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Partnership Profit – Non Profit.

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari

Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione

Classe LM-92

Tesi di laurea

Partnership Profit – Non Profit.

Il ruolo della comunicazione”

Relatore:

Laureanda:

Prof. Giampietro Vecchiato

Margherita Papi

Matricola 1193618/LMSGC

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INDICE

Introduzione ... 3

CAPITOLO 1 – LA COMUNICAZIONE ... 9

1.1 L’importanza della comunicazione nella società di oggi ... 11

1.2 La comunicazione sociale e il societing ... 15

1.1.1 Il marketing sociale ... 21

1.2 Le Relazioni Pubbliche ... 26

1.2.1 Le Digital PR ... 31

CAPITOLO 2 – IL MONDO NON PROFIT ... 35

2.1 Struttura e profili del non profit... 38

2.2 Il valore del terzo settore ... 40

2.3 L’importanza del fundraising ... 42

2.3.1 Il piano di fundraising... 44

2.4 Dall’istituto non profit all’impresa sociale ... 47

2.4.1 Il fundraising per l’impresa sociale ... 49

2.5 La comunicazione per il terzo settore. Perché comunicare? ... 51

2.5.1 Criticità dei processi comunicativi ... 52

2.5.2 Le opportunità create dal digitale ... 54

2.6 I rapporti con il mondo profit ... 56

CAPITOLO 3 – IL MONDO PROFIT ... 61

3.1 Un mondo che cambia ... 62

3.2 I rapporti con il mondo non profit ... 64

3.3 Le finalità sociali ... 66

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3.4.1 Le principali teorie sulla RSI ... 75

3.4.2 Le forme moderne della RSI ... 80

3.5 Non solo RSI. Il sociale come posizionamento ... 89

3.5.1 La strategia sociale d’impresa... 90

3.6 La Multistakeholder Strategy ... 91

3.7 Oltre la RSI. La creazione di valore condiviso ... 93

3.7.1 Che cos’è il valore condiviso ... 94

3.7.2 Come si crea valore condiviso ... 95

3.7.3 Differenze tra CSR e CSV ... 97

CAPITOLO 4 – LA PARTNERSHIP ... 99

4.1 Le principali teorie di marketing sulle partnership profit – non profit ... 100

4.2 Perché intraprendere una partnership di questo tipo? ... 115

4.2.1 Criticità nel processo di costruzione di una partnership ... 122

4.3 Il ruolo essenziale della comunicazione ... 123

4.3.1 Il piano di comunicazione ... 125

4.3.2 Le modalità di relazione ... 130

4.3.3 Corporate Giving ... 135

4.3.4 Strumenti di comunicazione ... 140

4.4 Esempi di partnership profit – non profit ... 144

4.5 Caso studio: Morellato & Medici con l’Africa Cuamm ... 152

CONCLUSIONI ... 169

Bibliografia ... 173

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Introduzione

Nel corso degli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza dell’importanza della comunicazione: spesso sottovalutata, gioca ora un ruolo fondamentale (e strategico) in diversi settori, non solo quelli dove già si ritagliava uno spazio, ma anche e soprattutto, in settori in forte crescita, come quello del non profit che ha sempre guardato con occhi scettici questo ambito.

Questi nuovi riflettori hanno imposto una forte spinta all’evoluzione della disciplina dando vita a nuove pratiche comunicative e creando un ponte tra il mondo aziendale e il terzo settore, mondi che hanno sempre provato a dialogare tra loro ma con scarsi risultati. La tendenza che si va instaurando, infatti, vede una convergenza tra i due soggetti, che non si guardano più in maniera diffidente, ma cercano punti comuni per costruire relazioni che siano alla base di co-progettazioni, la definizione congiunta di iniziative di comunicazione e di azioni concrete rivolte alla società.

Questo elaborato nasce con l’intenzione di intercettare i cambiamenti e le evoluzioni della società che hanno portato a questo avvicinamento e di esplicitare il ruolo che ha avuto e che deve avere la comunicazione. L’obiettivo finale dell’elaborato è quindi quello di soddisfare le seguenti domande di ricerca: che ruolo ha la comunicazione nel processo di costruzione di una partnership profit –

non profit? E quali sono i benefici e i vantaggi competitivi che possono essere

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In una società dove la responsabilità sociale è tornata prepotentemente al centro dei dibattiti globali, il mondo profit non può più prescindere da una visione sociale del proprio lavoro; mentre il mondo non profit non può fare a meno di comunicare la propria credibilità per costruire relazioni solide che possano durare nel tempo.

Nascono così delle vere e proprie partnership che generano benefici per entrambe le parti. Oltre a creare degli effetti positivi sulle relazioni con i propri pubblici e stakeholder, lo scambio di competenze arricchisce il bagaglio professionale: il terzo settore può, ad esempio, acquisire dal mondo profit una visione più manageriale, che punti all’ottimizzazione dei costi e alla pianificazione strategica e non episodica; le aziende, invece, possono imparare a migliorare la loro immagine e reputazione, ma non solo, perché i vantaggi che si possono ottenere da un dialogo tra i due mondi sono innumerevoli.

Il mio elaborato è suddiviso in quattro capitoli: ho introdotto la comunicazione come disciplina, presentando i due soggetti della mia analisi, ovvero il mondo non

profit e il mondo profit, e descrivendo lo strumento “partnership” come innovativo

e strategico, in modo particolare nel caso in cui si tratti di un rapporto di collaborazione tra i due settori, per esaminare in seguito benefici e vantaggi che una forma di collaborazione di questo genere può portare, analizzando un caso studio a me molto vicino.

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rappresenta il più potente strumento di differenziazione. In seguito, sono passata ad esplicitare il mio campo d’azione, ovvero la comunicazione sociale e le relazioni pubbliche. In prima battuta ho delineato l’evoluzione della disciplina della comunicazione sociale che, al contrario del passato, si vede più vicina ad ambiti come il marketing; un marketing che ha cambiato forma divenendo espressione della nuova connessione con la società: il societing1. Dopo aver

introdotto gli obiettivi e le finalità di un piano di marketing sociale sono passata ad analizzare l’importanza delle relazioni pubbliche nel processo di costruzione di relazioni, indispensabile per comprendere a fondo il valore di una partnership

profit – non profit.

Nel secondo capitolo, invece, ho affrontato l’analisi del mondo non profit. Ho inizialmente fornito alcuni dati per inquadrare il fenomeno della forte espansione di questo settore negli ultimi anni, esplicitandone strutture, profili e valore. Successivamente, sono passata ad esaminare l’importanza del fundraising per questo tipo di organizzazioni, che ne garantisce l’esistenza e, per questo motivo, deve essere organizzata in maniera più strutturata ed efficace. Una parte del secondo capitolo fotografa l’evoluzione degli enti non profit in imprese sociali ed espone le motivazioni per cui la comunicazione si rileva tanto fondamentale per il Terzo Settore, evidenziando le criticità e le opportunità che possono crearsi all’interno processi comunicativi, mentre l’ultima parte analizza i rapporti tra il mondo non profit e quello profit.

Il terzo capitolo, invece, è dedicato al mondo profit. Nella parte iniziale ho descritto i cambiamenti che hanno portato alla delineazione di un nuovo tipo di consumatore, più responsabile, attento e critico che, con il suo nuovo modo di porsi, ha modificato il rapporto cliente – azienda. Successivamente, ho analizzato la relazione tra profit e non profit per poi passare in esame le nuove tipologie di

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soggetti non profit, ovvero le imprese con finalità sociali e le imprese socialmente responsabili che costruiscono la loro strategia competitiva in un’ottica di corporate

social responsability (CSR). Dopo aver descritto le principali teorie sulla

responsabilità sociale d’impresa sono passata ad analizzare le possibili strade che un’azienda può intraprendere per inserirsi adeguatamente nel nuovo panorama delineatosi, evidenziando l’importanza di adottare strategie multistakeholder, di prendersi carico di impegni sociali e facendo un focus finale sulla differenza tra responsabilità sociale d’impresa e creazione di valore condiviso.

