, Paddock 1988; Jones 2011.

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J. Flori 1999, pp. 93-98.

23

Per approfondimenti in merito si veda: Boccia 1982.

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trasformò nella lorica, una cotta di scaglie che era cucita sopra una tunica di cuoio per proteggere l’armato fino a metà coscia24.

I romani ne svilupparono diversi modelli, alcuni dei quali poi mantenuti nei primi secoli del medioevo. Sotto si vede un esemplare di lorica hamata di derivazione celtica, facente parte dell’equipaggiamento dei legionari.

Lorica hamata conservata presso Arbeia Roman Fort & Museum, South Shields,

Inghilterra. (www.romanhideout.com)

Da questi modelli più antichi si arrivò poi al modello più diffuso e tipico del soldato medievale fino alla metà del XII secolo, l’usbergo25. Si trattava di una cappa di maglia formata da più anelli intrecciati, sovrapposti e appiattiti con delle pinze, che poi erano chiusi con dei rivetti26.

24

J. Flori 1999, pp. 104-105.

25

Per approfondimenti in merito si veda Boccia 1982.

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19

L’usbergo era di dimensioni maggiori e copriva una superfice più estesa rispetto alle cappe del periodo precedente, proteggeva infatti testa, corpo, arti superiori e una parte delle gambe.

Le maglie erano intrecciate con le quattro maglie adiacenti, e un usbergo poteva contare tra le 20.000 e le 200.000 maglie27, come dimostrato dai reperti rinvenuti e dai trattati dell’epoca. Nonostante il numero di maglie e le sue dimensioni, questa protezione non era eccessivamente pesante, e per uomini allenati i suoi 12/15 chili di peso non costituivano un eccessivo ingombro.

Questo tipo di protezione era particolarmente efficace contro fendenti d’arma da taglio, in particolar modo di spade, ma non altrettanto contro frecce, asce, quadrelli o cariche di cavalleria; per attutire gli eventuali urti sotto di esso si indossavano dei farsetti d’arme imbottiti. Nel corso del tempo la protezione fornita dall’usbergo fu coadiuvata da altri elementi che si univano ad esso e andavano gradualmente a coprire le parti del corpo che prima restavano scoperte, si trattava di protezioni per le singole membra come maniche, guanti di maglia (diffusi nel XII secolo)28 e calze di maglia.

Ulteriore protezione era fornita poi dal camaglio, un cappuccio di maglia di ferro che era indossato sotto l’elmo, proteggendo la testa e le spalle. Questo era particolarmente diffuso nel corso dell’XI e del XII secolo. 27 J.Flori 1999, pp. 104-106, Boccia 1982, p. 20. 28 Idem, p. 105. Usbergo

(23)

20 Camaglio (cuffia di maglia) ritrovata a Wisby in situ. (Thordeman 1939, p. 101)

Con il passare del tempo l’equipaggiamento difensivo subisce ulteriori evoluzioni e tende ad appesantirsi per garantire una maggiore robustezza e resistenza ai colpi29. L’usbergo viene ora rinforzato nei punti più sensibili con parti in cuoio cotto e numerose placche rigide in metallo, che forniscono una maggiore protezione. A sua volta questa cotta viene poi coperta, fino al 1350, dalla cosiddetta corazza a

piastre o corsaletto, che offre una maggiore protezione e necessita di

una minore manutenzione, nonostante l’aumento del peso30. Nello specifico, il corsaletto era l’insieme delle difese in piastra che proteggeva l’armato dalla testa alla vita/ginocchia31. Esistevano diversi tipi di corsaletti, a seconda del ruolo e dell’armamento del

29 Per approfondimenti in merito si veda: Laking 1920-22; Giorgetti 1969; Boccia 1982; Edge,

Paddock 1988; Jones 2011.

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J. Flori 1999, pp. 106-107

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soldato che lo indossava, alcuni tipi sono: il corsaletto da fante a piedi (XVI sec.), corsaletto da mare (fine XVI-tardo XVII sec.), corsaletto da piede, corsaletto da cavallo leggero, corsaletto da corazza (fine XVI-XVII sec.) ecc32.

Corsaletto da cavallo leggero (Boccia 1982) - Armatura da uomo d’arme o grande armatura bianca (Boccia 1982)

Sarà solo nel XV secolo che l’evoluzione degli equipaggiamenti difensivi raggiungerà il suo apice con l’introduzione della cosiddetta

grande armatura bianca o armatura da uomo d’armi, considerata

l’armatura più difensiva realizzata.Nel modello cinquecentesco questa si compone di: elmetto da cavallo, o talvolta da incastro, con la rispettiva goletta; petto con resta; schiena; scarselle (i fiancali solo agli inizi del secolo); spallacci asimmetrici con guardagoletta; bracciali;

32

(25)

22

manopole; arnesi a piastre; schiniere sane con scarpa33. Questa tipologia di armatura offriva la maggior protezione, essendo formata interamente da parti rigide articolate tra loro, ma di contro aumentava notevolmente il peso che il cavaliere avrebbe dovuto muovere.

Naturalmente l’evoluzione degli equipaggiamenti difensivi interessò anche le componenti aggiunte, quelle cioè che non facevano propriamente parte dell’armatura, l’elmo e lo scudo, anch’essi componenti fondamentali per garantire la completa protezione dell’armato. A partire dal IX secolo e fino a buona parte del XII il modello maggiormente diffuso in Europa era l’elmo di tipo normanno34. Si trattava di un casco di forma sfero-conica composto di strisce di metallo inchiodate su di un’armatura di base, dotato di un nasale, chiamato

Nasalhelm in lingua tedesca, e verso la fine del XII secolo gli fu

aggiunta una placca facciale che serviva a proteggere parte del viso dai fendenti di spada. Questa tipologia di casco era indossata sopra una cuffia di maglia che raccoglieva anche i capelli in modo da sfruttarli come ammortizzatore in caso di colpi35.

