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DIVAGAZIONI DALL’ART

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Academic year: 2022

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COMPETENZA E COMPETENZE.

DIVAGAZIONI DALL’ART. 38 C.P.C.

Relatore:

prof. Giovanni VERDE

ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Napoli

1. – Gli studi giuridici da noi hanno indubbiamente una base concettualistica. Non sono tra quelli che del concettualismo vedono soprattutto i difetti. È un metodo di lavoro che aiuta l’approccio sistematico-deduttivo, che istintivamente porta ad astrarre dall’esperienza l’in sé delle cose, che consente di costruire concetti e istituti e con questi l’elaborazione del sistema.

Sarebbe, d’altra parte, un voler forzare la nostra natura, un voler rinnegare il timbro genetico che ci accompagna dalla nascita se da domani cominciassimo a pensare ai fenomeni giuridici senza la mediazione di processi astrattivi in misura più o meno cospicua. Per esemplificare, dall’esperienza dei singoli mezzi di prova non possiamo fare a meno di estrarre il concetto generale di prova al quale finiamo con il collegare caratteristiche uniformi che poi andiamo a riscontrare nella disciplina dei singoli mezzi secondo un procedimento interattivo a circolarità piena. Non diversamente sulla base dell’esperienza delle singole e concrete decisioni giudiziali ci interroghiamo sulle caratteristiche e sulle impronte che le caratterizzano in maniera irrinunciabile e da queste risaliamo al concetto di sentenza e poi a quello di giudicato con l’inevitabile ricaduta sul regime giuridico e sulla forza operativa delle singole decisioni. Potremmo continuare all’infinito. Mi preme soltanto di invitare chi legge a riflettere sul diverso approccio ai problemi giuridici degli studiosi del mondo anglosassone, il cui genio caratteriale li porta ad uno studio accentuatamente empirico e scarsamente sistematico. L’errore, quando si mettono a confronto le due diverse impostazioni concettuali, sta nel credere che sia possibile stabilire quale delle due sia preferibile, quasi che, fatta opzione per l’una, sia possibile presceglierla e abbandonare l’altra. Il fatto è, invece, che esse coesistono e che, come si è detto, costituiscono il prodotto di due diversi modi d’essere e di porsi di fronte ai problemi. Bisogna accettarle nella loro diversità, dando per scontato che sono entrambe possibili e utili. Ciò che, al contrario, appare necessario è attingere la consapevolezza che l’uno e l’altro metodo hanno pregi e difetti e, in un mondo nel quale la circolazione delle idee è diventata assai più intensa e frequente, costringendosi ad eliminare gli eccessi dell’uno e dell’altro.

La troppo lunga premessa mi serve per segnalare quello che a mio avviso è un errore che si commette frequentemente quando si parla di competenza. Da Virgilio Andrioli ho appreso che la distinzione fra giurisdizione e competenza è una distinzione relativa, nel senso che ciascun ordinamento è libero di fissarla come crede. E così nei sistemi a giurisdizione unica vengono in rilievo o dovrebbero venire in rilievo soltanto questioni di competenza; nei sistemi con pluralità di giurisdizione, si possono avere diversissime soluzioni in ordine alla ripartizione fra ciò che riguarda le competenze. Valga un esempio per tutti: la altalenante vicenda del pubblico impiego che, nel nostro Paese, fino al 1923 ha visto un concorso di giurisdizioni, poi una giurisdizione esclusiva e, fra poco, dovrebbe vedere (a meno che il legislatore non sia colpito da una sana resipiscenza) un ritorno al riparto della materia fra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Di qui la nozione di competenza come la quantità di funzioni giurisdizionali che ciascun giudice può esercitare in rapporto agli altri giudici dello stesso ordine. Una nozione unitaria che ha reclamato un regime egualmente unitario.

Ed il legislatore, che non può non aver risentito dell’impostazione sistematico-concettuale della dottrina, ha riassunto quel regime in alcune disposizioni della parte generale, che si possono

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individuare negli artt. 38, 42 ss., 45 e 50 c.p.c. e, se in esso si volesse ravvisare il segno di un principio di carattere generale, nell’art. 14.

L’esperienza ha dimostrato che non era corretta la reductio ad unum del concetto di competenza, così come non era possibile rapportare il concetto ad un unico regime. Si è cominciato a dire che la competenza riguarda la sfera di attribuzioni dell’ufficio giuridiziario e non del singolo giudice rispetto agli altri giudici dello stesso ufficio. Ma si è, poi, fatta una distinzione ulteriore, assumendo che in taluni casi lo stesso rapporto tra i giudici all’interno dell’ufficio ha rilevanza esterna: si pensi alle attribuzioni dei capi degli uffici giudiziari, ai rapporti con i giudici specializzati e, ieri, ai rapporti fra preture circondariali e preture mandamentali e, oggi, ai rapporti all’interno dei tribunali fra giudici istruttori e collegi. Di un’altra sfaccettatura della complessa questione si aveva consapevolezza a livello teorico anche se a partire dal codice del 1942 la stessa aveva perduto ogni spessore pratico. Mi riferisco alle svariate ipotesi in cui la individuazione normativa del giudice era legata a specifiche esigenze, spesso non riducibili a una categoria concettuale unitaria. Infatti, si era parlato di competenza funzionale non tanto per evocare un unico concetto, quanto per riaffermare la necessità di un’unica disciplina, che poi era quella della rilevabilità anche d’ufficio della incompetenza in ogni stato e grado.

Ad un’analisi approfondita del sistema non poteva non emergere che lo schema disegnato dalle norme sopra richiamate riguardava il processo ordinario di cognizione nel suo primo grado; che già nei successivi gradi quello schema aveva bisogno di adattamenti e che, nelle altre situazioni sopra descritte, finiva con l’essere più di intralcio che d’aiuto per la soluzione dei problemi.

Potrei azzardare una prima conclusione. Non ha senso parlare di competenza nel processo civile, dovendosi piuttosto parlare di competenze. Infatti, si deve riconoscere al legislatore il potere-dovere di individuare in ordine a ciascuna di esse il regime che ritiene preferibile. Per esempio, quando il legislatore del 1000 ha regolato i possibili conflitti tra collegio e giudice istruttore nel senso che

“alla nullità derivante dalla inosservanza delle disposizioni di legge relative alla composizione del tribunale giudicante si applicano gli artt. 158 e 161, primo comma” (così l’ult. co. dell’art. 274 bis), ha dettato le seguenti regole: a questo problema di attribuzioni non si applica l’art. 38 sulla preclusione nascente dal fatto che nell’udienza ex art. 183 né le parti né il giudice hanno sollevato la questione; il provvedimento con cui l’un giudice trasferisce all’altro la trattazione della causa ha la forma dell’ordinanza non impugnabile; il vizio che inficia la sentenza per essere stata la decisione emessa dal giudice unico e non dal collegio (o viceversa) non può essere dedotto con il regolamento di competenza, ma soltanto con l’impugnazione ordinaria; il giudice dell’impugnazione, che ritenga fondata la doglianza, non può annullare la sentenza e rimettere al primo giudice, ma deve, annullata la decisione, decidere nel merito.

Si potrà essere d’accordo o meno sulla scelta del legislatore e chi come me vede nella riserva di collegialità il riflesso di un obbligo costituzionale sanzionato di garantire al cittadino una sfera di controversie che siano decise collegialmente rileva come la disciplina finisca con l’essere elusiva di tale esigenza, giacché dà all’errore del primo giudice un rilievo, per così dire, didascalico, quale è la dichiarazione di nullità che non si accompagna al rifacimento del giudizio in primo grado. Mi sembra tuttavia certo che quando si spiega la norma assumendo che il legislatore ha disciplinato il contrasto alla stregua di un problema di costituzione del giudice e non di competenza, si dà una spiegazione tautologica che assume come presupposto che competenza sia soltanto quella disciplinata ai sensi degli artt. 38, 42, 45, (e 14) e non altra. È un errore in certo senso innoquo se si ha presente che quella regolate dagli articoli ora richiamati è una delle possibili forme della competenza, che non esclude l’esistenza di altre.

2. – Vediamo, allora, il regime fissato dopo le modificazioni del 1990 alla competenza, nella consapevolezza che, pur essendo un regime inserito nelle disposizioni generali del codice civile, esso riguarda la competenza nel primo grado del giudizio ordinario. Anzi, mi sembra che dopo la

“novella” questo carattere relativo della disciplina si sia ulteriormente accentuato.

