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Cara prostataquanto mi costi!

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Academic year: 2021

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LE ULTIME SCOPERTE SULL’ETÀ PIÙ CONFLITTUALE: “E’ UN PERCORSO CREATO DALLA NATURA , COMUNE A TUTTE LE SPECIE”

“Adolescenti, cioè animali selvaggi”

Che cosa ci insegnano scoiattoli e pinguini

EMANUELA GRIGLIÉ

S

ardine, pinguini,

iene maculate, ad-dirittura pipistrel-li. Sono molto umani, se osserva-ti nel passaggio dall’infanzia all’età adulta. O, viceversa, siamo noi uma-ni che siamo parecchio bestia-li in quegbestia-li anni compbestia-licati.

Lo spiegano Barbara Nat-terson-Horowitz, biologa evoluzionista che insegna al-la UCLA e ad Harvard, e Kath-ryn Bowers, divulgatrice scientifica. In «Wildhood - L’età selvaggia» (uscito in Ita-lia per Piemme) mettono a si-stema il loro studio approfon-dito del mondo animale dura-to un quinquennio per illumi-narci su alcuni comporta-menti tipici dei figli teen ager. Il succo è guardare all’a-dolescenza considerandola un percorso naturale comu-ne a tutte le specie, che affon-da le radici nel nostro passa-to di animali selvatici.

Fase fondamentale dello sviluppo per conquistare la capacità di cavarsela da soli. Pur sempre tosta. Ma conso-liamoci: nello squalo della Groenlandia l’adolescenza dura 50 anni. E delle miglia-ia di pinguini reali «teen», che ogni anno per sfuggire all’ansia del nido si buttano nelle acque infestate dai pre-datori, molti non sopravvivo-no. A noi umani, tutto som-mato, va anche bene. «In na-tura lo scopo dell’adolescen-za è quello di superare espe-rienze difficili e talvolta peri-colose che trasformano cuc-cioli ingenui in adulti auto-sufficienti, forti e resistenti. Osservando questo percor-so negli animali - ci spiegano le autrici - abbiamo

indivi-duato quattro ambiti che de-finiscono questo passaggio: sicurezza, status, sesso, fidu-cia in se stessi».

«Gli animali - aggiungono - devono acquisire abilità in ognuna di queste aree o, let-teralmente, non sopravvive-ranno. Noi umani potrem-mo non potrem-morire, ma alcuni sentimenti di infelicità o in-soddisfazione negli adulti provengono chiaramente dal non avere maturato con successo queste esperienze di apprendimento». La chia-ve di lettura offerta dalle due scienziate può aiutare genitori e insegnanti a esse-re più empatici e attenti agli sbalzi d’umore dei teen. E più comprensivi per le loro

pazzie: ogni giovane per di-ventare esperto deve fare esperienze e uscire dalla sua «comfort zone».

Del resto la propensione al rischio da parte degli ado-lescenti è comune a tutto il mondo animale. I pipistrelli sfidano i gufi, bande di sco-iattoli saltellano avventata-mente attorno ai serpenti a sonagli. Vero, però, che i ra-gazzi di oggi, abituati a esi-stere e relazionarsi molto più in digitale che faccia a faccia, sembrano aver con-servato ben poco di ancestra-le. «Tutti gli adolescenti sono animali selvaggi: il mondo di-gitale è semplicemente un nuovo ambiente in cui vaga-no. Sebbene le sfide possano

sembrare estremamente di-verse da quelle del mondo rea-le, sono sostanzialmente le stesse», spiega Natterson-Ho-rowitz. «In un certo senso gli umani sono più simili ad ani-mali domestici - aggiunge Bo-wers -. Controlliamo così tan-to il nostro ambiente che non dobbiamo più preoccuparci dei predatori, dei cambia-menti di temperatura e persi-no delle scorte di cibo. Tutta-via il meccanismo dell’adole-scenza, inteso come l’insie-me di comportal’insie-menti e muta-menti fisiologici che si sono sviluppati per far entrare i cuccioli nell’età adulta, non è diminuito di intensità. È co-me se fossimo tutti nati con una Ferrari dentro di noi. Ma

la vita umana di oggi, di cui la componente digitale è tanta parte, ci fa guidare quella Fer-rari come se fosse una Ford Fiesta. E poi anche nella vita online gli adolescenti devo-no imparare sicurezza, sta-tus, sesso e fiducia in se stes-si. In un certo senso è ancora più difficile per i bambini. De-vono diventare maggiorenni in due mondi: quello digitale e quello reale».

