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Io dico che una giustizia c’è Io dico che una giustizia c’è. Ma a

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Academic year: 2021

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Io dico che una giustizia c’è

Io dico che una giustizia c’è. Ma a farla non sono né i giudici, né gli uomini, né le leggi. A farla sono le circostanze.

E le circostanze, quelle spesso sono aggravanti.

Quanto tempo era passato da quando Yvonne mi aveva lasciato una volta per tutte? Due settimane, o tre? Non avrei saputo dirlo, a quell’ora non avevo ancora mandato giù il primo caffè, non avevo la mente abbastanza lucida per calcolare. Erano all’incirca le sette e mezzo, avevo una faccia da zombie e l’alito di un pescivendolo in tempo di canicola. E poi avevo l’interno coscia che mi prudeva, come tutte le mattine.

È piombata all’improvviso, come odio, con le sue vecchie chiavi, senza suonare, senza bussare, è entrata nella sala con uno sguardo fisso da baccalà sulle sue scarpe da ginnastica sfondate. Sono venuta a prendere un “affare”, mi ha detto.

Sì, perché è l’affare, il buon affare, quello che lei ha sempre cercato: il miglior rapporto qualità-prezzo. Non per niente ha sposato un contabile come me.

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E sempre per questo ha voluto che facessimo dei bambini non appena sono stato nominato responsabile d’agenzia. Dei figli di banchiere, per lei era un sogno, un obiettivo di vita. Scherzi! Ma io non sono mai stato portato per questo. Forse è colpa dei saponi liquidi e di tutti i prodotti chimici che ingurgito da anni a questa parte. Non sono un terreno granché fertile, ecco tutto. Le ci sono voluti dei mesi perché ammettesse che con me di bambini non poteva sfornarne, che il suo marito ideale, il suo banchiere non troppo brutto, era sterile quanto la maggior parte delle nostre conversazioni. Riportava in tavola l’argomento tutte le sere, steso sulla tela cerata, tra il

gratin dauphinois, l’hachis parmentier e il suo perenne Thermos di caffè a fiori,

dritto dritto sotto il neon della cucina. Dovresti andare da un dottore, mi ripeteva in continuazione. E a forza di ripetermi il consiglio, è lei che ha finito per squagliarsela con il suo ginecologo, quello che la consigliava da mesi. Un cessetto basso e grasso, con i capelli unti e gli occhiali sporchi. Uno che guadagna talmente tanto che ha già tre marmocchi da una prima paziente. Non apparteniamo allo stesso mondo, non siamo colpiti dagli stessi mali. In fondo, non siamo proprio lo stesso genere di maschi.

Si è fiondata verso la cucina, ha attraversato la sala e proprio in quel momento c’è stata una brusca accelerata. Come in un brutto film di divorzio che tende al dramma. La vetrata accanto alla porta d’ingresso è andata in frantumi e il rumore del vetro spezzato è risuonato sulle piastrelle dell’entrata. Il tempo di alzare la testa e li ho visti puntare dritti su di me, due tipi col passamontagna e dei fucili a pompa nelle loro grosse mani guantate.

Per quanto uno abbia visto questa scena un sacco di volte alla tele, dal vivol’effetto è completamente diverso. Il cuore mi si è sollevato, nelle tempie avevo una specie di trapano, qualcosa che batteva così forte da spaccare tutto

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e che mi ha risvegliato in un istante. Ero ancora mezzo accasciato sul divano della sala: uno si è buttato su di me, l’altro è corso in cucina. Non hanno detto una parola. Quello che si occupava di me, lui prima mi ha steso a terra colpendomi con il calcio del fucile, poi mi ha puntato la canna alla nuca. Era fredda, ghiacciata, e io non mi sono mosso di un millimetro. Yvonne, lei invece si sarebbe detto che stava opponendo resistenza: l’ho sentita lanciare degli insulti, urlare e poi ricevere da qualche parte un bel colpo che l’ha fatta stare zitta. Ho sorriso interiormente: per una volta che qualcuno riusciva a ridurla al silenzio, bisognava approfittarne.