Il quarto ed ultimo capitolo si concentra sulla descrizione e sull’analisi dello strumento “partnership” come driver strategico di innovazione economica e sociale. Dopo aver ripercorso le principali teorie di marketing sulla partnership

profit – non profit sono passata ad analizzare il perché una collaborazione di questo

tipo possa produrre benefici per entrambe le parti, evidenziandone criticità e opportunità. Successivamente, mi sono focalizzata sul ruolo della comunicazione, fondamentale per la gestione dei rapporti tra due i mondi ma anche funzionale alla produzione di messaggi per l’esterno, in grado di valorizzare quei valori intangibili tanto importanti per l’impresa oggi. Dopo aver sottolineato l’importanza di un piano di comunicazione che definisca e programmi le varie iniziative, ho descritto le modalità di relazione tra profit e non profit e le principali tipologie di supporto che l’impresa può predisporre a favore di un’organizzazione non profit, concludendo con un paragrafo sugli strumenti di comunicazione, che devono essere adeguatamente scelti sulla base degli obiettivi di entrambe le parti, coerentemente con le proprie identità e i propri target, prediligendo una strategia integrata e multicanale.

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nuove esigenze, sia della società che dello stesso mercato; successivamente ho svolto il mio stage curricolare presso Medici con l’Africa - Cuamm, nell’Education & Public Awareness Department e ho avuto il piacere di lavorare con persone brillanti, come Chiara di Benedetto e Chiara Cavagna, che mi hanno parlato della collaborazione intrapresa per diversi anni e tutt’ora operativa, tra il Cuamm e Morellato, e da questa esperienza è cresciuto il mio desiderio di crearne un caso di studio da inserire all’interno del mio elaborato.

Mi sembrava potesse essere l’esempio perfetto di come una strategia integrata di comunicazione possa supportare e valorizzare un processo come quello di costruzione di una partnership di questo tipo e, di conseguenza, portare benefici e vantaggi per entrambi i partner. Per poter approfondire maggiormente la costruzione del processo di partnership, focalizzandomi sul lato comunicativo, ho intervistato Anna Talami, responsabile settore comunicazione (Communication

Department) del Cuamm, con cui sono riuscita a delineare le principali tappe della

collaborazione e i benefici ad esse connessi.

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Capitolo 1 – La comunicazione

Quando si parla di comunicazione, si tende, spesso erroneamente, a pensare che sia solo un processo in cui vengono trasmesse informazioni da un emittente ad un ricevente (destinatario). Questa è sì, una delle definizioni che si possono dare, ma è molto riduttiva e si rifà ad un approccio matematico della comunicazione, proposta dai matematici statunitensi Claude Elwood Shannon e Warren Weaver, il cosiddetto Modello di Shannon-Weaver (Figura 1).

Figura 1, Modello di Shannon-Weaver

Fonte: https://www.loomenstudio.com/modello-matematico-informazionale/

Secondo questo modello, il processo comunicativo viene scomposto nei seguenti elementi fondamentali2:

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• una sorgente capace di elaborare il messaggio, ovvero l’insieme di informazioni da trasmettere;

• un apparato trasmittente che codifica in base al mezzo di comunicazione prescelto;

• un canale di comunicazione attraverso il quale viaggia il messaggio;

• una fonte di rumore che può modificare o deteriorare il messaggio.

Questo modello però, non risulta esaustivo nello spiegare le dinamiche comunicative umane, in quanto, considera il processo comunicativo come unidirezionale, non prende in considerazione l’intenzionalità associata all’espressione dei messaggi e il contesto in cui i messaggi vengono trasmessi3. Il

destinatario è quindi considerato come un soggetto passivo e il termine “informazione” viene inteso in una concezione più tecnica.

Una definizione più completa ci viene data dal sociologo Luciano Paccagnella, che definisce il processo comunicativo come:

“un processo di costruzione collettiva e condivisa del significato, processo dotato di diversi livelli di formalizzazione, consapevolezza e intenzionalità.4

Questa definizione è collegata agli aspetti semantici della comunicazione, ovvero a quelli di significato, aspetti che non vengono presi in considerazione nel precedente modello. È necessario che tale significato sia “condiviso” e ciò, necessariamente, implica un ruolo attivo del destinatario all’interno del processo

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comunicativo: il destinatario infatti non si limita ad una traduzione del messaggio secondo un codice comune con la fonte, ma gli attribuisce un senso, associandolo ad altri codici che gli derivano dalla cultura o subcultura di appartenenza e che sono, a loro volta, mediati da aspetti psicologici e dalla sua personalità. Il processo è dunque bidirezionale e, proprio per questo, quando si parla di comunicazione si parla anche di negoziazione di significati. Non di minor importanza è il contesto, in quanto un messaggio può assumere significati diversi a seconda del contesto in cui è immerso il processo comunicativo.

Proprio per questa sua natura bidirezionale, la comunicazione sta alla base di qualsiasi tipo di relazione. Ed essendo le relazioni la linfa vitale del nostro tessuto sociale, nonché della nostra società nel suo complesso, ecco il motivo per cui la comunicazione è tanto importante. Questa importanza però, è stata riconosciuta solo recentemente, dopo che è cresciuta sempre di più la consapevolezza della sua importanza strategica in ambiti come quello economico, politico e sociale.

1.1 L’importanza della comunicazione nella società di oggi

La grande competizione mondiale, conseguente alla globalizzazione, ha reso difficile, per i soggetti che operano nei mercati, riuscire a differenziarsi e quindi ad emergere. Le vecchie leve strategiche su cui si è sempre basato il successo di un’azienda, ora sembrano essere non più così efficaci: l’importanza del capitale tangibile si è infatti ridotta.

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Consultando l’enciclopedia online della Treccani, la voce “intangibile”, riferita al termine asset, viene descritta come:

“Termine riferito agli asset per indicare le risorse e il patrimonio non

incorporati in beni fisici o in attività finanziarie. Gli asset intangibili costituiscono il capitale intellettuale, che non può essere visto, toccato o misurato e non è incorporato nel patrimonio fisico o finanziario dell’impresa. Possono essere distinti due tipi di asset intangibili: quelli derivanti da protezioni legali, come i brevetti, le licenze, il copyright o i marchi registrati che, insieme al segreto industriale, sono generalmente raggruppati nella categoria di proprietà intellettuale, e quelli competitivi, come il capitale umano, l’efficacia dei processi organizzativi e la capacità innovativa che determinano la performance delle imprese5”.

In sintesi, le risorse intangibili non sono altro che risorse rappresentative del capitale umano, intellettuale, relazionale, sociale, organizzativo e simbolico di un’impresa. Sono quindi risorse di valore, difficilmente imitabili, che rappresentano un valido punto di differenziazione rispetto ai propri concorrenti. Ma proprio perché rappresentano un patrimonio invisibile è necessario comunicarle ai propri pubblici in maniera efficace. Sempre più aziende hanno infatti rivalutato il ruolo della comunicazione all’interno delle proprie strategie: da marginale a centrale.

Questi cambiamenti, nella visione e nell’agire delle aziende, non sono altro che la conseguenza di processi macro di social change6, in particolare il

cambiamento antropologico del consumatore e l’instaurarsi del concetto di sviluppo sostenibile.

