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1.1 L’importanza dei costi di approvvigionamento nell’economia delle aziende

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Academic year: 2021

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1. Il costo delle materie prime: prospettive di analisi

In questo capitolo affronteremo il tema del costo delle materie cercando di fornire una visione d’insieme attraverso due prospettive di analisi differenti ma tra loro complementari. Nel primo paragrafo cercheremo di capire qual è la dimensione dell’importanza dei costi di acquisto nell’economia delle aziende anche in chiave strategica. Nel secondo analizzeremo le determinanti di costo, cioè tutti quei fenomeni che influenzano il comportamento dei costi e la cui conoscenza è necessaria per gestirli efficacemente. Infine nel terzo cercheremo di individuare tutti i costi riconducibili alle materie prime sia direttamente che indirettamente.

1.1 L’importanza dei costi di approvvigionamento nell’economia delle aziende

1.1.1 Il leverage dei costi di acquisto

Numerosi studi hanno dimostrato come per molte aziende, in particolare per quelle manifatturiere e commerciali, i costi di acquisto siano la componente di costo più grande all’interno del conto economico e costituiscano la leva principale su cui agire per ottenere rapidi e significativi incrementi della redditività

1

. Recenti ricerche hanno rilevato che in molte aziende i costi di acquisto di beni e servizi costituiscono il 60‐

70% dei costi di produzione

2

. Nonostante questa rilevanza l’attenzione verso la gestione dei costi delle materie prime e la definizione di strumenti di supply chain management non è mai risultata adeguata (Ellram, 1991) e soltanto di recente si è riscoperto un nuovo interesse verso lo studio di strumenti per la gestione del costo degli input acquistati e dei network di fornitura. Questo grazie anche alla dimostrazione da parte di alcuni studiosi della rilevanza che tali strumenti possono avere per la costruzione di un vantaggio competitivo sostenibile.

Tale rilevanza è stata riscontrata anche a livello nazionale attraverso una ricerca su un campione di 29.345 aziende

3

, realizzata sul triennio 2007/2009, volta a evidenziare l’incidenza del costo delle materie prime e dei servizi sul fatturato aziendale. Si evince chiaramente dai risultati riportati in tabella 1 che nel triennio considerato il peso degli acquisti di materie prime riveste una rilevanza notevole per le aziende manifatturiere (circa 50%) ed un’importanza non trascurabile per quelle di servizi (circa 20%) con una media complessiva di circa il 40%. Per quanto riguarda il costo dei servizi acquistati all’esterno abbiamo una situazione analoga a parti invertite ed una media complessiva di circa il 32%.

      

1

Herberling M. E. (1993), The Rediscovery of Modern Purchasing, International Journal of Purchasing and Materials Management, 29(4), pp. 48‐53; Cammish, R., Keough, M., (1991). A Strategic Role for Purchasing.

The McKinsey Quarterly 3, 22‐39.

2

Agndal H., Nilsson U., (2008), “Interorganizational cost management in the exchange process”, in Management Accounting Research, article in press.

3

 Analisi tratta da SILVI et al. – Costi e vantaggio competitivo (2011) pag.128. Sono prese in considerazione

tutte le imprese manifatturiere e di servizi con un fatturato superiore ai due milioni di euro e con più di

dieci dipendenti, ad esclusione delle aziende bancarie e di servizi finanziari. 

(2)

La somma delle due voci di costo costituisce l’espressione diretta degli acquisti aziendali e si attesta intorno al 72% del valore del fatturato a dimostrazione dell’importanza che questa dimensione riveste sui risultati aziendali. Il resto dei costi di tipo operativo sono costituiti dal personale, dagli ammortamenti, delle svalutazioni, dagli accantonamenti ed oneri diversi di gestione e secondo quanto determinato dall’analisi condotta risultano incidere in media per il 23,5%. Con i dati raccolti è stato possibile costruire una prima bozza di conto economico delle aziende italiane nel triennio considerato da cui è risultata la struttura dei costi operativi riportata in tabella 2.

   

[Tabella 1. Fonte: con modifiche da SILVI et al. – Costi e vantaggio competitivo, 2011, pag.128] 

                             

   

       

Settore (dati 2007‐2009) 

Incidenza  media  materie  prime su  fatturato 

Incidenz a media  servizi 

su  fatturat

Alimentari, bevande e tabacco  54,9%  23,3% 

Chimica, plastica, farmaceutica  52,0%  22,7% 

Elettronica e ottica  49,0%  22,9% 

Legno, carta, sughero  47,3%  26,5% 

Meccanica  47,6%  24,1% 

Metallurgia e lavorazione metalli grezzi  43,3%  26,6% 

Mobilio  46,6%  28,9% 

Tessile, abbigliamento, calzature  44,3%  33,7% 

Vetro, ceramica, cemento e gesso  50,5%  24,4% 

Altre industrie manifatturiere  39,3%  28,1% 

Media azienda manifatturiere  50,4%  25,5% 

Alloggio e ristorazione  37,8%  26,2% 

Editoria, software e telecomunicazione  15,8%  51,2% 

Trasporto e logistica  14,5%  57,5% 

Utilities  30,2%  38,8% 

Altre attività di servizi  20,4%  44,6% 

Media aziende di servizi  20,3%  47,1% 

Media complessiva aziende italiane  39,5%  32,3% 

(3)

[Tabella 2. Fonte: con modifiche da SILVI et al. – Costi e vantaggio competitivo, 2011, pag.130]

                 

 

   

Dato che i costi di approvvigionamento si possono considerare variabili mentre i costi interni si possono ragionevolmente considerare fissi è facilmente intuibile come agendo sui primi si generi un rilevante effetto leverage sulla redditività operativa. Per comprendere chiaramente la portata del fenomeno è sufficiente simulare l’effetto che, a parità di valore della produzione, potrebbe generarsi a seguito di una riduzione dei costi di acquisto (tabella 3). Partendo dal conto economico costruito in precedenza, si vede come una contrazione dell’1% dei costi di acquisto comporti un aumento della redditività operativa del 15,4% e si arriva ad un incremento di quasi l’80% con una riduzione dei costi del 5%.

 

[Tabella 3. Fonte: con modifiche da SILVI et al. – Costi e vantaggio competitivo, 2011, pag.131] 

Variazione dei costi di  acquisto  

Riduzione: 

‐1% 

Riduzione: 

‐3% 

Riduzione: 

‐5% 

Valore della produzione  100,0  100,0  100,0 

Consumi di materie  39,1  38,3  37,5 

Costi per servizi  32,0  31,3  30,7 

Costi di approvvigionamento  71,1  69,6  68,2 

Margine post‐approvvigionamenti  28,9  30,4  31,8 

Personale  17,6  17,6  17,6 

Ammortamenti  4,1  4,1  4,1 

Altri costi operativi  1,9  1,9  1,9 

Costi interni  23,5  23,5  23,5 

ROS  5,4  6,8  8,3 

Delta % ROS  15,4%  46,1%  76,9% 

Questa relazione non può non essere presa in giusta considerazione dal management nella sua attività di gestione e controllo dei costi. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che le voci di costo considerate finora comprendono soltanto i costi diretti

Elemento   Totale 

Valore della Produzione  100,0 

Consumi di materie  39,5 

Costi per servizi  32,3 

Costi di approvvigionamento  71,8 

Margine post approvvigionamenti  28,2 

Personale  17,6 

Ammortamenti  4,1 

Altri costi operativi  1,9 

Costi interni     23,5 

ROS     4,7 

(4)

relativi all’approvvigionamento ma ci sono tutta un’altra serie di costi indirettamente riconducibili al processo che, sebbene di minore entità rispetto ai primi, costituiscono comunque una quota non trascurabile e possono raggiungere dimensioni significative. Si fa riferimento tra gli altri ai costi legati alla selezione dei fornitori, alla ricezione e all’immagazzinaggio delle merci, ai controlli qualità, alla gestione delle non conformità e allo smaltimento rifiuti.

Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è quello della rilevanza patrimoniale e finanziaria delle relazioni di fornitura. In questo caso gli elementi che variano in relazione alla gestione della catena di fornitura sono due: le scorte e i debiti verso fornitori. La differenza tra il valore delle prime e quello dei secondi determina il capitale circolante netto di fornitura il cui ammontare definisce la misura in cui un’azienda finanzia il proprio capitale investito attraverso la gestione dei rapporti di fornitura. Più questo indicatore assume valori elevati più la relazione di fornitura genera fabbisogno di finanziamento per l’azienda, mentre se assume valori negativi significa che l’azienda riesce complessivamente a finanziarsi attraverso la gestione dei rapporti con i propri fornitori. L’entità del finanziamento dipende dalle dimensioni dell’acquistato e dalle dilazioni che si riesce ad ottenere, più è grande il finanziamento ottenuto dai fornitori più l’azienda riuscirà a contenere il suo indebitamento finanziario. Questo aspetto ha un impatto diretto sul conto economico attraverso gli oneri finanziari poiché è chiaro che laddove l’azienda non riesca a sfruttare le dilazioni dei fornitori dovrà aumentare il ricorso al capitale di terzi per finanziarsi spendendo di più in termini di interessi.

Sia dal punto di vista economico che finanziario appare evidente l’importanza che assume la gestione della catena di fornitura e questo rende ancora più difficile comprendere lo scarso interesse dimostrato fin qui dal management accounting rispetto a queste tematiche

4

.

1.1.2 Strumenti di supply chain management

Spesso quando parliamo di approvvigionamento non si fa distinzione con l’attività di acquisto, in realtà dovremmo tenere separati i due momenti in quanto nel primo si prendono le decisioni che definiscono l’assetto strategico dell’attività di acquisto che deve essere coerente con quello dell’azienda nel suo complesso, mentre nel secondo si svolgono le attività operative di acquisizione dei beni sul mercato. Questa separazione è necessaria per assicurare che l’ufficio acquisti sia orientato all’ottenimento del maggior vantaggio per l’azienda senza deviazioni rispetto alle strategie definite a livello di direzione generale. Nella realtà spesso le due funzioni sono incentrate nelle stesse persone e questo può portare a situazioni in cui gli interessi del singolo manager, che possono essere in contrapposizione con quelli aziendali, prevalgono su questi ultimi. E’ il caso in cui siano previsti premi per il       

4

 SILVI et al. – Costi e vantaggio competitivo (2011); Ellram & Siferd, Journal of Business Logistics, 1998. 

(5)

raggiungimento di obiettivi quali il mantenimento dei costi unitari di acquisto al di sotto di quelli previsti a budget: il manager potrebbe infatti acquistare beni ad un prezzo inferiore rispetto a quello previsto accettando un abbassamento del livello qualitativo degli stessi che spesso però comporta costi aggiuntivi per l’azienda (in termini di non conformità produttive, interventi di assistenza in garanzia sui prodotti venduti ecc.) che nel complesso possono superare il risparmio ottenuto acquistando ad un prezzo inferiore. L’obiettivo degli acquisti dovrebbe essere quello di ottenere gli input che soddisfano i requisiti di qualità stabiliti, assicurandone la quantità richiesta nei tempi necessari e ad un giusto prezzo

5

. Secondo questo assunto l’ufficio acquisti può essere visto come l’unità organizzativa deputata a soddisfare le esigenze degli altri reparti aziendali in termini di input, secondo la logica del cliente interno.

Diventa fondamentale da questo punto di vista la comunicazione e la collaborazione tra i vari reparti affinché non si generino attriti interni e i bisogni di ciascuno possano essere espressi in modo rapido ed esaustivo, evitando ripercussioni sui processi produttivi. Il marketing d’acquisto

6

si colloca proprio in questa prospettiva, come strumento per l’analisi dei bisogni del cliente interno al fine di trovare nel mercato di fornitura gli input che meglio soddisfino le sue necessità. Individuare i beni da acquistare richiede però un’analisi approfondita delle criticità degli stessi rispetto alle caratteristiche dell’azienda e alle strategie adottate, per comprendere fino infondo l’importanza di ciascun input e per identificare le leve che ne determinano il comportamento del costo.

Rivolgendo l’analisi verso l’interno, un primo strumento per conoscere il peso di ciascuna tipologia di input acquistato è l’analisi ABC della spesa, ovvero un’applicazione del principio di Pareto secondo cui la componente più grande della spesa è generata da un piccolo gruppo degli input acquistati, mentre la maggioranza degli input nel suo insieme non costituisce che una parte marginale della spesa totale per gli acquisti. Il modello può essere rappresentato come in tabella 4 disponendo le classi di input in ordine decrescente in funzione della loro incidenza sulla spesa totale in modo da avere tre livelli, uno per ciascuna classe di input. La prima classe, contrassegnata con la lettera A, è composta da quella tipologia di beni il cui costo di acquisto costituisce circa l’80% della spesa totale. La seconda classe di input, denominata B, costituisce il successivo 15%, mentre nella terza classe C sono compresi i beni responsabili del restante 5% della spesa. Questa analisi di tipo quantitativo consente di individuare le tipologie di input che hanno un peso maggiore in termini di fatturato d’acquisto e sulle quali il management dovrà adoperarsi per la riduzione dei costi.

      

5

 Leenders et al., 2002 

6

 Per approfondimenti sul tema del marketing d’acquisto si veda STABILINI, Acquistare prodotti e servizi.

Processi, logiche e soluzioni gestionali, Parma, 2005.

 

(6)

10  Tabella 4: Analisi ABC della spesa 

Incidenza % sulla  spesa totale per 

gli acquisti 

Classe di input  

Numerosità degli  input rispetto al 

totale di classe  80% 

A: input di primaria  importanza (80% 

della spesa totale) 

20% 

15% 

B: input  d’importanza  secondaria (15% 

della spesa totale) 

35%  

5% 

C: input d’importanza  marginale (5% della 

spesa totale) 

45%  

Un altro modello per lo studio degli input d’acquisto è la cosiddetta matrice di Kraljic

7

. Si tratta di un’analisi qualitativa che suddivide i beni in quattro categorie in relazione al profit impact (impatto sul profitto) e al supply risk (rischio di fornitura), queste due grandezze sono la risultante della combinazione di una serie di variabili. Il supply risk è determinato dalla complessità del mercato di approvvigionamento e dalla presenza di barriere all’ingresso, dal numero di fornitori alternativi e dal loro potere contrattuale. La variabile del profit impact deriva invece dall’impatto sulla redditività, dal valore aggiunto del bene e dal suo impatto economico. La matrice che otteniamo disponendo sugli assi le due grandezze ci consente di individuare quattro categorie di materiali (Figura 1):

1. Materiali con effetto leva: sono quei materiali che rivestono grande importanza per l’azienda sia in termini di impatto economico sia in termini di valore aggiunto per il cliente, sui quali si può agire per migliorare la posizione di costo. Vi rientrano infatti gli input per i quali esiste un’ampia scelta di fornitori che ci consente di ottenere prezzi e livelli qualitativi vantaggiosi facendo leva sul nostro potere contrattuale e sulla concorrenza tra loro.