Non ho capito da subito dove volessero andare a parare. Mi aspettavo che mi avrebbero messo sottosopra la casa, sventrato le poltrone e che si sarebbero portati via l’home cinema, ma no, niente di tutto ciò. Invece hanno atteso pazientemente, seduti sul divano, mentre io, la guancia incollata alla moquette, sentivo nel silenzio generale il vecchio pendolo della sala emettere il suo eterno tic-tac tic-tac tic-tac senza fine. Niente ferma la corsa del tempo. Neppure una mattinata da incubo. Perché l’incubo, quello è iniziato presto. Dopo qualche minuto di assordante silenzio, il tizio alle mie spalle ha detto:

- Vedi bene di ascoltarmi. Ora taci, ascolti le istruzioni e le applichi alla lettera. Siamo intesi?

- Sì, ho risposto.

Allora comincia a tacere, come ti ho chiesto. Adesso noi due usciamo, in tutta tranquillità. Tu guidi la tua macchina, come tutte le mattine. Arrivato in banca, se ci sono degli impiegati non dici niente e se ti fanno delle domande spieghi che sono stato mandato dalla direzione finanziaria per la revisione della contabilità, una cosa di questo genere, e che sia credibile.

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- Sai meglio di me cosa potranno bersi più facilmente. Il banchiere sei tu, mica io.

- E questo lo devo spiegare senza parlare?

- Ti ho detto di ascoltare! Farai in modo che tutto scorra liscio. Perché non solo avrò con me la mia arma, ma se qualcosa va storto il mio amico farà fuori tua moglie senza pensarci due volte. Chiaro? Apri la cassaforte, riempi la valigia con le banconote e me la riporti in ufficio. Fatto questo, aspetti un’ora intera prima di chiamare i soccorsi. Se fai un passo, muovi un dito o apri bocca prima del tempo…hai già indovinato: il mio amico rifà la faccia alla tua bella con gli utensili da cucina. Lui adora grattugiare le ginocchia e triturare le dita dei piedi. Prima di espatriare in Belgio, lavorava per la mafia estone. Non è abituato a esitare a lungo prima di fare male. E poi, quando ha finito, uccide, per non lasciar tracce.

Immagino che Yvonne avesse ascoltato tutto, perché ha iniziato a dimenarsi e a protestare, e ho sentito il rumore di qualche sberla che se ne volava via per aria, come delle anatre sul bordo di un lago subito dopo un colpo di fucile. Poi, di nuovo, un lungo silenzio.

Questa scena me l’ero girata un mucchio di volte nella testa, l’avevo persino interpretata in occasione di un seminario sulla sicurezza, nella sede centrale di Bruxelles: quella volta ero io che interpretavo il ruolo del gangster, e avevo messo una fifa assurda ai miei colleghi senza neanche alzarmi dalla sedia. Mi ero sempre detto che c’è una sola soluzione intelligente per uscirne vivi. Lo sapevo, me l’avevano ripetuto. Fare tutto quello che dicono. Non mettere in pericolo nessuno. La cassaforte è direttamente collegata al commissariato, e lo stesso vale per le telecamere di sorveglianza. Nel migliore dei casi, la squadra d’intervento è sul posto in meno di cinque minuti.

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E nel peggiore non importa, perché tanto non c’è più nessuno lì a contare. Ma avevo l’interno coscia che continuava a pizzicarmi. Mi prudeva da morire, come dei pidocchi che copulino sotto il cappello di un puffo.

- Andiamo, dice lui, facendomi segno di alzarmi.

Io ho sollevato la testa e ho detto “no”, molto semplicemente. Come un bambino di tre anni. Come un ingegnere nucleare iraniano a un ispettore dell’ONU. Come un Americano a cui si chieda di ratificare il protocollo di Kyoto.

Lui ha avuto un momento di esitazione. Sentivo la tensione salire alle stelle nella stanza, e l’aria diventare spessa come il fumo di un incendio. Un fumo nero, che fa bruciare gli occhi. Ha guardato il suo compagno, poi ha sollevato l’arma all’altezza della mia bocca.

- Andiamo, o vuoi che ti faccia saltare in aria? - No, ho ripetuto io.

Ho fatto una pausa. Riflettevo molto velocemente. Non avevo diritto all’errore.

- Con il passamontagna in testa, si farà scoprire subito. Ci sono telecamere in tutta l’agenzia.