Ragazzi che hanno affron-tato anche una sfida di adat-tamento non da poco: il lock-down. «Ci sono momenti in natura in cui l’abbandono del nido o della tana è ritar-data. In queste circostanze, avendo più tempo con i loro genitori teoricamente

esper-ti di esistenza, gli adolescen-ti possono diventare più abi-li. Tuttavia la dispersione ri-tardata può anche rallenta-re l’acquisizione di capacità e di sicurezze utili nel mon-do esterno », seconmon-do Natter-son-Horowitz. «A essere one-sti è probabile che a causa dei mesi di blocco vi siano stati importanti impatti sul modo in cui i ragazzi socializ-zano», specifica Bowers.

«Personalmente, è stato in-teressante vedere gli effetti su di me, come genitore, del-la cosiddetta assistenza pa-rentale estesa. Mia figlia, che aveva lasciato casa per il college, è tornata a vivere con me e mio marito. La cura genitoriale estesa avviene anche in natura per molte specie, quando per via di una calamità i cuccioli torna-no nel nido per un'altra sta-gione. Ci sono casi di pingui-ni che nutrono la prole già cresciuta. E lo fanno rigurgi-tandogli i pasti direttamente in bocca. Ecco, per fortuna, io non ho dovuto eseguire questa operazione con mia fi-glia! Però mi sono dovuta ria-bituare a dinamiche da cui non mi sarei proprio aspetta-ta di passare di nuovo».

Prossima tappa: l’invec-chiamento. Le due studiose sono al lavoro a un nuovo progetto: capire come gli animali diventano anziani e quali insegnamenti potrem-mo trarne noi umani per af-frontare anche questa fase della vita nel modo più natu-rale possibile. — © RIPRODUZIONE RISERVATA

Ai lettori

n. 104

A CURA DI GABRIELE BECCARIA CONTATTO [email protected]

Tuttosalute va in vacanza: ar-rivedereci al 1° settembre

tutto

salute

Opportunità

e problemi

con le cure

Car-T

NICLA PANCIERA PAG. 30

A Milano

il super-ospedale

contro le prossime

pandemie

CHIARA BALDI PAG. 32

Uomini e donne

diversi

anche

nelle terapie

NOEMI PENNA PAG. 30 E 31

S

(2)

. L E C U R E CA R -T R I C H I E D ONO S O F I ST I CAT I L A B O R AT O R I D I P R O D U Z I ON E

Ora si guarisce con i linfociti riprogrammati

“Ma i centri in Italia sono ancora pochi”

NOEMI PENNA

U

omini e donne, pericolosamente simili per la medi-cina. Può sembra-re scontato che agli uni e alle al-tre, così diversi per anatomia e fisiologia, vengano prescrit-te cure specifiche quando si ammalano. E invece, troppo spesso, così non è.

Medicina e farmacologia di genere sono una novità: c’è ancora molto da fare per arrivare all’equità della cu-ra. Lo sa bene Silvia De Fran-cia, farmacologa clinica e ri-cercatrice dell’Università di Torino, impegnata nella bat-taglia contro il «bias di gene-re» per evitare che le donne continuino a ricevere tera-pie e trattamenti a «misura d’uomo».

«Uomini e donne si amma-lano in modo diverso: spes-so non presentano sintomi identici di malattia e, per al-tro, non possono assumere i medesimi farmaci con gli stessi livelli di sicurezza», spiega De Francia. Il Co-vid-19 è stata un’ulteriore prova di come esista una

dif-ferenza di genere sia nei tas-si di infezione tas-sia in termini di mortalità, in questo caso a vantaggio delle donne, che hanno un sistema immu-nitario più forte. «Eppure - continua De Francia -, an-che se la scienza ha appura-to le differenze di sesso e ge-nere negli individui, queste, nella routine clinica speciali-stica e nella medicina di ba-se non sono state ancora pre-se in pre-seria considerazione».

Silvia De Francia racconta questa realtà - e i suoi proble-mi - ne «La medicina delle differenze. Storie di donne, uomini e discriminazioni», edito da Neos, i cui diritti d’autore saranno devoluti al dipartimento di Scienze Cli-niche e Biologiche dell’Uni-versità di Torino a sostegno della ricerca in farmacolo-gia genere-specifica. L’as-senza di un approccio multi-disciplinare di questo tipo si-gnifica molto: prima di tutto diagnosi errate.

«Il cuore della donna - sot-tolinea - può ammalarsi in modo diverso da quello ma-schile, ma i sintomi d’infarto che vengono riconosciuti su-bito, e con facilità, sono quel-li più frequenti nell’uomo. La donna può presentare come sintomi solo una lieve dis-pnea, con dolori retrosterna-li, senza il classico dolore al petto che irradia al braccio

si-nistro». Il risultato? Le don-ne vengono spesso ospedaliz-zate in reparti non adeguati, con terapie tardive, che pro-vocano una maggior letalità o un recupero più lento. Dia-gnosi errate basate sul pre-giudizio che le malattie car-diovascolari siano appannag-gio maschile, a testimonian-za di un serio problema di for-mazione nei medici.