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Per quanto riguarda il primo fenomeno, assistiamo oggi all’imporsi di un nuovo orientamento, di un nuovo approccio al consumo, un consumo che diviene responsabile, riflessivo e critico. Si parla sempre più di “consumer empowerment”, dell’emergere di un consumatore più consapevole, che presta attenzione alla responsabilità etica e ambientale dell’azienda da cui acquista beni o usufruisce di servizi. Un potere quindi che diventa finalmente reale, in quanto con le proprie azioni, il cittadino-consumatore7, orienta, più o meno consapevolmente, scelte

produttive coerenti con le nuove sensibilità. Vengono infatti ad esempio “premiate” quelle aziende che comunicano il loro impegno sociale e/o ambientale e quelle che costruiscono le loro strategie sulla base di concetti come l’etica, la compatibilità ambientale, l’autenticità e la trasparenza.

Anche grazie ai nuovi media digitali, che consentono ed incentivano l’ascolto dei pubblici, i mercati diventano delle conversazioni. Ciò comporta benefici collettivi, siano essi di natura sociale, ambientale o culturale. L’asimmetria informativa che ha sempre caratterizzato il rapporto tra produzione e consumo tende ad attenuarsi, conferendo al consumatore un ruolo attivo e decisivo nelle dinamiche che portano un’azienda ad avere successo economico.

Le aziende non sono più portate a concepire ai propri consumatori come bersagli da colpire, ma come “soggetti con cui interloquire e scambiare

informazioni, comunicazioni e da spingere, oltre che all’acquisto, a un maggiore coinvolgimento con il brand8”. Non si può più dunque prescindere dall’instaurare

relazioni con i propri pubblici, perché ne rappresentano la linfa vitale in questo nuovo scenario.

Per quanto concerne il secondo fenomeno, l’esigenza di una crescita economica rispettosa dell’ambiente risale agli anni Settanta. La definizione

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universalmente condivisa la troviamo nel Rapporto Brundtland (1987), che definisce lo sviluppo sostenibile (Figura 2) come:

“uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza

compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni; un processo nel quale lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico ed il cambiamento istituzionale sono tutti in armonia, ed accrescono le potenzialità presenti e future per il soddisfacimento delle aspirazioni e dei bisogni umani.”

Figura 2, Lo Sviluppo Sostenibile

Fonte: https://endurancecloud.com/lo-sviluppo-sostenibile/

È dunque un tipo di sviluppo che tiene conto: dell’equità, della necessità di utilizzare le risorse in maniera efficiente e dei parametri economici, ambientali e sociali. Si sostituisce il modello economico dell’espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo (sviluppo) come chiave per il progresso futuro9. Per questo si preferisce utilizzare il termine sviluppo anziché crescita.

Dalla concezione comune che l’indagine sullo sviluppo sostenibile dovesse coinvolgere anche le imprese, nasce anche il concetto di sostenibilità d’impresa, intesa come il “dovere” di ogni azienda di tener conto degli impatti ambientali, sociali ed economici che si generano dalle proprie attività10.

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L’attenzione crescente data a queste nuove dimensioni comporta la necessità delle aziende di distinguersi dai concorrenti fornendo informazioni non meramente finanziarie, ma legate alle nuove sensibilità. Ecco che iniziano a circolare veri e propri rapporti aziendali che cercano di mettere in risalto gli asset intangibili dell’azienda, dai rapporti sull’ impegno sociale, alla corporate governance, fino ai codici etici e ambientali.

Come sostiene Rossella Sobrero, presidente di Koinetica e Presidente FERPI, “le imprese devono non solo agire in modo responsabile ma anche comunicare in

modo trasparente.” Risulta quindi di fondamentale importanza comunicare il

proprio operato ai propri stakeholder (interni ed esterni) e saper gestire le relazioni con i pubblici di riferimento: rafforzare il capitale relazionale non solo migliora la reputazione, ma garantisce benefici a lungo termine.

In questo senso entra in gioco la comunicazione di tipo sociale, che fino ad ora era, per la maggior parte, appannaggio dei cosiddetti soggetti “non profit”, mentre ora sta assumendo un ruolo centrale anche per molti soggetti economici: sempre più aziende “for profit” investono risorse in campagne di comunicazione sociale, con l’intento di associare il proprio marchio e la propria immagine a valori positivi e socialmente condivisi, così da averne, in ultima analisi, anche un ritorno in termini commerciali11.

1.2 La comunicazione sociale e il societing

Per definire la “comunicazione sociale”, è necessario innanzitutto non confonderla con la comunicazione pubblica (Figura 3). Anche se entrambe le discipline si caratterizzano per essere estranee alle logiche di mercato e per essere

11 La Spina A., da Pira F., “Come comunicare il sociale: strumenti, buone pratiche e nuove professioni”, Milano,

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espressione della volontà di rappresentazione del panorama più vasto possibile di valori e diritti infatti, il loro rapporto è stato definito come quello di una species (comunicazione sociale) rispetto ad un genus più vasto (comunicazione pubblica)12.

Figura 3, La comunicazione pubblica

Fonte: https://www.linkedin.com/pulse/comunicazione-pubblica-la-differenza-tra-politica-e-sociale-banfi/

In relazione al maremagnum della comunicazione pubblica, pertanto, si ritiene necessario sottolineare cosa essa comprende e quali siano le sue prerogative; il processo di istituzionalizzazione della comunicazione pubblica, inizia negli anni Novanta e dà l’avvio alla distinzione tra13:

• Comunicazione politica → quella proveniente dai partiti o dagli attori della politica e destinata a produrre effetti in questo campo.

• Comunicazione istituzionale → quella proveniente dagli organi dello Stato e destinata a molteplici obiettivi: da informazione di servizio presso il pubblico fino alla promozione dell’immagine dell’istituzione.

• Comunicazione sociale → quella finalizzata alla promozione di una causa e proveniente da diversi soggetti, solitamente, e più frequentemente da enti pubblici e organizzazioni non profit.

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In generale, le attività di comunicazione sociale condividono14:

• Obiettivi di fundraising per cause sociali specifiche (es: cercare finanziamenti per sostenere la ricerca scientifica).

• Processi di advocacy per promuovere e trovare alleanze su cause, movimenti, ecc. (es: sostenere una causa ecologica).

• Divulgazione di informazioni utili per ovviare a disuguaglianze di accesso (es: ai servizi di interesse collettivo).

• Promozione del cambiamento del comportamento di un gruppo o di un sottogruppo mediante strategie o solo di pubblicità o anche e soprattutto con tecniche di marketing sociale (es: promuovere stili di vita considerati più sani, spingendo le persone a smettere di fumare).

• Realizzazione di modalità pubbliche di rendicontabilità dell’operato istituzionale (es: i cosiddetti bilanci sociali).

• Assicurare pubblicità e dibattito sui processi di presa di decisione, utilizzando forme diverse di comunicazione a seconda degli interlocutori (es: le varie forme sperimentali di consultazione o decisione partecipativa).

La comunicazione sociale ha subìto, nella sua evoluzione, diversi cambiamenti, sia per quanto riguarda i temi affrontati, sia per quanto riguarda i linguaggi utilizzati e i soggetti promotori. Il professor Guido di Fraia, direttore del Master in Social Media Marketing della IULM ha individuato tre diverse fasi15

sulla base di caratteristiche socio-culturali ed economiche: la prima abbraccia gli anni Novanta del secolo scorso, la seconda riguarda gli anni dal 2000 al 2007 e la terza gli anni dal 2008 (Tabella 1):

14 Fonte: https://www.digital-coach.it/comunicazione-sociale/

15 Fonte:

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Fase Temi principali Linguaggi più utilizzati

Anni ‘90 Dipendenze Prescrittivo e di denuncia

2000 - 2007

Ambiente, territori,

adozioni internazionali Responsabilizzante/Sentimentale

Dal 2008

Diritti sull’infanzia, abusi, tutela della salute fisica e mentale

Rassicurante e gratificante

Tabella 1, Rielaborazione grafica delle fasi evolutive della comunicazione sociale

Fonte: https://www.primaonline.it/2018/05/16/271852/dalla-denuncia-anni90-al-narcisismo-solidale-del-nuovo-millennio-come-e-cambiata-la-comunicazione-sociale/

Se pensiamo alla grande evoluzione che ha subito la comunicazione sociale negli ultimi trent’anni però, la definizione data sopra appare quantomeno riduttiva. Risulta maggiormente esaustiva quella data dal sociologo e accademico Francesco Pira, che riportiamo di seguito:

“Il compito della comunicazione sociale è di catalizzare, tramite campagne di

informazione, sensibilizzazione e persuasione, l’attenzione del pubblico su questioni socialmente rilevanti, connesse ad esempio alla tutela di interessi diffusi, o di beni pubblici, o di categorie deboli, sia per diffondere la consapevolezza circa tali problemi, sia per modificare una moral suasion gli atteggiamenti e i comportamenti16.”