2. Materiali Strategici: questi beni come i primi sono caratterizzati da un rilevante impatto economico e sulla percezione del cliente ma al contempo si caratterizzano per un elevato rischio di fornitura e ristretti margini di manovra. Si tratta di input su cui l’azienda fonda il proprio vantaggio competitivo e di cui è di primaria importanza assicurare la fornitura. Data l’esistenza di un numero limitato di fornitori e la mancanza di beni sostituti, l’azienda si trova in una posizione contrattuale svantaggiosa che deve gestire cercando di instaurare rapporti di partnership coi fornitori e adottando strategie di approvvigionamento orientate al medio‐lungo termine in modo da fronteggiare l’incertezza del mercato con la conquista di una posizione stabile e di riferimento per i fornitori.

      

7

 Kralijic, 1983. 

(7)

11 

3. Colli di bottiglia: si tratta di input con un basso impatto economico la cui mancanza però causerebbe l’arresto del processo produttivo con pesanti conseguenze per l’azienda. Questo aspetto se da un lato non determina particolari sforzi di negoziazione sul prezzo, dall’altro comporta la definizione di un’adeguata politica delle scorte, la continua ricerca di nuove fonti di approvvigionamento e la stipula di contratti di fornitura su base annuale.

4. Materiali non critici: in questo caso gli input d’acquisto non determinano né un considerevole impatto sul profitto né sulla creazione di valore per il cliente. Per questo tipo di beni la scelta si basa soltanto sul prezzo poiché esistono numerose alternative e abbondanza di fonti di approvvigionamento. Se volessimo collocarli nell’analisi ABC della spesa vista in precedenza, questi rientrerebbero nella classe C come input che pur costituendo circa l’80% del totale per numerosità, non determinano più del 20% della spesa totale per gli acquisti. La logica da adottare per l’approvvigionamento di questi materiali è quella di rendere il processo di acquisto più snello accorciando i collegamenti tra le attività per limitare al minimo il dispendio di risorse.

[Figura 1. Fonte: KRALJIC, P., 1983. Purchasing must become supply management. “Harvard  Business Review”, n.61, settembre – ottobre, pp. 109 – 117] 

 

1.1.3 Strategie di acquisto e vantaggio competitivo

Nella sua accezione più ampia l’ambiente in cui un’impresa opera coinvolge molti attori e comprende forze sia di tipo economico che sociale, ma dal punto di vista competitivo l’aspetto più rilevante dell’ambiente è dato dal settore di riferimento e dal suo stato della concorrenza. I fattori fondamentali della concorrenza all’interno di un settore ne determinano il potenziale in termini di profitto, inteso come remunerazione a lungo termine del capitale investito, e secondo il noto modello di Porter

8

sono cinque e corrispondono alla minaccia di nuovi entranti, alla minaccia dovuta alla presenza di prodotti sostituti, al potere contrattuale dei clienti ed al potere contrattuale dei fornitori (Figura 2).

      

8

 Porter, Competitive strategy – Techniques for analysing industries and competitors, 1980.

 

Alta

Materiali con  effetto leva

Materiali  strategici

Bassa

Materiali non  critici

Materiali collo  di bottiglia

Bassa Alta

Profit  Impact

Supply risk

(8)

12 

   

Figura 2.   I fattori fondamentali della concorrenza   

Una volta che si conosce la struttura del settore ed il suo stato della concorrenza, l’impresa deve trovare al suo interno una posizione che le consenta di difendersi dalle iniziative della concorrenza o di influenzarle a proprio vantaggio attraverso la definizione e l’implementazione di una strategia competitiva adeguata. Porter individua tre strategie competitive di base per il perseguimento del vantaggio competitivo: leadership di costo, differenziazione e focalizzazione. L’impresa deciderà di adottare una delle tre strategie per competere con la concorrenza senza rimanere

“bloccata a metà del guado” ma il suo vantaggio competitivo si dovrà fondare anche su ulteriori decisioni di tipo strategico che riguardano il rapporto con le singole forze strutturali del settore. Rientrano fra queste le decisioni relative alle strategie di acquisto che riguardano appunto il posizionamento dell’impresa rispetto ai propri fornitori. Gli elementi principali di cui secondo Porter si deve tener conto nella formulazione di una strategia di acquisto sono i seguenti:

‐ Stabilità e competitività del parco fornitori

‐ Livello ottimale di integrazione verticale

‐ Assegnazione degli ordini a fornitori qualificati

‐ Creazione di posizioni di forza nei confronti dei fornitori scelti

Acquistare da fornitori competitivi consentirà di non subire sbalzi e variazioni nei

prezzi e nel livello qualitativo delle forniture. La scelta di un livello di integrazione è

importante per l’effetto che può avere sul potere contrattuale dei fornitori, mentre

l’assegnazione degli ordini a fornitori qualificati e la creazione di posizioni di forza

(9)

13 

dipendono in gran parte dalla struttura del settore. Le condizioni che determinano il potere del fornitore sono molteplici:

a. Concentrazione dei fornitori.

b. Grado di indipendenza del cliente nel realizzare una parte significativa delle vendite.

c. Costi di spostamento per il cliente.

d. Unicità o differenziazione del prodotto (con poche fonti alternative).

e. Minaccia di integrazione a valle da parte del fornitore.

f. Impossibilità del cliente di realizzare un’integrazione a monte.

g. Costi elevati per il cliente nella raccolta di informazioni, negli acquisti, nella negoziazione.

La strategia di acquisto avrà come obiettivo quello di abbassare i costi di acquisto di lungo periodo attraverso la ricerca dei meccanismi che consentano di ridurre il potere contrattuale del fornitore. Riportiamo di seguito alcune delle principali strategie di acquisto

9

in linea con questo obiettivo:

1) Frazionamento degli acquisti: Suddividere gli acquisti tra fornitori alternativi consente all’impresa di accrescere il proprio potere contrattuale sfruttando la competizione tra gli stessi. E’ importante che la quota assegnata ad ogni fornitore risulti abbastanza grande da fare in modo che questi abbia il timore di perderla ma allo stesso tempo non così grande da fargli credere che possa esercitare un certo controllo sulla nostra azienda.

2) Evitare i costi di conversione: Consiste nel non diventare troppo dipendenti da un unico fornitore in modo che un’eventuale passaggio ad altre fonti non comporti costi eccessivi per l’impresa. Questo si traduce per esempio nell’evitare quei prodotti che richiedono uno specifico addestramento dei dipendenti o investimenti dovuti a uno specifico fornitore.