Solo adesso medicina e di-ritto si stanno lentamente adeguando per garantire a ciascuno un trattamento equo, tarato sui dati soggetti-vi che ciascun indisoggetti-viduo por-ta inevipor-tabilmente con sé dal-la nascita. «Solo a giugno del-lo scorso anno, in Italia, è sta-to approvasta-to il Piano per l’ap-plicazione e la diffusione del-la medicina di genere nei re-parti ospedalieri e, quindi, il personale sanitario sarebbe formalmente obbligato per legge a considerare sesso e genere degli individui in ter-mini di cure». Ma ciò che è sulla carta è lontano anni lu-ce da ciò che accade quotidia-namente negli ospedali, ne-gli ambulatori e nene-gli studi dei medici di base. «E’, per esempio, all’ordine del gior-no nei pronto soccorso l’arri-vo di donne colpite da tossici-tà da farmaco», spiega De Francia: «Nel mondo il 50% dei ricoveri è a carico di don-ne coinvolte da questo pro-blema. Si tratta di farmaci che non sono mai stati testa-ti, prima dell'immissione in commercio, sulla popolazio-ne femminile».

Eppure, oggi, né la medici-na genere-specifica né la far-macologia genere-specifica sono presenti nei programmi didattici. De Francia, e pochi altri docenti in Italia, la pro-pone nelle proprie lezioni di farmacologia generale e spe-ciale all’università, ma è chia-ra l’urgenza di corsi d’aggior-namento, a partire dai medi-ci di base, così come è neces-saria una visione più ampia per le scuole di formazione al-la professione sanitaria. La medicina genere-specifica, infatti, è una disciplina tra-sversale: serve a curare al

me-glio ogni individuo, uomo, donna o transgender, analiz-zando tutti i fattori che con-corrono alla genesi e al decor-so di una patologia: da quelli ambientali e di rischio a quel-li biologici, considerando quanto sesso e genere di ognuno possano influenzare malattie e risposta ai farma-ci. Ci sono, infatti, malattie che colpiscono solo un gene-re e altgene-re che mostrano sinto-mi differenti in base al sesso e che, quindi, vanno curate in modi diversi.

Per fare qualche esempio, la cardiomiopatia di Ta-ko-tsubo, o «sindrome del cuore infranto», colpisce so-lo le donne, prevalentemen-te in premenopausa, manife-standosi con sintomi che pos-sono simulare una crisi coro-narica acuta anche se sono indotti da un forte stress. «La perdita di un figlio o di un compagno - spiega De Fran-cia - possono causare tale sin-drome anche a distanza di

tempo, in modo inatteso». A discapito dell’uomo, invece, proprio come il Covid-19, c’è il tumore mammario: col-pisce relativamente pochi maschi rispetto alle femmi-ne, ma la mancanza di scree-ning e controlli porta ad una altissima letalità. Quando si scopre, infatti, spesso è trop-po tardi. «Anche l’uomo trop- pos-siede la ghiandole mamma-rie - continua De Francia - ma lo screening del seno ma-schile è oggi pressoché inesi-stente e le cure, in caso di dia-gnosi di cancro al seno nell'uomo, sono tarate solo sulle donne».

Infine, al contrario delle malattie cardiovascolari, er-roneamente associate di più agli uomini, l’osteoporosi vie-ne riconosciuta come una malattia tipicamente femmi-nile, sebbene colpisca in mo-do uguale i maschi, ma in età più avanzata. «L'uomo - ag-giunge - soffre di decalcifica-zione ossea pochi anni dopo

la donna, ma in assenza di pratiche adeguate di scree-ning, indicate da linee-guida nella donna, incorre più facil-mente in fratture».

C’è, inoltre, il capitolo dei farmaci. «La maggior parte

di quelli in commercio è stata testata quasi totalmente su individui di sesso maschile. La donna è rimasta a lungo assente da questi studi di spe-rimentazione clinica: fino al 1993 la presenza femminile

era pari a zero, mentre ora l’arruolamento si attesta tra il 25-30%. Ma, oltre alle diffe-renze ormonali, è chiaro che, avendo degli organi più pic-coli e un metabolismo diffe-rente, la donna può

incorre-re più facilmente in problemi di sovradosaggio e di poten-ziale tossicità».

