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Riforme al sistema giudiziario nel biennio costituzionale dello stato pontificio (1846-1848)

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Scuola Dottorale Internazionale “Tullio Ascarelli”

XXV Ciclo

Sezione

Diritto europeo su base Storico-Comparatistica

Le riforme al sistema giudiziario nel “biennio

costituzionale” dello Stato pontificio (1846-1848)

Dott. ssa Maria Gemma Pinto

(2)

LE RIFORME AL SISTEMA GIUDIZIARIO

NEL “BIENNIO COSTITUZIONALE”

DELLO STATO PONTIFICIO

(1846-1848)

Premessa………. .. 4

1. Capitolo I: L’amministrazione della giustizia nello Stato pontificio nella prima metà del XIX secolo

1.1. Il ritorno di Pio VII a Roma e la seconda Restaurazione……… 8

1.2. L’amministrazione della giustizia nel moto proprio del 1816………….. 13

1.3. Il codice di procedura civile del 1822………. 18

1.4. Ulteriori riforme al sistema giudiziario tra attuazione e inattuazione dei

codici………. 23

1.5. Leone XII e il moto proprio del 1824……… 26

1.6. Il Pontificato di Gregorio XVI……… 28

1.7. Il Regolamento organico e di procedura criminale del 1831……… 30

1.8. Il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili del 1834…… 34

2. Capitolo II: Le riforme al sistema giudiziario nella prima fase del pontificato di Pio IX (1846-1847)

(3)

2.1. Pio IX e la Commissione del 1846 per la riforma dei codici………….. 44

2.2. Le disposizioni sulla “punitiva giustizia e le nuove norme in tema di statistica

criminale………. 46 2.3. Il Consiglio dei ministri nei lavori

preparatori……… 49 2.4. Il Ministero di

Giustizia………. 51

2.5. Il moto proprio del 12 giugno 1847sul Consiglio dei ministri…………. 57

2.6. Il Tribunale civile di Roma e il Tribunale criminale di Roma…………. 58

2.7. Il moto proprio del 29 dicembre 1847 sul Consiglio dei ministri……… 60

2.8. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario (1847) ……… 64

2.9. La Commissione per la riforma dei codici del 1847……….. 76

3. Capitolo III: Il secondo periodo di riforme (1847-1848)

3.1. La Consulta di

Stato……… 78

3.2. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario all’esame della Consulta

di Stato……… 81

3.3. Dalla Consulta di Stato al Consiglio di Stato……….. 85

3.4. Il Consiglio di

Stato……… 85

3.5. La discussione in seno al Consiglio di Stato sulle basi di un

(4)

nuovo regolamento di giustizia……… 87

3.5.1. Sulla pubblicità delle discussioni nei giudizi civili e penali…… 92

3.5.2. Sull’introduzione dei giudici conciliatori………. 96

3.5.3. Sull’istituzione del Tribunale di Cassazione e del Terzo

grado di giudizio……… 100

3.5.4. Sull’istituzione di un Pubblico Ministero……… 109

3.5.5. Sull’ammissione dell’appello nelle cause penali………... 112

3.5.6. Sui Tribunali speciali e sul contenzioso amministrativo…….. 118

3.6. Il Regolamento organico dell’ordine giudiziario nel Foro laico del 848

3.7. La fase

successiva………. 120

3.8. Influenza del modello napoleonico sui progetti di legge……… 126 4. Considerazioni conclusive……… 145 5. Appendice documentaria……… 149 6. Riproduzioni fotostatiche . ……… 201 7. Bibliografia……… 202

(5)

Premessa

Il nostro elaborato si pone l’obiettivo di analizzare i momenti e gli obiettivi delle riforme che interessarono l’amministrazione della giustizia durante il pontificato di Pio IX nel periodo che va dal 1846 al 1848 (cosiddetto periodo costituzionale)1.

L’intento che ci proponiamo è quello di offrire un quadro completo di come appariva l' ordinamento giudiziario civile e penale nell’ultimo capitolo della storia dello Stato pontificio, evidenziando il parallelismo tra il sistema della giustizia e i diversi indirizzi politico-amministrativi assunti dal Pontefice e dagli uomini di governo nella seconda metà del XIX secolo.

Le ricerche sono state condotte principalmente presso l’Archivio di Stato di Roma, dove è conservata la maggior parte della documentazione relativa alle magistrature pontificie nel periodo in considerazione. In particolare è risultato di grande interesse per lo studio delle tematiche dell’amministrazione della giustizia la consultazione dei fondi Miscellanea per la

riforma dei codici, il fondo Consulta di Stato, il fondo Miscellanea del periodo costituzionale e il fondo Consiglio di stato (1848-1850). Quest' ultimi due, peraltro, in prevalenza

inediti.

Presso l’Archivio Segreto Vaticano, invece, la consultazione 1Per l’elenco delle fonti bibliografiche su Pio IX e il suo pontificato si rimanda a F. BARTOCCINI, Lo Stato pontificio della Bibliografia dell’età del

Risorgimento in onore di A. M. Ghisalberti, vol. II, Firenze, 1972, pp. 191 e

ss., nonché all’aggiornamento di R. UGOLINI, Lo Stato Pontificio, della

Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, Firenze, 2003, vol. II, pp.

1077e ss. Fondamentali continuano ad essere inoltre l’opera di R. AUBERT,

Il Pontificato di Pio IX(1846-1878), vol. XXI della Storia della Chiesa, Torino,

(6)

ha riguardato per lo più il fondo Consiglio dei Ministri, verbali

delle sedute. Si tratta di un fondo ancora fuori catalogazione,

ma del quale ci è stata gentilmente concessa la consultazione, che si è rivelata utile soprattutto per la ricostruzione dei fatti e degli avvenimenti che, tenuto conto della frammentarietà della documentazione, non sempre è risultata agevole. Più volte infatti, è capitato di dover “rincorrere” i documenti da un fondo ad un altro, soprattutto a causa della celerità con cui venivano nominate, nel periodo in considerazione, ricco di fermento giuridico e legislativo, commissioni di studio prima, e veri e propri organi istituzionali poi. Ci riferiamo in particolare al

Progetto di regolamento organico nel Foro laico, documento

centrale della nostra ricerca. Lo scheletro del progetto nacque prima nel 1846, ad opera della Commissione per la riforma dei codici legislativi nominata da Gregorio XVI e confermata da Pio IX, che metterà a punto un Regolamento organico dell'ordine

giudiziario, per poi passare nelle mani della Consulta di Stato,

nel 1847, e da ultimo in quelle del Consiglio di Stato, nel 1848. Sarà proprio quest’ ultimo ad essere il padre del Regolamento

organico dell’ordine giudiziario nel Foro laico. A differenza del

primo Regolamento organico redatto dalla Commissione per la riforma dei codici, che si limitava a riunire e semplificare i Regolamenti gregoriani civili e penali, seppur operando una drastica riduzione del numero dei tribunali, il Regolamento

organico dell'ordine giudiziario nel Foro laico era una legge

d’avanguardia. Esso si proponeva l'obiettivo di ribaltare completamente il sistema della giustizia fin ad allora conosciuto dallo Stato pontificio, e per l’altezza degli ideali potrebbe addirittura considerarsi, sul terreno della giustizia, un manifesto di quell’esigenza di rinnovamento e di rifacimento dell’apparato giudiziario avvertito ormai come il primo ostacolo alla piena realizzazione di uno Stato moderno e italiano.

Lo studio di questi argomenti è risultato particolarmente interessante soprattutto se si considera come finora la

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storiografia abbia cercato di ridimensionare quello che i contemporanei avevano chiamato il biennio liberale di Pio IX, come già saggiamente evidenziato da Giuseppe Monsagrati alcuni anni fa2. «La complessiva valutazione degli elementi del

riformismo di Pio IX - afferma l'Autore - si è finora basata su interpretazioni assai valide, ma che il più delle volte non hanno nascosto alcune note critiche negative. Si è giunti così ad un giudizio complessivo sul primo Pio IX abbastanza univoco nel riconoscere «la bontà delle intenzioni del Papa, ma anche nel sottolineare l’incauta impoliticità dei suoi atteggiamenti, stretti tra l’impulso a portare avanti l’idea di una Chiesa come baluardo contro la rivoluzione, e l’esigenza di riprendere, sulla base di un sincero sforzo di collaborazione e anzi di un vero e proprio sentimento di reciproco amore, il dialogo da lungo tempo interrotto con la comunità dei fedeli3.» E’ di questo

parere Alberto Maria Ghisalberti quando afferma, a proposito della scarsa incisività delle riforme di Pio IX, che «qualche cosa, tuttavia, si faceva, a conferma delle buone intenzioni pontificie e a soddisfazione di quanti avrebbero voluto, come la maggior parte dei moderati e dei rappresentanti del Corpo diplomatico, che Pio IX si incamminasse da solo e decisamente per la via di un temperato ma convinto riformismo4».