Naturalmente anche le protezioni per la testa si evolvettero di pari passo con le armature e nel corso del XIII secolo il casco ―normanno‖

33

Idem, p. 21.

34

Idem, p. 25. Per approfondimenti in merito si veda Oakeshott 1960.

35

J. Flori 1999, pp. 106-107

Nasalhelm databile intorno all’anno

1000. Pressola collezione di armi e armature, Kunsthistorisches

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23

si modificò verso l’elmo chiuso di dimensioni maggiori, di forma cilindrica con due fessure per gli occhi.

Elmo chiuso (Bocia 1982, p.25)

Questa tipologia offriva sì una maggiore protezione ma, oltre a essere più pesante, limitava notevolmente la vista e l’udito di chi lo indossava; inoltre, poiché era completamente chiuso, dovevano esser praticati dei fori per garantire la ventilazione ed evitare che si surriscaldasse.

A tal motivo l’elmo era sempre indossato sopra a un camaglio, cosicché, qualora il cavaliere avesse voluto toglierlo per riprendere fiato, non sarebbe stato completamente scoperto36. Questa evoluzione dell’elmo andrà via via a complicarsi, arricchendosi di cimiero araldico e cervelliera37, fino a diventare eccessivamente pesante e scomoda, tanto che alla metà del XIV secolo l’elmo chiuso sarà sostituito dal bacinetto a visiera mobile. Questa era una protezione molto ridotta rispetto al grande elmo, costituita in pratica solo da un coppo, che doveva essere indossato sopra un camaglio o sopra una

36

Boccia 1982, p. 25.

37

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24

cuffia imbottita, al quale era applicata una visiera che poteva essere aperta o chiusa a seconda della necessità38.

Bacinetto a visiera mobile, metà del XIV secolo (Boccia 1982, p.25)

Parimenti per quanto riguarda gli scudi, il modello che maggiormente si impone è quello normanno, predominante per tutto l’XI e il XII secolo. Questo tipo di protezione era realizzato in legno ricoperto di cuoio, avvolgente, lungo dalla spalla a sotto il ginocchio, appuntato in basso e con la parte alta convessa che gli conferiva una forma simile a una mandorla39. Lo scudo alla ―normanna‖ proteggeva molto bene il corpo dai fendenti di spada e dalle frecce, ma era inefficace contro la potenza di sfondamento della lancia da cavalleria.

L’evoluzione dell’armatura a placche renderà possibile la riduzione delle dimensioni dello scudo; ora infatti il corpo è maggiormente protetto e dunque la superficie coprente dello scudo si riduce notevolmente, arrivando, nel corso del XIII secolo, all’utilizzo della

38

Flori 1999, pp. 106-107, Boccia 1982, p. 25.

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targa o targia, una tipologia di scudo utilizzato sia per la guerra sia

per le giostre da torneo.

Tipologie di Targa conservate presso l’armeria del Museo Bardini, Firenze.

Diesgni da sinistra a destra: Targa da guerra, Targa alla unghera, Targa a testa di

cavallo, Targa ovata. (Boccia 1982, Tav. 65)

Inizialmente rettangolare con gli angoli arrotondati, o a mandorla, o a triangolo questo tipo di scudo si evolve nel corso del tempo e nel XIV secolo si dota di un incavo nella parte sommitale che serviva a far

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passare la lancia e permetteva altresì al cavaliere una maggiore stabilità e precisione nel colpo.

Quando, nel XV secolo, fa la sua comparsa la grande armatura bianca, quella che copre completamente l’armato e che è rinforzata sul lato sinistro per attutire un eventuale colpo della lancia tesa, lo scudo diventa superfluo e viene gradualmente abbandonato dai cavalieri, mentre continua ad essere usato dai fanti. Questi utilizzavano diverse tipologie di scudi, ma senza dubbio tra le più utilizzate vi era il

brocchiero o bucale, si trattava di uno scudo circolare di piccole

dimensioni formato da assi di legno coperte di pelle o cuoio conciato e dotato al centro di un umbone che serviva a rinforzare la parte centrale dove era posta l’impugnatura40.

Addestramento con spada e brocchiero.

(Manoscritto I-33). London Tower Fechtbuch (Royal Library Museum, British Museum No.) 14 E iii, No. 20, D. VI.

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Altra tipologia di scudo utilizzata tra XIV e XVI secolo, ma che era già conosciuto in epoche più antiche, era il palvese o pavese41. Si

trattava di uno scudo rettangolare di grandi dimensioni, abbastanza largo e alto da coprire un uomo chinato; misurava circa un metro di altezza per 50 cm di larghezza ed era realizzato in legno ricoperto esternamente di tela o metallo e internamente foderato in pelle. Ne esistevano due varianti: il Pavese all’italiana e quello alla tedesca, che differivano perché il secondo era dotato di passanti che consentivano di fissarlo a un palo nel terreno per costituire una posizione difensiva stabile senza doverlo imbracciare.