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Nel codice del 1942 si distinguevano criteri di competenza forti ed erano quelli rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo; criteri semiforti, cui corrispondeva il regime della incompetenza per valore, rilevabile anche d’ufficio soltanto nel primo grado del giudizio; criteri deboli, quali la competenza per territorio derogabile, il cui difetto doveva essere eccepito subito con l’indicazione del giudice competente (indicazione necessaria per consentire un eventuale accordo sulla competenza). Su questa distinzione erano modellati l’art. 6 sulla nullità dei patti di deroga alla competenza, salvo che per quelli relativi alla competenza territoriale derogabile; gli artt. 31 ss. sulle deroghe alla competenza per ragioni di connessione con possibilità di celebrare un processo simultaneo a scapito di eventuali criteri derogabili o parzialmente derogabili di competenza (e non di altri); l’art. 45 sul regolamento di competenza d’ufficio, possibile quando fosse in gioco un criterio di competenza inderogabile (e, per taluno, anche un criterio parzialmente inderogabile).

La nuova formulazione dell’art. 38 ha completamente mutato il sistema: oggi, i criteri di competenza sono semideboli e deboli. I primi, che riguardano la competenza per materia, quella per territorio ex-inderogabile e anche quella per valore, possono dar luogo a un rilievo d’ufficio fino alla udienza di trattazione ex art. 183; i secondi, che riguardano la competenza per territorio derogabile, possono essere eccepiti “a pena di decadenza nella comparsa di risposta” (da intendere, dopo il valzer delle modifiche a cui il testo del 1990 è sottoposto in questi tempi da una infinita schiera di medici pietosi e talora di apprendisti stregoni, come la seconda difesa del convenuto di cui al 2° comma dell’art. 180 recentemente riformulato).

Quali sono le ripercussioni sistematiche di queste modificazioni sulle disposizioni preesistenti, rimaste immutate e che avevano come presupposto l’originaria formulazione dell’art. 38?

Su questi temi stiamo discutendo da troppo tempo e abbiamo oramai sprecato fiumi di inchiostro.

Mi limito, pertanto, a ricordare le conclusioni che mi sembrano preferibili:

a) quanto all’art. 6 resta fermo che patti di deroga in relazione alle competenze per territorio ex- inderogabile, per materia e per valore non sono consentiti. Sarebbe, però, un nonsenso continuare a parlare di nullità di tali patti. Forse oggi la situazione va più correttamente riportata all’inefficacia, nel senso che, adito il giudice secondo il criterio pattizio, l’altra parte e il giudice possono rilevare l’incompetenza fino all’udienza ex art. 183 senza che l’esistenza del patto paralizzi l’eccezione dell’una e la possibilità di rilievo dell’altro; adito un giudice diverso, l’altra parte non potrebbe invocarne l’incompetenza sulla base del diverso criterio di individuazione consensualmente concordato;

b) quanto alle deroghe per ragioni di connessione, non dovrebbero più esservi ostacoli alla trattazione simultanea derogando a uno qualsiasi dei criteri di competenza che nel caso concreto venga in rilievo. Il vero problema che si pone, a mio avviso, è quello di stabilire quale sia il giudice che debba conoscere dell’intera causa, posto che nella legge manca un criterio direttivo. La soluzione istintiva è quella di dire che conosce dell’intera causa il giudice preventivamente adito. È, peraltro, questa una soluzione insoddisfacente, di dubbia costituzionalità e, soprattutto, contrastante con gli artt. 38 e 40 in tema di continenza e di connessione. Mi sembra ragionevole pensare che vi sia un’attrazione dell’intero processo presso il giudice della causa principale o, quando non sia possibile individuare la causa principale, presso il giudice superiore, anche se quest’ultimo sia stato adito successivamente o, quando tali criteri non siano applicabili, davanti al giudice della causa proposta per prima;

c) in ordine all’art. 45 non sono tra quelli che ritengono implicitamente abrogato l’art. per effetto della modifica dell’art. 38. A questa conclusione pervengo, in primo luogo per una questione di metodo. Penso che sia nostra specifica responsabilità quella di aver assai spesso avallato interpretazioni che si risolvevano in vere e proprie manipolazioni dei testi di legge. Lo abbiamo fatto per porre rimedio al legislatore che, per usare le parole di Satta, aveva sragionato. Ma abbiamo, in tal modo, alimentato una generazione di giuristi e, soprattutto, di giudici abituati a considerare le norme come prodotti semilavorati o come proposte programmatiche che si possono modellare o sviluppare a piacimento. È, invece, importante il recupero della legalità, che passa necessariamente

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per il rispetto del testo di legge, lasciando alla Corte Costituzionale il compito di aggiungere, manipolare e via di questo passo. Orbene, quando una legge elenca analiticamente le disposizioni abrogate e tra queste non enumera l’art. 45 è da ritenere che questa disposizione è rimasta in vita.

Potrà, al massimo, porsi un problema di adattamento della disposizione nel quadro del nuovo sistema e, quindi, un problema di coordinamento, da cui potrà anche risultare una forte riduzione delle ipotesi in cui è utilizzabile il rimedio, mai una completa sua eliminazione. D’altra parte, se il legislatore avesse voluto eliminare il regolamento d’ufficio, avrebbe dovuto compiere una espressa scelta in favore dell’eliminazione del principio della c.d. Kompetenzkompetenz, scelta che sicuramente non è stata voluta e neppure immaginata.

3. – Degno di ulteriore esplorazione è, invece, l’art. 38 nella sua logica interna e nel raccordo con le disposizioni che fissano il modus procedendi quando sorgono questioni preliminari attinenti al processo il cui rilievo potrebbe essere ostativo alla trattazione del merito.

L’art. 38 sembra dire che la questione di competenza, una volta sorta, deve essere risolta in via preliminare. Tutto ciò non darebbe luogo a problemi applicativi se sulla competenza il giudice potesse provvedere con ordinanza non impugnabile se non con la successiva sentenza di merito.

Sappiamo, invece, che non è così: sulla competenza il giudice provvede con sentenza, che è impugnabile con un autonomo rimedio (oltre che con l’impugnazione ordinaria).

Vengono fuori non pochi problemi. In primo luogo ci si è chiesto se la nuova formulazione dell’art.

38 è compatibile con il potere del giudice istruttore di dare o non autonomo rilievo alla questione di competenza (rinviandone, in questo secondo caso, la definizione al momento in cui sarà deciso il merito: ex art. 187); in secondo luogo, ci si chiede come si coordina il potere di assumere informazioni ai fini della questione di competenza con la disciplina dell’udienza ex art. 183, che a questa fase eventuale non dà alcun rilievo; in terzo luogo e dando per ammessa la possibilità di accorpare al merito la questione sulla competenza, ci si chiede quali siano le possibili reazioni sulla decisione relativa alla competenza della istruttoria piena sul merito tutte le volte in cui le prove successive siano tali da evidenziare l’incompetenza del giudice adito, là dove la sua competenza prima facie appariva come sussistente.

Esaminiamoli singolarmente.

a) Quanto al primo punto sembra indubbio che il legislatore della “novella” ha avuto come obiettivo quello di ridurre l’importanza delle questioni di competenza, dando ulteriore attuazione al principio chiovendiano secondo cui il processo deve tendere nella misura massima possibile a pronunce di merito. A tal fine ha operato in due direzioni: ponendo limiti temporali anticipati alla possibilità di rilievo, su eccezione o d’ufficio, della questione di competenza; fissando modalità assai sbrigative di accertamento della competenza là dove non è possibile determinarla sulla base di criteri automatici e/o convenzionali (come avviene nei casi degli artt. 10 e 15).

La prima formulazione del nuovo art. 38, riprendendo l’espressione adoperata nell’art. 14, stabiliva che il giudice determinasse la competenza “in base a quello che risulta dagli atti”. Si osservò che, in questo modo, non era prevista l’ipotesi in cui il convenuto metta in discussione i fatti storici sui quali è stata fondata la competenza del giudice originariamente adito, rispetto alla quale è doveroso riconoscere all’altra parte il diritto a fornire la prova. Fu così che si aggiunse alla formulazione originaria la possibilità per il giudice di far ricorso alle “sommarie informazioni”.

Avvenga la determinazione della competenza sulla base di quanto risulta dagli atti o in forza di sommarie informazioni, il disegno del legislatore sembra chiaro: la questione di competenza è tra quelle che devono essere eliminate subito con una pronuncia immediata. Tutto ciò, come ho già rilevato, non avrebbe comportato problemi se la competenza fosse dichiarata con ordinanza non impugnabile. Ma non è questo il nostro sistema che prevede la forma della sentenza, l’impugnabilità immediata con regolamento di competenza e la sospensione automatica del processo in attesa della decisione sulla competenza. Il legislatore non ha ritenuto di compiere un intervento così radicale e si è fermato a mezza strada. Ne viene fuori un quadro incompleto e che ha giustificato una prima

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interpretazione, seconco la quale la nuova formulazione dell’art. 38 rende impossibile che il giudice istruttore, ai sensi dell’art. 187 co. 3°, disponga che la questione di competenza sia decisa

“unitamente al merito”.