Si ritiene necessario poi sottolineare come i soggetti promotori di questo tipo di comunicazione non siano più solamente organizzazioni che appartengono al settore pubblico o a quello non profit, ma che vi sia un numero sempre maggiore

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di soggetti profit che ne fanno uso per accentuare aspetti socialmente rilevanti del loro operato.

Sempre citando Pira “si ha quindi comunicazione sociale in senso stretto

quando la finalità della campagna informativa è direttamente volta non già a vendere prodotti, bensì a sensibilizzare e modificare atteggiamenti e comportamenti allo scopo di generare benefici collettivi17.

I soggetti che promuovono comunicazione sociale possono essere:

• la pubblica amministrazione (Stato, regioni, province e comuni);

• le organizzazioni non profit il cui scopo è quello di fornire servizi o, a volte, informazioni non monetizzabili e non disponibili su un mercato (ONG, fondazioni, cooperative, associazioni, sindacati, ecc.);

• le imprese (pubbliche o private) che avendo fini di lucro ricorrono alla pubblicità sociale per incentivare le vendite.

Il fenomeno che vede le imprese protagoniste nel campo della comunicazione sociale è relativamente recente. Questo avvicinamento da parte dei soggetti economici alla società ha notevolmente ampliato il campo d’azione della comunicazione sociale e ha posto le basi per nuovi approcci al mercato. Per esprimere la connessione attuale tra società e marketing è stato coniato il neologismo societing18, concetto che sottolinea il superamento del marketing

tradizionale, a favore di un marketing che pone maggiore enfasi sulla società anziché sui mercati.

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Di seguito i dieci punti chiave che il sociologo Giampaolo Fabris individua della transizione dal marketing al societing:

1. Transizione d’epoca → fine delle certezze, fine della fede illuministica nel progresso. Inizia l’era della complessità, del relativismo, del dubbio sistematico.

2. La conoscenza come fattore di produzione → cambiano i modi di produzione, e cambiano le tecnologie. Risultato: cambia l’impresa, così come cambia la società.

3. Il postmoderno come cultura dell’economia postindustriale → dalla società moderna, caratterizzata dell’esattezza, alla società postmoderna: cangiante, indefinita, imprevedibile.

4. Una nuova centralità del consumo → la produzione lascia il suo ruolo di protagonista a favore del consumo, il quale si arricchisce di valenze sociali, semiotiche, antropologiche.

5. Dall’individualismo alla nuova società → le nuove forme di socialità che trovano anche nelle marche o nelle pratiche di consumo i totem intorno ai quali aggregarsi.

6. Dalla transizione alla relazione → la nuova forza contrattuale, il nuovo potere e la nuova discrezionalità del consumatore. E il rapporto realmente dialettico che pretende dalle imprese.

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essere di collaborazione e co-creazione. In ogni caso, assolutamente alla pari.

8. Il tramonto del marketing di massa → fine della impostazione taylorista/fordista dei mercati di massa. Si passa al

marketing dell’ascolto, di relazione.

9. La dimensione sociale del marketing → il marketing deve prendere coscienza di operare all’interno della società. I consumatori sono attori sociali con cui dialogare, non macchine per l’acquisto.

10. Dal marketing al societing → la rivisitazione necessaria al marketing per potersi aprire a un incontro proficuo con la società, alla luce delle nuove responsabilità con cui si deve confrontare.

Questo nuovo approccio ha dato nuova importanza a strumenti come il

marketing sociale, utilizzato sia da soggetti profit che da soggetti non profit. Come

già suggerisce la parola, questo tipo di marketing è profondamente diverso da quello commerciale per valori e finalità, ma pone le basi per le prime forme di collaborazione tra i due soggetti.

1.1.1 Il marketing sociale

“Il marketing sociale è l'utilizzo dei principi e delle tecniche del marketing per

influenzare un gruppo target ad accettare, rifiutare, modificare o abbandonare un comportamento in modo volontario, allo scopo di ottenere un vantaggio per i singoli, i gruppi o la società nel suo complesso19.”

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Le campagne di marketing sociale, dunque, si caratterizzano per l’impiego dei metodi e dei mezzi tipici del marketing tradizionale ma, contrariamente a questo, non è volto a favorire l’acquisto di prodotti o servizi da parte dei destinatari finali. Il marketing sociale e il marketing commerciale hanno infatti valori e finalità diverse. Vediamoli insieme con l’aiuto della seguente tabella riassuntiva (Tabella 2):

Marketing Commerciale Marketing Sociale

Promuove Prodotti (beni o servizi) Idee e comportamenti Convince a Acquistare qualcosa Cambiare opinione,

modificare un comportamento Concorrenza È rappresentata dalle altre

marche e prodotti

È rappresentata dagli stili di vita e dalle opinioni

antagoniste

Benefici Immediati o a breve termine Medio/lungo termine Costi Di tipo monetario, ma anche

psicologico e fisico

Di tipo psicologico e fisico

Target Attivo/Passivo Attivo

Scopo Vendere (profitto) Raggiungimento di un “bene sociale”

Finanziamenti Provengono da investimenti e vendite

Provengono da fondi pubblici, tasse, donazioni Guida Responsabilità privata Responsabilità pubblica

Performance Misurate in profitti e quote di mercato

Misurate in rapporto a obiettivi comportamentali Cultura Commerciale (propensione

al rischio)

Del settore pubblico (avversione al rischio) Relazioni Spesso competitive Basate sulla fiducia

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Gli obiettivi finali che si pongono le campagne di marketing sociale possono essere riassunti in quattro punti20:

1. Cambiamento cognitivo → favorire, attraverso una maggiore conoscenza del problema e delle sue possibili soluzioni, l’adozione di un determinato comportamento.

2. Cambiamento d’azione → indurre a compiere un’azione concreta entro un periodo di tempo determinato, incentivando alcune scelte a scapito di altre.

3. Cambiamento di comportamento → abbandonare o modificare stili di vita nocivi a favore di abitudini più salutari.

4. Cambiamento di valori → modificare opinioni profondamente radicate rispetto ad alcuni temi/situazioni.

Un piano di marketing sociale (Figura 4) consiste nella pianificazione delle strategie volte a tradurre gli obiettivi in azioni. Si suddivide in quattro fasi21:

20 Fonte: https://www.dors.it/alleg/newcms/201312/Marketing_sociale_slide.pdf 21 Ibidem

Figura 4 Piano di marketing sociale

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La prima fase, ovvero quella del marketing analitico, consiste nel raccogliere informazioni necessarie per sviluppare il “Piano”. Si parte quindi con un’analisi del macro e del micro-ambiente in cui si intende agire, prendendo in considerazione il contesto socio-economico, culturale, tecnologico, politico e normativo, i diversi tipi di pubblico (siano essi ostili, alleati o neutrali) e la situazione della domanda.

La seconda fase, quella del marketing strategico, inizia con la definizione degli obiettivi, che consiste nell’identificazione del risultato che l’intervento della campagna vuole raggiungere (qualcosa che si desidera il target “faccia”, “sappia”, “creda”, “pensi”). Si prosegue poi con la segmentazione, ovvero la suddivisione dei destinatari in sottoinsiemi omogenei, per garantire poi un posizionamento efficace per ogni gruppo.