3) Aiutare lo sviluppo di fornitori alternativi: Aiutare altri fornitori ad entrare nel settore attraverso l’assegnazione di piccole quote di fornitura assicura il mantenimento del giusto livello concorrenziale ed evita l’affermarsi di posizioni dominanti.

4) Promuovere la standardizzazione: La standardizzazione degli input di fornitura aiuta a ridurre la differenziazione dei prodotti offerti dai fornitori e riduce le barriere dovute ai costi di conversione.

5) Creare una minaccia di integrazione verticale a monte: Laddove si riesca ad esercitare una minaccia credibile, indipendentemente dalle reali intenzioni, si       

9

 Porter, 1980.

 

(10)

14 

rafforzerà il proprio potere contrattuale. Si può ottenere questo effetto, per esempio, lasciando trapelare all’esterno informazioni sull’esistenza di studi di fattibilità interni.

6) L’integrazione parziale: Se le condizioni lo consentono, un’integrazione anche parziale a monte sarà motivo di vantaggio per le ragioni appena viste.

In azienda qualsiasi attività generatrice di valore impiega input di qualche genere, basti pensare ai servizi di consulenza di cui si avvalgono gli uffici amministrativi, alle materie prime impiegate nel processo produttivo, all’energia elettrica necessaria per l’illuminazione degli edifici. E’ facilmente intuibile come l’approvvigionamento rivesta un’importanza strategica per l’azienda, tanto più se pensiamo ad imprese industriali nelle quali il costo degli input acquistati ed in particolare delle materie prime è una percentuale molto grande del valore aziendale complessivo.

Normalmente i costi vengono analizzati nell’ambito dell’attività nella quale si manifestano ma un’analisi isolata del costo degli input acquistati consente di pervenire a ulteriori conoscenze e di mettere in luce aspetti che altrimenti potrebbero rimanere nascosti. Porter (1985) afferma che il costo degli input acquistati è funzione di tre fattori

10

:

1) il costo unitario 2) il tasso di utilizzazione

3) gli effetti indiretti sulle attività collegate

Con questa distinzione mette in evidenza un aspetto che spesso viene trascurato dalle imprese, ovvero gli effetti che l’acquisto di determinati input può avere sulle altre attività attraverso i collegamenti. Tradizionalmente gli interventi per la riduzione dei costi di acquisto passano dalla ricerca della massima efficienza nell’impiego e dal miglioramento dell’efficacia nella contrattazione sui prezzi di acquisto. Questo approccio non prende in giusta considerazione gli effetti indiretti che gli acquisti hanno sulle altre attività e non di rado può accadere che tali effetti erodano una parte considerevole del vantaggio ottenuto lavorando sul prezzo e sull’efficienza. Il percorso corretto sarebbe quello di ricercare il minor costo di acquisto solamente dopo aver scelto la tipologia e la qualità degli input da acquistare, le attività produttive possono infatti essere semplificate notevolmente attraverso l’impiego di una materia prima di maggior qualità, di conseguenza spendendo di più nell’acquisto è possibile diminuire il costo totale sostenuto dall’azienda. In questa prospettiva per ridurre i costi si possono adottare misure di vario genere come ad esempio definire con precisione le specifiche degli input acquistati di modo che soddisfino ma non superino le esigenze dell’azienda oppure accrescere il proprio potere negoziale per mezzo delle politiche di acquisto. Tra le varie iniziative da porre in essere si può cercare un numero di fornitori tale da assicurare la concorrenza ma allo stesso tempo essere un cliente importante per ciascuno, scegliere fornitori che siano in       

10

 Porter, Competitive Advantage. Creating and sustaining superior performance, 1985.

 

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15 

competizione diretta e dividere tra loro gli acquisti, stipulare contratti annuali con consegne più grandi a cadenze prestabilite per ottenere vantaggi di scala, ricercare occasionalmente proposte da nuovi fornitori per conoscere i cambiamenti nel mercato e cogliere nuove opportunità, investire in informazioni per conoscere la dinamica dei costi propri e quella dei fornitori.

Costruire un vantaggio competitivo basato sul costo degli acquisti, come qualsiasi altra forma di vantaggio di costo

11

, si può fare attraverso due modalità:

‐ Riconfigurando la catena del valore: In modo che l’organizzazione delle attività risulti più efficiente e consenta di conseguire minori costi rispetto alla concorrenza.

‐ Controllando le determinanti di costo: Avere il controllo delle leve che determinano il costo degli input consente di sfruttarle a proprio vantaggio per conquistare una posizione competitiva più difficile da attaccare.

In questo lavoro ci soffermeremo sulla seconda modalità studiando le cause che determinano il costo degli acquisti e le regole che ne definiscono il comportamento, per capire su quali si può intervenire esercitando il controllo e in che misura.

1.2 L’analisi delle determinanti di costo delle materie prime

1.2.1 Il concetto di determinante di costo o cost driver

Il passo successivo all’individuazione degli input di acquisto che rivestono un ruolo strategico per l’azienda è quello di studiarne il costo. Un’analisi approfondita dei costi di un certo oggetto non può prescindere dallo studio delle cause alla base dell’insorgenza del costo stesso, che equivale a dare una risposta a domande del tipo:

perché il costo dell’oggetto varia? Che impatto ha sul costo una variazione della tecnologia utilizzata? Cosa succede se acquistiamo una quantità più grande? A queste e a molte altre domande si può rispondere attraverso la cost driver analysis, cioè l’analisi delle determinanti dei costi. I cost driver possono essere definiti come

“qualsiasi evento (incluso lo svolgimento di attività) che influenza l’entità di un costo, sia esso il costo totale sostenuto dall’azienda oppure il costo di altri oggetti come, ad esempio, un’area strategica d’affari, una linea di prodotto, un’unità organizzativa, il servizio destinato ad uno specifico cliente e così via”

12

. Questi eventi sono il frutto di decisioni prese nel corso del tempo e all’interno di unità organizzative che spesso sono differenti da quelle in cui si ha la manifestazione economica del costo. Lo studio dei cost driver può avere diverse finalità

13

:

‐ Imputare i costi agli oggetto di costo: in questo caso i cost driver sono i parametri adottati nei sistemi di cost accounting per allocare i costi al cost object, il caso classico è quello del volume di produzione.

      

11

 Porter, 1985.  

12

 Definizione tratta da: R. Giannetti, La riduzione strategica dei costi – La gestione dei cost driver per business model economicamente sostenibili, Torino, 2013.

 

13

 Giannetti, op. cit, 2013.

 

(12)

16 

‐ Esprimere giudizi sul grado di efficienza: si possono utilizzare i cost driver anche per individuare le variabili critiche al fine del raggiungimento di un maggior livello di efficienza ed esprimere giudizi al riguardo.

‐ Motivare e valutare il personale: in certi casi la misurazione dei cost driver risulta agevole e poco dispendiosa in termini di risorse, in tali circostanze possono essere utilizzati per misurare i risultati del personale e correggere eventuali deviazioni rispetto agli obiettivi prefissati.

‐ Favorire l’apprendimento organizzativo e l’innovazione: l’analisi dei cost driver può mettere in luce aspetti dei costi di cui il management non era a conoscenza, innescando processi di apprendimento e di miglioramento attraverso l’innovazione.