Questa proposta è stata rigettata dalla maggioranza degli studiosi non tanto perché insostenibile sul piano teorico, ma soprattutto per esigenze pratiche. Si è avvertito il rischio che, così ricostruendo il sistema, si sarebbe offerta al litigante malizioso una via assai semplice per procrastinare sine die la soluzione della controversia. Gli basterebbe, infatti, lanciare nel processo un’eccezione di incompetenza, fondata o infondata che sia, per costringere il giudice a inserire un incidente da chiudere necessariamente con sentenza non definitiva, oltre tutto impugnabile con un rimedio, il regolamento di competenza, che comporta la sospensione automatica del processo originario (ex art.

48) (fra l’altro, va rammentato che non era passata la proposta formulata dal CSM, in un suo ben noto parere, di modificare tale disposizione). Di qui l’esigenza ineludibile di interpretare le norme nella maniera più prossima alle esigenze di accelerazione che il legislatore aveva tenuto di mira. A tal fine, si è dato valore al fatto che il 3° comma dell’art. 187 è rimasto immutato per inferire che il giudice istruttore resta arbitro di stabilire se invitare o non le parti a precisare immediatamente le conclusioni. Ed il suggerimento pratico non può essere se non quello di unire la questione sulla competenza a quella sul merito tutte le volte in cui non si abbia se non assoluta, notevole certezza che l’eccezione è fondata.

b) Il tema degli accertamenti necessari e possibili in ordine alla questione di competenza consente di fare il punto sul sistema quale risulta dagli atti normativi in vigore (con la riserva che il sistema potrebbe essere ulteriormente modificato).

In primo luogo, per stabilire quali sono gli “atti” al cui stato il giudice deve fare riferimento, bisogna fissare il momento oltre il quale la questione di competenza non è più rilevabile. Va allora considerato che il convenuto fino a venti giorni prima dell’udienza ex art. 183 (che, oramai, non è più la prima udienza del processo) “può proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio” (ex art. 180 novellato dall’art. 4 d.l. 21 giugno 1995, n. 238, reiterato); che nell’udienza ex art. 183 l’attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto e può essere autorizzato a chiamare il terzo, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto (il quale terzo, a sua volta, avrà diritto a sollevare nei modi e tempi di legge l’eventuale eccezione di incompetenza); che il giudice istruttore, su mera richiesta (è da ritenere, di una sola delle parti), è tenuto a dare un termine (non superiore a trenta giorni) per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; che è, altresì, tenuto a fissare un successivo termine a favore di entrambe le parti per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell’altra parte e per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime.

Il sistema (che a mio avviso è troppo macchinoso e soprattutto anelastico, perché impone uno svolgimento per udienze obbligate e secondo cadenze temporali prefissate che potrebbero non essere necessarie o necessarie in quel modo in relazione alle esigenze dei singoli processi) pone in rilievo che le parti hanno in sostanza tempo fino al deposito delle memorie ex art. 183 co. 5° per sollevare le eccezioni di competenza; e a tal fine distinguerei tra eccezione di incompetenza territoriale inderogabile, che è proponibile se è conseguenza delle domande e delle eccezioni formulate dalle parti nell’udienza medesima, e altre eccezioni di incompetenza che, essendo rilevabili d’ufficio “non oltre la prima udienza di trattazione”, sembrano inseribili in questi scritti difensivi finali che sono pur sempre appendici di tale udienza.

Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, il giudice si trova a valutare gli “atti”, al cui stato si deve fare riferimento al fine di decidere sulla competenza, non più nel corso dell’udienza ex art. 183, ma nell’udienza ex art. 184. E poiché la valutazione giudiziale, in questa fase, conta non ai fini decisori, ma al fine di stabilire la rilevanza della questione, da sollevare eventualmente d’ufficio, viene fuori un’evidente discrasia: il giudice viene in possesso degli elementi definitivi per stabilire se è o non il

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caso di rilevare d’ufficio l’incompetenza soltanto quando si è già passati all’udienza ex art. 184 e, quindi, quando egli non è più legittimato a sollevarla. Coerenza vorrebbe, allora, che il potere di rilevare d’ufficio l’incompetenza si consumasse nella fase preliminare dell’udienza ex art. 184.

Sulla base della sistemazione attuale, invece, il giudice è costretto a sollevare la questione eventualmente “alla cieca”, nel momento in cui ai sensi dell’art. 183 comma 3° chiede alle parti chiarimenti sulle questioni rilevabili d’ufficio, e quando ancora le parti possono svolgere ampia attività assertiva in contraddittorio fra loro.

Sia come sia, mi sembra opportuno un ulteriore rilievo che aggrava l’incoerenza ora denunciata: il giudice non può assumere “sommarie informazioni” per sollevare la questione di competenza d’ufficio, in quanto (ex art. 38) le sommarie informazioni possono essere disposte solo dopo l’eccezione della parte o il rilievo del giudice. Quindi, egli può usare come strumento di valutazione unicamente lo “stato degli atti”, così che costringerlo a sollevare la questione prima che questo

“stato” sia definitivamente acquisito al processo costituisce incoerenza ancora più grave.

Sotto il profilo esaminato è da sottolineare ancora una questione: che cosa significa che il giudice può rilevare d’ufficio l’incompetenza? Nell’art. 38 originario il termine “rilevare” era chiaramente sinonimo di “statuire”; e ciò in quanto il momento presclusivo del potere ufficioso di rilievo coincideva con quello della decisione della controversia. Nella nuova formulazione, essendo venuta meno la coincidenza, il termine rilevare finisce con l’essere adoperato con un nuovo significato, come sinonimo di sollevare la questione. Si tratta, allora, di capire se il giudice possa “sollevare” la questione, per impedire che su di essa si consumi una preclusione e, quindi, per lasciare al giudice della decisione il potere di delibarla; se possa, in altri termini, operare una sorta di “prenotazione” in favore del giudice della decisione; ovvero se egli sia tenuto ad invitare le parti a formulare le proprie osservazioni per passare immediatamente alla decisione, salva l’eventuale assunzione di sommarie informazioni (non preordinate al rilievo dell’incompetenza, ma) finalizzate ad acquisire elementi di giudizio (necessariamente nella fase istruttoria introdotta con l’udienza ex art. 184) sulla base delle osservazioni difensive svolte dalle parti.

Vi è la tendenza a ritenere che anche in questo caso il giudice possa accorpare le decisione sulla competenza con quella sul merito nel chiaro intento di dilatare fino all’estremo limite il tentativo del legislatore di ridurre l’importanza delle questioni di competenza. È una tendenza che non condivido: mi sembra, infatti, intrinsecamente contraddittorio che il giudice ritenga allo “stato degli atti” fondata la questione di incompetenza (tanto da sollevarla d’ufficio) e, contemporaneamente, proceda nell’istruzione della causa. La discrezionalità sottostante alla scelta che egli opera ai sensi dell’art. 187 comma 3° non è assoluta; come avviene per l’esercizio di qualsiasi pubblica funzione, deve essere esercitata in maniera ragionevole, e il fatto che ad esercitarla sia un giudice non deve indurre a cambiare il metro di valutazione.

4. – La terza questione sollevata merita qualche considerazione più diffusa, essendo di indubbia complessità.

Come si è visto il legislatore ha “bloccato” il materiale probatorio sulla cui base il giudice deve decidere sulla competenza a quanto le parti hanno fatto acquisire agli atti del processo fino agli ultimi scritti difensivi previsti dall’art. 183 o, al più, a quanto sia acquisito nelle sommarie informazioni assunte nell’udienza ex art. 184 (per la quale si deve inevitabilmente passare):

informazioni che, a mio avviso, si concretano in vere e proprie prove introdotte nel processo attraverso sistemi di acquisizione atipici.

Abbiamo anche visto che il giudice non è tenuto a dare rilievo all’incidente sulla competenza e che, anzi, è opportuno che egli unisca la decisione sulla competenza a quella di merito.

Può, allora, avvenire che ciò che appariva accettabile allo stato degli atti o sulla base di sommarie informazioni non lo sia più sulla base della istruttoria completa. Come dovrà comportarsi il giudice di fronte alla contraddizione dei dati, secondo i quali la situazione di fatto ai fini della competenza è diversa da quella valutabile ai fini del merito?