La terza fase è quella del marketing operativo, e consiste nel realizzare concretamente le strategie definite nelle fasi precedenti. Per fare ciò è necessario ricorrere al framework delle 4P del marketing, ossia l’insieme delle componenti che formano il

marketing mix (Figura 5): Product (prodotto

o servizio), Price (prezzo), Place (luogo),

Promotion (promozione).

Nel caso del marketing sociale il “Product” (prodotto) corrisponde all’idea, al comportamento che si intende promuovere presso il target e i relativi benefici che ne derivano. Può essere associato ad un prodotto tangibile o ad un servizio che facilitano il cambiamento.

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25

“Price” (prezzo), invece, coincide con l’insieme dei costi economici, psicologici, di tempo e di energia che i destinatari devono sostenere per attuare il cambiamento richiesto.

“Place” fa riferimento al luogo e/o alle situazioni nei quali il messaggio raggiunge i destinatari. Il luogo ha una grande influenza rispetto alle scelte dei destinatari di un intervento di marketing sociale: può offrire un’opportunità di azione e aumentare la convivenza in termini pratici e psicologici nello scegliere un determinato comportamento, riducendone i costi reali o percepiti.

Mentre, per “Promotion” si intendono tutte le attività di comunicazione (pubblicità, eventi, relazioni pubbliche, ufficio stampa, materiale grafico, ecc.) utili ad evidenziare i benefici che derivano dall’adozione dell’idea/comportamento proposti e a suggerire le azioni che il target dovrebbe intraprendere.

Ed è proprio all’interno di questa dimensione che si iniziano a delineare le prime forme di partnership: lo sviluppo di “alleanze” permette di favorire un processo di partecipazione e di costruzione sociale condiviso.

Collaborare con altri enti/organizzazioni è spesso necessario per produrre con successo dei cambiamenti. I partner possono fornire risorse aggiuntive, maggiore credibilità, esperienze e competenze che un’organizzazione da sola potrebbe non possedere. Alcune realtà possono inoltre dare accesso a canali distributivi che consentono di ridurre le barriere e di trasmettere i benefici del comportamento proposto in modo più efficace ai destinatari22.

L’ attività di valutazione, invece, è un processo continuativo, di particolare importanza nella definizione del piano e nella misurazione dei risultati: serve a

(28)

26

valutare l’efficienza (costi/benefici) e l’efficacia, intesa come il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

La caratteristica fondamentale della comunicazione sociale è il suo contenuto valoriale. Ed essendo l’obiettivo finale del marketing quello di influenzare i comportamenti (in un’ottica di lungo periodo), per ottenere tale risultato è necessario avere un approccio orientato al destinatario: è necessario conoscerlo, comprenderne i bisogni ed il modo in cui recepisce i messaggi, perché solo in questo modo potrà influenzarne il comportamento e raggiungere l’obiettivo prefissato23.

Un altro importante aspetto riguarda i rapporti con i media, i quali stanno mostrando una sempre maggior attenzione nei confronti della comunicazione sociale e del Terzo settore in generale. In questo senso, le relazioni pubbliche offrono un essenziale contributo alla costruzione e al mantenimento di relazioni con i media e con i propri pubblici.

1.2 Le Relazioni Pubbliche

Le Relazioni Pubbliche sono l’insieme delle attività di comunicazione volte a costruire e consolidare relazioni di lungo periodo con i pubblici di riferimento dell’impresa, con il fine ultimo di influire positivamente sull’immagine e sulla reputazione dell’impresa stessa24.

L’utilizzo delle PR e dei suoi strumenti è oggi indispensabile, nella comunicazione sociale, per individuare i diversi target che compongono l’opinione pubblica25, al fine di poter creare dei messaggi “su misura” che siano il più efficaci 23 F. Pira, “Come comunicare il sociale: strumenti, buone pratiche e nuove professioni”, Milano, Franco Angeli, 2005 24 Fonte:https://www.glossariomarketing.it/significato/public-relations/

(29)

27

possibile per ogni gruppo. Il relatore pubblico, quindi, deve costantemente monitorare e rilevare le opinioni dei pubblici, tentando, allo stesso tempo, di influenzare tali opinioni. Per poter esercitare qualsiasi influenza è necessario saper riconoscere le diverse tipologie di pubblico, che ci aiuteranno nella costruzione di una “mappa del potere” 26.

La mappa si costruisce partendo dalla domanda: “Chi ci può

aiutare/ostacolare nel raggiungere quel determinato obiettivo o nella realizzazione di quel particolare progetto?”. Ciò sottende che andranno

individuati pubblici diversi per obiettivi diversi. Più precisamente saranno identificati i pubblici, più facilmente di troverà lo strumento adatto per raggiungerli ed influenzarli.

I pubblici possono essere divisi in quattro macro-categorie27:

1. Stakeholder → soggetti i cui comportamenti, opinioni, decisioni, possono favorire oppure ostacolare l’organizzazione nel raggiungimento dei propri obiettivi, essendo dei veri e propri “portatori di interesse”. Il grado di consapevolezza degli stakeholder determina la loro appartenenza alla categoria di attivi o potenziali:

• Attivi → sono consapevoli della loro importanza come interlocutori per l’organizzazione, collaborano direttamente con essa e vengono spesso coinvolti nei processi decisionali. Qui il rapporto è facilitato dall’interesse di entrambi i soggetti nel costruire una relazione.

26 Vecchiato G., “Manuale Operativo di Relazioni Pubbliche. Metodologia e Case History”, Milano, Franco Angeli,

2008

(30)

28

• Potenziali → non sono ancora consapevoli del loro diritto a interloquire con l’organizzazione ma se adeguatamente informati e motivati però potrebbero essere interessati a farlo. In questo caso è l’organizzazione a decidere chi siano, o meglio, potrebbero essere, attivandosi per instaurare un rapporto con essi.

2. Pubblici influenti → sono importanti perché l’organizzazione li ritiene in grado di influenzare le variabili e di orientare le opinioni dei destinatari finali, ma sono anche soggetti scarsamente interessati a costruire una relazione con l’organizzazione.

3. Destinatari finali → tutto il pubblico, ovvero quei soggetti che “subiscono” le conseguenze, sia dirette che indirete, delle decisioni e/o attività dell’organizzazione. Possono essere influenzati dagli stakeholder e dai pubblici influenti.

4. Influenzatori delle issue → sono soggetti che hanno una capacità di influenza solamente sulle variabili politiche, economiche o tecnologiche, e che possono, quindi, agevolare/ostacolare l’organizzazione nel raggiungere gli obiettivi stabiliti.

Un importante compito che svolgono i relatori pubblici è proprio quello dell’ascolto dei pubblici, fondamentale per costruire qualsiasi campagna di comunicazione, soprattutto nell’ambito della comunicazione sociale, dove spesso i temi affrontati sono controversi o divisivi.

(31)

29

che secondo il professore e accademico, Philip Kotler sono racchiusi nell’acrostico PENCILS.28 Vediamoli con ordine:

P = “Publications” → tutte le pubblicazioni interne ed esterne, che possono essere su supporto cartaceo o digitale, che implementano una permanente attività di comunicazione e informazione coinvolgendo i diversi pubblici. In questa categoria troviamo relazioni e annual report, brochure, newsletter,

position paper ecc.

E = “Events” → eventi, manifestazioni, fiere, concorsi, e tanti altri “eventi speciali”, attraverso i quali si qualifica l’identità aziendale. È uno degli strumenti più utilizzati essendo quello più diretto ed efficace per instaurare relazioni con i propri pubblici.