L’immagine di un Pio IX molto cauto ed incerto, preoccupato soprattutto di tenere a bada il movimento nazionale, ci viene descritta anche da Scirocco e considerazioni non dissimili si rinvengono anche in opere meno recenti, come in quella del moderato Farini5, e nella cronaca degli avvenimenti

romani del 1846-1847 fornitaci dal reazionario Giuseppe Spada6.

2 G. MONSAGRATI, Pio IX, Lo Stato della Chiesa e l’avvio delle riforme, in Le riforme del 1847 negli Stati italiani, Atti del Convegno di studi, Firenze 20-21- marzo 1998, in «Rassegna storica toscana», Firenze, 1999, pp. 215-238.

3 Ibidem, p. 217.

4 A. M. GHISALBERTI, Nuove ricerche sugli inizi del pontificato di Pio

IX e sulla Consulta di Stato, Roma, 1939, p. 31.

5 L. C. FARINI, Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1850, Firenze, 1853, vol. I.

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E' da chiedersi perciò se oggi vi sia ancora spazio per chi volesse riconsiderare la stagione delle riforme fiorita nel primo biennio del regno di Pio IX. L'interrogativo meriterebbe certamente una risposta affermativa, perché ad oggi, un tema sul quale avviare un’ulteriore riflessione sembra proprio quello del riformismo di Pio IX, a patto di inserirlo nella dialettica delle forze politiche con cui ebbe a confrontarsi e da cui fu in un modo o nell’altro condizionato. Non può infatti ignorarsi che ciò che per qualunque altro Stato si sarebbe potuto considerare un modesto lavoro di rifacimento di strutture ormai ossificate acquistava un significato sicuramente diverso se riferito allo Stato della Chiesa e al potere temporale, poiché entrambi da sempre considerati come i presupposti di una società naturalmente perfetta, non bisognosa di alcuna revisione di sorta né di apportare eventuali correzioni sotto le spinte provenienti dall’esterno7.

Bisogna poi tener presente che lo studio delle tematiche incentrate sull’amministrazione della giustizia nello Stato Pontificio ha da sempre comportato grosse difficoltà, soprattutto nel tracciare un quadro uniforme dell’esercizio della giustizia, dovute in particolare alla confusione dei poteri statali ed ecclesiastici e all’incertezza del diritto8.

A questo proposito, in un recente convegno sulla giustizia nello Stato Pontificio in età moderna, si è delineata l’evoluzione e lo stato degli studi su questi argomenti, evidenziando i progressi realizzati e le questioni rimaste aperte9. In particolare

è stato proprio il pontificato di Pio IX, a risultare tra i più 6 G. SPADA, Storia della rivoluzione di Roma e della Restaurazione del

Governo dal primo giugno 1846 al 15 luglio 1849, Firenze 1868, vol. I.

7 G. MONSAGRATI, Pio IX, Lo Stato della Chiesa e l’avvio delle riforme, in Le riforme del 1847 negli Stati italiani...cit., p. 230.

8 F. BARTOCCINI, Lo Stato pontificio, in Amministrazione della giustizia

e poteri di polizia dagli Stati preunitari alla caduta della destra: Atti del 52° Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Pescara, 7-10 nov. 1984),

Roma, 1986, pp. 373-403.

9 Gli atti del convegno sono stati raccolti nel volume a cura di M. R. DI SIMONE, La giustizia nello Stato Pontificio in età moderna. Atti del

Convegno di studi del Convegno di studi, Roma, 9-10 aprile 2010, Viella,

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inesplorati, forse perché, il fatto stesso che lo Stato pontificio fosse prossimo alla caduta ha fatto sì che le sue istituzioni giudiziarie apparissero legate ormai ad una tradizione destinata ad essere cancellata10.

In realtà, nel corso della ricerca, l' analisi approfondita e la riscoperta di documenti già noti, ma per lungo tempo sottovalutati, ci ha permesso di confrontarci con una dimensione nuova dello Stato Pontificio che, per quanto riguarda il tema oggetto del nostro esame, vale a dire l’amministrazione della giustizia, ha condotto a risultati sorprendenti. Ci siamo trovati di fronte ad una realtà vivacissima, composta da un gran numero di giuristi desiderosi di rinnovare le arcaiche e ingarbugliate strutture del sistema giurisdizionale pontificio, protagonisti di un dibattito giuridico dal quale traspare tutto il fervore per i mutamenti culturali e politici che stavano interessando la maggior parte degli Stati italiani nella seconda metà del diciannovesimo secolo e che meritano di essere riportati alla luce.

Nel raggiungere il nostro intento abbiamo dedicato la prima parte del lavoro a fornire un quadro generale di come era organizzato il sistema giudiziario prima dell’avvento di Pio IX, a partire dalla seconda Restaurazione fino a tutto il pontificato di Gregorio XVI; la seconda parte è stata invece dedicata alla descrizione dei primi interventi di riforma al sistema della giustizia durante gli anni 1846 e 1847 del pontificato e ai lavori della Commissione per la riforma dei codici nominata da Gregorio XVI e confermata da Pio IX, che portò all’elaborazione di un Regolamento organico dell’ordine giudiziario. Nella terza e ultima parte è stato invece dato ampio spazio alle ulteriori e successive riforme di Pio IX per quanto riguarda il sistema dell’amministrazione della giustizia seguendo l’iter del Regolamento organico, che in poco tempo passò dalle mani della 10 M.R. DI SIMONE, La giustizia nello Stato pontificio in età moderna, in «Archivio storico del Sannio», Atti del Convegno Taranto, 21-22 maggio 2010, a cura di F. Mastroberti, Napoli, 2011, pp. 37-58.

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Commissione per la riforma dei codici a quelle dei nuovi organi costituzionali, la Consulta di Stato e il Consiglio di Stato, che redigerà poi il Progetto di Regolamento organico nel Foro laico. Nell’analisi di questo Regolamento, oltre a dar libero spazio alla voce dei Consiglieri, attraverso l’esposizione dei dibattiti a cui parteciparono i membri del Consiglio di Stato, si è dato spazio alla ricostruzione dei temi principali che interessarono la discussione e non sono mancati riferimenti al sistema giudiziario degli atri Stati italiani ed europei, cercando di cogliere le affinità e le differenze nella disciplina giuridica dei vari istituti.

Nell’appendice documentaria, a completamento del lavoro di ricerca, sono infine stati inseriti documenti inediti contenenti le trascrizioni dei dibattiti interni al Consiglio di Stato e conservati nei fondi dell’Archivio di Stato di Roma.

1. Capitolo I – Cenni sull’amministrazione della giustizia nello stato pontificio nel xix secolo –

1.1. Il ritorno di Pio VII a Roma e la seconda Restaurazione

Nello Stato pontificio molti e vari erano i tribunali e le magistrature che con il tempo avevano sovrapposto le proprie competenze le une alle altre a causa soprattutto delle tendenze conservatrici dello Stato ecclesiastico che non riusciva ad intraprendere un’opera di trasformazione che comportasse l’abolizione di antiche magistrature. Conseguenza di questo atteggiamento era una vera e propria stratificazione dei tribunali.

Particolari differenze si avvertivano poi tra il territorio di Roma e Comarca e quello delle Province, dove la situazione di incertezza e confusione del sistema giudiziario era per certi aspetti anche peggiore. Quest’ intricata rete di autorità

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giudiziarie è stata recentemente definita un vero e proprio “groviglio giurisdizionale11”.

Senza addentrarci in un’indagine sull’origine di ciascun tribunale, ci limiteremo a fornire un quadro delle loro attribuzioni e sfere di competenza nel periodo immediatamente precedente a quello che sarà oggetto più approfondito del nostro studio12.