‐ Supportare la gestione strategica: studiare i cost driver consente una comprensione approfondita delle cause dei costi e fornisce un’informazione fondamentale per la formulazione delle strategie. Si pensi per esempio all’impatto che può avere la conoscenza del comportamento dei costi di produzione rispetto al fattore scala sulle strategie di crescita ed espansione dell’azienda (tramite fusioni, acquisizioni ecc…).

Ai fini del nostro lavoro non considereremo i cost driver dal punto di vista dell’impiego che ne viene fatto nei sistemi di cost accounting per l’imputazione dei costi agli oggetti di costo, ci soffermeremo piuttosto su un’analisi di tipo strategico volta ad identificare le cause ultime dei costi e a capire quali sono le leve su cui si può agire per ridurli. Si intende infatti evidenziare gli effetti che certe scelte possono avere sui costi delle attività aziendali collegate, come ad esempio gli effetti che la scelta del livello qualitativo delle materie prime da acquistare può avere in termini di costo sul processo di trasformazione, sulla manutenzione degli impianti, sullo smaltimento dei rifiuti e sulla gestione delle contestazioni e dei resi.

1.2.2 Le principali classificazioni

Prima di procedere con lo studio delle determinanti del costo degli input d’acquisto ed analizzare un possibile modello per il controllo delle stesse è però opportuno effettuare un confronto delle principali classificazioni dei cost driver che la letteratura ci offre, questo per avere una piena comprensione del loro funzionamento e delle modalità con cui deve essere affrontata l’analisi. Innanzitutto si deve precisare che lo studio dei cost driver può essere incentrato sulle attività e, congiuntamente ma non alternativamente, su specifici oggetti di costo come un fattore produttivo, un prodotto o un servizio (Silvi, 2011). Relativamente ai cost driver di attività è possibile pervenire ad una sintesi delle principali proposte di classificazione guardando ai contributi di autorevoli studiosi come Porter (1985), Riley (1987) i cui risultati sono stati ripresi da Shank e Govindarajan (1996) ed infine Kaplan e Cooper (1998)

14

.

      

14

 Giannetti, op. cit, 2013.

 

(13)

17  Porter (1985) 

Riley (1987)/       

Shank‐Govindarajan  (1996) 

Kaplan‐Cooper  (1998)  Economie o 

diseconomie di  scala 

Cost driver strutturali  Livelli dei cost  driver riguardanti le  attività di 

produzione della  catena del valore  Utilizzazione 

della capacità  produttiva 

Dimensione  Unità 

Collegamenti (tra  le attività 

all'interno della  catena del valore  e verticali nella  catena del valore  estesa) 

Grado di integrazione  verticale 

Lotto 

Apprendimento  e sue ricadute 

Esperienza  Prodotto 

Interrelazioni tra  le unità di  business 

Tecnologia  Stabilimento 

Integrazione  verticale 

Complessità della  gamma di 

prodotti/servizi    

Fattore tempo 

  

Livelli dei cost  driver riguardanti il  resto della catena  del valore 

Politiche 

discrezionali  Cost driver operativi  Cliente 

Localizzazione 

geografica  Coinvolgimento della 

forza lavoro 

Linea di prodotto  Fattori 

istituzionali 

Gestione della qualità 

totale  Marca 

  

Utilizzo della capacità  produttiva 

Canale distributivo 

  

Efficienza nella  disposizione degli  impianti 

Localizzazione 

  

Configurazione del 

prodotto  Corporate 

  

Sfruttamento dei  collegamenti con i  fornitori e/o i clienti  lungo la catena del  valore dell'azienda 

Livelli della catena  del valore estesa: 

fornitore 

[Tabella 5. Fonte: Giannetti, La riduzione strategica dei costi, 2013] 

(14)

18 

Come si può vedere dalla tabella 5 Porter propone una classificazione che, basandosi sulle attività della catena del valore, individua i cost driver da cui dipende i vantaggio di costo. Questo tipo di vantaggio può essere conseguito, come abbiamo già visto, controllando i cost driver oppure riconfigurando la catena del valore. La prima modalità concerne appunto il controllo delle variabili da cui dipendono i costi, in quanto più riusciamo a influenzarle più saremo in grado di modificare la nostra posizione di costo, la seconda attiene invece alla modifica della catena delle attività per ottenere configurazioni che consentano di raggiungere livelli di efficienza più elevati nella progettazione, produzione e distribuzione di un prodotto/servizio. Le due strade che conducono al conseguimento del vantaggio di costo non si escludono a vicenda poiché sebbene il maggior controllo dei cost driver rispetto ai competitor possa aversi soltanto sulle stesse attività, anche nel caso di una catena del valore configurata in modo del tutto diverso ci saranno sempre attività in comune ed in ogni caso rimane fondamentale per migliorare la propria posizione di costo conoscere i cost driver di tutte le attività, anche di quelle svolte in via esclusiva. Rispetto alle altre classificazioni quella di Porter risulta la più ampia in quanto non comprende soltanto cost driver interni ma anche esterni come i fattori istituzionali (normative statali, regolamentazioni, tariffe imposte ecc…), su cui l’azienda non può esercitare il controllo.

Shank e Govindarajan adottano invece una classificazione proposta da Riley (1987) che suddivide i cost driver in due grandi raggruppamenti: quelli strutturali che sono riconducibili alle scelte di fondo e alla struttura economica di base dell’azienda influenzando i costi aziendali nel suo insieme; quelli operativi (o esecutivi) che influiscono sullo svolgimento delle attività operative determinando la capacità dell’azienda di operare con successo e di ridurre i costi. L’andamento dei cost driver strutturali non determina necessariamente un comportamento univoco dei costi connessi, può succedere ad esempio che al crescere della variabile volume di produzione corrisponda una riduzione dei costi fino ad un certo livello, oltre il quale i costi cominciano ad aumentare e si manifestano diseconomie di scala, evento questo che difficilmente riguarda i cost driver operativi. Un aspetto interessante è che i due autori sottolineano che l’elenco dei cost driver operativi proposto è un elenco aperto, suscettibile quindi di essere ampliato con ulteriori elementi

15

. Kaplan e Cooper propongono invece una classificazione nell’ottica di individuare driver di costo che meglio rispondono al criterio di allocazione dei costi indiretti rispetto al driver volume di produzione che non sempre è in grado di rispondere significativamente al criterio funzionale‐causale. Secondo i due autori i parametri utilizzati per l’attribuzione dei costi delle risorse alle attività, detti resource driver, si distinguono dagli activity driver successivamente utilizzati per l’attribuzione degli stessi agli oggetti di costo. La classificazione proposta è quindi in grado di fornire informazioni di costi più accurate per la gestione delle attività, le quali vengono suddivise

      

15

 Per approfondimenti: J.K. Shank, V. Govindarajan, Strategic cost management: The new tool for

competitive advantage, 1993. 

(15)

19 

gerarchicamente e i costi di quelle che si trovano a livelli più elevati sono comuni agli oggetti di costo collocati a livelli inferiori

16

.