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Il problema si pone diversamente, secondo che sia in gioco un criterio di competenza territoriale, ovvero un criterio di competenza per valore o per materia. Nel primo caso la ripartizione delle competenze fra i giudici è legata necessariamente a situazioni esterne alla fattispescie per la quale è sorta la controversia, in quanto il presupposto è che tutti i giudici siano potenzialmente e allo stesso modo idonei ad occuparsi della controversia e che la ripartizione sia dovuta unicamente a ragioni di distribuzione degli affari. Nel secondo, caso, la ripartizione delle competenze è inevitabilmente in funzione di caratteristiche interne alla fattispecie controversa, in quanto il presupposto è che non tutti i giudici siano allo stesso modo idonei ad occuparsi di quella specifica controversia.

Quando sia chiaro questo presupposto è agevole comprendere perché l’eventuale contraddizione tra i dati di fatto valutabili ai fini della competenza e del merito non dia luogo a problemi quando è in gioco un criterio di competenza territoriale. Ritenere, ad es., che il domiclio del convenuto, sulla base degli atti e delle sommarie informazioni, sia diverso da quello risultante a istruttoria finita può legittimare una decisione in cui il giudice assume che il primo domicilio è quello da tenere in considerazione per affermare la propria competenza e che il secondo è quello, invece, rilevante per risolvere particolari problemi di merito (ad es., per individuare il luogo della conclusione del contratto o della sua esatta esecuzione). La contraddizione è accettabile, perché il primo domicilio viene assunto non per essere realmente tale, ma come criterio convenzionale di riferimento ai fini dell’individuazione del giudice competente. Allo stesso modo, individuare l’ultimo domicilio del de cuius può essere rilevante sia al fine di fissare la competenza per una causa ereditaria ex art. 22 sia per risolvere questioni di merito; ancora una volta, però, una differente individualizzazione di questo domicilio per l’una e per l’altra questione non dà luogo a contrasti insopportabili atteso il valore convenzionale della prima individuazione.

Per quanto riguarda la distribuzione della competenza per ragioni di valore, il legislatore aveva avvertito che alla base vi è un’opzione largamente discrezionale: stabilire, infatti, che un giudice e non un altro è idoneo a giudicare della particolare controversia perché ha un determinato valore è alquanto artificioso. Il valore della controversia, pur essendo un elemento intrinseco della fattispecie, è un elemento per così dire neutro, ossia non espressivo di peculiarità tali da imporre la scelta di un giudice piuttosto che di un altro. Di conseguenza, il legislatore del 1942 non solo aveva posto nell’art. 38 l’incompetenza per valore a mezza strada fra gli altri criteri (derogabili e inderogabili), ma aveva dettato negli artt. 10 ss. criteri di determinazione della competenza in prevalenza fondati su dati di riferimento formali o convenzionali (si veda per tutti, l’art. 15) e, dove ciò non era stato possibile, aveva mescolato, per usare una terminologia il cui uso si va diffondendo, criteri statici e criteri dinamici. Ben prima della recente “novella” taluno aveva osservato che l’art.

14 comma 3° era una sostanziale deroga all’art. 38 comma 2° nella sua originaria formulazione.

Mi sembra, di conseguenza, di poter dire che l’art. 38 non modifica gli artt. 10 ss. e, in particolare, l’art. 14, i quali restano pienamente in vigore. Diventa, allora, importante stabilire quale è il momento oltre il quale il convenuto, agli effetti previsti dall’art. 14, non può più contestare il valore dichiarato o presunto. L’art. 14 fa riferimento alla “prima difesa”. C’è da chiedersi se la prima difesa si identifichi, oggi, con la comparsa di costituzione ex art. 167 o con il secondo atto difensivo ex art. 180. Il problema si pone perché, dopo l’ultimo intervento del legislatore, nell’art. 167 è scomparso ogni riferimento alle eccezioni, che è invece stato trasferito nell’art. 180. Il problema interpretativo allora è quello di stabilire se la contestazione ex art. 14 sia da intendere come

“eccezione” di incompetenza ovvero come attività meramente difensiva. Se, come sembra preferibile, la contestazione integra una vera e propria eccezione di incompetenza, la soluzione obbligata è nel senso che il necessario coordinamento fra l’art. 14 e gli artt. 167 e 180 comporta la possibilità della contestazione fino al deposito della seconda difesa del convenuto.

Quando vi sia stata la contestazione, scatta la regola di valutazione di cui all’art. 14: il giudice deve decidere sulla base degli atti e non può procedere ad apposita istruzione tramite sommarie informazioni. Se, avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 187, rinvia la decisione sulla competenza al momento in cui sarà deciso il merito, potrà avvenire, come già era possibile per il

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passato, che il giudice valuti diversamente il valore della causa ai fini della competenza e ai fini del merito. Anche qui la contraddizione è ritenuta accettabile perché la distribuzione delle cause tra i giudici per ragioni di valore è governata da criteri formali e altamente convenzionali. Non si deve, peraltro, sottovalutare che tale conclusione è stata agevolata dal fatto che, in concreto, il problema si pone solo quando il giudice condanni a una somma inferiore al limite minimo della sua competenza là dove per i criteri formali o lo stato degli atti abbiano consentito al giudice stesso di ritenersi competente. Qualche perplessità maggiore si sarebbe forse avuta, se si fossero potuti presentare casi opposti (ad es., il pretore, che si sia ritenuto competente ai sensi dell’art. 14 comma 2°, si trova a condannare a una somma maggiore al limite massimo della sua competenza).

Resta il problema della incompetenza per materia, al quale, attesa la sua complessità, conviene dedicare qualche maggiore e specifica attenzione.

5. – Quando il legislatore individua un giudice competente per materia, effettua una valutazione per la quale, in considerazione delle caratteristiche intrinseche della controversia, quel giudice, e non altro, è idoneo a trattarla. Esemplifichiamo: se la controversia possessoria deve esser conosciuta dal pretore è perché il legislatore ritiene che sulla materia del possesso giudice idoneo è il pretore e non altri; se le controversie in materia di stato sono affidate al Tribunale è per identica ragione; e così per le controversie agrarie e via di questo passo. Questo collegamento, nel codice del 1942, era assoluto: il che vuol dire che sulla individuazione del giudice non potevano avere alcuna influenza le vicende processuali e che avevano rilievo soltanto i criteri statici di individuazione della competenza. L’unica eccezione era data dalla possibile formazione del giudicato sulla decisione relativa alla competenza che non fosse stata oggetto di apposito motivo di doglianza nel processo di impugnazione; ma si trattava di una eccezione legata al gioco di altri principi e in particolare al fatto che anche la sentenza sulla competenza era da ritenersi sottoposta al generale principio emergente dall’art. 161.

Questo sistema, che sotto il profilo logico era assolutamente coerente, è stato profondamente modificato dalla “novella”, che ha dato rilievo anche ai c.d. profili dinamici, assumendo che oramai non esiste alcuna inidoneità assoluta a giudicare, tutto essendo divenuto relativo. Se le parti e il giudice sono d’accordo, oggi, anche il giudice di pace può conoscere qualsiasi controversia, dalla più complessa questione in materia societaria a quella in materia di stato e capacità delle persone (qui, nella presumibile inerzia del p.m.).

Si viene, così, a portare alle estreme conseguenze, un motivo assai ricorrente nella cultura giuridica di questi tempi, cioè che l’un giudice vale l’altro, essendo tutti i giudici diversi soltanto per la diversità delle funzioni assegnate. Con la conseguenza che le norme sui criteri di competenza finiscono con l’avere la prevalente funzione di norme poste a salvaguardia del principio del giudice naturale, in quanto volte ad escludere che l’attore possa scegliere il giudice più gradito e ad imporgli invece il giudice precostituito per legge.

Non è questa l’occasione per soffermarsi su tale problema o per valutazioni in ordine alla opportunità della scelta del legislatore. Prendiamo atto che la linea di tendenza ora messa in rilievo ha prevalso e che si è oramai concretata nel testo di legge. Resta, tuttavia, assodato rispetto agli altri criteri di competenza che qui la scelta del giudice non avviene sulla base di criteri formali o convenzionali, ma in ragione delle caratteristiche della controversia e che queste caratteristiche spesso non si evidenziano chiaramente se non dopo la completa istruzione della causa. Di conseguenza il conflitto che può venir fuori dalla decisione del giudice di accorpare al merito la decisione sulla competenza per materia è sicuramente più vistoso e meno facilmente giustificabile.

Ed infatti la stessa distinzione tra ciò che attiene alla competenza e ciò che riguarda il merito è più difficoltosa. Esemplifichiamo ancora una volta: se l’attore propone domanda possessoria e il convenuto eccepisce di detenere in forza di un comodato, la questione riguarda il possesso o il merito? se l’attore chiede la restituzione di un fondo detenuto a titolo precario e il convenuto oppone di esserne affittuario, la questione è di competenza o di merito? se l’attore invoca un

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contratto di parasubordinazione ex art. 409 n. 3 e il convenuto ne contesta l’esistenza, ancora una volta la questione è di merito o di competenza?