La dominazione francese cambiò radicalmente il quadro istituzionale dello Stato pontificio13. Il triennio repubblicano

durato fino al 1799, e la successiva dominazione francese, a partire dal 1809 e fino al 1814, modificarono profondamente le istituzioni costituzionali dello Stato della Chiesa ed incisero in maniera concreta sul vecchio sistema giuridico e amministrativo14. Soprattutto in campo giudiziario,

11 G. SANTONCINI, Il groviglio giurisdizionale dello Stato ecclesiastico

prima dell'occupazione francese in «Annali dell'Istituto storico italo

germanico in Trento», XX, 1994, p. 63 ss. Della stessa autrice, sulla giustizia nella seconda Restaurazione pontificia si veda G. SANTONCINI, Sovranità e

giustizia nella Restaurazione pontificia. La riforma della giustizia criminale nei lavori preparatori del Motu Proprio del 1816, Torino, 1996.

12 Per una letteratura classica sulla storia delle magistrature nello Stato pontificio si vedano le opere di R. MARCHETTI, Notizia delle

giurisdizioni che sono in vigore nello Stato pontificio, Roma, 1853; N. DEL

RE, La Curia Roma: cenni storico-giuridici, Roma, 1941; J. SPIZZICHINO,

Magistrature dello Stato pontificio: 476-1870, Lanciano, 1930; VENTRONE, L’amministrazione dello Stato pontificio dal 1814 al 1870, Roma, 1942. Sui

grandi tribunali di antico regime si veda il recente contributo di M. ASCHERI, I grandi tribunali, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed

arti. Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice, Diritto, a

cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma, 2012, pp. 121-128. Sulla giustizia in età moderna nello Stato Pontificio si rimanda a I. FOSI,

La giustizia del Papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio in età moderna,

Roma-Bari, 2007. Per un quadro generale sull’amministrazione della giustizia nel XIX secolo E. LODOLINI, L’ordinamento giudiziario civile e penale nello

Stato pontificio (sec. XIX), Bologna, 1959; F. BARTOCCINI, Lo Stato pontificio, in Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli Stati preunitari alla caduta della destra: Atti del 52° Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Pescara, 7-10 nov. 1984), Roma, 1986; C. LODOLINI

TUPPUTI, Repertorio delle magistrature periferiche dello Stato pontificio

(1815, 1870), estratto da Rassegna storica del Risorgimento, Anno XCII,

Fasc. III, Lug./Sett. 2005.

13 Per il periodo di dominazione napoleonica nello Stato pontificio si rimanda a P. ALVAZZI DEL FRATE, Le istituzioni giudiziarie negli “Stati

romani” nel periodo napoleonico (1808-1814), Roma, 1990, e relativa

bibliografia.

14 Sull’amministrazione dipartimentale dello Stato pontificio nel periodo francese si veda P. ALVAZZI DEL FRATE, Sistema amministrativo

dipartimentale e Stato pontificio (1798-1816), in «Rivista di Storia del diritto

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l’ordinamento giuridico francese esercitò un’influenza fondamentale, e sia in materia civile che penale, si presentò fortemente innovatore rispetto a quello pontificio15.

Alla caduta del regime napoleonico, nel 1814, Pio VII riprese possesso del Lazio e dell’Umbria16; il 4 maggio di

quell’anno, il Pontefice, prima ancora di iniziare il suo viaggio di rientro nella capitale, da Cesena, inviò a Roma come delegato apostolico, monsignor Agostino Rivarola, ben presto nominato presidente della Commissione di Stato, al quale affidò il compito di provvedere alla restaurazione della sovranità pontificia. Nel mentre, altri delegati dipendenti dal delegato in Roma e dalla Commissione prendevano possesso delle varie Province17.

L’ 11 maggio aveva luogo il cambio di governo e alle autorità amministrative e giudiziarie napoletane (Roma si trovava allora sotto l’occupazione militare delle truppe di Gioacchino Murat) subentrava la nuova Commissione18. L’opera

restauratrice del governo ecclesiastico poteva finalmente avere inizio.

I primi atti posti in essere dal Rivarola, che apparteneva alla schiera di quei prelati cosiddetti «zelanti»19, rispecchiarono

fedelmente le sue tendenze reazionarie e conservatrici; egli

15 P. ALVAZZI DEL FRATE, Riforme giudiziarie e Restaurazione nello

Stato pontificio (1814-1817), in Roma tra la restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, a cura di A.L. BONELLA, A.

POMPEO, M. I. VENZO, Roma, 1997, pp. 55-61.

16 Queste erano le cosiddette Province di «prima recupera»; le Marche, le Legazioni e Benevento, vennero restituite solamente nel 1815 e per questo motivo furono dette Province di «seconda recupera» le quali, però, all’atto conclusivo del congresso di Vienna non furono restituite, bensì “donate”, al Papa.

17 Pio VII aveva affidato la provincia di Pesaro Urbino a mons. Luigi Pandolfi, Perugia a mons. Cesare Nembrini, Spoleto a mons. Ludovico Gazzoli, e la provincia di Viterbo a mons. Tiberio Pacca, le Province di Marittima e Campagna vennero affidate a mons. Turozzi, quest’ultimo nominato però dal Rivarola. M. MOSCARINI, op. cit., p. 26

18 La commissione di Stato era composta dai prelati Rusconi, Sanseverino, Pedicini, Barberi, Cristaldi, da don Giacomo Giustiniani, dal Marchese Ercolani e dal conte Parisiani. Notizie sulla commissione in D. CECCHI, L’amministrazione pontificia nella seconda restaurazione

(1814-1823), Macerata, 1978, p. 6.

19 Sull’opera del Rivarola si veda D. CECCHI, L’amministrazione

pontificia nella 1° Restaurazione, in «Studi e testi della deputazione di storia

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infatti, con Editto pubblicato il 13 maggio 181420, abolì subito i

codici napoleonici ed in generale tutta la legislazione francese, e richiamò in vita la legislazione civile e criminale previgente21,

eccezion fatta solamente per il sistema ipotecario e la giurisdizione baronale. Con l’emanazione di questo editto vennero dunque meno, d’un colpo, quella chiarezza, quell’ordine, e quella certezza del diritto che erano stati introdotti dal sistema giuridico francese, e ripresero vigore le oltre 84.000 ordinanze all’interno delle quali anche i più esperti giuristi faticavano ad orientarsi22. Non sorprendono pertanto le

critiche riservate dalla storiografia contemporanea a quest’atto, talvolta definito «monumento di cecità e di infamia23», talaltra

come un «focoso bando24». Solo recentemente, una spiegazione

alla drasticità delle riforme contenute in questo documento, è stata riconosciuta nella brevità delle dominazione napoleonica, le cui innovazioni non avevano trovato il tempo di sedimentarsi negli animi della gente, che per questo motivo aveva guardato con favore al ritorno del Pontefice e al precedente stato di cose25.

D’altra parte il Rivarola aveva eseguito alla perfezione, pur condividendole, le istruzioni che il Pontefice gli aveva impartito, il quale sperava in un ritorno pieno e incondizionato all’antico

20 L’editto è riportato in I. RANIERI, Il Congresso di Vienna e la Santa

Sede (1813-1815). Della diplomazia pontificia nel secolo XIX, vol. IV, Roma,

1904, p.659 e in M. MOSCARINI, La Restaurazione pontificia nelle Province

di prima recupera, Roma, 1933, App., p. 130.

21 Art. 1, Editto 13 maggio 1814: «Il codice Napoleone civile e di commercio, il codice penale, e di procedura rimangono da questo momento perpetuamente aboliti in tutti i domini della santa sede, senza derogare intanto all’attuale sistema ipotecario che corrisponde all’antica intavolazione. E’ similmente da questo momento richiamata in osservanza l’antica legislazione civile e criminale e l’antica pratica vigente all’epoca della cessazione del Governo pontificio...» in I. RANIERI, op., cit., p. 660.

22A. AQUARONE, La Restaurazione pontificia nello Stato Pontificio ed i

suoi indirizzi legislativi, in, «Archivio della Società romana di storia patria»,

vol. LXXVII, Roma, 1955, p.125.