N = “News” → fa riferimento alla diffusione di notizie e informazioni mediante seminari, convegni, pubblicazioni aziendali. Tutte le attività di ufficio stampa e le conseguenti relazioni con i media rientrano in questa dimensione.

C = “Community” → si intende la gestione delle relazioni con la comunità locale e il territorio in cui il soggetto opera.

I = “Identity” → creazione e mantenimento di una corretta “personalità” dell’organizzazione, mediante la diffusione di tutto quanto contribuisce a costruire un’immagine positiva, univoca e affidabile.

(32)

30

L = “Lobbying” → tutti i rapporti con le istituzioni per la rappresentanza degli interessi di parte. È dunque un insieme di attività volte a promuovere gli interessi di determinate categorie di imprenditori presso le istituzioni.

S = “Social” → sottintende tutte le responsabilità sociali a cui le aziende devono far riferimento dei confronti dell’opinione pubblica e dei propri

stakeholder. È una dimensione cui si sta dando sempre maggior attenzione:

la comunicazione degli impegni sociali e/o ambientali è diventata a tutti gli effetti un driver strategico molto potente al servizio delle imprese. È necessario, quindi, saperlo sfruttare al meglio, in maniera trasparente, evitando strumentalizzazioni.

Un altro importante contributo che le PR offrono consiste in una valutazione più attendibile delle iniziative: come sostiene il sociologo Francesco Pira si tiene conto “oltre che degli output (quanti annunci, quanti ritagli) e degli outake (quanti

ricordi spontanei o guidati dei messaggi), anche degli outcome (quanti fondi raccolti, quante sigarette consumate in meno, quale regolamentazione ottenuta o modificata, quanti comportamenti mutati) e, soprattutto, degli outgrowth (come è cambiata la qualità della singola relazione e quindi, quanta e quale sfera pubblica in più è stata prodotta29)”.

Un ultimo aspetto da considerare è il nuovo spazio messo a disposizione da Internet, fertile ambiente relazionale che le PR hanno saputo sfruttare, evolvendosi in chiave digitale: questo nuovo fenomeno prende il nome di Digital PR.

(33)

31

1.2.1 Le Digital PR

Le Digital PR (Figura 6) non sono altro che un’evoluzione in chiave digitale delle PR tradizionali: ovvero “l’insieme delle attività strategiche e operative atte

a determinare il coinvolgimento diretto di pubblici influenti e decisionali attraverso i media digitali30”.

Figura 6, Le Digital PR

Fonte: https://www.fullpressagency.it/ufficio-stampa-digital-pr

Mentre le PR offline hanno come riferimenti i canali tradizionali: stampa, radio, tv ed eventi in presenza, le Digital PR si muovono online e principalmente su canali 2.0 come motori di ricerca, blog, news feed e social media.

Le attività di un Digital PR si concentrano principalmente nel mantenere alta la web reputation del soggetto per cui lavora, nel dialogare con le web

communities, nello stringere rapporti con gli influencer (che svolgono da

intermediari tra il marchio e i destinatari finali) e nel monitorare il successo delle

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32

campagne online31. Mentre i principali aspetti che un Digital PR dovrebbe tenere

bene a mente sono attenzione, presenza e ascolto. È poi necessario che sia costantemente aggiornato sulle novità e sugli argomenti di tendenza. “Dopo aver

definito in linea generale la strategia di comunicazione, il Digital PR inizia a esplorare i canali più utilizzati, attinge alla sua rete di relazioni, monitora il buzz e ricerca nuovi contatti per la campagna32”.

Di seguito una tabella (Tabella 3) di confronto tra vecchie e nuove PR, che sintetizza i cambiamenti prodotti dai nuovi media, che sono pare integrante della transizione da PR tradizionali a Digital PR.

PR tradizionali Nuove PR

Enfasi sulle “buone notizie” Volontà di discutere le buone e le cattive notizie

Utilizzo di un unico canale Enfasi sulle relazioni

Marketing di massa Micro-targeting

Promozione di prodotti e servizi Discussione di idee, problematiche e trend

Focus primario sulle pubblicazioni cartacee

Si utilizzano tutte le tipologie di media

Predilezione per le conferenze stampa Predilezione per briefings individuali ed esclusivi Comunicazione indirizzata solamente

ai media

Si è consapevoli della presenza di diversi pubblici e stakeholder

Tabella 3, Tabella di confronto tra vecchie e nuove PR Fonte: Bailey R., “Media relations”, 2009

(35)

33

L’avvento delle Digital PR non deve però oscurare quelle tradizionali: una strategia di comunicazione efficace infatti vedrà l’integrazione delle modalità tradizionali (offline) con quelle online, in base al contesto in cui si sta operando e agli obiettivi prefissati.

Questi strumenti vengono utilizzati sia da soggetti profit che da soggetti non

profit, in maniera diversa o complementare, a seconda del contesto e delle finalità.

(36)
(37)

35

Capitolo 2 – Il mondo Non Profit

Nel linguaggio economico, quando parliamo di “mondo non profit”, si fa riferimento ad “organismi privati molto diversi fra loro (associazioni, comitati,

fondazioni ecc.) unificati dal divieto fissato per statuto di distribuire i profitti ai membri che ne fanno parte o ai dipendenti, e dall’obbligo di reinvestirli completamente nell’attività svolta. Operano soprattutto nei campi dell’assistenza sociale, della cultura, della sanità e della cooperazione internazionale33”.

In Italia le organizzazioni non profit sono in continuo aumento, lo confermano i dati dell’ISTAT aggiornati al 2017 (Figura 7): nel 2001 gli enti erano 235 mila e nel 2011 301 mila, ciò significa che in 16 anni si è verificata una crescita del 49%34.

Figura 7, Rielaborazione grafica: Composizione del settore non profit italiano

Fonte: https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/la_crescita_inarrestabile_del_non_profit_49_in_16_anni

33 Fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/non-profit/

34Fonte:https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/la_crescita_inarrestabile_del_non_profit_49_in_16_anni

2001 2011 2015 2016 2017

Dipendenti istituzioni non profit in % su dipendenti

imprese 488,523 680,811 788,112 812,706 844,775

Istituzioni non profit in %

su dipendenti imprese 235,232 301,191 336,275 343,432 350,492 0 100 200 300 400 500 600 700 800 900

(38)

36

Il proliferare di questo tipo di organizzazioni coincide con la crisi dello stato sociale, che “ha posto le basi per loro un impegno attivo e diretto nelle

problematiche legate al benessere del cittadino, fornendo servizi laddove la Pubblica Amministrazione ha lasciato dei vuoti o non è in grado di rispondere efficacemente alle istanze dei cittadini35”.

La portata del fenomeno è tanto grande da aver reso necessaria una riorganizzazione del settore, sfociata nella recente “Riforma del Terzo Settore” (2017), un complesso di norme che ha ridisciplinato il non profit e l’impresa sociale. Tre sono gli elementi principali che compongono la riorganizzazione36:

1. Vengono abrogate diverse normative, tra cui due leggi storiche come quella sul volontariato (266/91) e quella sulle associazioni di promozione sociale (383/2000), oltre che buona parte della “legge sulle ONLUS” (460/97).

2. Vengono raggruppati in un solo testo tutte le tipologie di quelli che da ora in poi si dovranno chiamare Enti del Terzo settore (ETS).

Ecco le sette nuove tipologie:

• organizzazioni di volontariato (che dovranno aggiungere ODV alla loro denominazione);

• associazioni di promozione sociale (APS);

• imprese sociali (incluse le attuali cooperative sociali), per le quali si rimanda a un decreto legislativo a parte;

• enti filantropici; reti associative; • società di mutuo soccorso;

35 F. Pira, “Come comunicare il sociale: strumenti, buone pratiche e nuove professioni”, Milano, Franco Angeli, 2005 36 Fonte:

(39)

37

• altri enti (associazioni riconosciute e non, fondazioni, enti di carattere privato senza scopo di lucro diversi dalle società).