«Occorre rifondare la me-dicina, ripensandola nel mo-do più inclusivo possibile», conclude De Francia: «Non

dobbiamo lasciare indietro nessuno, altrimenti sarà im-possibile parlare di equità di trattamento e accesso alle cure, giusto ed adeguato per tutti». —

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CA M P U S B I OM E D I C O

Test può evitare

la chemioterapia

inappropriata

Si manipolano le cellule immunitarie del paziente da curare

Analizza 21 geni e definisce la probabilità di risposta alla che-mioterapia: si chiama Oncoty-pe DX, il test molecolare che permette di evitare la chemio-terapia nell’80% delle donne con carcinoma mammario in fase iniziale, di tipo ormo-ne-sensibile, negativo alla pro-teina Her2 e linfonodo negati-vo, le quali, dopo la chirurgia, possono essere trattate solo con l’ormonoterapia. Il test è disponibile presso il Policlini-co Universitario Campus Bio-Medico di Roma grazie all’accordo con l’azienda Exact Sciences.

Medicina di genere, una disciplina che rivoluziona il concetto di cura

NICLA PANCIERA

L

a possibilità di

di-namizzare i linfo-citi nella lotta al-le cellual-le del can-cro sta portando a risultati signifi-cativi, soprattutto nei tu-mori del sangue, nei linfo-mi, nelle leucemie e nei mielomi, i quali, insieme, contano 33 mila nuovi casi l’anno in Italia.

Le terapie più avanzate so-no legate alla riprogramma-zione delle cellule immuni-tarie del paziente stesso: si tratta delle cosiddette Car-T. Alla base c’è un pro-cesso con il quale i linfociti T vengono modificati geneti-camente attraverso l’inser-zione di un virus inattivato e presentano sulla loro super-ficie dei recettori, noti con la sigla Car (che sta per «Chi-meric Antigen Receptor T-cells»), che li rendono in grado di attaccare e distrug-gere le cellule tumorali. Do-po questa modificazione i linfociti vengono reinfusi nel paziente, svolgendo così la propria funzione antitu-morale.

«Sono terapie straordina-riamente efficaci: finora i principali risultati sono stati raggiunti su pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta, il tumore più

frequen-te in età pediatrica, il linfo-ma diffuso a grandi cellule B e anche il linfoma mantella-re. Sono inoltre allo studio le terapie per la leucemia lin-fatica cronica e il mieloma multiplo», spiega Paolo Cor-radini, direttore della divi-sione di ematologia e tra-pianto dell’Istituto Naziona-le dei Tumori di Milano e presidente della Società di Ematologia, tra i protagoni-sti della quindicesima Gior-nata per la lotta contro leuce-mie, linfomi e mieloma.

Ci sono, però, anche dei ri-schi. «Riguardano gli effetti collaterali severi e a volte fa-tali, come la neurotossicità e la sindrome da rilascio di citochine: è una reazione in-fiammatoria provocata da un’eccessiva risposta immu-nitaria, dovuta proprio ai linfociti T modificati. Le rea-zioni dell’organismo posso-no comunque essere gestite in modo efficace, quando i pazienti sono seguiti in cen-tri con grande esperienza clinica».

Questi centri sono ancora pochi. In Italia la loro indivi-duazione, necessaria per la raccolta e l’invio del materia-le biologico e la reinfusione, viene eseguita dalle Regio-ni, secondo i requisiti dell’Ai-fa, l’Agenzia per il farmaco: questi centri vengono poi va-lutati dalle due aziende

far-maceutiche attualmente pro-duttrici delle Car-T (Gilead e Novartis): eseguono i sopral-luoghi per verificare, a loro volta, che tutti i requisti sia-no rispettati. «Al momento di questi centri ce ne sono una decina, tra centri dell’a-dulto e due pediatrici con un terzo in via di attivazione», spiega Corradini, che annun-cia anche la ripartenza degli studi, bloccati dal Covid, e la soluzione dei problemi di

ap-provvigionamento dei far-maci: il tocilizumab, infatti, viene utilizzato per contra-stare la cosiddetta «tempe-sta citochinica» sia da Car-T sia da Covid.

C’è poi un ulteriore proble-ma: nell’attesa della conse-gna dei linfociti modificati dai centri esteri di produzio-ne la malattia, iproduzio-nevitabil- inevitabil-mente, progredisce e non è infrequente che il paziente (che è già stato sottoposto ad altre due linee terapeuti-che) non ce la faccia. E, quin-di, diventa necessario pro-gettare linee di produzione italiane. Le competenze ci sono e i pochi centri sono all’avanguardia nel mondo, ma rimane da risolvere un aspetto tecnico-regolato-rio. Le Car-T, infatti, sono farmaci a tutti gli effetti, an-che se è evidente an-che la loro produzione, basata sulla modificazione delle cellule del paziente stesso, è più si-mile a un processo. Eppure l’ingegnerizzazione, al mo-mento, viene realizzata so-lo dalle aziende produttrici delle due Car-T in commer-cio, escludendo i laboratori universitari, noti come «cell factory».