Disegni da sinistra adestra: Due modelli di Pavese alla tedesca, Pavese all’italiana. (Boccia 1982, Tav. 63)

Questo mezzo di difesa era solitamente associato ai balestrieri o agli arcieri, i quali lo piantavano a terra per ottenere una postazione di tiro stabile e difesa; è attestata anche la figura del palvesaro o pavesaro,

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un soldato addetto al trasporto di tale scudo per garantire ai tiratori la libertà dei movimenti mentre lui li difendeva42.

Nel corso del XVI e XVII secolo si arriverà a creare armature più spesse e pesanti della grande armatura bianca, adattamento dovuto ancora una volta all’evoluzione delle tecniche di combattimento. Iniziano infatti, in questo periodo, a diffondersi le armi da fuoco e, di conseguenza, le armature e le protezioni tendono a inspessirsi per tentare, vanamente, di difendersi dalla forza penetrante dei proiettili.

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CAPITOLO II

LA MEDICINA MEDIEVALE: EVOLUZIONE E COMPETENZE

Lo studio della traumatologia bellica fornisce importantissime informazioni sulle nozioni e sulle competenze medico-chirurgiche antiche. La scienza medica si è evoluta nel corso dei millenni – già nel paleolitico si riscontrano le prime attestazioni di interventi chirurgici rudimentali43− attraverso un percorso lungo e complesso fino alle conoscenze di cui noi oggi disponiamo. Sarebbe impossibile trattare completamente l’argomento sin dalle origini della pratica chirurgica e traumatologica, per cui, in questa sede, verranno analizzate in breve quelle che erano le conoscenze e le pratiche mediche maggiormente utilizzate nel periodo medievale44, al fine di trattare poi i casi d’interventi chirurgici – o presunti tali – riscontrati nel materiale preso in esame.

Durante il periodo romano, in seguito alla riforma dell’esercito attuata da Augusto, negli effettivi delle legioni erano stati introdotti medici che avevano ricevuto una specifica formazione in materia traumatologica e di chirurgia bellica. In ogni castrum era presente un’infermeria-ospedale chiamata valetudinarium, dal latino valetudo che significa ―buona salute‖, che era comandata dal medicus

castrensis, il cui unico ruolo era occuparsi della struttura e dei malati.

L’organizzazione e la preparazione del personale medico all’interno dell’esercito romano era tale che esistevano specifici medici per le

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Fornaciari, Giuffra 2009, p.175; A.C. Aufderheide, C. Rodriguez-Martin 1998, p. 31.

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diverse componenti dell’esercito, infatti non solo la fanteria, ma anche la cavalleria e la marina avevano ognuna i propri medici, rispettivamente medicus alarum e medicus triremis45.

Parziale testimonianza della grande competenza che i medici militari romani avevano raggiunto può essere ravvisata nell’elevato numero di fratture ben guarite e ben allineate che sono stati riscontrate nei resti osteologici. Dalla buona guarigione si capisce che i traumi dovevano esser stati ben ridotti e successivamente allineati, forse anche con l’utilizzo di steccature o bloccaggi46. In seguito al crollo dell’Impero romano questa grande specializzazione, che i medici militari avevano raggiunto, andò gradualmente perdendosi insieme alla struttura organizzativa che sostanziava la macchina bellica imperiale. Questo è in parte dimostrato dall’elevato numero di fratture mal allineate, dall’elevata presenza di deformazioni ossee e angolazioni errate, dovute a inadeguati bloccaggi e infezioni periostali associate al trauma che si riscontrano in Età altomedievale47. Tuttavia occorre tener presente che questa idea di una progressiva perdita di saperi medico-chirurgici, durante l’Alto medioevo, è stata in parte rivista da alcuni storici che ritengono sia ormai da considerarsi superata l'immagine di una medicina medievale priva di sapere scientifico e frammista a superstizione e magia48.

Le nozioni mediche di cui si disponeva dopo la caduta dell’Impero erano sostanzialmente quelle tramandate grazie al lavoro di copiatura e trascrizione dei testi antichi svolto dagli amanuensi dei centri religiosi e monastici. 45 Cascarino 2008, pp. 220-230. 46 Roberts 1991, pp. 225-240. 47 Idem. 48

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Nell’ambito specifico della medicina, le opere che si erano salvate dall’oblio, e che avevano quindi trasmesso il sapere medico, erano principalmente quelle di Ippocrate e Galeno49.

Tutti i grandi risultati che la medicina antica aveva raggiunto nel mondo egizio, greco, romano e alessandrino vennero, nel corso dell’Alto medioevo, gradualmente persi o semplificati nell’Occidente cristiano, rimanendo, nella maggior parte dei casi, a livello di conoscenza teorica nell’area bizantina. In quest’ultima vi sono alcune eccezioni, come la scuola medica di Paolo di Egina, il quale rappresenta l'ultimo esponente rilevante della medicina greco-romana, nonché il tramite fra quest'ultima e la medicina medievale. La medicina esercitata nel periodo altomedievale era basata essenzialmente sulla pratica; infatti inizialmente non esistevano vere e proprie scuole di medicina o medici nel senso in cui noi oggi lo intendiamo: la disciplina era appresa tramite apprendistato o tramandata di padre in figlio50.

È necessario poi considerare un fattore importante: l’influenza che in questi secoli ebbe l’ambiente ecclesiastico nello sviluppo della scienza medica51. Nel periodo medievale, la Chiesa si fece interprete e mediatrice del sapere medico degli antichi. La nozione stessa di malattia, il suo significato, come prova a cui Dio sottoponeva gli uomini quale mezzo di espiazione dei peccati, muta il rapporto tra uomo e patologia rispetto alla visione precristiana52.