23 D. SILVAGNI, La Corte e la società romana nei sec. XVIII e XIX, Roma, 1885, vol. II, p. 669.

24 SPADONI, Sette, cospirazioni e cospiratori nello Stato pontificio

all’indomani della Restaurazione, p-52

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regime26. Pio VII era stato lontano troppo a lungo per poter

conoscere e comprendere i nuovi bisogni della popolazione; egli desiderava soltanto restituire, forse con eccessiva dose di cecità, tranquillità ai suoi sudditi27.

Sul terreno dell’amministrazione della giustizia, il giorno 14 maggio venne pubblicato un nuovo Editto di disciplina per le cause civili. Con esso venne stabilito che tutte le cause che fino a quel momento erano state di competenza dei giudici di pace, dei tribunali di commercio e dei giudici di prima istanza sarebbero state sottoposte, a Roma, all’esame di uno dei tre giudici ordinari, mentre nel resto dello Stato, ai giusdicenti locali; nuove norme furono emanate anche per quanto riguarda le cause di appello, per le quali sarebbero stati competenti i giudici commissari qualora il valore fosse stato inferiore ai 500 scudi, mentre sarebbe stato competente il Consiglio rotale per quelle di valore superiore ai 500 scudi28.

Con lo stesso Editto vennero ripristinati anche il Tribunale del Vicariato e i tribunali civili delle presidenze camerali, gli antichi uffici della Reverenda Camera Apostolica, il Tribunale di Segnatura e quello dei mercenari29.

Intanto, il 24 maggio Pio VII faceva finalmente rientro nella capitale; la Commissione di Stato non veniva sciolta e presidente di essa rimaneva il Rivarola, mentre, assente il Consalvi, veniva nominato pro-Segretario di Stato il cardinal Bartolomeo Pacca che ripristinò la giurisdizione civile del Tribunale del Camerlengato. Con l’estate del 1814, a poco a poco, venivano ripristinati anche gli antichi tribunali del Buon Governo, del Campidoglio, della Camera Apostolica e della Sacra Consulta, nell’ottica di un ritorno al passato e di ricostruzione delle fondamenta dell’antico edificio giudiziario30.

26 Le istruzioni sono pubblicate in M. MOSCARINI, op. cit., pp. 114-117. 27 M. MOSCARINI, op. cit., p. 36.

28 D. CECCHI, op., cit., p. 8.

29 M. MOSCARINI, op. cit., p. 25. Vedi anche D. CECCHI, op, cit., p. 8 e note.

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L’opera riformatrice subì ben presto un’interruzione, in quanto, neanche un anno dopo il suo rientro, Pio VII fu costretto di nuovo alla fuga verso Genova insieme con il cardinal Pacca, sotto la minaccia del Murat che aveva varcato con le sue truppe i confini dello Stato pontificio. Nelle Province erano rimasti a presiedere i rispettivi delegati, mentre a Roma il cardinal Pacca aveva nominato una Giunta di Stato con a capo il Rivarola quale Segretario con voto decisivo31.

Alcune settimane dopo la sconfitta di Murat nella battaglia di Tolentino del 2-3 maggio 1815, Pio VII rientrava in Roma e pochi giorni dopo veniva raggiunto anche dal cardinal Consalvi, il Segretario di Stato che era stato mandato presso le gradi potenze eruopee per sostenere gli interessi della Stato Pontificio.

Il ritorno a Roma del Consalvi dopo la fine del Congresso di Vienna segnò un punto di svolta per la politica legislativa dello Stato pontificio, che poteva finalmente incamminarsi sulla strada delle riforme senza cercare di tornare ad ogni costo all’antico eliminando ogni traccia lasciata dal periodo napoleonico32. Dopo una prima fase caratterizzata da un netto

rifiuto per le strutture dell’ordinamento francese a Roma si diffuse la consapevolezza di voler per così dire “salvare” alcuni istituti introdotti nel periodo napoleonico33. Il cardinal Consalvi

già durante il suo periodo di permanenza all’estero, e forse proprio in ragione di questo, aveva compreso che un ritorno allo

status quo ante non era possibile, che i tempi erano cambiati e

che una restaurazione più illuminata avrebbe giovato anche al recupero delle terre perdute34.

La concezione politica del Consalvi dunque, differiva molto dalle posizioni «zelanti» del Rivarola e del Pacca, gli uomini che fino a quel momento avevano tenuto le redini dello Stato

31 D. CECCHI, op., cit., p. 22. 32 A. AQUARONE, op., cit., p. 136.

33 P. ALVAZZI DEL FRATE, Riforme giudiziarie... cit., p. 57 e nota; 34 M. MOSCARINI, op. cit., p. 109.

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pontificio. Per questi motivi, la Restaurazione nelle Province cosiddette di «seconda recupera» (le Marche e le Legazioni, Benevento e Pontecorvo) avvenne in maniera del tutto diversa. Vennero pubblicati due editti rivolti agli abitanti di quei territori, entrambi pubblicati il 5 luglio 1815; con il primo si garantiva ai sudditi l’effettività dell’acquisto di beni ecclesiastici e luoghi pii, e allo stesso tempo veniva garantito il riconoscimento del debito pubblico e si dichiarava la volontà di voler emanare alcuni provvedimenti di sgravio a favore delle popolazioni35; con il

secondo editto, invece, si istitutiva un governo provvisorio in quelle Province e si stabiliva un nuovo ordinamento legislativo e amministrativo a cui esse sarebbero state sottoposte. Con quest’ ultimo editto vennero altresì aboliti i codici civile, criminale e di procedura, segnando così, anche nelle Legazioni e nelle Marche la fine del sistema giuridico francese sia pur con importanti eccezioni, quale quella del codice di commercio e dei tribunali commerciali che rimasero in vita; si mantenne inoltre l’abolizione del fedecommesso già sancita dalla legislazione napoleonica e si promise l’emanazione di nuove misure36. Le

Province di seconda recupera erano quelle che avevano vissuto il periodo più lungo di dominazione napoleonica e per questo motivo l’influsso dell’esperienza francese era stato più penetrante tanto che a quel punto un ritorno incondizionato allo

status quo ante non era possibile, e fu per questo che esse

divennero, per forza di cose, quella fucina nella quale sperimentare nuove forme di amministrazione e di riorganizzazione dello Stato.

Questa tendenza trovò la sua conferma legislativa nel moto proprio del 16 luglio 1816 che rappresentò il primo importate tentativo di riformare tutta la struttura interna dello Stato pontificio al fine di raggiungere l’unificazione legislativa e amministrativa dello Stato37. Con esso ebbe inizio il generale

35 D. CECCHI, op., cit., p. 26. 36 Ibidem, p. 28.

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processo di codificazione del diritto e di riforma dell’ordinamento giudiziario attraverso la previsione dell’istituzione di apposite commissioni per la redazione dei codici38.

Una delle figure più importanti del periodo consalviano per quanto riguarda la redazione dei codici fu senza dubbio il giurista Vincenzo Bartolucci. Nel 1811 aveva fatto parte del Consiglio di Stato di Parigi e, ancor prima, del Collegio degli avvocati concistoriali, e fu proprio in ragione della sua conoscenza del diritto francese che venne ritenuto il più idoneo a coordinare la codificazione nelle terre della Chiesa39. Chiamato

a Roma dallo stesso Consalvi, infatti, fu invitato a collaborare alla stesura prima del moto proprio del 1817 e venne poi nominato presidente della Commissione per la compilazione del codice civile e di procedura civile40.

1.2. L’amministrazione della giustizia nel moto proprio del 1816

Il moto proprio del 1816 trattava dell’organizzazione della giustizia al Titolo II (Organizzazione dei tribunali civili) e al Titolo III (Organizzazione dei tribunali criminali)41.

L’art. 24 del Titolo II stabiliva che il potere giudiziario non era tra le attribuzioni dei deleganti ma dei governatori locali (art. 25) che, nelle materie di loro competenza, giudicavano come giudici di primo grado42.

38 Art. 75 del Moto proprio 6 luglio 1816.

39 M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello Stato

pontificio : Il Progetto Bartolucci del 1818, Napoli, 1987, p. XXII.