Dire che la questione riguarda la competenza, significa che, negli esempi fatti, il pretore, il tribunale e il giudice del lavoro possono dichiarare la loro incompetenza se, allo stato degli atti o sulla base delle sommarie informazioni o di altro criterio formale eventualmente applicabile, le questioni sollevate con le riferite eccezioni appaiono loro fondate (e che sulla stessa base giudicherà anche la Corte di Cassazione, ove chiamata in causa dal successivo regolamento di competenza). Ma facciamo l’ipotesi inversa e chiediamoci che cosa succederebbe se, rinviata ogni decisione sulla competenza alla decisione sul merito, in questa sede il giudice si accorgesse che le eccezioni, inizialmente apparse infondate, sono invece fondate. Teoricamente egli dovrebbe dichiarare la sua competenza a decidere la causa possessoria, quella di restituzione del fondo, quella di lavoro; ma poiché nel merito la causa riguarda un comodato, un rapporto agrario, un rapporto di collaborazione non parasubordinata, si troverebbe, poi, nell’impossibilità di decidere la controversia se si dovesse ritenere che la cognizione ai fini della competenza non radica in lui il potere di conoscere anche del merito.

L’ultimo assunto è generalmente condiviso: si dice che la possibilità di decidere sulla competenza per materia allo stato degli atti o in forza di sommarie informazioni non pregiudica il potere di valutare diversamente la situazione di fatto che, oltre ad essere rilevante ai fini della competenza, è rilevante anche ai fini del merito. Di conseguenza, si assume che se la valutazione del merito dovesse portare ad una soluzione diversa rispetto a quella a base della decisione sulla competenza (es., il giudice ritiene esistente il comodato, il rapporto agrario, il rapporto non parasubordinato), il giudice non potrebbe ulteriormente affrontare gli elementi fattuali della vicenda (ed esaminare, ad es., che nonostante il comodato o il contratto agrario l’attore ha diritto alla restituzione; che nonostante l’inesistenza della parasubordinazione l’attore è egualmente creditore del convenuto), ma dovrebbe rigettare la domanda sotto il profilo giuridico prospettato dall’attore ai fini della competenza e senza pregiudizio per un’ulteriore o diversa domanda giudiziale basata su di un diverso profilo. Si concede, soltanto, che se l’unico titolo della domanda fosse quello la cui contestazione è successivamente risultata fondata (ad es. nell’azione possessoria il convenuto ha dedotto il comodato e nel merito l’attore si è limitato a contestarne l’esistenza, là dove il giudice, a istruttoria chiusa, si è invece convinto che il contratto effettivamente c’è stato), in questo caso il giudice dovrebbe rigettare la domanda con una pronuncia preclusiva anche di ulteriori azioni.

Siamo nel campo delle ipotesi e brancoliamo nel buio. Sono ad es., curioso di vedere come la modificazione dell’art. 38 influirà sulla giurisprudenza che aveva riconosciuto immediato valore all’eccezione, che non fosse prima facie infondata, di incompetenza del giudice adito e di competenza della sezione specializzata agraria. E ciò vuoi sotto il profilo che oggi comunque è necessaria una valutazione allo stato degli atti o sulla base di sommarie informazioni (non bastando più, come per il passato, la mera affermazione del convenuto) vuoi sotto quello dei poteri decisori della sezione specializzata agraria.

De iure condendo sarebbe auspicabile una disposizione che prevedesse la possibilità di decisione immediata sulla competenza per materia solamente quando non ci sia contestazione sui presupposti di fatto della situazione fatta valere in giudizio, imponendo in ogni altro caso la decisione congiunta, e ad istruttoria piena, sulla competenza e sul merito.

6. – Ho detto che il regime degli artt. 38, 42, 45 e 50 riguarda la competenza relativamente al processo ordinario di cognizione di primo grado. Ma non in ogni caso.

Sappiamo che problemi di ripartizione possono sorgere all’interno dello stesso ufficio giudiziario.

Si dice che le relative soluzioni non hanno rilevanza esterna, in quanto rientrano nel potere organizzativo dei capi degli uffici (e, come tali, non influiscono sulla validità delle decisioni né danno luogo a possibili motivi di impugnazione). Non sempre, però, questo è vero. Abbiamo visto che l’art. 274 bis detta una disciplina ad hoc per regolare i rapporti fra giudice unico e collegio

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all’interno dello stesso tribunale. Sappiamo che l’art. 427 riconduce al principio della rilevanza interna il caso in cui il pretore, adito per una causa di lavoro, ritenga che la stessa riguardi una causa ordinaria rientrante nella sua competenza, con salvezza, ben s’intende, della possibilità di far valere l’invalidità della sentenza emessa secondo un rito sbagliato con un motivo d’impugnazione, che peraltro non ha effetto restitutorio (egli, infatti, deve limitarsi a disporre che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie e deve trattare la causa). I rapporti fra sezioni distaccate e preture circondariali sono regolati dalle leggi 1° febb. 1989, n. 30 e 15 maggio 1989, n. 173, dalle quali apprendiamo che “la violazione dei criteri” di distribuzione degli affari giudiziari tra le sezioni o tra la sezione distaccata e la pretura circondariale può essere rilevata, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza con ordinanza (contro la quale, secondo la S.C., non è ammesso alcun rimedio immediato, ma solo quello successivo, di tipo esornativo, del riproporre la questione come motivo di impugnazione ordinaria senza effetto restitutorio). I rapporti fra sezioni specializzate agrarie e tribunali, nel cui interno queste operano, sono definiti di competenza inderogabile (ex art. 26 l. 11 febb. 1971, n. 11 e ora, ex art. 9 l. 14 febb. 1990, n. 29).

Una lettura delle varie disposizioni, insomma, rende manifesto che il legislatore sceglie le soluzioni sulla base di opzioni largamente discrezionali e che tra la piena irrilevanza esterna della questione e l’egualmente piena rilevanza della medesima, vi sono situazioni intermedie il cui parametro normativo è dato dall’art. 158 sulla nullità derivante dalla costituzione del giudice. Mi sembra chiaro che l’art. 158 è nato in funzione di situazioni affatto diverse, quali i vizi di nomina dei giudici, le irregolarità nella costituzione e nella composizione dei collegi, le irregolarità nella partecipazione agli stessi, ecc.; ed egualmente chiaro che lo stesso, nell’essere invocato per regolare anche situazioni quali quelle nascenti dai contrasti fra giudici unici e collegi o tra sezioni distaccate e pretura circondariale o sezioni distaccate fra loro, viene esteso a disciplinare situazioni originariamente non previste. Ma ciò è funzionale all’intenzione di regolare l’ipotesi diversamente da come avverrebbe se fossero applicabili gli artt. 38, 42, 45 e 50.

A maggior ragione è dubbio che queste disposizioni regolino la competenza quando ci troviamo di fronte a procedimenti speciali di cognizione o a procedimenti non di cognizione o a procedimenti di cognizione ordinaria, ma non nel primo grado.

Facciamo l’esempio del processo per ingiunzione. L’incompetenza territoriale derogabile non è rilevabile dal giudice dell’ingiunzione e tutti i criteri di competenza non possono essere per forza di cose oggetto di eccezione della parte, ma di opposizione con cui si denuncia la invalidità del provvedimento giudiziale. L’opposizione, poi, non va rivolta al giudice che sarebbe competente per il merito, ma al giudice dell’opposizione che si identifica con l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto (ex art. 645). Di conseguenza, questo giudice, qualora accogliesse la questione di competenza, dovrebbe annullare il decreto e individuare il giudice competente per il merito, dinanzi al quale la causa potrebbe trasmigrare.

Facciamo il caso della sentenza dichiarativa di fallimento. Se si ritenesse applicabile con gli opportuni adattamenti l’art. 38 alla fase prefallimentare, si dovrebbe ritenere che il fallendo debba eccepire l’incompetenza nel termine che il giudice, dopo l’intervento della Corte Costituzionale sull’art. 15 l. fall. (sent. n. 141/70), gli deve assegnare per comparire e per presentare proprie difese.

Ma si dovrebbe anche ritenere che la mancata eccezione e il mancato rilievo da parte del giudice nell’udienza fissata per l’audizione dell’imprenditore radichino definitivamente la competenza del giudice che ha iniziato la procedura. In questo modo sarebbero sanate non solo incompetenze territoriali e, quindi, potrebbe aversi non solo che il Tribunale di Roma dichiari fallimenti di competenza del Tribunale di Milano o viceversa senza che sia più esperibile alcun rimedio, ma addirittura che il fallimento sia dichiarato da un giudice di pace o da un pretore o da una Corte d’Appello. Cave a consequentiariis, dicevano i nostri padri e l’avvertimento non è mai sembrato più opportuno. La verità è che l’art. 38 si applica sicuramente ai processi ordinari di cognizione in primo grado; la sua applicabilità altrove presuppone un’accurata valutazione di compatibilità, che, quanto alla fase preliminare alla dichiarazione di fallimento, sembra mancare. Anche qui, pertanto,

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la competenza si pone necessariamente come requisito di validità della sentenza dichiarativa la cui mancanza può essere dedotta con l’opposizione (e non con il regolamento di competenza).