Ricorrere a «officine» no-strane, per lomeno nella pro-duzione di nuove Car-T, non ancora registrate e in via di sperimentazione, è un

obiettivo non soltanto italia-no, ma di molti altri Paesi. In gioco c’è anche l’aspetto economico: ogni trattamen-to costa 320 mila euro a pa-ziente e, quindi, si cercano nuove strade per abbattere i prezzi. A maggior ragione - sottolinea Corradini - è fon-damentale che i controlli siano i più efficaci possibi-le, garantendo quella che si definisce «l’appropriatezza del trattamento». Per la via «made in Italy» sono quin-di stati stanziati 60 milioni di euro.

In Germania, dove il prez-zo del trattamento è simile al nostro, di fronte all’esten-sione del suo uso anche ad altri tipi di tumori, «c’è

pre-occupazione per il fatto che i sistemi sanitari non saran-no in grado di sostenere i co-sti legati all’aumento dei pa-zienti», ha spiegato Michael Schlander, docente di eco-nomia sanitaria

dell’Univer-sità di Heidelberg e autore di un lavoro con l’immunolo-go Stefan Eichmüller del German Cancer Research Center e apparso sulla rivi-sta «International Journal

of Cancer»: è un’analisi dei costi a carico di un’istituzio-ne accademica che volesse produrre e non solo erogare le terapie Car-T. Il rispar-mio sarebbe comunque no-tevole, anche senza conside-rare i vantaggi della decen-tralizzazione dei centri pro-duttivi in termini di disponi-bilità della cura. In un conte-sto no-profit (in queconte-sto caso universitario) il costo scen-derebbe drasticamente: a seconda degli scenari, a 60 mila euro o, addirittura, a 33 mila, vale a dire fino a un decimo dei costi attuali, con la produzione unicamente in mano alle aziende farma-ceutiche. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA

FABIO DI TODARO

U

n farmaco diver-so per ogni malat-tia? Questo è sta-to il passasta-to, è il presente e sarà il futuro della medi-cina. Ma, se alcune opportu-nità sono consolidate dalla pratica clinica, per le sfide irri-solte si guarda in un’altra di-rezione: quella dei farmaci multispecifici.

Si tratta di «passepartout» che hanno l’obiettivo di curare gruppi di malattie. È questa, se-condo Raymond Deshaies, vi-cepresidente della ricerca del-la multinazionale farmaceuti-ca Amgen, «la nuova frontiera dell’innovazione»: così l’ha de-finita su «Nature», dove ha compiuto un’analisi delle clas-si di farmaci multispecifici e del loro meccanismo d’azione. Lo scenario appare prometten-te, sebbene le sfide per trasfor-mare in realtà questa strategia siano molteplici.

A differenza dei farmaci con-venzionali, che colpiscono un bersaglio considerato specifi-co per una malattia, i

multispe-cifici sono progettati per avere meccanismi d’azione diversi, come quello di «induzione di prossimità»: agiscono come «chiavi» in grado di adattarsi a molteplici serrature.

«Sono intermediari moleco-lari: inducendo la vicinanza tra i loro target e gli enzimi o le cellule, i multispecifici pro-ducono effetti capaci di supe-rare quelli dei farmaci conven-zionali»: a raccontarlo è De-shaies, biochimico, con un passato all’Università della California. Quello in atto, se-condo lui, non è un solo un mi-glioramento della progetta-zione dei farmaci. Ma un «cambiamento radicale»: si parte dall’individuazione dei bersagli e poi, una volta capi-to come far reagire l’organi-smo nei confronti del marca-tore della malattia, si avvia lo sviluppo della molecola.

Sono due le principali classi di multispecifici: i primi poten-ziano l’effetto di un altro far-maco, i secondi, da soli, per-mettono al sistema immunita-rio di aggredire un bersaglio te-rapeutico. Questi ultimi sono considerati i più interessanti,

in quanto consentono l’acces-so a proteine alterate che non vengono prese di mira dai far-maci «standard».

Tra i farmaci, alcuni hanno una lunga storia. La svolta si è verificata quando è stato ana-lizzato il meccanismo d’azio-ne: è il caso del Talidomide, usato negli Anni 60 per ridur-re le nausee nelle gestanti e poi bandito, una volta scoper-ta la sua attività immunomo-dulatoria è stato utilizzato nel trattamento di lebbra, mielo-ma multiplo e mielo-malattia di Crohn. E ha dato il là allo svi-luppo di altre molecole con un’azione simile (lenalidomi-de e pomalidomi(lenalidomi-de).