40Notizie bibliografiche su Vincenzo Bartolucci in G. FORCHIELLI, Un

progetto di codice civile nello stato pontificio visto da un canonista, in

«Scritti della facoltà giuridica di Bologna in onore di Umberto Borsi», Padova, 1955, pp. 13-14; M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello

Stato pontificio I…cit., pp. XX-XXI. Cfr. anche S. NOTARI, Il Codice Bartolucci del 1817. Tribunali, procedura civile e codificazione del diritto nella Seconda Restaurazione pontificia, in La giustizia nello Stato pontificio… cit., pp. 203 e ss.

41 Moto proprio di Pio VII sull’organizzazione dell’amministrazione

pubblica, Roma, 1816, Poggioli Stampatore della RCA.

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24-29-L’appello contro i decreti dei governatori doveva essere portato innanzi ai Tribunali di prima Istanza di ogni Delegazione (art. 27); questi tribunali erano composti da cinque giudici più due aggiunti nelle Delegazioni di prima classe, e da tre giudici più un solo aggiunto nelle Delegazioni di seconda e terza classe. Essi giudicavano collegialmente in numero non inferiore a tre e le funzioni di presidente erano svolte dal giudice più anziano mentre quelle di relatore venivano esercitate a turno (artt. 30-31). In tutti quei casi in cui i suddetti tribunali non giudicavano in sede di appello, giudicavano quali giudici di prima istanza, eccezion fatta per le cause riservate alla giurisdizione speciale (art. 33)43.

I Tribunali di Appello veri e propri erano in tutto quattro, eretti uno in Bologna, per le cause riguardanti le Delegazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì; uno in Macerata, per le Delegazioni di Macerata Urbino e Pesaro, Ancona, Fermo, Ascoli e Camerino; due in Roma (Auditor Camerae e Rota), per il resto dello Stato (art. 35).

I Tribunali di Appello di Bologna e Macerata erano composti ciascuno di cinque giudici (il più anziano tra i quali assumeva la carica di presidente) e di due aggiunti, e non potevano giudicare in numero inferiore a cinque (art. 36)44.

Il Tribunale dell’Auditor Camerae era invece composto da

tre giudici prelati, col titolo di luogotenenti, e da un quarto giudice che poteva essere anche un togato, con titolo di A. C. Met. (art. 40). Ognuno dei tre luogotenenti poteva giudicare, singolarmente, le cause di valore minore di 825 scudi (in prima istanza), le cause giudicate dai governatori della Comarca e le cause di valore inferiore ai 300 scudi giudicate in prima istanza da uno dei loro colleghi (in seconda istanza) (art.41). Il Tribunale dell’ A. C. giudicava invece collegialmente le cause della Comarca di Roma eccedenti il valore di 825 scudi o di

43 Ibidem, Tribunali di prima istanza, artt. 27-34. 44 Ibidem, Tribunali di Appello, artt. 35-38.

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valore indeterminato (in prima istanza) e le cause di valore inferiore agli 825 scudi giudicate sia dai tribunali di prima istanza delle Delegazioni di Perugia, Spoleto, Viterbo, Civitavecchia, Rieti, Frosinone, e Benevento, sia dai singoli luogotenenti (in seconda istanza); infine si pronunciava sui giudicati difformi pronunciati dai governatori in prima istanza e dai singoli luogotenenti in appello e i giudicati difformi dei luogotenenti nelle cause di valore minore di 300 scudi (in terza istanza) (art. 42). Quando il Tribunale dell’A. C. giudicava in sede di appello o di ricorso avverso la sentenza emessa da uno dei luogotenenti era composto dagli altri due componenti e dall’ A.C. Met. (art. 44), quando invece giudicava in terza istanza le sentenze difformi dei luogotenenti era composto dal terzo luogotenente che non aveva prestato giudizio, dall’ A.C. Met. e dallo stesso monsignor Uditore della Camera, il quale però poteva farsi sostituire da un uditore privato o da un altro giudice (art. 45). Quando l’Uditore della Camera interveniva di persona a giudicare nelle cause deferite al tribunale collegiale, allora non interveniva l’A. C. Met., tranne nel caso in cui taluno dei luogotenenti fosse stato legittimamente impedito a presentarsi e fosse stata necessaria la presenza di tre giudici per emettere la sentenza (art. 45)45.

Il Tribunale della Rota era il giudice d’appello per tutte

quelle cause di valore maggiore di 825 scudi giudicate dai Tribunali di prima istanza nelle Delegazioni non soggette ai tribunali di appello di Bologna e Macerata, nelle cause maggiori di 300 scudi in caso di difformità dei precedenti giudicati e nelle cause giudicate dagli altri tribunali d’appello, compreso l’A. C., i cui giudicati fossero difformi dai giudicati di prima istanza (art.46)46.

45 Ibidem, Tribunale dell’Auditor Camerae, artt. 39-45.

46 Ibidem, Tribunale della Rota, artt. 46-47. Per le cause di valore minore ai 300 scudi in cui i giudicati degli altri tribunali di prima istanza e quello dall’ A. C. (in veste di tribunale di appello) siano difformi si ricorreva al Cardinal Prefetto della Segnatura il quale deputava una Congregazione di tre Prelati per giudicare definitivamente (art. 46).

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In tutti i giudizi, due sentenze conformi rendevano definitiva la sentenza e formavano il giudicato mentre nel caso in cui le sentenze di primo e secondo grado fossero state difformi era possibile ricorrere in terza istanza ai tribunali di Roma (art. 48).

A Roma, poi, erano conservate la giurisdizione del

Tribunale del Campidoglio, nelle forme e nei limiti in cui essa

già esisteva (art. 49), e quella del Tribunale di Segnatura (art. 50). Quest’ultimo tribunale era diviso in due turni, ciascuno composto da sei uomini scelti dal cardinal Prefetto ed aveva funzione di annullare gli atti giudiziali, i decreti e le sentenze di tutti i tribunali dello Stato ma nei soli casi di nullità o difetto di citazione, giurisdizione o mandato. Era in facoltà del Tribunale della Segnatura il rimettere la causa o allo steso tribunale o al tribunale dell’A. C. o alla Rota (art.51), al Tribunale di Segnatura erano inoltre affidate anche le questioni di competenza (art. 52). Due giudicati conformi non consentivano in nessun caso il ricorso in Segnatura per la sospensione dell’esecuzione, ma era consentito ricorrere in via devolutiva e di restituzione “in intiero” per ottenere un secondo appello, eccezion fatta per i casi in cui il precedente giudizio di appello fosse avvenuto anch’esso in via devolutiva; in quest’ultimo caso, la possibilità di un secondo appello era accordata solamente nei casi in cui fossero stati scoperti nuovi fatti decisivi per la soluzione del caso o qualora si fosse palesemente contraddetto ad una legge (art. 53)47.

Nulla era innovato per quanto riguarda i Tribunali ecclesiastici, nelle materi di loro competenza (art. 55); tutte le altre giurisdizioni speciali, particolari o eccezionali non espressamente previste dal moto proprio venivano abolite (art. 64).

La nomina dei giudici era riservata direttamente al sovrano (art. 67). Per poter essere nominati giudici di prima istanza nelle

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Delegazioni bisognava aver compiuto venticinque anni, essere laureati e aver fatto pratica per almeno tre anni, bisognava inoltre esser di “onesti natali” e di condotta irreprensibile. Le stesse regole erano prescritte per i giudici supplenti, ad eccezione dei requisiti dell’età (era sufficiente aver compiuto ventun’ anni) e della laurea che, in questo caso, non era obbligatoria (art. 68). Nei tribunali di appello, invece, l’età prescritta per i giudici era di trent’anni, e oltre al possesso della laurea e degli altri requisiti bisognava aver compiuto la pratica per almeno cinque anni; agli aggiunti bastava aver compiuto venticinque anni e non occorreva la laurea (art. 69). Ai giudici, agli attuari, ai cursori, ai balivi e ai loro sostituti era assicurato un onorario fisso da parte del Governo ed era loro vietata la possibilità di ricevere emolumenti ulteriori; gli aggiunti non ricevevano onorario, tranne nei casi di sostituzione dei giudici; ai delegati era affidato il compito di prescrivere le regole necessarie per l’esercizio delle funzioni degli avvocati e dei procuratori (art. 60).