3. Vengono definite in un unico elenco riportato all’articolo 5 le “attività di

interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” che “in via esclusiva o principale” sono esercitati dagli Enti del Terzo settore. Si tratta di un

elenco, dichiaratamente aggiornabile, che “riordina”, appunto, le attività consuete del non profit (dalla sanità all’assistenza, dall’istruzione all’ambiente) e ne aggiunge alcune emerse negli ultimi anni (housing, agricoltura sociale, legalità, commercio equo ecc.).

Molti sono poi i provvedimenti previsti: si va dalla valorizzazione del volontariato alla facilitazione dell’ottenimento del riconoscimento della personalità giuridica per le associazioni e le fondazioni. Viene rivista la normativa fiscale: le ONLUS cessano di esistere come categoria fiscale. In parallelo, si richiede agli enti una maggiore trasparenza per quanto riguarda i bilanci e in generale l’utilizzo delle risorse, nonché l’attivazione di procedure burocratiche e di controllo più strutturate37.

Tra i criteri che definiscono un soggetto appartenente al terzo settore, evidenziamo38:

• l’assenza di distribuzione dei profitti; • la natura giuridica privata;

• la presenza di una quota di lavoro volontario; • la costituzione democratica;

37 Fonte: http://www.vitaminac.varese.it/la-riforma-del-terzo-settore-spiegata-in-tre-punti/

(40)

38

• la presenza di un atto di costituzione formale; • l’autogoverno.

Tali organizzazioni non producono beni di consumo, bensì forniscono servizi. Per questo motivo, esse sono soggette al giudizio del pubblico molto più delle imprese commerciali. Citando Francesco Pira, “in primo luogo perché trattandosi

di un “servizio pubblico”, il giudizio proviene da persone e interlocutori differenti. In secondo luogo, il giudizio del pubblico è fondamentale per queste organizzazioni che vengono finanziate dal denaro dei contribuenti o dei cittadini attraverso le donazioni elargite a sostegno della causa promossa dall’organizzazione39.”

Il crescente numero di organizzazioni ha posto le basi per l’instaurarsi di una certa concorrenza tra i soggetti che compongono il terzo settore, creando così l’esigenza di comunicare e di rendersi visibili.

2.1 Struttura e profili del non profit

Nonostante i grandi cambiamenti che hanno investito il terzo settore, la struttura delle istituzioni non profit è rimasta sostanzialmente stabile. Come possiamo vedere nella figura 8, il settore cultura, sport e ricreazione è quello che raccoglie il maggior numero di unità (64,5%), seguito da quello dell’assistenza sociale e protezione civile (9,2%), delle relazioni sindacali e rappresentanza interessi (6,5%), della religione (4,8%), dell’istruzione e ricerca (4,0%) e della sanità (3,5%).

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39

Figura 8, Istituzioni Non Profit e dipendenti per settore di attività prevalente

Fonte: https://www.fondazionelangitalia.it/wp-content/uploads/2019/10/Struttura-e-profili-settore-non-profit-2017.pdf

Gli incrementi percentuali maggiori (rispetto al 2016) si riscontrano nei settori delle relazioni sindacali e rappresentanza interessi, dell’istruzione e ricerca (+3,7%) e della cooperazione e solidarietà internazionale (+3,5%); al contrario, riscontriamo un calo percentuale nei settori dello sviluppo economico e coesione sociale (-1,9%) e dell’ambiente (-1,3%).

Mentre se andiamo ad analizzare l’andamento dal 2012 al 2017 (Figura 9), i settori che presentano il maggior numero di nuove costituzioni risultano essere quello sviluppo economico e coesione sociale (29,9%), della cultura, sport e ricreazione (27,1%), dell’ambiente (21,0%) ed assistenza sociale e protezione civile (21%). Dove nei primi due settori, più di un’istituzione su cinque è stata costituita negli ultimi cinque anni.

(42)

40

direttamente di queste questioni, cercando di dare risposte adeguate ai diversi problemi sociali ed ambientali.

Figura 9, Istituzioni Non Profit per settore di attività prevalente e anno di costituzione

Fonte: https://www.fondazionelangitalia.it/wp-content/uploads/2019/10/Struttura-e-profili-settore-non-profit-2017.pdf

2.2 Il valore del terzo settore

Come abbiamo visto, il mondo del non profit è in continua espansione: rappresenta una realtà molto dinamica, il cui valore economico è stimato in circa 80 miliardi di euro, pari al 5% per PIL italiano40.

Anche l’Istat certifica la dinamicità del contesto, sia per quanto riguarda il numero di istituzioni, il numero di risorse umane impiegate e il valore delle risorse economiche disponibili a prezzi correnti. Rilevanti in tal senso sono i risultati della

(43)

41

prima edizione del Censimento permanente41 delle istituzioni non profit riferito al

31 dicembre 2015 (la nuova rilevazione è in corso di progettazione), dove risulta che sia le entrate che le uscite del terzo settore sono in crescita nel 2015 rispetto al 2011, rispettivamente del 10,1 e del 6,9% (Figura 10).

Figura 10, Risorse umane ed economiche delle istituzioni non profit

Fonte: http://www.vita.it/it/article/2019/04/18/istat-ecco-laggiornamento-sui-numeri-del-non-profit/151323/

Il 77,6% delle entrate di concentra in cinque settori: sanità (17,1%), cultura, sport e ricreazione (16,9%), assistenza sociale e protezione civile (16,7%), altre attività (15,8%), istruzione e ricerca (11,1%).

Un altro dato importante è che l’85,5% delle istituzioni non profit italiane ha come fonte di finanziamento principale donazioni di provenienza privata, mentre nel 14,5% dei casi la provenienza è pubblica. Le fonti di finanziamento pubblico sono attive principalmente nei settori della sanità (48,2%), dell’assistenza sociale e protezione civile (33,4%) e dello sviluppo economico e coesione sociale (27%); mentre le fonti di finanziamento private si interessano maggiormente a settori

(44)

42

come quello della religione (97,8%), delle relazioni sindacali e rappresentanza di interessi (94,6%) e della cooperazione e solidarietà internazionale.

La maggiore incidenza sul totale dell’entrate risulta dai contributi annui degli aderenti (27,3%), dai proventi derivanti da contratti e/o convenzioni con istituzioni pubbliche (25,1%) e dai proventi derivanti dalla vendita di beni e servizi (22,9%). Gli istituti non profit, quindi, dipendono fortemente da entrate esterne e proprio per questo il fundraising, ovvero l’attività di raccolta fondi, è di fondamentale importanza per l’esistenza stessa di questi soggetti.

2.3 L’importanza del fundraising

Fundraising significa, letteralmente, “raccolta fondi”, ed indica “l’insieme delle attività che le aziende non profit mettono in atto per accrescere, sviluppare ed incrementare i fondi che esse hanno a diposizione per lo sviluppo sostenibile e per il perseguimento della propria mission42.”

Il termine però fa riferimento ad un concetto più ampio, non si tratta solo di “raccogliere fondi”, bensì di “coltivare, far crescere e sviluppare le risorse

necessarie alla realizzazione di un progetto sociale di una organizzazione non profit, promuovendo e rafforzando la sua identità sociale nella comunità di riferimento e nei confronti di una molteplicità di portatori di interesse43.”

Per fare ciò è necessario pensare in termini di sostenibilità organizzativa, economica e strategica sul medio e lungo periodo. Compito del fundraiser, infatti, non è quello di trovare denaro nell’immediato, ma di creare i presupposti per la costruzione di una relazione tra persone. Per persone si intendono il fundraiser, il

(45)

43

potenziale donatore e la causa (o i soggetti) che l’organizzazione supporta. In questo caso è preferibile parlare di scambio di fiducia e valori più che uno scambio economico44.