Per quanto concerne la chirurgia vera e propria, nel XII secolo la Chiesa proibiva questa pratica ai suoi membri, furono indetti ben tre

49 Conforti 2011, pp. 184-190. 50 Grmek 1993, pp. 228-236. 51 Conforti 2011, pp. 184-190. 52 Grmek 1993, pp. 217-225.

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diversi sinodi – Clermont 1130, Reims 1131, Tours 1163 – allo scopo di disciplinare le pratiche mediche che potevano essere svolte dai monaci e di vietare la chirurgia53. Sia papa Bonifacio VIII sia Clemente V separarono formalmente e completamente la pratica medica da quella chirurgica, che di conseguenza fu tenuta in scarsa considerazione54.

L’esercizio della chirurgia fu proibito nei primi secoli del medioevo, soprattutto ai monaci e agli ecclesiastici che, come detto in precedenza, erano spesso i primi a occuparsi della cura dei malati e ai quali fu concesso di fare il medico, ma mai il chirurgo. Medicina e chirurgia andarono incontro a una separazione che perdurò per diversi secoli, fino a ricomporsi soltanto tra XVIII e XIX secolo.

Inoltre, come conseguenza delle limitazioni imposte dai diversi sinodi, vennero a crearsi molteplici figure che si occupavano di diverse pratiche legate alla chirurgia55. 53 Boylston, Knusel 2007, p. 174. 54 Cosmacini 2003, p. 59. 55 Idem 2003, pp. 59-60.

Il medico degli occhi e del naso, 1175 ca. Brithish Library.

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Nel Medioevo la maggior parte delle operazioni che prevedevano il contatto diretto con il sangue e con ferite aperte era delegata a figure socialmente molto inferiori al medico, i quali avevano ricevuto una formazione empirica e non teorica, come barbieri, norcini e cerusici56. Fatta eccezione per i cerusici, le altre figure deputate alla chirurgia erano spesso definiti indistintamente ―mezzo-chirurghi‖57: si trattava di individui dotati, grazie al lavoro che svolgevano abitualmente, di una grande manualità e abilità nell’utilizzo di strumenti affilati e avvezzi al contatto con il sangue. I norcini, ad esempio, erano i macellatori di suini che avevano acquisito nel tempo una perizia tale nella dissezione zootomica da essere esperti in amputazioni, sezionamenti, suture, dissezioni di arterie e vene; allo stesso modo i barbieri erano avvezzi all’uso di strumenti affilati e, con l’abilità acquisita, anche loro ben si prestavano alla pratica empirica della chirurgia. Grazie a queste doti erano spesso delegate loro tutte le operazioni eccessivamente rischiose nelle quali il medico, espertissimo in teoria ma mancante di pratica, non voleva procedere, o quelle considerate minori, per le quali il medico si riteneva superfluo58, come estrazioni dentali, incisioni di ascessi, amputazioni, rimozioni di calcoli alla vescica, suture e soprattutto salassi. Da sottolineare il fatto che il salasso nel periodo medievale era considerato una panacea ed era uno dei rimedi più frequentemente utilizzati nella cura delle più svariate manifestazioni patologiche59.

56 Per approfondimenti in merito si veda: Cruciani 1999, Penso 2002; Cosmacini 2005. 57 Cosmacini 2003, p. 78. 58 Idem 2003, pp. 68-84. 59 Boylston, Knusel 2007, p. 174.

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Medieval CookBook, Salasso, XIII sec.

British Library.

Con il tempo vennero a definirsi tutta una serie di termini che differenziavano le varie specialità dei mezzo-chirurghi:

 Flebotomo, minutores, ventosarii, praticavano i salassi;  Oftalmico, si occupava delle cataratte;

 Vulnerario, curava le ferite;

 Litotomo, estraeva calcoli dalla vescica60.

Sarà solo tra l’XI e il XII secolo che inizieranno a nascere vere e proprie scuole di medicina che formeranno medici completi. Tra queste, la prima a sorgere, e la più famosa, fu la scuola medica

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Salernitana, che sarà la prima a fornire sia insegnamenti pratici sia teorici, atti alla formazione di una classe di medici di professione. Occorre tuttavia tener presente una distinzione tra due diverse figure della scuola salernitana: il medicus e il medicus et clericus. Il primo rappresenta gli albori in cui l'arte è empirismo e si utilizzano espedienti per porre rimedio alla sofferenza del malato; in questo momento il medico non ha ancora praticato veri e propri studi teorici di medicina e anatomia, ma si limita ad applicare ciò che ha imparato con la pratica e l’osservazione diretta. L’altro si distingue per lo studio della teoria e l’utilizzo della pratica, ha quindi acquisito delle conoscenze teoriche mediante lo studio di testi appositi e ha affinato le sue tecniche mediche con l’esercizio e la pratica.61

Occupandoci dello studio della chirurgia antica bisogna però tener presente un fattore importante: la maggior parte degli interventi chirurgici che venivano svolti, sia da barbieri, cerusici, norcini sia da chirurghi professionisti, interessavano i tessuti molli ed è dunque alquanto difficile che si siano conservate testimonianze dirette di questi, fatta eccezione per la possibilità, quanto mai rara, di poter osservare esiti di operazioni chirurgiche su reperti umani mummificati62.

Naturalmente si praticavano anche interventi chirurgici che arrivavano a interessare il tessuto scheletrico. Le parti maggiormente interessate erano gli arti (amputazioni) e il cranio (trapanazioni), e in questi casi anche l’osteoarcheologia può diagnosticare interventi chirurgici.