1.2.3 Un modello per il controllo

Nella classificazione proposta da Porter non figurano i costi degli input acquistati all’esterno sebbene insieme agli altri costi operativi e all’attivo patrimoniale contribuiscano alla formazione del costo complessivo delle attività generatrici di valore. Come già anticipato nel paragrafo 1.1.3, Porter afferma che il costo dei fattori produttivi dipende oltre al prezzo di acquisto anche dall’efficienza di impiego e dagli effetti indiretti sulle attività collegate, sottolineando l’importanza di considerare oltre al costo di acquisto anche i costi “nascosti” che i fattori possono generare. Tuttavia i cost driver individuati per le attività sono i medesimi cui è soggetto il costo unitario delle materie prime e costituiscono le leve su cui l’azienda può agire per ridurlo, nell’ambito della struttura del settore in cui l’azienda opera. Il margine dei fornitori all’interno del settore è determinato dal rapporto strutturale di negoziazione, quindi se su alcuni input l’azienda dovrà sostenere costi più elevati per ragioni strutturali, su altri riuscirà ad acquistare a prezzi più bassi per mezzo del controllo delle determinanti di costo, per questo è importante il ruolo delle politiche di acquisto al fine di rafforzare i collegamenti con i fornitori e aumentare il potere contrattuale dell’azienda. Porter fornisce un’elencazione di alcune determinanti che hanno effetti simili sul costo di molti input (tabella 6), il cui controllo influenza il costo unitario di acquisto degli input di una certa qualità

17

.

Tabella 6. Determinanti di costo unitario degli input acquistati 

 

 

Determinante di  costo 

Determinante di       costo applicata 

all'approvvigionamento 

  Descrizione 

Economie di  scala 

Dimensione degli acquisti  Il volume degli acquisti  fatti con un dato fornitore  influenza il potere 

negoziale 

Collegamenti  Collegamenti con i 

fornitori 

Il coordinamento con i  fornitori in merito a  specifiche, consegne e  altre attività può diminuire  i costi totali 

Interrelazioni  Acquisti condivisi con  altre unità di business 

Combinare gli acquisti con  unità di business 

consorelle può migliorare il  potere contrattuale presso  i fornitori 

      

16

 R.S. Kaplan, R. Cooper, 1998. 

17

 Porter, op. cit, 1985. 

(16)

20 

Integrazione  Produrre invece che 

acquistare 

L'integrazione può far  salire o scendere il costo di  un input 

Fattore tempo  Storia dei rapporti col  fornitore 

Una storia di rapporti  positivi o problematici con  i fornitori può influenzare i  costi degli input, l'accesso  agli input nei periodi di  scarsità e il servizio  assicurato dai fornitori  Politiche 

aziendali 

Pratiche di acquisto  Le pratiche di acquisto  possono migliorare 

significativamente il potere  negoziale presso i fornitori  e la disponibilità dei  fornitori ad offrire servizi  extra, per esempio:  

 ‐ scelta del numero e del  mix dei fornitori 

‐ procedure di copertura 

‐ investimenti in  informazioni sui costi e  disponibilità dei fornitori 

‐ contratti annuali al posto  di singoli acquisti 

‐ utilizzazione di sotto‐

prodotti  Collocazione 

geografica 

Collocazione geografica  dei fornitori 

La collocazione geografica  dei fornitori può influire  sul costo degli input per via  dei costi di trasporto e  della facilità di 

comunicazione  Fattori 

istituzionali 

Vincoli del governo e dei  sindacati 

La politica del governo può  limitare l'accesso agli input  o influire sul loro costo  mediante dazi, imposte e  altri mezzi. I sindacati  possono influenzare la  possibilità di rifornirsi  all'esterno o la possibilità  di usare fornitori che non  applicano il contratto  sindacale 

Con questo elenco Porter fornisce un primo strumento utile per l’analisi del costo

degli input acquistati che si colloca in una prospettiva di cost driver analysis di tipo

strategico, il cui scopo è quello di indagare le cause all’origine dei costi e del

differenziale di questi ultimi rispetto a concorrenza e best practice. Questo primo

elenco di leve su cui esercitare il controllo può essere integrato con un altro modello

che adotta una logica di tipo drill down per scomporre selettivamente il costo di

(17)

21 

un’attività in parti rilevanti dal punto di vista gestionale (tabella 7). In questo modo è possibile evidenziare come la struttura dei costi di uno specifico oggetto di analisi dipende da una molteplicità di determinanti ed è in parte la conseguenza del funzionamento delle unità organizzative più a monte o più a valle

18

.

1.3 L’analisi dei componenti di costo rilevanti

1.3.1 Il costo totale delle materie prime

Abbiamo visto come il costo delle materie prime sia determinato dal prezzo unitario di acquisto, dal livello di efficienza d’impiego e dagli effetti indiretti sulle attività collegate. Partendo da questo assunto appare evidente che per valutare gli effetti indiretti si debba tenere conto dei costi che le materie prime generano una volta entrate in azienda, sia per la parte direttamente assorbita dal processo produttivo sia per la parte che transita dal magazzino sotto forma di scorte. La prima determinerà costi sulle attività produttive e sulle altre attività collegate come la pulizia e manutenzione degli impianti, le attività di controllo qualità dei prodotti, la gestione delle non conformità e delle contestazioni, lo smaltimento dei rifiuti. La seconda invece riguarderà i costi collegati alla gestione delle scorte che in prima approssimazione sono tutti quelli che riguardano il mantenimento delle stesse in magazzino e la gestione delle mancanze.

Il costo totale delle scorte viene tradizionalmente utilizzato come informazione su cui basare le scelte di quanto e quando acquistare. Per un’analisi significativa che consenta comparazioni tra materie e tra fornitori, si guarda in particolare a quelle voci di costo che possono registrare variazioni in relazione alle decisioni da adottare       

18

 Classificazione tratta da: Silvi et al., op. cit, 2011. 

Oggetto di costo Drill down Tecnologia Localizzazione Dimensioni Processo di  trasformazione

Dinamiche 

Congiunturali Competenze Materie prime

Materia A X

Materia B X X

Materia C X X

Lavorazioni esterne

Lavorazione X X X

Lavorazione Y X X

Lavorazione Z X

Servizi

Servizio K

Servizio N X X

Servizio L X

Utilities

Energia elettrica X

Telefonia X

Connessione X

Altro X

Tabella 6. Esempio di mappatura dei cost driver  di approvvigionamento.

[Tabella 7. Esempio di mappatura dei cost driver di approvvigionamento]  

(18)

22 

(approccio differenziale), e a questo scopo le informazioni di tipo contabile non sono sufficienti e devono essere integrate con analisi di tipo extra‐contabile.

Tendenzialmente si considerano tre macro‐categorie di costo per definire il costo totale delle scorte

19

, le quali a loro volta sono composte da una serie di voci di costo rilevanti (Figura 2). Nei prossimi paragrafi analizzeremo i costi che fano parte di ciascuna delle tre macro‐categorie, esse sono:

‐ Costi di ordinazione

‐ Costi di mantenimento

‐ Costi di deficit  

Figura 2. I costi rilevanti per la gestione delle scorte   

                               

      

19

 Classificazione tratta da G. Mariani, Politiche di capitale circolante e gestione economico‐finanziaria d’impresa, 2007. 