Discorso analogo per due immunosoppressori, tacroli-mus e sirolitacroli-mus: sono applica-ti nella terapia post-trapianto d’organo, dopo che è stato sco-perto il modus operandi della ciclosporina, il primo anti-ri-getto. E i multispecifici appaio-no promettenti anche in onco-logia con la messa a punto di anticorpi per promuovere l’ag-gressione dei linfociti T ai dan-ni delle cellule tumorali. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA

SILVIA DE FRANCIA E’ FARMACOLOGA CLINICA E RICERCATRICE DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO

“Spesso si viene

ospedalizzate

in reparti non

adeguati”

SINTOMI DIVERSI E REAZIONI DIFFERENTI: POCHI SPECIALISTI SANNO GESTIRLI

A ognuno la sua terapia

Uomini e donne non sono uguali

Lo svela la medicina di genere

Il prossimo

obiettivo

è abbattere i costi

delle infusioni

I N T E R A G I S C O N O A N C H E C O N L E P R O T E I N E A L T E R A T E

Si realizza la promessa

dei farmaci multispecifici

“Ecco come funzionano”

30

LASTAMPA MARTEDÌ 28 LUGLIO 2020

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. L E C U R E CA R -T R I C H I E D ONO S O F I ST I CAT I L A B O R AT O R I D I P R O D U Z I ON E

Ora si guarisce con i linfociti riprogrammati

“Ma i centri in Italia sono ancora pochi”

NOEMI PENNA

U

omini e donne, pericolosamente simili per la medi-cina. Può sembra-re scontato che agli uni e alle al-tre, così diversi per anatomia e fisiologia, vengano prescrit-te cure specifiche quando si ammalano. E invece, troppo spesso, così non è.

Medicina e farmacologia di genere sono una novità: c’è ancora molto da fare per arrivare all’equità della cu-ra. Lo sa bene Silvia De Fran-cia, farmacologa clinica e ri-cercatrice dell’Università di Torino, impegnata nella bat-taglia contro il «bias di gene-re» per evitare che le donne continuino a ricevere tera-pie e trattamenti a «misura d’uomo».

«Uomini e donne si amma-lano in modo diverso: spes-so non presentano sintomi identici di malattia e, per al-tro, non possono assumere i medesimi farmaci con gli stessi livelli di sicurezza», spiega De Francia. Il Co-vid-19 è stata un’ulteriore prova di come esista una

dif-ferenza di genere sia nei tas-si di infezione tas-sia in termini di mortalità, in questo caso a vantaggio delle donne, che hanno un sistema immu-nitario più forte. «Eppure - continua De Francia -, an-che se la scienza ha appura-to le differenze di sesso e ge-nere negli individui, queste, nella routine clinica speciali-stica e nella medicina di ba-se non sono state ancora pre-se in pre-seria considerazione».

Silvia De Francia racconta questa realtà - e i suoi proble-mi - ne «La medicina delle differenze. Storie di donne, uomini e discriminazioni», edito da Neos, i cui diritti d’autore saranno devoluti al dipartimento di Scienze Cli-niche e Biologiche dell’Uni-versità di Torino a sostegno della ricerca in farmacolo-gia genere-specifica. L’as-senza di un approccio multi-disciplinare di questo tipo si-gnifica molto: prima di tutto diagnosi errate.

«Il cuore della donna - sot-tolinea - può ammalarsi in modo diverso da quello ma-schile, ma i sintomi d’infarto che vengono riconosciuti su-bito, e con facilità, sono quel-li più frequenti nell’uomo. La donna può presentare come sintomi solo una lieve dis-pnea, con dolori retrosterna-li, senza il classico dolore al petto che irradia al braccio

si-nistro». Il risultato? Le don-ne vengono spesso ospedaliz-zate in reparti non adeguati, con terapie tardive, che pro-vocano una maggior letalità o un recupero più lento. Dia-gnosi errate basate sul pre-giudizio che le malattie car-diovascolari siano appannag-gio maschile, a testimonian-za di un serio problema di for-mazione nei medici.

Solo adesso medicina e di-ritto si stanno lentamente adeguando per garantire a ciascuno un trattamento equo, tarato sui dati soggetti-vi che ciascun indisoggetti-viduo por-ta inevipor-tabilmente con sé dal-la nascita. «Solo a giugno del-lo scorso anno, in Italia, è sta-to approvasta-to il Piano per l’ap-plicazione e la diffusione del-la medicina di genere nei re-parti ospedalieri e, quindi, il personale sanitario sarebbe formalmente obbligato per legge a considerare sesso e genere degli individui in ter-mini di cure». Ma ciò che è sulla carta è lontano anni lu-ce da ciò che accade quotidia-namente negli ospedali, ne-gli ambulatori e nene-gli studi dei medici di base. «E’, per esempio, all’ordine del gior-no nei pronto soccorso l’arri-vo di donne colpite da tossici-tà da farmaco», spiega De Francia: «Nel mondo il 50% dei ricoveri è a carico di don-ne coinvolte da questo pro-blema. Si tratta di farmaci che non sono mai stati testa-ti, prima dell'immissione in commercio, sulla popolazio-ne femminile».