Nel campo della traumatologia bellica, data la rilevanza e la gravità che spesso caratterizza le lesioni dovute a violenza interpersonale,

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Idem, pp. 205-211.

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queste tipologie di intervento si ritrovano in più casi sebbene per esempio le amputazioni nel periodo medioevale non fossero così frequenti come si potrebbe immaginare. Le armi da taglio, pur penetrando la vittima, causano meno frequentemente di quanto si pensi fratture comminute o scheggiamenti dell’osso, che sono i principali motivi per cui potevano sopraggiungere infezione e conseguentemente la cancrena63. Naturalmente questi interventi potevano essere praticati anche per altri motivi, ad esempio abbiamo notizie di amputazioni a scopo punitivo e trapanazioni a scopo rituale64.

Nel caso specifico di trapanazioni eseguite per intervenire su traumi bellici, queste venivano praticate in genere nel caso in cui il colpo avesse provocato la frammentazione del tavolato cranico con conseguente ingresso di parti dell’osso nella ferita. Ricorrendo a questo tipo d’intervento era possibile rimuovere eventuali frammenti ossei, ripulire la ferita e garantire una più facile guarigione, diminuendo il rischio di setticemia, nel caso in cui la vittima fosse sopravvissuta. Se il paziente fosse sopravvissuto per un periodo abbastanza lungo, la breccia aperta sul tavolato cranico avrebbe cominciato a mostrare segni di neoformazione ossea e conseguente cicatrizzazione, che avrebbero gradualmente obliterato l’osso spugnoso diploico e conseguentemente avrebbero ridotto le dimensioni del foro, tuttavia avveniva raramente che questo si richiudesse completamente65. 63 Boylston, Knusel 2007, p. 175. 64 Fornaciari, Giuffra 2009, pp. 147-183. 65 Idem, pp. 175-179.

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37 Trapanazione del Cranio (Braunschweig 1497, Fig.216)

A sitting physician is trepanning another man's head while two others consult.

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Naturalmente durante un intervento di questa portata potevano verificarsi delle complicazioni che mettevano a rischio la vita del paziente, le principali erano l’insorgenza di infezioni o il possibile danneggiamento dell’encefalo, che poteva essere accidentalmente intaccato per disattenzione del chirurgo. Nonostante la possibilità di tali complicazioni, a discapito di quanto si possa credere, il tasso di mortalità a seguito di questa pratica è notevolmente basso, e sono attestati diversi casi nella letteratura paleopatologica di individui sopravvissuti a un intervento di trapanazione cranica.

È verosimile che la mancata insorgenza di setticemia si possa attribuire sia all’elevata vascolarizzazione dei tessuti intorno al cranio sia a un’adeguata pulizia degli strumenti utilizzati dal medico; non si deve tuttavia escludere anche la possibilità che il sistema immunitario delle genti del medioevo potesse essere maggiormente abituato a forti stress e sollecitazioni.

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INTERVENTI CHIRURGICI O PRESUNTI TALI RISCONTRATI

In Molise, nella necropoli di Campochiaro di Morrione-Vicenne (CB), è stata rinvenuta una sepoltura contenente un individuo che presenta segni di trattamento chirurgico.

I resti, identificati come SK n. 2066, appartengono a un maschio adulto, con un’età stimata superiore ai 55 anni, e sono datati dal contesto archeologico al VI-VIII secolo. All’interno della sepoltura singola e a fossa semplice sono state rinvenute delle armi e del vasellame come elementi del corredo; data la presenza delle armi, il tipo della lesione e il contesto geografico-cronologico di rinvenimento, è presumibile che i resti appartenessero a un guerriero longobardo. Il trauma si localizza sul quadrante antero-centrale del parietale sinistro, al livello della linea S3-S4 della sutura sagittale, con un lieve interessamento della parte alta del parietale destro; dunque in corrispondenza del margine superiore del lobo parietale del cervello. La lesione, inferta antemortem, ha forma semicircolare e misura 6 cm di larghezza per 6 cm di lunghezza ed è riconducibile a un trauma da forza contundente prodotto da un violento colpo con un andamento dall’alto verso il basso. All’osservazione si evidenzia la presenza di neoformazione ossea che si estende per circa 1 cm intorno al foro; questo ha alterato i margini originali lasciati dal trauma rendendo più complessa l’identificazione della tipologia di arma utilizzata.

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La ferita presenta margini lisci e regolari, sul profilo inferiore della volta cranica non si riscontrano tracce di penetrazione di frammenti ossei all’interno del tavolato cranico, ma sono evidenti alcune fratture postmortem.

Data la rottura netta con assenza di tagli, la forma e le dimensioni della ferita riscontrata, si può supporre che questa sia stata prodotta da una mazza o una clava. Alcuni elementi morfologici sembrano esser compatibili con una specifica tipologia di arma utilizzata dall’esercito bizantino, potrebbe trattarsi di una mazza chiodata in bronzo o ferro del diametro di 9-10 cm, chiamata rabdia67; questo tipo specifico di arma era in uso tra il VI e il XIV secolo e pertanto risulterebbe compatibile con la datazione del contesto archeologico.