COSTO  TOTALE 

Costi di  ordinazione 

Costi di acquisto

Costi di approvvigionamento 

Costi di  mantenimento 

Costi di deficit

Costi  espliciti 

Costi  impliciti 

Costo del capitale  investito 

 Spazi 

 Gestione 

 Attrezzi e strumenti 

 Personale 

 Assicurazione 

 Obsolescenza 

(19)

23  1.3.2 I costi di ordinazione

I costi di ordinazione sono quelli che l’azienda sostiene per la ricostituzione delle giacenze e sono proporzionali alla frequenza delle ordinazioni, al loro interno si collocano i costi di acquisto e quelli di approvvigionamento.

‐ I costi di acquisto sono la componente di maggior rilevanza, sono i costi variabili per eccellenza che variano in funzione della quantità acquistata, identificabili nel prezzo d’acquisto e sono direttamente imputabili alla singola materia prima, per questo non li prenderemo in considerazione in questa fase dato che vogliamo concentrarci sui costi che fanno capo agli effetti indiretti generati dalle materie acquistate.

‐ I costi di approvvigionamento sono invece costituiti da una componente di natura fissa e da una variabile in funzione della dimensione dell’ordine. La componente variabile è rappresentata in via principale dai costi di trasporto che sono direttamente imputabili alla materia prima acquistata e per le ragioni viste sopra li tralasceremo. Per quanto riguarda la componente fissa è opportuno precisare che si tratta di costi che possono considerarsi fissi rispetto alla dimensione dell’ordine soltanto nel breve periodo ed entro i limiti della possibilità di intensificare l’impiego delle risorse coinvolte poiché raggiunto il limite massimo di sfruttamento si dovrà necessariamente investire in un aumento di capacità

20

. Tale componente è rappresentata da una serie di voci di costo la cui manifestazione si ha sulle attività collegate come ad esempio

21

:

‐ I costi sostenuti per le ricerche di mercato e per la selezione del fornitore

‐ I costi relativi alla negoziazione

‐ I costi di formulazione ed emissione dell’ordine

‐ I costi per le attività di expediting (monitoraggio stato dell’ordine)

‐ I costi legati alle attività di controllo qualità in ingresso

‐ I costi di scarico dei mezzi e di immagazzinaggio delle merci

‐ I costi amministrativi legati alle attività di contabilizzazione delle fatture

Rientrano quindi in questa prima categoria tutti i costi diretti ed indiretti che l’azienda deve sostenere dovuti alla decisione di acquisto di un determinato lotto di input e alla sua ricezione fisica negli spazi aziendali. Dal momento dell’immagazzinaggio in poi i costi generati dagli input rientrano in un’altra categoria.

1.3.3 I costi di mantenimento

Una volta immagazzinati gli input continuano a comportare costi per l’azienda; tutti i costi relativi alla conservazione della merce in magazzino sono riconducibili alla categoria dei costi di mantenimento. Si tratta per lo più di costi “nascosti” ma è facile intuire come gli spazi occupati dalle materie prime, le rimovimentazioni, gli eventuali

      

20

Miolo Vitali P., Strumenti per l’analisi dei costi Vol. II, Approfondimenti di cost accounting, 2009, Giappichelli.

21

Mariani G., 2007.

(20)

24 

trattamenti per il mantenimento delle condizioni fisico‐tecniche siano tutti aspetti che per l’azienda si traducono in maggiori costi.

All’interno di questa categoria possiamo distinguere due raggruppamenti di costi: i costi espliciti ed i costi impliciti. Nei primi rientrano i costi collegati ai seguenti elementi:

‐ La stipula di contratti assicurativi sul magazzino

‐ Le attività di mantenimento (comprensive delle quote di ammortamento delle attrezzature a disposizione del magazzino)

‐ Il personale impiegato nella gestione del magazzino

‐ L’affitto o gli ammortamenti sui locali adibiti a magazzino

‐ Il rischio di obsolescenza

Tutte queste componenti di costo sono spesso considerate proporzionali rispetto alle quantità di beni detenuti ma per essere precisi una parte di esse segue un andamento a scatti rispetto alla crescita dei volumi acquistati. Si tratta ad esempio delle retribuzioni del personale impiegato e del canone di affitto del magazzino i quali restano costanti fino ad una certa crescita delle quantità acquistate oltre la quale si renderà necessario un adeguamento dimensionale come ad esempio prendere in affitto un nuovo fondo da adibire a magazzino e aumentare il numero del personale addetto. A seguito di questa operazione e del conseguente incremento dei costi, questi ultimi resteranno costanti fino a che non ci sarà la necessità di un ulteriore adeguamento dimensionale. Altre componenti sono invece proporzionalmente collegate al valore di ciò che viene investito in scorta, come ad esempio i costi assicurativi (che possono anche essere collegati ai volumi) e i costi connessi al rischio di obsolescenza. Per quanto riguarda il rischio di obsolescenza si tratta del processo di deprezzamento cui sono sottoposti i beni in attesa di impiego a causa del naturale processo di invecchiamento e deterioramento (naturale e/o economico). I costi di obsolescenza sono generalmente considerati proporzionali rispetto al valore della merce ed al tempo di giacenza.

Relativamente ai costi impliciti di mantenimento si fa riferimento ad un’altra componente di costo nascosta ma non meno rilevante, ovvero il costo del capitale investito sotto forma di scorte. Questo costo è la risultante di tre fattori

22

: il valore della singola unità a magazzino in termini di capitale assorbito, il tempo di permanenza della stessa in magazzino ed il tasso di interesse. Per quanto riguarda il tasso di interesse si pone il problema di definire se l’investimento in scorte debba essere considerato un investimento a breve termine e con basso rischio o se abbia natura permanente. Se accettiamo la prima ipotesi possiamo valorizzare il costo implicito dell’investimento in scorte attraverso un tasso negoziabile per l’indebitamento finanziario a breve termine, se invece attribuiamo natura permanente all’investimento in scorte si dovrà utilizzare il costo medio ponderato del capitale (WACC) così da tener conto sia del costo delle fonti a breve che a medio‐

      

22

 G. Mariani, op. cit., 2007. 

(21)

25 

lungo nonché del profilo di rischio dell’azienda. Tuttavia alcuni studiosi

23

ritengono che il capitale vincolato in scorte debba essere considerato una mancata opportunità di realizzare redditi aggiuntivi tramite investimenti alternativi di natura finanziaria o caratteristica. Nel primo caso il costo opportunità potrebbe essere assimilato al tasso free risk di titoli facilmente negoziabili (come i titoli di stato), nel secondo caso invece potrebbe essere valorizzato attraverso il ROI aziendale dato che l’impresa potrebbe utilizzare le risorse investite in scorte in attività caratteristiche

24

. Quest’ultima ipotesi però si potrebbe adottare solo nei casi in cui l’azienda stia conseguendo risultati operativi molto positivi e contestualmente sia caratterizzata da un indebitamento finanziario contenuto

25

. Per quanto riguarda invece l’ipotesi di utilizzo del tasso free risk per esprimere il costo opportunità bisogna precisare che si tratta di una configurazione poco espressiva del contesto aziendale sia perché riguarda un investimento di diversa natura (finanziario) rispetto a quello in scorte (gestionale) e quindi con un diverso profilo di rischio sia perché il tasso free risk non è per niente rappresentativo delle specificità dell’impresa

26

. La scelta del parametro più opportuno dipenderà dal tipo di problematiche gestionali dell’impresa e dalla sua struttura finanziaria, poiché più il peso dell’indebitamento finanziario sarà grande più sarà opportuno ricorrere a configurazioni di costo che tengano conto del profilo di rischio dell’azienda.