L’esemplificazione potrebbe continuare, ma non è questa la mia intenzione né la sede è opportuna.

Mi sembra sufficiente aver segnalato il problema e aver dato qualche indicazione operativa per risolverlo.

A maggior ragione bisogna essere prudenti quando si vuole trapiantare l’art. 38 fuori dal processo di cognizione. Si pensi al processo esecutivo. Il processo di espropriazione, sappiamo, nasce con il pignoramento, che la legge costruisce come atto dell’ufficio, con il quale si investe un determinato giudice dell’esecuzione. L’incompetenza del giudice, quindi, necessariamente si concreta (anche) in una invalidità del pignoramento da far valere con l’opposizione agli atti esecutivi (che sarebbe un’opposizione per motivi riproducibili anche nei successivi atti del procedimento e, quindi, per vizi non sanabili). Possiamo dire che se non è proposta l’opposizione si radica la competenza del giudice adito? e quale sarebbe l’udienza corrispondente nel processo espropriativo a quella regolata dall’art. 183, entro la quale il giudice potrebbe rilevare d’ufficio la sua incompetenza? ciò a tacere dal fatto che non sembrano in iure esistenti strumenti per consentire la trasmigrazione del pignoramento dall’uno all’altro ufficio esecutivo?

È evidente che prima i problemi erano nascosti dal fatto che, ritenendosi la competenza del giudice dell’esecuzione inderogabile, il rilievo della incompetenza era sempre possibile. Oggi, qualsiasi operazione ermeneutica volta a fissare un momento preclusivo finisce con l’essere arbitraria.

Potremmo azzardare una proposta, che è quella di equiparare l’udienza in cui si decide sull’assegnazione o la vendita a quella ex art. 183. Ma è una proposta più da apprendista legislatore che da interprete. Neppure azzardo proposte per le esecuzioni in forma diretta, vuoi perché non si sa quale sia il primo atto difensivo dell’esecutato, vuoi perché è problematico individuare una qualsiasi udienza di trattazione a meno di non voler questa rapportare alle udienze ex art. 610 che il pretore fissa per risolvere eventuali difficoltà o ex art. 612 per determinare le modalità dell’esecuzione.

Quanto al processo cautelare, si potrebbe dire che il rilievo dell’incompetenza si preclude dopo l’udienza che il giudice deve di norma fissare per “sentire le parti” ex art. 660 sexies. Anche qui si tratterebbe, peraltro, di equiparare tale udienza a quella ex art. 183. L’impressione è che si tratterebbe di una non necessaria forzatura. Il sistema, quale emerge dal successivo art. 669 septies, sembra infatti riservare al giudice libertà di provvedere anche con una dichiarazione di incompetenza senza dover subire l’effetto di preclusioni anteriori. La recente giurisprudenza, contraria alla possibilità di proporre regolamento di competenza avverso i provvedimenti cautelari, e la decisione della Corte Costituzionale sulla reclamabilità anche del provvedimento di incompetenza sembrano confermare che qui la competenza viene in rilievo soprattutto come requisito di validità del provvedimento positivo o negativo emesso dal giudice cautelare.

D’altra parte, la discussione avrebbe maggiore sostanza se la preclusione formatasi in sede cautelare si estendesse al successivo giudizio di merito (nel senso che la parte non potrebbe in tale sede eccepire l’incompetenza del giudice sul merito, non avendo sollevato l’eccezione in sede cautelare).

Ma la deduzione mi sembra impossibile, posto che ai sensi dell’art. 668 octies il giudizio di merito deve essere iniziato ex novo (e non continuato). Così come non mi sembra abbia senso un richiamo al solo art. 38 e alle improbabili possibilità di applicazione alla sede cautelare, quando sicuramente non è richiamabile la restante disciplina che all’art. 38 è collegata: penso, in particolare, ai regolamenti e alla trasmigrazione.

7. – Un rilievo a se stante merita la competenza del giudice del rimedio.

Partiamo da qualche caso concreto. Dice l’art. 341 che “l’appello... si propone rispettivamente al Tribunale e alla Corte d’Appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza”. L’art. 365 dà per scontato che “il ricorso (per Cassazione) è diretto alla Corte...”. “La revocazione si propone con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (art. 398). L’opposizione del terzo “è proposta davanti allo stesso giudice che ha

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pronunciato la sentenza” (art. 405). “L’appello contro le sentenze pronunciate nei processi relativi alle controversie previste nell’art. 400 deve essere proposto con ricorso davanti al tribunale territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro”.

Quelle elencate sono disposizioni che riguardano mezzi di impugnazione. A queste possiamo accostare le disposizioni che riguardano più propriamente, i rimedi. In pendenza del processo di espropriazione le opposizioni all’esecuzione, agli atti esecutivi e di terzo si propongono con ricorso al giudice dell’esecuzione (artt. 615, 617 e 619); l’opposizione a decreto ingiuntivo si propone davanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto (art. 645), l’opposizione dopo la convalida si propone davanti al pretore nelle forme prescritte per l’opposizione al decreto di ingiunzione (art. 668); l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento si propone con citazione davanti al tribunale che l’ha dichiarato (art. 15 l. fall.); contro il decreto emesso ai sensi dell’art. 28 St. lav. è ammessa opposizione davanti al pretore in funzione di giudice del lavoro ecc. ecc. Né va dimenticato che il giudice del reclamo contro il provvedimento cautelare è individuato in relazione al giudice che l’ha emesso (art. 669 terdecies) e che il giudice del merito ai sensi dell’art. 669 octies è collegato al giudice della cautela da una relazione biunivoca.

In tutte queste ipotesi per il passato non ci si interrogava sulla natura della competenza. Si diceva che si trattava di competenza funzionale e tanto bastava. Infatti, quanto alla disciplina concreta, si ottenevano due risultati applicativi di notevole importanza: l’incompetenza, sicuramente inderogabile, diventava rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo; la dichiarazione di incompetenza consentiva la salvezza del rimedio tramite il meccanismo della trasmigrazione.

Con la modificazione dell’art. 38 il primo risultato applicativo non è più consentito: poiché non esistono più casi espressamente regolati di competenza assolutamente inderogabile. Se per le ipotesi passate in rassegna si vuol fare riferimento all’art. 38, è inevitabile ritenere che anche queste ipotesi di incompetenza debbano essere rilevate nell’udienza ex art. 183 e che in difetto del tempestivo rilievo delle parti o dell’ufficio resti definitivamente fissata l’incompetenza del giudice adito. In questo modo, non solo sarebbe possibile appellare davanti alla Corte d’Appello di Milano una sentenza resa dal Tribunale di Roma con la probabilità che il processo resti radicato davanti alla corte milanese, ma è anche possibile ipotizzare che si appelli una sentenza del Tribunale dinanzi a un pretore; che si proponga opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento dinanzi a un pretore o a una Corte d’Appello; che si opponga un decreto ingiuntivo davanti ad un ufficio giudiziario del tutto scollegato; è possibile perfino ipotizzare un ricorso per cassazione non proposto alla Corte di Cassazione e che, per una sorta di sfida concordata tra parti e giudice, resti fermo definitivamente dinanzi al giudice adito.

Ancora una volta bisogna stare attenti nel ritenere che questi casi rientrino nella disciplina degli artt.

38, 42, 45 e 50 c.p.c. sulla base di una premessa sistematica che non mi sembra possibile condividere (quella che esiste nel sistema la disciplina unitaria della competenza e non invece una pluralità di discipline in relazione alle varie situazioni in cui può emergere un problema di competenza).

Se si accetta la mia premessa si apre il campo ad una vasta e delicata indagine volta a stabilire se e in quali delle ipotesi sopra passate in rassegna e delle altre ancora ascrivibili allo stesso fenomeno sia possibile configurare la competenza del giudice come requisito di ammissibilità del rimedio.