Mazze ferrate bizantine in bronzo e ferro (Rubini, Zaio 2011)

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Osservando attentamente la lesione, si nota una certa regolarità nei margini; questo, unito alla mancanza di frammenti ossei e all’estesa neoformazione ossea, suggerisce che sia stato praticato un intervento chirurgico con l’intenzione di ripulire la ferita. Lo scopo principale di tale pratica era di ripulire al meglio i margini della lesione ed evitare che frammenti ossei potessero entrare nella cavità e arrivare a contatto con il cervello. Dalle conoscenze possedute sulla pratica medica medievale, è possibile presumere che per l’operazione sia stato usato uno strumento abrasivo, forse uno scalpello, usato per levigare e rimuovere le parti di osso in eccesso; per questo motivo i margini della cavità si presentano molto lisci. Data la profondità e la grandezza del trauma, è ipotizzabile che ci sia stato un interessamento della dura madre e della membrana aracnoidea, ma non si è in grado di valutare quali possano esser stati gli effetti di un colpo simile; il colpo potrebbe anche aver intaccato il lobo parietale del cervello con conseguenti problemi alle capacità sensoriali. Quello che si è in grado di appurare, sulla base di quanto osservabile, è che la vittima sia stata sottoposta a un trattamento chirurgico, con esito positivo, con una sopravvivenza medio-lunga, come testimoniato dalla presenza di reazione e neoformazione ossea abbastanza estesa.

Un caso particolarmente interessante è quello dell’individuo 1989368, rinvenuto presso il sito di St. Mary Spital69 nell’East End di Londra. I resti, datati tra il XII e il XVI secolo sulla base del contesto archeologico, appartenevano a un individuo di sesso maschile di età compresa tra i 35 e i 45 anni e sono stati rinvenuti in una sepoltura

68

Powers 2004, pp. 1-14.

69

Thomas, Sloane, Phillpotts 1997, pp. 19-20. "St Mary Spital", ospedale eretto nel 1197 fuori dalle mura cittadine..

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collettiva, a fossa semplice, che conteneva in totale cinque individui. Sfortunatamente sono in parte danneggiati poiché la fossa è stata intercettata all’altezza della II vertebra sacrale da un’altra sepoltura del XVII secolo.

La vittima presenta tre differenti lesioni, tutte localizzate sul lato destro della volta cranica: la prima è situata sull’occipitale, poco sopra la linea nucale; la seconda è situata sulla parte posteriore del parietale destro, in posizione orizzontale, a circa 67

mm dalla sutura lambdoidea; la terza lesione è localizzata sul frontale a circa 20 mm dalla linea mediana. La lesione presa in esame è quella posta sul parietale destro.

Si presenta di forma semi triangolare dotata su un lato di due fori semicircolari; questi sono dovuti alla presenza, al centro della lesione, di un frammento osseo (forse si tratta di due frammenti più piccoli poi fusi insieme) che ha parzialmente chiuso la lesione. Il margine è smussato verso l’esterno e la lesione tende ad allargarsi più sul tavolato esterno che su quello interno.

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Le tre lesioni riscontrate sono tutte compatibili con traumi da taglio provocati da un’arma/oggetto dotata di lama. La forma della ferita presa qui in esame, i margini e la presenza di fratture radiali permettono di escludere che lo strumento che ha prodotto tale lesione fosse una spada tradizionale; dai dati in possesso si può ipotizzare che sia stata prodotta da un’arma dotata di lama a forma di cuneo con una lunghezza superiore ai 6-7 cm, presumibilmente un’accetta o uno strumento simile. Data la localizzazione del trauma, il colpo deve esser stato inferto alla vittima da un aggressore posto alle sue spalle. È tuttavia difficile ricostruire il contesto e la dinamica di questa lesione, non è infatti possibile escludere che le lesioni riportate dalla vittima non siano dovute a un ambito bellico, anche il risultato di una semplice aggressione. Qualunque sia stato il contesto in cui si sono verificate i traumi, uno presenta dei segni che potrebbero far ipotizzare che ci sia stato un trattamento chirurgico, infatti le caratteristiche della lesione sul parietale destro sembrerebbero compatibili con alcuni casi di intervento chirurgico attestati archeologicamente. La smussatura riscontrata sui bordi esterni della ferita è compatibile con la tecnica della ―raschiatura70‖, un particolare metodo di trapanazione che veniva usata per ridurre la pressione intracranica ed eliminare eventuali frammenti d’osso. Inoltre, osservando attentamente il foro, si può notare che il frammento osseo al centro – che potrebbe anche essere il risultato dell’accostamento di due singoli frammenti al fine di formarne uno più grande – potrebbe esser stato posto in loco volontariamente con l’intenzione di chiudere almeno parzialmente la ferita. Tuttavia, essendo il tempo necessario per obliterare gli eventuali segni di un intervento piuttosto breve, la

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buona guarigione della lesione non permette di essere certi dell’avvenuto trattamento medico; pertanto, allo stato attuale, questa resta solo una supposizione.

Un altro intervento chirurgico riscontrato proviene dall’Inghilterra, dal sito di Wharram Percy, nella provincia dello Yorkshire. Si tratta di un’area cimiteriale dove sono state rinvenute diverse sepolture datate dal contesto archeologico al X-XI secolo. I resti presi in esame sono identificati come G71571, datati con il C14 al 960-1100 AD, appartengono a un individuo di sesso maschile di età stimata tra i 35 e i 45 anni, si presentano frammentati e sono stati rinvenuti in una fossa singola semplice.

La vittima mostra una singola lesione, localizzata sul parietale sinistro il cui margine anteriore si estende anche sulla sutura coronale e su parte del lato sinistro del frontale, che

si presenta come un foro irregolare. Sui margini della lesione sono evidenti segni di rimodellamento osseo e la superfice interna è liscia, al contrario su quella esterna è facilmente visibile

una zona ruvida circoscritta e lungo i margini della zona reattiva è presente un accumulo osseo che forma delle piccole creste. Intorno al foro sono evidenti delle fratture radiali dovute alla forza del colpo e al tipo di arma utilizzato.