Per quanto riguarda il sistema di giustizia penale48 i

governatori locali di primo e secondo ordine erano competenti, nei loro territori, per i delitti minori, vale a dire quelli punibili con pene pecuniarie e afflittive, considerate come equivalenti ad un anno di lavori forzati (art. 76)49.

In ogni Delegazione si erigeva un Tribunale criminale composto di cinque giudici cioè dal delegato, cui appartenevano le funzioni di presidente, due assessori, un giudice appartenente al tribunale civile di prima istanza e uno dei membri della commissione governativa, quest’ultimi due rinnovati ogni anno, in base all’anzianità (art. 77). I medesimi tribunali criminali fungevano anche da tribunali di appello per le cause giudicate dai governatori locali (art. 78); nelle medesime cause, nei capoluoghi di ciascuna Delegazione, la giurisdizione criminale

48 Ibidem, Titolo II, Organizzazione dei Tribunali criminali. 49 Ibidem, Governatori, art. 76.

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era esercitata sotto la dipendenza e approvazione del delegato, dall’ assessore che non aveva l’esercizio della giurisdizione nelle cause minori civili (art. 79) mentre, nei delitti per i quali era prevista una pena maggiore di un anno di lavori forzati, la competenza era del tribunale criminale della Delegazione (art. 80).

Se la condanna pronunciata dal tribunale non eccedeva il carcere o i cinque anni di lavori forzati al reo non era concesso richiedere l’appello sospensivo, fuori dai casi in cui almeno uno dei giudici avesse votato per l’assoluzione o per una pena minore. Nel caso in cui la condanna fosse stata pronunciata a pieni voti l’appello era ammesso solamente in devolutivo (art. 81)50. L’appello relativo a queste cause veniva deferito per le

Delegazioni di Bologna Ferrara, Ravenna e Forlì al Tribunale di Appello di Bologna; per le Delegazioni di Macerata, Urbino e Pesaro, Ancona, Fermo, Ascoli e Camerino, al Tribunale di Appello di Macerata; per le altre Delegazioni dello Stato alla Sacra Consulta (art. 82). Se la condanna era superiore ai cinque anni di galera o se questa era capitale, l’appello si deferiva ai rispettivi tre tribunali (art. 83)51.

In ogni capoluogo della Delegazione erano presenti due giudici processanti ed un cancelliere, e in ogni Governo di primo e secondo ordine un cancelliere che, insieme con il governatore locale, era obbligato della stesura di tutti i processi ancorché essi rientrassero nella giurisdizione del tribunale della Delegazione.

Il sistema delle sportule veniva vietato in quanto anche nel penale, i giudici, i governatori i cancellieri ecc., ricevevano uno stipendio mensile (art. 85).

Per i delitti commessi nei paesi che appartenevano al territorio della Comarca di Roma, il Tribunale del Governo era giudice di appello delle condanne pronunciate dai governatori

50 Ibidem, Tribunali criminali, artt.77-81 51 Ibidem, Tribunali d’Appello, artt. 82-83.

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(art. 86), mentre per i delitti commessi nel territorio della città di Roma erano competenti il Tribunale del Governo, quello dell’A. C., quello del Vicariato e quello del Campidoglio (art. 88).

Nei delitti per contravvenzioni e frodi commesse a danno dell’Erario giudici competenti in prima istanza erano gli assessori del Tesorierato, nelle Province, mentre, a Roma, erano competenti i tribunali criminali del Camerlengato e del Tesorierato, dinanzi ai quali si poteva proporre appello per le condanne pronunciate dagli assessori, ma solamente quando la pena prevista non eccedesse la somma di 150 scudi e non prevedesse una pena afflittiva; nel caso di condanna a pena superiore ai 150 scudi, infatti, competeva l’appello solo in sospensivo (art. 89).

Nulla si innovava nella giurisdizione del Foro ecclesiastico e in quella della Sacra Inquisizione, della Congregazione dei Vescovi e Regolari, del Prefetto dei Sacri Palazzi apostolici, e del Tribunale militare, mentre tutte le altre giurisdizioni criminali di privilegio venivano abolite, con la remissione di tutte le cause pendenti ai tribunali ordinari (art. 91).

Presso ogni tribunale criminale vi era un difensore di ufficio nominato dal Sovrano, ma l’inquisito poteva farsi assistere da un altro difensore purché questi fosse iscritto nel catalogo approvato dal delegato di ciascun capoluogo col consenso della Congregazione governativa (art. 92); in ogni Delegazione vi era inoltre un procuratore fiscale scelto anche questo dal sovrano, mentre a Roma continuava ad esercitare la giurisdizione il procuratore fiscale generale (art. 93).

Ai cancellieri, alle forze armate e a tutti gli uomini deputati all’amministrazione della giustizia penale, le istruzioni erano fornite direttamente dai delegati (art. 94). Fino alla pubblicazione del nuovo codice di procedura criminale si sarebbero applicate in tutto lo Stato le leggi previgenti (art. 95); l’uso della tortura rimaneva abolito in tutto lo Stato, con applicazione, in sostituzione di questa, di un anno di lavori

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forzati (art. 96). Tutte le pene che erano rimesse all’arbitrio dei giudici e dei criminali venivano abolite, qualora riguardassero la possibilità di aggravare una pena già stabilita dalla legge; le altre pene rimesse al completo arbitrio dei giudici non potevano mai superare un anno di lavori forzati; queste norme avrebbero avuto vigenza solamente fino alla pubblicazione del nuovo codice criminale, nel quale sarebbe stata esclusa qualunque pena rimessa all’arbitrio del giudice (art. 98); inoltre era stabilito l’uso della lingua italiana nelle sentenze e l’obbligo di motivazione di quest’ultime (art. 100).

Il moto proprio del 6 luglio 1816 segnò un momento fondamentale nella riforma dell’apparato giudiziario dello Stato pontificio; esso mise in moto un meccanismo di generale semplificazione e chiarificazione delle giurisdizioni, anche attraverso l’affermazione dei principi di pubblicità delle udienze, della motivazione delle sentenze, l’uso della lingua italiana nei processi, l’abolizione della tortura e la soppressione della maggior parte delle giurisdizioni di privilegio, destinato ad avere ripercussioni per tutto il corso dell’Ottocento.52

1.3. Il codice di procedura civile del 1822

Nel 1817, con moto proprio del 22 novembre, veniva pubblicato uno degli atti più importanti del periodo consalviano: il codice di procedura civile53.

Il nuovo codice era composto di 8 libri e 1810 articoli; nel proemio esso richiamava il precedente moto del 1816, il quale veniva considerato il fondamento dell’ “Edificio” di pubblica amministrazione dello Stato, che necessitava, per essere

52 D. CECCHI, op., cit., p. 175.

53 Moto proprio della Santità di Nostro Signore Papa Pio VII in data de’

22 novembre 1817 sul nuovo codice di procedura civile esibito negli atti del Nardi Segretario di Camera il dì, anno e mese suddetto, Roma, Presso

Vincenzo Poggioli Stampatore della R.C.A.

D. CECCHI, op., cit., p. 206; A. AQUARONE, op., cit., p. 160; Sulla legislazione in questo periodo si vedano anche F. MENESTRINA, Il processo

civile nello Stato pontificio, Torino, 1908, pp. 22 ss; V. LA MANTIA, Storia della legislazione italiana, vol. I, Roma e lo Stato Romano, Torino, 1884, pp.

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un’opera compiuta, di due operazioni ulteriori: la prima riguardava la redazione di un codice civile che riunisse la frastagliata legislazione, l’altra consisteva nella formazione di un codice diretto a fissare i “metodi di procedura.” A questo scopo pertanto veniva nominata nello stesso moto proprio una Commissione incaricata di formare i progetti di entrambi i codici dando però precedenza al codice di procedura civile.

Il codice di procedura civile dopo l’esame della Congregazione economica veniva sanzionato dal pontefice, che lo emanava con moto proprio del 22 novembre.

Il nuovo codice era improntato in gran parte a quello francese, ma si differenziava dalla legislazione napoleonica soprattutto per il gran numero di tribunali e magistrature che erano stati richiamati in vita dal potere restaurato54.