Il silenzio che rispondeva a queste parole mi faceva pensare che volessero sentire il seguito.

- Se vuole che funzioni, deve avere l’aria di un cliente normale. Arriva subito dopo l’apertura e dice che ha appuntamento con me. Io la ricevo nel mio ufficio e riempio la valigia con le banconote. Dopo dieci minuti, può ripartire tranquillamente e sparire dove le pare e piace.

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- E chi ci garantisce che non informerà la polizia prima che tutto sia finito?

- Avete Yvonne. Cosa volete di più? Se entra con me, ci scopriranno subito. Se entra senza di me, non otterrà nulla.

Non hanno discusso a lungo. Il tempo giocava contro di loro, lo sapevo. Dovevano rispettare il mio orario abituale, per non farsi scoprire.

Siamo partiti in macchina e abbiamo attraversato la città senza fermarci. Avevo l’impressione che non avesse mai fatto così tanto caldo a un’ora così mattutina. Sudavo nel mio completo, e sentivo le chiazze di sudore estendersi sotto le ascelle e nel fondoschiena. Ma neanche il tizio accanto a me doveva essere molto più fresco, con la sua faccia da allenatore di calcio mal rasato, la giacca di cuoio nero e una grande valigia sulle ginocchia. Aveva sistemato il fucile nella valigia e continuava a trafficare con i tasti del cellulare. Avevo la schiena ghiacciata e le mani che tremavano. Sapevo che potevo lasciarci la pelle in qualsiasi momento, se il tipo avesse perso il suo sangue freddo. E non avevo certo voglia di finire in quel modo.

Ho sistemato la macchina nello spiazzo di sotto e ho camminato fino all’agenzia. Ho sentito un bruciore all’interno coscia, un dolore ancora più vivo che pulsava a ogni mio passo. Con la fifa che avevo, mi ero quasi dimenticato dei miei problemi di mutande. Credo che sia proprio in quel momento che mi sono deciso. Mi sono girato lentamente verso il tizio che mi seguiva a qualche metro di distanza e ho alzato il pollice, facendo un gesto che ovunque sulla faccia della terra significa che va tutto da dio.

Salvo che a lui il suo dio stava per abbandonarlo. Ma questo lui non lo sapeva ancora.

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Ho tirato fuori le chiavi, aperto la porta e poi l’ho richiusa tranquillamente dietro di me. Mi restava appena un quarto d’ora prima dell’orario di apertura. Ho disattivato l’allarme e azionato i neon, che si sono messi a crepitare lungo tutta la superficie dei controsoffitti. Ho incollato la fronte contro il vetro e ho dato dei colpetti sulla parete con le chiavi.

Il tizio tosto nella sua giacca di cuoio mi ha lanciato uno sguardo smarrito dall’altro lato della strada. Si sarebbe detto che avesse già capito cosa mi passava per la testa, così gli ho mostrato il pollice per la seconda volta. Ha sorriso, ha girato la testa a sinistra e poi a destra per controllare che non arrivasse nessuno, poi, quando il suo sguardo è ritornato su di me, ha scoperto che avevo cambiato dito. Era un bel dito grande, il dito maggiore della mano destra, che si ergeva alto come una forca in cima al patibolo.

Mi sono voltato con una risata nervosa e mi sono fiondato dritto sul telefono. Il commissariato aveva già ricevuto il messaggio in codice digitato sulla tastiera dell’allarme. Uno squadrone speciale era in arrivo. Il poliziotto mi ha ripetuto di non fare nulla e di mettermi al sicuro dietro i vetri blindati in attesa che tutto fosse finito.

Ma io non avevo voglia di aspettare. La vita è una sola, non ci si può certo lasciar sfuggire la possibilità di diventare un eroe.

Sono tornato alla vetrina e di fronte allo spettacolo che ho visto il sorriso mi si è allargato fino ai lobi delle orecchie. Il tipo tosto era sempre lì e stava terminando una conversazione al cellulare. Non volevo neppure sapere con chi stesse parlando. Non volevo sapere da dove venisse, né quale fosse il suo nome. Volevo solo assicurarmi che avesse capito che la situazione gli era sfuggita di mano e che sarebbe finita male.