La lesione è stata prodotta da un trauma contundente ma, in conseguenza dell’intervento chirurgico e del rimodellamento osseo, l’identificazione dell’arma non è certa, potrebbe infatti esser stata

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prodotta sia da un’ascia o un martello d’arme sia da un proiettile di medie dimensioni.

Come detto sopra, si nota nei margini della ferita un livellamento esterno superficiale compatibile con un intervento chirurgico. La morfologia del trauma sembra compatibile con la raschiatura72, una particolare tecnica di trapanazione cranica; si hanno infatti testimonianze di ferite da corpo contundente trattate con questo metodo73.

Da quanto si può osservare, nella suddetta vittima è stato realizzato uno scalpo quasi rettangolare intorno alla lesione, in modo da poter rimuovere l’osso limitrofo alla zona depressa del foro e poter così elevare la frattura. Su uno dei lati della lesione è possibile notare un margine abbastanza verticale che indicherebbe che in quel punto sia stato necessario rompere o tagliare parte dell’osso per rimuoverli; così facendo la zona interessata dal trauma è stata ripulita dai frammenti

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Per approfondimenti in merito si veda: Oakley, Brooke, Akester, Brothwell 1959.

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ossei residui e la maggior vascolarizzazione della zona cranica ha contribuito a evitare che insorgesse un’infezione.

Data l’entità del trauma e la sua localizzazione, è possibile ipotizzare che le conseguenze per la vittima siano state piuttosto gravi; è possibile che la perforazione cranica sia stata tanto violenta da interessare direttamente l’encefalo andando a creare danni alle capacità psicomotorie del malcapitato. Tuttavia dall’osservazione dei resti, dato l’esteso rimodellamento osseo, si evince che la vittima debba esser sopravvissuta per un tempo medio-lungo; questo è stato possibile anche grazie all’intervento di trapanazione cranica al quale è stato sottoposto.

Uno dei casi più interessanti è quello proveniente dal sito di Ardrwigh, ubicato nella contea del Kildare, nella Repubblica d’Irlanda. Il sito è datato dal contesto archeologico tra il VII-VIII secolo fino al 1400 circa, ma non si hanno dati precisi sulla datazione dei resti che appartengono a un individuo di

sesso maschile di età stimata tra i 30 e i 39 anni.

L’individuo, classificato come F793, presenta una ferita sul parietale frontale destro, di 27,36 per 23,87 mm, che

appare guarita e quasi completamente obliterata, con la sola eccezione di un margine rialzato e circolare, il cui interno si presenta cribroso e irregolare; questo particolare aspetto è probabilmente imputabile al sopraggiungere di un’infezione.

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L’ubicazione, la forma e l’aspetto della lesione sembrerebbero, a mio avviso, compatibili con un intervento di cauterizzazione74, che potrebbe esser stato effettuato per bloccare un’emorragia o un’infezione provocate da un colpo ricevuto forse durante una violenza interpersonale. Tuttavia, per questo caso, sono state ipotizzate diverse eziologie della lesione, ma ciò che qui viene preso in esame sono le tracce e il risultato del presunto intervento chirurgico eseguito per trattare il trauma.

Data la difficile interpretazione per questo individuo, può risultare utile effettuare un confronto tipologico con un caso italiano di intervento di cauterizzazione.

Il caso preso come confronto è un cranio di donna di circa 30 anni, datato all’VIII-X secolo, rinvenuto nella piazza della Cattedrale di Pisa75. Sull’osso frontale, a circa 4 cm dal bregma, si osserva una lesione di forma ellittica di circa 20 mm per 17 mm, circondata da una scanalatura appena visibile di circa 1 mm; la superficie della suddetta

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Per approfondimenti in merito si veda:Spink, Lewis 1973;Mazzini 1997 .

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è cribrosa e circondata da piccole creste ossee disposte radialmente intorno a una cresta maggiormente marcata. La lesione sembra essere il risultato di un’infezione che ha interessato i tessuti molli ed è poi arrivata fino alla volta cranica sottostante, ma senza intaccare direttamente la superficie endocranica. I dati morfologici di questa permettono di escludere che si tratti di una traccia lasciata da una normale patologia, ma piuttosto che sia il risultato di un intervento manuale e artificiale.

Si può osservare bene che i segni riscontrati in entrambi i casi presi in esame sono molto simili tra loro, sia per forma sia per dimensione, e permettono di ipotizzare che, anche sull’F793, sia stato effettuato un intervento di cauterizzazione.

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È riconosciuto che la pratica della cauterizzazione era ben nota nel mondo romano e che era utilizzata per diversi scopi:

emostasi – l’arresto, spontaneo o provocato mediante

medicazione o manovre chirurgiche, della fuoriuscita di sangue da una lesione di continuo di un vaso76;

 provocare una lieve irritazione allo scopo di alleviare e diminuire disagio e infiammazione in un altro punto;

 distruggere o rimuovere tumori senza provocare fuoriuscite di sangue;

 trattare infezioni e ferite varie.