Della procedura dei tribunali si occupava il Libro IV (artt.780-950). Il primo tribunale ad essere nominato era il

Tribunale della Rota (art. 780) al quale si applicavano tutte le

norme dettate dal codice di procedura civile che non fossero state in contrasto con quelle contenute nell’art. 47 del moto proprio del 6 luglio 1816. Accanto al Tribunale della Rota vi era il Tribunale dell’A. C., composto dall’uditore della Camera, da tre luogotenenti e da tre assessori; presidente del tribunale era l’uditore della Camera, che poteva farsi sostituire, in caso di assenza da uno dei luogotenenti (art. 783). Tra i compiti dell’uditore vi era quello di regolare con opportuna notificazione il buon andamento del tribunale e la condotta che avrebbero dovuto osservare i cancellieri e i procuratori (art. 784). All’uditore della Camera era inoltre concesso di giudicare nei giudizi economici le cause non superiori ai cinque scudi, sentite in via stragiudiziale le parti (artt. 685-686). Tutti gli atti e le spedizioni, comprese quelle del tribunale collegiale erano firmate a nome dell’Uditore della Camera (art. 788). I prelati luogotenenti giudicavano sempre collegialmente e in prima

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istanza le cause superiori agli 825 scudi, ed in appello quelle giudicate singolarmente il cui valore non eccedesse i 300 scudi; agli assessori competeva il giudizio, singolarmente, in primo grado, di tutte le cause di volare non maggiore di 825 scudi e in appello, in quelle giudicate in prima istanza da uno dei loro colleghi fino al valore di 300 scudi e quelle giudicate dai governatori della Comarca (art. 789). Da ultimo, agli assessori competeva di giudicare tutte le cause che nelle Delegazioni erano di competenza di governatori e assessori (art. 790)55.

Anche la giurisdizione del Tribunale del Campidoglio veniva conservata per i cittadini abitanti di Roma e laici (art. 815); questo tribunale era composto, in prima istanza, da tre giudici, cioè, dal Senatore, e dal primo e secondo collaterale (art. 817). I giudici in prima istanza giudicavano singolarmente le cause di volare non superiori agli 825 scudi, collegialmente le altre; essi erano altresì competenti a giudicare le cause, cumulativamente con i luogotenenti dell’A.C. che nelle Delegazioni erano di competenza dei governatori ed assessori (art. 818). In seconda istanza i giudici del Tribunale del Campidoglio giudicavano singolarmente le cause non eccedenti la somma di 200 scudi, e collegialmente le cause superiori a detta somma (artt. 819-820); essi giudicavano collegialmente anche le cause eccedenti la somma di 300 scudi e quelle di valore non superiore alla somma di 825 scudi (art. 821). In terza istanza essi giudicavano collegialmente nel caso di difformità dei giudicati pronunciati singolarmente nelle cause non eccedenti il valore di 300 scudi (art. 822). Il tribunale del Campidoglio giudicava anche “in figura di Segnatura”, nelle cause di appello, e di restituito in

integrum, in base a quanto stabilito dall’art. 53 del moto proprio

del 6 luglio 1816 (art. 823).

Le cause superiori alla somma di 825 scudi venivano deferite in grado di appello al Tribunale della Rota, come pure

55 Moto proprio della Santità di Nostro Signore Papa Pio VII in data dè

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quelle maggiori di 300 scudi e non superiori agli 825 scudi (artt. 828-829). In caso di difformità di due giudizi quelle inferiori ai 300 scudi erano deferite in appello al tribunale collegiale composto dall’altro giudice che non aveva prestato giudizio e da due aggiunti indicati dal Senatore; nei restanti giudizi, sia quelli singoli che collegiali, e sia in primo grado che in appello dovevano essere osservate le stesse regola valide per il tribunale dell’A. C. (artt.830-831)56.

Il Tribunale della Camera aveva invece giurisdizione in tutte le cause in cui la Camera stessa poteva avere un interesse (art. 834). Nelle Delegazioni queste cause erano giudicate dagli assessori camerali quando il loro valore non superava i 200 scudi (art. 835). A Roma il Tribunale della Camera era formato da due giudici singoli (monsignor uditore del Camerlengato e l’uditore di monsignor Tesoriere), da un tribunale collegiale e dalla piena Camera (artt. 386-387). I due giudici singoli giudicavano in prima istanza tutte le cause di Roma e della Comarca non eccedenti il valore di 825 scudi (art.838); essi appartenevano anche al tribunale collegiale camerale, di cui faceva parte anche monsignor presidente della Camera (art. 839). Quest’ultimo tribunale giudicava in prima istanza tutte le cause di Roma e della Comarca superiori agli 825 scudi (art. 840) e giudicava tutte le cause, in tutte le Delegazioni dello Stato, eccedenti la somma di duecento scudi (art. 841). In appello questo tribunale giudicava le cause giudicate in prima istanza dagli assessori camerali (art. 842), e le cause giudicate in prima istanza da monsignor uditore del camerlengato o dall’Uditore di monsignor tesoriere, purché non eccedessero il valore di 300 scudi; esso era formato da dodici chierici di camera e dal Presidente (il quale però non aveva voto decisivo) ed era diviso in due turni (art. 845). Esso giudicava sia in appello, nel merito, che come tribunale di Segnatura, in quest’ultimo caso giudicava in sede di appello, sia in sospensivo

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che in devolutivo, tutte le cause sommarie ed esecutive superiori ai duecento scudi e le questioni di competenza; in sede di appello giudicava anche le cause giudicate in prima istanza da monsignor uditore del Camerlengato (o dall’uditore di monsignor tesoriere) superiori ai 200 scudi; giudicava, infine, sempre in appello, tutte le cause giudicate in prima istanza dal tribunale collegiale e giudicava in sede di “ulteriore appellazione” tutte le cause in cui il giudizio del tribunale collegiale fosse diverso da quello dell’assessore o dei due giudici singoli (artt. 846-850)57.

Il tribunale dell’Annona di Roma esercitava la giurisdizione nelle cause civili di Roma e provincia (art. 865), nelle materie di sua competenza, concernenti prevalentemente le contrattazioni sul grano e gli altri cereali e i loro mezzi di trasporto e di vendita. Monsignor prefetto dell’annona giudicava in prima istanza le questioni che insorgevano a Roma, nella Comarca e nelle Province annonarie, nei soli casi in cui le suddette questioni avessero oltrepassato il valore di cento scudi, queste venivano giudicate in prima istanza dai governatori e dagli assessori come delegati del tribunale dell’annona (art. 866). L’appello nei confronti delle sentenze pronunciate da monsignor prefetto si deferiva o al tribunale collegiale camerale o a quello della Camera, secondo le rispettive competenze; per i giudicati dei governatori e degli assessori si ricorreva in appello a monsignor prefetto. In caso di difformità tra due giudizi nelle cause definite in prima istanza dai governatori ed assessori, l’ulteriore appello si deferiva al tribunale collegiale camerale. Norme particolari erano poi dettate per quanto riguarda la citazione del convenuto al fine di procedere con la massima celerità nelle cause riguardanti materie annonarie (artt.870-873).

Il Tribunale del Buon Governo, nelle materie contenziose era formato da monsignor Segretario, dall’eminentissimo

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cardinal prefetto e dalla piena generale congregazione; a questo tribunale apparteneva, secondo le rispettive attribuzioni, la definizione di tutte quelle cause enunciate nella Costituzione

Gravissimarum di Benedetto XIV, e la cognizione di tutte le

cause, e tutte le cause che riguardavano le amministrazioni aggiunte a patto che non intervenisse in giudizio l’amministrazione stessa bensì gli esattori, appaltatori ecc.; il Tribunale del Buon Governo aveva inoltre giurisdizione nelle cause ai beni ex-comunitativi (artt. 910-911). Governatori e assessori, come delegati della congregazione, potevano giudicare in prima istanza tutte le cause rientranti nei limiti della propria competenza (art. 912), le loro sentenze potevano essere appellate dinanzi al Segretario della Congregazione, e in caso di difformità di giudicati poteva proporsi ulteriore appello alla piena Congregazione (artt. 913-914). Le cause che non erano di competenza dei governatori e degli assessori, perché esorbitanti la loro giurisdizione, in prima istanza venivano giudicate dal Segretario di Consulta, e in appello dalla piena congregazione. Nel caso in cui eccedessero il valore di 200 scudi, venivano giudicate in appello da uno dei prelati ponenti e in caso di difformità di giudicati, la causa veniva portata innanzi la piena Congregazione (artt. 915-917)58.