Eppure, oggi, né la medici-na genere-specifica né la far-macologia genere-specifica sono presenti nei programmi didattici. De Francia, e pochi altri docenti in Italia, la pro-pone nelle proprie lezioni di farmacologia generale e spe-ciale all’università, ma è chia-ra l’urgenza di corsi d’aggior-namento, a partire dai medi-ci di base, così come è neces-saria una visione più ampia per le scuole di formazione al-la professione sanitaria. La medicina genere-specifica, infatti, è una disciplina tra-sversale: serve a curare al

me-glio ogni individuo, uomo, donna o transgender, analiz-zando tutti i fattori che con-corrono alla genesi e al decor-so di una patologia: da quelli ambientali e di rischio a quel-li biologici, considerando quanto sesso e genere di ognuno possano influenzare malattie e risposta ai farma-ci. Ci sono, infatti, malattie che colpiscono solo un gene-re e altgene-re che mostrano sinto-mi differenti in base al sesso e che, quindi, vanno curate in modi diversi.

Per fare qualche esempio, la cardiomiopatia di Ta-ko-tsubo, o «sindrome del cuore infranto», colpisce so-lo le donne, prevalentemen-te in premenopausa, manife-standosi con sintomi che pos-sono simulare una crisi coro-narica acuta anche se sono indotti da un forte stress. «La perdita di un figlio o di un compagno - spiega De Fran-cia - possono causare tale sin-drome anche a distanza di

tempo, in modo inatteso». A discapito dell’uomo, invece, proprio come il Covid-19, c’è il tumore mammario: col-pisce relativamente pochi maschi rispetto alle femmi-ne, ma la mancanza di scree-ning e controlli porta ad una altissima letalità. Quando si scopre, infatti, spesso è trop-po tardi. «Anche l’uomo trop- pos-siede la ghiandole mamma-rie - continua De Francia - ma lo screening del seno ma-schile è oggi pressoché inesi-stente e le cure, in caso di dia-gnosi di cancro al seno nell'uomo, sono tarate solo sulle donne».

Infine, al contrario delle malattie cardiovascolari, er-roneamente associate di più agli uomini, l’osteoporosi vie-ne riconosciuta come una malattia tipicamente femmi-nile, sebbene colpisca in mo-do uguale i maschi, ma in età più avanzata. «L'uomo - ag-giunge - soffre di decalcifica-zione ossea pochi anni dopo

la donna, ma in assenza di pratiche adeguate di scree-ning, indicate da linee-guida nella donna, incorre più facil-mente in fratture».

C’è, inoltre, il capitolo dei farmaci. «La maggior parte

di quelli in commercio è stata testata quasi totalmente su individui di sesso maschile. La donna è rimasta a lungo assente da questi studi di spe-rimentazione clinica: fino al 1993 la presenza femminile

era pari a zero, mentre ora l’arruolamento si attesta tra il 25-30%. Ma, oltre alle diffe-renze ormonali, è chiaro che, avendo degli organi più pic-coli e un metabolismo diffe-rente, la donna può

incorre-re più facilmente in problemi di sovradosaggio e di poten-ziale tossicità».

«Occorre rifondare la me-dicina, ripensandola nel mo-do più inclusivo possibile», conclude De Francia: «Non

dobbiamo lasciare indietro nessuno, altrimenti sarà im-possibile parlare di equità di trattamento e accesso alle cure, giusto ed adeguato per tutti». —

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CA M P U S B I OM E D I C O

Test può evitare

la chemioterapia

inappropriata

Si manipolano le cellule immunitarie del paziente da curare

Analizza 21 geni e definisce la probabilità di risposta alla che-mioterapia: si chiama Oncoty-pe DX, il test molecolare che permette di evitare la chemio-terapia nell’80% delle donne con carcinoma mammario in fase iniziale, di tipo ormo-ne-sensibile, negativo alla pro-teina Her2 e linfonodo negati-vo, le quali, dopo la chirurgia, possono essere trattate solo con l’ormonoterapia. Il test è disponibile presso il Policlini-co Universitario Campus Bio-Medico di Roma grazie all’accordo con l’azienda Exact Sciences.

Medicina di genere, una disciplina che rivoluziona il concetto di cura

NICLA PANCIERA

L

a possibilità di

di-namizzare i linfo-citi nella lotta al-le cellual-le del can-cro sta portando a risultati signifi-cativi, soprattutto nei tu-mori del sangue, nei linfo-mi, nelle leucemie e nei mielomi, i quali, insieme, contano 33 mila nuovi casi l’anno in Italia.