Allo stesso modo, è risaputo che, durante il periodo medievale, il cauterio continuò a essere utilizzato e, oltre gli usi tipici del periodo romano, cominciò a essere applicato anche in campo oftalmico, per curare le ulcere e l’epilessia77. Nel corso del XII secolo l’utilizzo di questa pratica si diffuse enormemente in Occidente soprattutto in seguito all’incontro con il mondo islamico e con la medicina araba78. Attraverso le informazioni e le descrizioni pervenute grazie ai trattati medici e ai testi degli autori antichi in merito all’uso del cauterio, e la somiglianza che le lesioni qui esaminate mostrano con queste, si può ipotizzare che i soggetti in questione fossero stati trattati per una patologia dell’occhio.

Alla luce di questi fatti, si può presumere che la cauterizzazione presente sul cranio dell’individuo F793 non sia stata eseguita per trattare un trauma da violenza interpersonale o bellica, ma piuttosto un tentativo di curare una qualche patologia clinica.

76 Enciclopedia Treccani. 77 Fornaciari, Giuffra 2011, pp. 351-352. 78 Spink, Lewis 1973.

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Tuttavia non si è in grado di stabilire con esattezza quanto ipotizzato poiché il rimodellamento osseo e le alterazioni morfologiche, dovute alla possibile infezione prima e alla cauterizzazione poi, non permettono di identificare con chiarezza l’eventuale strumento o arma che avrebbe colpito la vittima.

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CAPITOLO III

Questo capitolo sarà dedicato all’analisi dei casi più significativi che si sono riscontrati e verrà prestata particolare attenzione alle battaglie di Towton e Wisby, le cui fosse comuni hanno restituito materiali importantissimi per l’analisi della traumatologia e lo studio dell’attività bellica medievale.

BATTAGLIA DI TOWTON

La battaglia di Towton è uno degli scontri più importanti della storia inglese, decisivo per le sorti politiche dell’Inghilterra medievale.

Si svolse durante la Guerra delle Due Rose79 (1455 – 1485), che vide contrapporsi i casati degli York e dei Lancaster per il controllo del trono d’Inghilterra. Lo scontro si svolse il 29 marzo 1461 nell’altopiano situato tra il villaggio di Towton e quello di Saxton, nello Yorkshire, e si concluse con una disastrosa sconfitta dell’esercito dei Lancaster e la vittoria del duca di York, che salì al trono d’Inghilterra come Edoardo IV.

Le cronache dell’epoca hanno tramandato la battaglia di Towton come la più lunga, grande e sanguinosa battaglia combattuta sul suolo inglese; naturalmente si deve tenere presente che non tutte le fonti sono pienamente attendibili, ma dai dati raccolti pare che non abbiano esagerato riguardo alla dimensione dello scontro. Le due famiglie schierarono eserciti veramente imponenti, quasi metà della nobiltà inglese dell’epoca prese parte allo scontro; si è stimato che il casato

79

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dei Lancaster mise in campo un esercito tra le 25000 e le 42000 unità, mentre quello degli York schierò tra i 20000 e i 36000 uomini. Numerose sono le fonti che descrivono l’esito della battaglia: le lettere scambiate tra George Neville vescovo di Exter, cancelliere d’Inghilterra e suo fratello, Richard Neville conte di Warwick, che partecipò alla battaglia nelle fila degli York; le lettere scritte dal vescovo di Salsbury, Richard Beauchamp, indirizzate al nuovo re Edoardo IV 80.

L’esito dello scontro vide gli York sopraffare gli avversari, e quasi tutte le fonti sopracitate riportano che in un solo giorno rimasero sul campo circa 28000 caduti in totale81. In queste fonti si trovano anche notizie storicamente poco attendibili, che hanno probabilmente contribuito ad aumentare la dimensione e la fama dello scontro; tra queste si legge che la battaglia di Towton durò per almeno dieci ore82 e che parte di essa fu combattuta durante una tempesta di neve83, altre riportano che il numero dei morti fu tale che le due vicine sponde del fiume divennero rosse per la moltitudine dei corpi caduti in acqua84. Le prime indagini sul sito di Towton vennero effettuate nel 1816 e poi, a molti anni di distanza, nel 1993: le prime furono realizzate a circa 100 metri dal Towton Hall e restituirono monete databili al periodo di Enrico IV, V e VI, una spada, punte di freccia e resti umani; quelle del 1993 esplorarono due tumuli di terra nei pressi del boschetto vicino al luogo dello scontro, ma risultarono inconcludenti poiché non vennero rinvenuti reperti o materiali relativi ad esso.

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Hinds 1912, 61-2; Fiorato, Boylston, Knusel 2007, pp. 23-26

81 Gravett 2003, pp. 79-80; Fiorato, Boylston, Knusel 2007, pp. 15, 23-26. 82 Ellis 1844, p. 111. 83 Riley 1854, p. 425. 84 Ellis 1809, p. 256.

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Le prime scoperte significative risalgono al luglio del 1996, quando, durante gli scavi per la realizzazione di un parcheggio, furono rinvenuti due frammenti di cranio che fecero ipotizzare la presenza di una fossa comune, la quale venne poi parzialmente indagata85.

Nel settembre successivo un team congiunto del WYAS (West

Yorkshire Archaeological Services)86 e dell’università di Bradford indagò e scavò il resto della fossa, che affiorò ad appena 45 cm di profondità.

Estensione della sepoltura.

Illustrazione di Andy Swann, WYAS. (Fiorato, Boylston, Knusel 2007, p. 30)

La tomba rinvenuta consisteva in una fossa di forma semi rettangolare che misurava 3,25 metri per 2 con un orientamento est-ovest e una profondità di 65 cm87.

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Gravett 2003, p. 85; Fiorato, Boylston, Knusel 2007, pp. 29-35.

86

Per approfondimenti si veda: http://www.aswyas.com.

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