Il Tribunale dell’Agricoltura era composto da quattro

consoli e dall’assessore, con voto decisivo. Questo tribunale giudicava su tutte le questioni riguardanti le materie agrarie, le questioni relative agli animali addetti alla coltivazione dei campi, le persone impiegate nei fondi (salve le attribuzioni del giudice dei mercenari), i danni dati, le questioni riguardanti i tagli delle macchie e quelle riguardanti il trasporto dei raccolti (artt. 931-932). La procedura seguita era la stessa valida per il Tribunale dell’A. C., in caso di parità dei voti dovuta a mancanza di uno dei membri del tribunale, o nel caso di discordanza di opinioni, i consoli potevano nominare nuovi membri scelti tra

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persone aventi requisiti necessari per ricevere la nomina a console (artt. 933-934). I decreti provvisionali non comportanti una condanna potevano essere appellati anche in devolutivo, qualora invece essi fossero stati di condanna, la sospensione dell’esecuzione poteva domandarsi solamente attraverso una citazione in urgenza dinanzi all’uditore della Segnatura (artt. 935-936). Nelle cause di danno dato doveva procedersi in via sommaria, mentre, per i giudicati dei consoli, l’appello veniva proposto dinanzi al Tribunale dell’A. C. o della Rota, in base a quanto previsto dall’art. 64 del moto proprio 6 luglio 1816 (artt. 937-938)59.

Il Giudice dei mercenari giudicava in prima istanza tutte le

cause di Roma e Comarca riguardanti le merci campestri, le caparre, i prestiti concessi per lavori di campagna tanto tra agricoltori e caporali, quanto tra caporali e loro subalterni (art. 939). Nelle cause non superiori ai 10 scudi si procedeva senza bisogno di citazione formale, ma attraverso un biglietto firmato dall’attore e presentato al reo indicante l’udienza di comparizione. Nelle cause superiori a detta somma ma non eccedenti il valore di 100 scudi si procedeva con le regole stabiliti per i giudizi innanzi ai governatori e assessori ai sensi degli artt. 162 e 168 del moto proprio. Nelle cause che superavano il valore di 100 scudi si procedeva con le regole stabilite nei giudizi sommari ed esecutivi dinnanzi ai giudici singoli dell’A.C., ma senza la necessità della costituzione dei procuratori e dell’iscrizione della causa a ruolo (artt. 944-945). Le cause di valore non superiore ai dieci scudi non potevano essere appellate, quelle fino a 50 scudi potevano essere appellate solo in devolutivo, mentre le cause superiori a detta somma potevano essere appellati attraverso le regole stabilite per i giudizi sommari ed esecutivi (artt. 947-948)60.

59 Ibidem, Tribunale dell’Agricoltura. 60 Ibidem, Giudice dei mercenari.

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Il Supremo Tribunale della Segnatura era formato dal cardinal prefetto, dall’uditore e da dodici prelati ponenti che venivano scelti dalle parti in causa oppure dal giudice; il prefetto giudicava in grado di ricorso per mezzo di un suo particolare uditore le sentenze del tribunale (artt. 1025-1027). Il tribunale era diviso in due turni, e nel caso in cui uno dei due turni fosse stato impossibilitato ad emettere la sentenza sarebbe stato il cardinal prefetto a dare il suo voto, altrimenti la questione veniva portata dinanzi al tribunale a turni riuniti (artt. 1117 e 1119)61.

Questo codice è stato giudicato positivamente dalla storiografia, che ha sottolineato come mentre gli altri Stati di quel periodo credevano di poter continuare a governare con i vecchi sistemi da Roma partiva un messaggio nuovo, e la giurisprudenza trovava la saggezza necessaria per «non insistere su ciò che doveva tramontare62»

1.4. Ulteriori riforme al sistema giudiziario tra attuazione e inattuazione dei codici

Il 27 gennaio 1818 venne pubblicato un Regolamento di disciplina per i tribunali civili suddiviso in cinque paragrafi riguardanti la disciplina dei giudici, procuratori ed avvocati, cancellieri, registri di cancelleria e cursori.

Per quanto riguarda la restante parte della preannunciata codificazione, l’intero programma di riforme non poté vedere la luce, e la maggior parte dei codici promessi si arrestò allo stadio di “progetto”.

Di particolare importanza fu il codice civile del 1818 messo a punto dalla commissione Bartolucci63; esso era quasi ultimato

61 Ibidem, Tribunale della Segnatura.

62«... una legge che portava il nome di Napoleone, ebbe in Pio VII – vecchio nemico e prigioniero del Bonaparte – un giudice sereno che ne riconobbe i pregi indiscutibili.» F. MENESTRINA, Il processo civile nello

Stato pontificio, in Regolamento giudiziario per gli affari civili di Gregorio Papa XVI, Testi e documenti per la storia del processo, X, a cura di N.

PICARDI, A. GIULIANI, Milano, 2004, p. 28.

63 Il progetto di codice civile è in M. MOMBELLI CASTRACANE, La

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e i primi cinque libri furono anche inviati alla Congregazione Economica per l’esame64, ma in quella sede il progetto di codice

venne ampiamente contestato, soprattutto dalla corrente dei cosiddetti “zelanti” generalmente ostili a qualsiasi riforma che potesse compromettere la stabilità della Chiesa, per i quali, per la riforma della legislazione civile nello Stato pontificio sarebbe stato opportuno far ricorso, seguendo la tradizione, alle Costituzioni Apostoliche65.

La prima accusa mossa dalla Congregazione economica al Codice fu quella di essere un plagio del codice civile francese in quanto redatto da un giurista (il Bartolucci, per l’appunto) che aveva collaborato con Napoleone nella legislazione civile66. Ma il

nodo centrale della questione era, in realtà quello di voler riconoscere al diritto civile totale autonomia rispetto alla giurisdizione ecclesiastica67. Il progetto fu ugualmente portato a

compimento tra il novembre del 1819 e il marzo del 1820 e regolarmente consegnato alla Congregazione cardinalizia, ma non riuscì mai, a causa dei continui ostacoli, ad entrare in vigore68.

progetto anche in ASR, Commissione per la riforma dei codici legislativi, b. 1., fasc. 6. Il codice risulta così suddiviso: Disposizioni generali (artt. 1-32); Libro I, Dello Stato civile delle persone e dei diritti ed obbligazioni delle

medesime nei rapporti di famiglia (artt. 33-249); Libro II, Delle persone costituite sotto la tutela e cura (artt. 250-243); Libro III, Della distinzione delle cose e del dominio e possesso delle medesime (artt. 436-553); Libro IV, Dei testamenti (artt. 554-794); Libro V, Delle successioni legittime (artt.

795-875).

64 Membri della Congregazione economica erano i cardinali Lorenzo Litta Visconti Arese, Bartolomeo Pacca, Luigi Ercolani, Cesare Guerrieri Gonzaga, Giulio Maria della Somaglia, Ruffo, Giuseppe Albani e lo stesso Consalvi. Cfr. M. MOMBELLI CASTRACANE, La codificazione civile nello

Stato pontificio I...cit., p. XXIV.

65 Ibidem, p. XXV.

66 G. FORCHIELLI, op. cit., pp. 17-18.

67 «La Chiesa era stata la madre del diritto canonico. Ora essa avrebbe dovuto generare un nuovo diritto, un diritto diverso dal canonico, e cioè un diritto cosiddetto civile. Chi avrebbe dovuto fecondare questa madre in una sua seconda gestazione? La prima gestazione aveva dato un prodotto endogeno dopo molti secoli di vita; solo influenze esterne, quasi sempre di forme, psicologiche e logiche, avevano potuto essere valide. Ora invece la fecondazione poteva soltanto venire dal di fuori; sarebbe stata esogena. Il parto dunque poteva nascere mostruoso; inoltre, come da un diritto sostanzialmente universalistico sarebbe potuto germinare un diritto particolaristico?» G. FORCHIELLI, op. cit., pp. 18-28.

68 La vicenda è chiarita in M. MOMBELLI CASTRACANE, La

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