Il prezzo che si paga con tale tipo di impostazione è quello di ritenere che l’errore nell’individuazione del giudice da parte di chi ha proposto l’impugnazione o il rimedio, determinandone l’inammissibilità, impedisca al giudice di esaminare nel merito le singole doglianze (e ciò in contrasto con l’aspirazione di tutto il nostro sistema processuale a pronunce di merito tutte le volte in cui ciò sia possibile). Risponderei a questa obiezione che, il principio dell’aspirazione a provvedimenti di merito, deve essere difeso quando una pronuncia di merito ancora non si è avuta;

quando la pronuncia c’è stata, quel principio assume una valenza meno determinante, così che

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l’ordinamento ha la possibilità di configurare requisiti di ammissibilità nei limiti in cui gli stessi rispondano ad esigenze ragionevoli.

D’altra parte, se dovesse restare ferma l’ultima formulazione dell’art. 184 bis, sulla possibilità di rimettere in termini la parte in ogni caso in cui la stessa sia incorsa in decadenza per causa non imputabile, la preoccupazione ora evidenziata perderebbe ulteriormente di valore. Infatti, si potrebbe rimettere in termini la parte quante volte egli fosse incorsa in un errore scusabile. Al qual riguardo, mi piace di segnalare che un gruppo di studiosi che ha esaminato la possibilità di dettare norme comuni per i processi civili nei Paesi della Comunità europea ha segnalato che esiste un vero e proprio obbligo per gli Stati di rendere trasparenti procedure e rimedi e ha suggerito che in calce a ciascun provvedimento gli uffici giudiziari informino i destinatari dei rimedi utilizzabili e delle forme da seguire. Se questa è la linea di tendenza, sarebbe poi eccessivo riconoscere alle parti la possibilità di salvare l’efficacia dei rimedi proposti al giudice incompetente attraverso l’istituto della trasmigrazione.

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GIURISDIZIONE E COMPETENZA.

RILIEVO DELL’INCOMPETENZA E DISCIPLINA DELLA CONNESSIONE

Relatore:

dott. Raffaele FRASCA

pretore della Pretura circondariale di Monza

Sommario: 1. Premessa – 2. L’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 5 e dell’art. 40 c.p.c. ed i processi a cui esso si applica – 3. Considerazioni generali sul nuovo testo dell’art. 5 c.p.c. alla luce degli orientamenti interpretativi sul vecchio testo – 4. I casi che il nuovo art. 5 consente di risolvere – 5. I casi che l’art. 5 lascia o lascerebbe insoluti. L’ipotesi del mutamento di qualificazione giuridica del rapporto controverso – 6. Il caso della c.d. competenza sopravvenuta – 7. L’art. 5 c.p.c.

e il mutamento, la modifica e la riduzione della domanda – 8. L’art. 5 e la disciplina della modifica della competenza per ragioni di connessione – 9. L’art. 5 ed i giudizi di impugnazione. La soppressione di Uffici giudiziari. “Relatività” del valore dell’art. 5 – 10. La duplice novellazione della norma dell’art. 40 c.p.c. e i tempi diversi della sua entrata in vigore – 11. L’incidenza sulla competenza soltanto della novellazione riguardante il giudice di pace – 12. La connessione avanti ai giudici togati – 13. L’ipotesi in cui fra le cause connesse ve n’è almeno una soggetta al rito ordinario e l’ipotesi in cui ve n’è almeno una rientrante fra quelle di cui agli articoli 409 e 442 c.p.c.

– 14. L’ipotesi in cui le cause connesse sono soggette tutte a differenti riti speciali – 15. Le ipotesi di connessione a cui la normativa dei nuovi terzo, quarto e quinto comma dell’art. 40 si applica la nozione di rito speciale – 16. Conseguenze della violazione della nuova normativa avanti ai giudici togati – 17. La connessione riguardo alle controversie di competenza del giudice di pace – 18.

Connessione fra processi soggetti al vecchio rito e processi soggetti al nuovo rito – 19. Riflessi della decretazione d’urgenza sul secondo comma dell’art. 40 c.p.c.

1. Premessa.

Come d’accordo con il prof. Acone, il tema della mia relazione riguarderà – naturalmente con riferimento alla riforma del processo civile – le questioni relative alla giurisdizione ed alla disciplina della connessione e non si occuperà delle questioni relative alla competenza, sia in senso statico che dinamico, se non per eventuali implicazioni sui temi direttamente trattati.

L’ambito della relazione, così delimitato, comporta essenzialmente l’esame di due norme, le quali sono state modificate dalla riforma del processo civile (tuttora in corso d’opera), o, se si vuole, in corso di smantellamento per effetto della controriforma espressasi nella nota decretazione d’urgenza (dd.ll. n. 238/95 e 347/95, ormai decaduti per mancanza di conversione, e, vigente fino al 20 dicembre 1995 ed in attesa di problematica ed improbabile conversione, d.l. n. 432/95).

Si tratta delle norme dell’art. 5 e dell’art. 40 c.p.c.

La prima concerne la giurisdizione, la seconda la connessione.

Per la verità la riforma del processo civile ha inciso anche su un’altra norma che riguarda la giurisdizione, cioè sull’art. 367 c.p.c., che è stato novellato opportunamente con la soppressione del vecchio principio della sospensione necessaria del giudizio, nel quale fosse stata sollevata questione di giurisdizione, a seguito della mera proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione.

Principio che, com’è noto, si era prestato a consentire veri e propri abusi, essendo accaduto di

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frequente che la parte interessata solo ad una lunga durata del processo scorrettamente ed infondatamente proponesse istanza di regolamento preventivo di giurisdizione per ottenere la sospensione del processo in attesa della – non certo sollecita, dati i carichi di lavoro della Corte – pronuncia della Cassazione. Non essendo il tema della relazione esteso al regolamento di giurisdizione, della novellazione dell’art. 367 non mi occuperò.

2. L’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 5 e dell’art. 40 c.p.c. ed i processi a cui esso è applicabile.

1) Mi sembra opportuno dar conto preliminarmente, sia del momento in cui le nuove norme dell’art.

5 e dell’art. 40 sono entrate in vigore, sia dei processi a cui hanno già trovato o trovano (e troveranno) applicazione.

2) Il nuovo art. 5 c.p.c.:

a) è entrato in vigore (insieme ad una serie di altre norme della l. 353/90) a far tempo dall’1 gennaio 1993 per i processi iniziati a far tempo da quella data: ciò, in forza dell’art. 92 primo comma primo inciso della l. 353/90, come modificato dall’art. 5 della l. n. 477/92, la quale, com’è noto, fece entrare in vigore, a far tempo appunto dall’1 gennaio 1993, talune norme della l. 353/90;

b) è divenuto applicabile ai processi pendenti già alla data dell’1 gennaio 1993 a far tempo dal 22 aprile 1995, a seguito della modifica dell’art. 90 della l. 353/90 (come emendato dall’art. 4 del d.l. 7 ottobre 1994 n. 571, convertito nella l. 6 dicembre 1994, n. 673), operata dall’art. 1 del d.l. 21 aprile 1995, n. 121, con la quale venne capovolta la scelta pregressa della applicazione della nuova disciplina processuale della riforma a quei processi, stabilendosi l’inverso principio della continuazione dell’applicazione ad essi del vecchio rito, ma nel contempo sancendosi delle eccezioni, limitatamente a quelle stesse norme divenute applicabili dall’1 gennaio 1993 ai processi pendenti a partire da quella data.

Il d.l. n. 121/95 decadde per mancata conversione, ma, com’è risaputo, venne reiterato con modifiche, che, però non riguardarono l’art. 90 citato, dapprima con il d.l. 21 giugno 1995, n. 238, poi con quello 9 agosto 1995 n. 347, entrambi decaduti, ed infine con il d.l. 18 ottobre 1995, n. 432 in vigore dal 21 ottobre 1995 ed in attesa di conversione: è evidente che nel periodo antecedente il 21 ottobre 1995, le disposizioni dei precedenti decreti legge innanzi citati sono da considerare tamquam non esset. Tuttavia, si dovrebbe reputare che il nuovo testo dell’art. 5 sia divenuto comune applicabile ai processi pendenti già all’1 gennaio 1993, in forza dell’entrata in vigore a far tempo dall’1 maggio 1995 della disposizione del secondo inciso del primo comma dell’art. 92 della l.

353/90, come modificato dall’art. 6 del citato d.l. n. 571/94 convertito nella l. n. 673/94. Tale secondo inciso, infatti, stabiliva che ai processi pendenti all’1 gennaio 1993 continuassero a trovare applicazione al 30 aprile 1995 le disposizioni del vecchio rito (e, quindi, il vecchio art. 5) e, pertanto, letto a contrario comportava che dall’1 maggio 1995 trovassero applicazione le nuove norme della l. 353/90 e tra queste il novellato art. 5. A seguito della caducazione del d.l. n. 121/95 (e poi dei dd.ll. n. 238/95 e n. 347/95), l’art. 92 suddetto è divenuto applicabile in questa lettura a contrario ai processi pendenti all’1 gennaio 1993 a far tempo dall’1 maggio 1995. Sostanzialmente il risultato voluto dai dd.ll. n. 121/95, 238/95 e n. 347/95 ed ora disposto dal d.l. n. 432/95, cioè quello di determinare l’applicazione dell’art. 5 anche ai processi pendenti all’1 gennaio 1995, non risente della caducazione dei primi tre fra quei decreti.