1.3.4 Il calcolo del costo del capitale investito

Come visto nel paragrafo precedente diverse sono le configurazioni di costo utilizzabili per la valorizzazione del costo implicito del capitale investito in scorte.

Tuttavia il metodo che risulta generalmente più utilizzato è quello del calcolo del costo medio ponderato del capitale che tiene conto del profilo di rischio aziendale considerando sia il costo delle fonti di terzi sia il costo dei mezzi propri. In questo paragrafo vedremo qual è il procedimento per calcolarlo e affronteremo le maggiori criticità che si possono riscontrare.

La stima dei tassi di capitalizzazione e di attualizzazione nell’ambito della valutazione d’azienda può utilizzare due differenti approcci: l’equity side e l’asset side. Il primo approccio si basa sui flussi al netto della gestione finanziaria ed utilizza il costo del capitale di proprietà come tasso da applicare. L’asset side invece si basa sui flussi lordi (sia reddituali che finanziari) ed impiega il costo medio ponderato del capitale o Weighted Average Cost of Capital (d’ora in poi WACC) inteso come il costo che l’azienda deve sostenere per raccogliere risorse finanziarie sia dai soci che dai terzi

      

23

Magee J. F., Boodman D. M., Programmazione della produzione e controllo delle scorte, Franco Angeli, Milano, 1992; Van Horne J. C., Teoria e tecnica della finanza d’impresa, Il mulino, Bologna, 1984.

24

Pivato G., Le scorte di esercizio nelle imprese industriali e mercantili, Como, 1942.

25

G. Mariani, 2007.

26

In merito alla caratteristiche dell’ipotesi alternativa da considerare per valorizzare il costo opportunità, R.A. Brealey in Principi di finanza aziendale (2003) afferma che questa dovrebbe avere le stesse

caratteristiche del progetto reale e che non è del tutto corretto porre a confronto investimenti di natura

eterogenea (finanziaria e gestionale).

(22)

26 

finanziatori

27

. Il WACC si calcola facendo la media ponderata tra il costo del capitale di proprietà e quello del debito pesati in base ad un rapporto calcolato sul leverage.

Gli elementi che compongono la formula per il calcolo del WACC sono il costo del capitale di proprietà, il costo del capitale di debito, il tax rate, il rapporto tra il debito e il totale delle fonti di finanziamento ed il rapporto tra il capitale proprio e il totale delle fonti. A sua volta il costo del capitale di proprietà dipende dal tasso free risk, dal Beta e dall’Equity Risk Premium. Partendo dalla formula [1] per il calcolo del WACC analizzeremo sinteticamente tutte le variabili enunciate con particolare riguardo a quelle più difficili da determinare:

1 ∗E/ D E ∗ 1 ∗D/ D E

Dove:

Ke = Tasso espressivo del costo del capitale proprio E = Capitale di proprietà a valore di mercato (Equity) D = Debiti finanziari a valore di mercato

Kd =Tasso espressivo del costo lordo del debito t = aliquota delle imposte sul reddito

 

Come emerge chiaramente dalla formula si pone da subito un problema di omogeneità perché il costo del capitale di terzi è deducibile dal punto di vista fiscale mentre il costo del capitale proprio non lo è. Il costo del debito può quindi essere espresso al lordo o al netto del risparmio di imposta conseguibile a seguito dello scudo fiscale. Per rendere le due grandezze omogenee nella formula si impiega il costo netto del debito che sarà inferiore in quanto ottenuto moltiplicando il costo lordo per il fattore (1‐t), dove t è l’aliquota di imposta (nel nostro paese è l’aliquota IRES).

Oltre a queste due componenti, alla formula prendono parte anche i pesi delle fonti di finanziamento, quindi della struttura finanziaria dell’impresa detta anche leverage. I tassi Ke e Kd concorrono alla formazione del costo medio ponderato del capitale in relazione al peso assunto dalla fonte di finanziamento cui sono riferiti sull’intero ammontare delle fonti. L’elemento critico da questo punto di vista è dovuto al fatto che le due variabili utilizzate per il calcolo dei pesi, cioè l’Equity e i debiti finanziari, devono essere stimate al loro valore di mercato e non a quello di libro, questo perché il WACC serve per fare una stima prospettica di un’azienda (o di un determinato asset) e per conoscerne il valore di mercato che sarà superiore al valore desumibile dai dati contabili. Per quanto riguarda la determinazione del valore di mercato del capitale di debito non si riscontrano particolari difficoltà, soprattutto nel caso in cui ci       

27

 Per approfondimenti sul tema del WACC si veda: R.A. Brealey, Principi di finanza aziendale, 2003; S.

Ross et al., Finanza aziendale, Mc Graw‐Hill, 2012. 

(23)

27 

siano titoli negoziati di recente. Il problema si ha nel momento in cui si decide di determinare il valore di mercato del capitale proprio dato che per ottenere questo valore avremmo bisogno di conoscere il WACC, ma il costo medio ponderato del capitale è proprio l’incognita del nostro processo valutativo. Si innesca quindi una relazione circolare come quella raffigurata in Figura 3.

[Figura 3. Fonte: E.Gonnella, Logiche e metodologie di valutazione d’azienda, 2008]

La letteratura

è concorde nell’indicare tre possibili strade per la risoluzione di questo problema

28

:

1. Una prima strada percorribile è quella di considerare che in futuro l’azienda mantenga la struttura finanziaria attuale e quindi che il leverage rimanga inalterato nel tempo. La definizione di tale struttura può essere realizzata attraverso un processo iterativo che partendo da un certo rapporto di indebitamento e da un certo WACC consenta di ottenere una prima valutazione dell’Equity, che poi sarà utilizzato per ricalcolare il leverage, il costo del capitale e, quindi, il WACC. Il processo iterativo si potrà fermare quando la differenza tra i valori ottenuti diventerà irrilevante in termini di valore aziendale

29

. Un modo per spezzare la circolarità è quello di applicare un multiplo come il Price/Earnings per la stima dell’Equity, oppure per le società quotate stimarlo attraverso la capitalizzazione.

      

28

 E. Gonnella, Logiche e metodologie di valutazione d’azienda, 2008; G. Donna, La creazione di valore nella gestione dell’impresa, 1999; V. Capizzi, Il Capital Asset Princing Model e le operazioni di corporate e investing banking, 2003. 

29

 J.R. Hitchner in Financial Valuations – Application and models, afferma che: “an analyst can begin with

an initial estimate of market value weights and apply these weights and accompanying estimated costs of capital into the WACC formula. The subsequent WACC that is developed is used to calculate the market value of total invested capital. Subtracting the estimated market value of debt provides the first approximated value of common equity, and accordingly, a second computation of the capital structure weights to be applied. Obviously, the change in the debt weights affects the equity returns. This becomes a repeating process or an iterative process, which is continuously applied until the computed market value weights are reasonably close to the weights used in calculating the WACC”; Per ulteriori approfondimenti si veda anche:

G. Zanda et al., La valutazione delle aziende, pag 162 e ss, 2005. 

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