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Che si sarebbe fatta giustizia. Sentivo più che mai il bisogno di grattarmi attraverso i pantaloni. Bruciava e pizzicava allo stesso tempo. Non l’ho perso di vista. Quando ha sentito le sirene, ha tirato fuori dalla valigia il suo fucile antisommossa ed è scappato via destreggiandosi tra le macchine in sosta. I lampeggianti si avvicinavano a tutta velocità. Sembra che per fermare la sua corsa ci siano voluti sedici proiettili. E che continuasse a dimenarsi anche dopo che l’impatto ripetuto dei proiettili gli aveva fatto saltare in aria lo sterno e entrambe le spalle. Un vero osso duro. Non sono neanche riusciti a identificarlo con certezza, a causa dei due proiettili nella mascella e dell’assenza di documenti. Così come non sono mai riusciti a mettere le mani sul suo complice. Quando la polizia è arrivata a casa mia, lui se l’era squagliata da tempo senza lasciare traccia. Aveva avuto giusto il tempo di piantare tre proiettili nella nuca di Yvonne e tagliarle le dita con il coltello elettrico. Un Seb per donne mancine, che le avevo regalato io qualche anno prima. Quanti, già? Non me lo ricordo più. Ma questo non importa, ormai il coltello sarà a prendere la polvere in un corridoio, insieme a migliaia d’altre prove istruttorie che non serviranno mai a niente.

Eppure io dico che una giustizia c’è.

Ho ricevuto le congratulazioni della direzione nazionale per il mio coraggio, e un anno intero di permesso dal lavoro per i servizi resi. Ho persino avuto diritto a un premio assicurativo eccezionale per compensare il decesso di mia moglie. Agli occhi dei miei datori di lavoro era un incidente di lavoro, in un certo qual modo. Con il ricavato mi sono comprato una villa a Sumatra e un labrador beige, che non mi rompe mai le palle.

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E che non mi domanda per quale ragione non indossi mai degli slip da bagno, al posto di questi costumi informi che mi pendono fino alle ginocchia.

È a causa di Yvonne, gli risponderei.

Perché il giorno in cui si è finalmente decisa ad andarsene via con il suo ginecologo, non ha trovato niente di meglio da fare che scendere in garage, forare la batteria della sua vecchia auto e versarmene il contenuto sull’inguine, il tutto urlando come un ossesso. Anch’io avevo urlato, poi avevo sciacquato con acqua, ma bruciava ancora di più. Avevo tamponato, sfregato, passato la spugna, ma il liquido mi aveva gonfiato la pelle, corroso i peli, infiammato e arrossato tutto il resto, a tal punto che non avrei mai più osato mostrare questa parte del mio corpo a nessuno.

Nemmeno allo specchio.

Si era scusata qualche giorno dopo, quando era venuta a prendere il televisore. Aveva detto che doveva essere una parte di lei che non voleva lasciarmi, una parte che si vergognava ad abbandonarmi dopo che ero stato così gentile con lei. Poi aveva tagliato la corda una volta per tutte, senza ulteriori spiegazioni.

Alla polizia e alla direzione nazionale della banca ho recitato alla perfezione il ruolo del tizio in lacrime che non si riprenderà più dal dolore. Ho detto che credevo che i gangster bluffassero e che non le avrebbero fatto alcun male, tanto più se ci fosse stata di mezzo la polizia. Mi hanno creduto, quei cretini. E mi hanno messo in malattia per due anni, oltre alla retribuzione per i servizi resi.

Trascinare Yvonne davanti alla giustizia, quello non avrei potuto farlo. Ma pensavo che, standomene a bere tranquillo per conto mio, tutto avrebbe finito per rientrare nell’ordine.

Non avevo torto. Ne ero sicuro, io, che c’è una giustizia che fa la guardia. Bisogna solo darle tempo. E tenersi pronti in ogni momento.

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Perché quando la giustizia prende in mano la sua bilancia, allora bisogna essere pronti a dare un bel colpo sul piatto, senza esitare.

Dal momento che la giustizia ha gli occhi bendati, bisogna approfittarne. Bisogna aiutarla a fare il suo lavoro.

Insomma, questo è quello che penso. E ho tutta la vita davanti per pensarci.

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