Dunque, il nuovo art. 5, prescindendo dalle vicende della decretazione d’urgenza è applicabile a far tempo dall’1 maggio 1995 a tutti i processi civili, siano essi stati pendenti a quella data o siano essi stati iniziati da o dopo quella data.

3) La vicenda dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 40 c.p.c. è, se possibile, più complessa.

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Infatti, il legislatore della riforma del processo civile ha novellato l’art. 40 con due diverse leggi.

Dapprima l’art. 3 della l. 353/90 previde l’introduzione, dopo i primi due commi originari della norma, di un terzo, un quarto ed un quinto comma. Successivamente, l’art. 19 della l. n. 374/91 istitutiva del giudice di pace, previde l’introduzione di un sesto ed un settimo comma.

Ora, la vicenda dell’entrata in vigore dei nuovi commi terzo, quarto e quinto dell’art. 40 ricalca assolutamente in tutti i suoi passaggi quella innanzi riferita a proposito dell’art. 5 e, pertanto, la situazione attuale è nel senso che, indipendentemente dalle vicende della decretazione d’urgenza di cui si è detto, i tre commi in discordo trovano oggi applicazione a tutti i processi civili, siano essi stati pendenti alla data dell’1 maggio 1995 siano essi stati iniziati da o dopo quella data.

Il sesto e settimo comma dell’art. 40, viceversa, sono entrati in vigore a far tempo dall’1 maggio 1995, in forza dell’art. 49 della l. n. 374/91, come modificato dall’art. 13 del d.l. n. 571/94 convertito nella l. n. 673/94. In forza di tale modifica, l’art. 49 disponeva appunto l’entrata in vigore a partire dall’1 maggio 1995. È da notare che mentre il sesto comma della norma, autorizzando la possibilità della proposizione congiunta di una domanda attribuita al giudice di pace e di una competenza del pretore o del tribunale, avanti ad uno di questi ultimi giudici, ha potuto trovare applicazione soltanto a nuovi processi iniziati dall’1 maggio 1995 in poi, perché solo da allora è stata introdotta la competenza del giudice di pace, viceversa, il settimo comma potrebbe essere ritenuto applicabile allorché una causa di competenza del giudice di pace, connessa per i motivi di cui al sesto comma con altra già pendente avanti al pretore od al tribunale alla data dell’1 maggio 1995, sia proposta dopo tale data. Il giudice di pace dovrebbe rilevare la connessione e rimettere le parti avanti al pretore od al tribunale. In conseguenza, la norma dell’art. 40 settimo comma verrebbe a disciplinare una situazione in parte “pendente” alla data dell’1 maggio 1995.

3. Considerazioni generali sul nuovo testo dell’art. 5 c.p.c. alla luce degli orientamenti interpretativi sul vecchio testo.

Il vecchio art. 5 c.p.c. recitava che “la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti dello stato medesimo”. Il nuovo testo dell’art. 5 suona allo stesso modo, ma con l’aggiunta, dopo la parola “riguardo” delle parole “alla legge vigente e” e dopo la parola “mutamenti” delle parole “della legge o”. La modificazione così operata ha introdotto un’importante innovazione del nostro ordinamento processuale civile, o, meglio, ha introdotto un’innovazione radicale atta ad incidere su come l’art. 5 vecchio testo veniva interpretato.

Interpretazione che costituiva il c.d. “diritto vivente”. L’innovazione è rappresentata dalla espressa astensione del noto principio della perpetuatio iurisdictionis ai mutamenti della giurisdizione e della competenza derivanti direttamente da innovazioni della legge, sopravvenuti al momento della proposizione della domanda giudiziale.

In questo fenomeno, che si esprime con la formula mutamenti dello stato di diritto rilevante ai fini dell’individuazione di competenza e giurisdizione, rientrano una serie di ipotesi e precisamente:

a) la modificazione legislativa di un elemento legale della fattispecie normativa che attribuisce la competenza o la giurisdizione, cioè della nozione del c.d. criterio di collegamento (ad es., il legislatore modifica il concetto di residenza, ipotesi rilevante ai fini della competenza per territorio, ed in base alla modifica la controversia, che prima apparteneva al giudice adito, risulta attribuita ad un diverso giudice);

b) la modificazione legislativa dell’intera fattispecie attributiva della competenza o della giurisdizione (ad es., il legislatore modifica una regola di competenza per materia, per cui la controversia che al momento della domanda apparteneva al giudice adito risulti attribuita ad altro giudice);

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c) la modificazione legislativa della estensione della circoscrizione giudiziaria del giudice adito che scaturisca a seguito della creazione di un nuovo ufficio giudiziario, per cui una “fetta” della competenza territoriale di un certo ufficio passa ad altro ufficio, ovvero a seguito dell’attrazione nella circoscrizione di un ufficio esistente di una fetta della competenza territoriale dapprima spettante ad altro limitrofo ufficio, che sia stato soppresso.

Più dubbio è, invece, se nel fenomeno debba farsi rientrare l’ipotesi in cui la legge qualifica in modo diverso da quello vigente all’atto della domanda il rapporto controverso, di modo che, pur non essendo incisa in via diretta la regola di collegamento attributiva della competenza o della giurisdizione, il rapporto appaia riconducibile alla competenza o giurisdizione di altro giudice (es.;

un rapporto di lavoro pubblicistico viene da una nuova legge qualificato come privatistico).

Ora, i mutamenti dello stato di diritto rilevante per l’individuazione di giurisdizione e competenza, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso, peraltro, da una parte della dottrina (1), venivano ritenuti estranei all’ambito del vecchio art. 5. Tale orientamento veniva giustificato sulla base del rilievo che tale norma si riferiva espressamente ai soli mutamenti dello stato di fatto rilevante ai fini della determinazione della competenza e della giurisdizione (ad es., cambiamento di residenza nel corso del processo da parte del convenuto).

Con una certa coerenza la giurisprudenza riteneva, pertanto:

aa) che l’art. 5 fosse inapplicabile nel caso di ius superveniens in ordine alla legge direttamente modificatrice della giurisdizione o della competenza, con la conseguenza che, se in base alla legge nuova fosse sopravvenuto il difetto della giurisdizione ovvero della competenza del giudice adito, essa doveva senz’altro rilevarsi (naturalmente in assenza di disposizioni transitorie contrarie e sempre che secondo il regime processuale la possibilità di sollevare la relativa questione non fosse già preclusa) (2);

bb) che, sempre per l’inapplicabilità dell’art. 5, al contrario, nell’ipotesi di mutamento della legislazione sulla giurisdizione o competenza che avesse determinato la sopravvenuta giurisdizione o competenza del giudice adito, non potesse farsi dichiarazione del difetto originario della giurisdizione o della competenza (sempre in assenza di disposizioni transitorie contrarie);

cc) che, ancora una volta per la inapplicabilità dell’art. 5, nel caso di mutamento di qualificazione giuridica del rapporto controverso importante mutamento della giurisdizione l’intervento di una legge attributiva della giurisdizione ad un giudice diverso da quello adito imponesse sempre (in difetto di diritto transitorio in senso contrario) la declinitoria della giurisdizione (3).

Orientamenti non sempre univoci sussistevano, invece, a proposito di quei mutamenti dello stato di diritto riguardanti elementi della fattispecie legale attribuita della giurisdizione o della competenza ovvero casi di mutamento delle circoscrizioni giudiziarie, quali quelli derivanti dalla costituzione di una nuova Corte d’Appello con conseguente mutamento del c.d. foro erariale (4).

Il nuovo testo dell’art. 5 c.p.c., con il chiaro riferimento ai mutamenti della legge e la previsione della loro irrilevanza potrebbe sembrare idoneo a risolvere tutti i casi appena indicati. Ma questa è soltanto un’impressione superficiale, ancorché si debba concordare con chi ha propugnato un’interpretazione quanto più alta possibile della nuova norma (5).

4. I casi che il nuovo art. 5 consente di risolvere.

La nuova formulazione dell’art. 5 non è apparsa alla dottrina, nonostante gli auspici della Relazione Acone-Lipari alla l. 353/90 (6), idonea a risolvere tutte le ipotesi di mutamento dello stato di diritto, incidenti sulla giurisdizione e sulla competenza nel senso della loro irrilevanza sui giudizi pendenti.

Non si pone in discussione in dottrina che in base al nuovo art. 5 dovranno considerarsi irrilevanti:

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