Fare fundraising, dunque, consiste nella costruzione e nel mantenimento di relazioni, che siano durature, con i diversi attori che partecipano alle attività, dai volontari ai dipendenti fino agli stessi donatori. Le attività sono funzionali al mantenimento di un contatto comunicativo e continuativo con i propri donatori, e devono essere costruite in modo specifico per ciascun “target donatore”, garantendo una coerenza con la loro “capacità di donare”.

Figura 11, Fundraising

Fonte: https://rieti.unicusano.it/universita/tecniche-di-fundraising/

Lo stesso concetto vale quando si parla di “aziende donatrici”, “la costruzione

della fiducia, il mantenimento e il consolidamento delle relazioni restano i fattori fondati per la creazione di valide e proficue collaborazioni tra imprese e aziende non profit45.”

44 Fonte: https://www.ferpi.it/news/non-profit-limportanza-del-fund-raising

(46)

44

2.3.1 Il piano di fundraising

Organizzare le proprie attività di raccolta fondi è di fondamentale importanza. Il piano di fundraising non è altro che un documento in cui vengono riportati gli obiettivi finanziari e non finanziari di un’organizzazione, le attività che si vogliono intraprendere, i tempi e le risorse necessari per raggiungerli. Organizzare tutto in un piano, stabilendo un ordine di priorità, significa assicurare un’allocazione più efficiente delle energie e delle risorse. Il piano deve integrarsi con la strategia di sviluppo dell’organizzazione e, proprio per questo, non può esistere un modello unico generale, ma ogni organizzazione ne costruirà uno proprio, specifico e tarato sulle proprie necessità46.

Vediamo con ordine i punti salienti della costruzione di un piano di

fundraising47:

1. Definizione degli obiettivi → per identificare in maniera realistica gli obiettivi che si vogliono realizzare in futuro è necessario identificare il proprio posizionamento nel mercato dei donatori e valutare i precedenti risultati. Le aree su cui si dovrebbero concentrare gli obiettivi sono le seguenti:

• la quantità di fondi da raccogliere; • le categorie di donatori che elargiranno; • i costi della raccolta.

Devono essere individuati sia gli obbiettivi a breve termine che quelli a lungo termine, e devono essere tutti S.M.A.R.T, ovvero specifici, misurabili, attuabili, rilevanti e temporalmente definiti.

(47)

45

2. Identificazione delle strategie fondamentali → stabiliti gli obiettivi, si passa alla scelta degli strumenti, che definiranno poi la strategia da implementare. In questo caso dobbiamo tenere conto delle seguenti aree tematiche:

• L’orientamento generale della raccolta fondi → è fondamentale sapere a cosa miriamo, se vogliamo ad esempio usare strumenti mirati alla penetrazione del mercato, allo sviluppo di un prodotto, allo sviluppo del mercato o alla diversificazione.

• La strategia di segmentazione dei donatori → si intende la suddivisione omogenea in gruppi di donatori, secondo caratteristiche proprie. I criteri di segmentazione sono criteri demografici, socio-economici, basati sugli stili di vita o sull’area geografica.

• Strategia di posizionamento → consiste nell’identificazione della posizione che l’organizzazione vuole occupare nel contesto non-profit. Questa strategia viene definita dal management e rappresenta la mission dell’organizzazione.

• Elaborazione del caso per la raccolta fondi → redazione di un documento che individua le finalità, il programma di attività e le esigenze finanziarie all’organizzazione.

3. Identificazione di specifiche tattiche da utilizzare con i donatori → in questo caso ne individuiamo due principali:

(48)

46

costa circa cinque volte in più che interagire con uno già esistente48.

Ciò significa che si proverà ad instaurare una relazione solo nel caso un cui l’investimento è in grado di coprire almeno i costi.

Vi sono quattro tattiche di acquisizione:

a) penetrazione del mercato → aumentare il volume di fondi elargiti da donatori esistenti, utilizzando prodotti esistenti; b) sviluppo del prodotto → sperimentare nuove modalità di

raccolta con donatori esistenti;

c) sviluppo del mercato → attrarre nuovi donatori con prodotti esistenti;

d) diversificazione → attrarre nuovi donatori con nuovi prodotti.

Dopo aver scelto la strategia che si vuole implementare, si andrà a stabilire i prodotti più appropriati:

Figura 12, Prodotti utilizzabili per la raccolta fondi

Fonte: http://www.lettera27.org/lettera27-uploads/2016/09/Fundraising-Guidelines_IT_DEFINITIVO.pdf

(49)

47

• Fidelizzazione donatori → questa è sicuramente la tattica più importante che possa adottare un’organizzazione perché su questa si basa lo sviluppo generale dell’organizzazione stessa. L’obiettivo è di ampliare il contributo del donatore; il successo di tale approccio dipende dalla capacità di stabilire relazioni e dalla qualità delle stesse.

4. Piano d’azione: tempi e budget → consiste nella pianificazione delle azioni da mettere in pratica per ottenere i risultati prefissati. Solitamente, per svolgere tale operazione, si utilizza un Diagramma di Gantt. Le azioni poi devono essere messe in relazione con il budget.

Una volta messo in pratica il piano d’azione si procederà poi con la valutazione delle performance, consentendo così all’organizzazione di valutare il suo operato e di intervenire in presenza di criticità, cercando di gestire al meglio le proprie risorse e potenziare l’impatto delle proprie azioni.

2.4 Dall’istituto non profit all’impresa sociale

L’interesse sempre maggiore verso il terzo settore ha spinto il mondo accademico ad avvicinarsi allo studio dei modelli di business non profit, fino all’evoluzione del concetto di impresa sociale (Figura 13). Le imprese sociali sono quelle “organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e

principale un’attività economica di produzione e scambio di beni e servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale” (art.1 D.Lgs n.

(50)

48

Figura 13, L'Impresa Sociale

Fonte: https://italianonprofit.it/risorse/definizioni/imprese-sociali/

Si tratta in sostanza di “organizzazioni private con struttura di impresa, ma

che operano per il perseguimento di finalità pubbliche; ovvero che non rispondono esclusivamente agli interessi dei loro proprietari49”.

Ciò che differenzia le imprese sociali dalle imprese e dalle cooperative tradizionali è evidenziabile sotto tre profili50:

• Finalità → pubbliche, sociali.

49 Taraschi S., Zandonai F. (a cura di) “Impresa sociale. Dalla gestione strategica agli strumenti operativi”, Roma,

Carrocci Editore 2006

50 Bandini F., Ambrosio G., “Profit-non profit una partnership di valore. Storia, evoluzione e prospettive in Italia”,

(51)

49

• Vincoli → oltre al fatto che gli utili non possono essere ridistribuiti, ma reinvestiti nell’organizzazione vige il vincolo alla non discriminazione a favore dei soci.

• Governance → l’aspetto principale riguarda l’invito, che dovrebbe essere un obbligo, alla partecipazione dei lavoratori e dei beneficiari dell’attività.

La nascita di questo nuovo tipo di soggetto è il risultato di un processo di ibridazione tra non profit e for profit, frutto delle sempre più frequenti relazioni che intercorrono tra i due mondi.

La comunicazione risulta essere proprio uno di quegli ambiti dove la contaminazione tra i due soggetti produce relazioni, le quali possono essere sfruttate strategicamente all’interno del nuovo panorama economico e sociale.

2.4.1 Il fundraising per l’impresa sociale

Anche l’impresa sociale, per rispettare il vincolo di equilibrio economico finanziario, ricorre ad attività di fundraising. Le imprese sociale possono avvalersi di diverse strategie, sia rispetto ai propri pubblici di riferimento, sia rispetto alle modalità di raccolta aventi come riferimento donazioni a vario titolo. E ciò può avvenire secondo le seguenti modalità strategiche51:

51 Fonte:

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