Le terapie più avanzate so-no legate alla riprogramma-zione delle cellule immuni-tarie del paziente stesso: si tratta delle cosiddette Car-T. Alla base c’è un pro-cesso con il quale i linfociti T vengono modificati geneti-camente attraverso l’inser-zione di un virus inattivato e presentano sulla loro super-ficie dei recettori, noti con la sigla Car (che sta per «Chi-meric Antigen Receptor T-cells»), che li rendono in grado di attaccare e distrug-gere le cellule tumorali. Do-po questa modificazione i linfociti vengono reinfusi nel paziente, svolgendo così la propria funzione antitu-morale.

«Sono terapie straordina-riamente efficaci: finora i principali risultati sono stati raggiunti su pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta, il tumore più

frequen-te in età pediatrica, il linfo-ma diffuso a grandi cellule B e anche il linfoma mantella-re. Sono inoltre allo studio le terapie per la leucemia lin-fatica cronica e il mieloma multiplo», spiega Paolo Cor-radini, direttore della divi-sione di ematologia e tra-pianto dell’Istituto Naziona-le dei Tumori di Milano e presidente della Società di Ematologia, tra i protagoni-sti della quindicesima Gior-nata per la lotta contro leuce-mie, linfomi e mieloma.

Ci sono, però, anche dei ri-schi. «Riguardano gli effetti collaterali severi e a volte fa-tali, come la neurotossicità e la sindrome da rilascio di citochine: è una reazione in-fiammatoria provocata da un’eccessiva risposta immu-nitaria, dovuta proprio ai linfociti T modificati. Le rea-zioni dell’organismo posso-no comunque essere gestite in modo efficace, quando i pazienti sono seguiti in cen-tri con grande esperienza clinica».

Questi centri sono ancora pochi. In Italia la loro indivi-duazione, necessaria per la raccolta e l’invio del materia-le biologico e la reinfusione, viene eseguita dalle Regio-ni, secondo i requisiti dell’Ai-fa, l’Agenzia per il farmaco: questi centri vengono poi va-lutati dalle due aziende

far-maceutiche attualmente pro-duttrici delle Car-T (Gilead e Novartis): eseguono i sopral-luoghi per verificare, a loro volta, che tutti i requisti sia-no rispettati. «Al momento di questi centri ce ne sono una decina, tra centri dell’a-dulto e due pediatrici con un terzo in via di attivazione», spiega Corradini, che annun-cia anche la ripartenza degli studi, bloccati dal Covid, e la soluzione dei problemi di

ap-provvigionamento dei far-maci: il tocilizumab, infatti, viene utilizzato per contra-stare la cosiddetta «tempe-sta citochinica» sia da Car-T sia da Covid.

C’è poi un ulteriore proble-ma: nell’attesa della conse-gna dei linfociti modificati dai centri esteri di produzio-ne la malattia, iproduzio-nevitabil- inevitabil-mente, progredisce e non è infrequente che il paziente (che è già stato sottoposto ad altre due linee terapeuti-che) non ce la faccia. E, quin-di, diventa necessario pro-gettare linee di produzione italiane. Le competenze ci sono e i pochi centri sono all’avanguardia nel mondo, ma rimane da risolvere un aspetto tecnico-regolato-rio. Le Car-T, infatti, sono farmaci a tutti gli effetti, an-che se è evidente an-che la loro produzione, basata sulla modificazione delle cellule del paziente stesso, è più si-mile a un processo. Eppure l’ingegnerizzazione, al mo-mento, viene realizzata so-lo dalle aziende produttrici delle due Car-T in commer-cio, escludendo i laboratori universitari, noti come «cell factory».

Ricorrere a «officine» no-strane, per lomeno nella pro-duzione di nuove Car-T, non ancora registrate e in via di sperimentazione, è un

obiettivo non soltanto italia-no, ma di molti altri Paesi. In gioco c’è anche l’aspetto economico: ogni trattamen-to costa 320 mila euro a pa-ziente e, quindi, si cercano nuove strade per abbattere i prezzi. A maggior ragione - sottolinea Corradini - è fon-damentale che i controlli siano i più efficaci possibi-le, garantendo quella che si definisce «l’appropriatezza del trattamento». Per la via «made in Italy» sono quin-di stati stanziati 60 milioni di euro.

In Germania, dove il prez-zo del trattamento è simile al nostro, di fronte all’esten-sione del suo uso anche ad altri tipi di tumori, «c’è

pre-occupazione per il fatto che i sistemi sanitari non saran-no in grado di sostenere i co-sti legati all’aumento dei pa-zienti», ha spiegato Michael Schlander, docente di eco-nomia sanitaria

dell’Univer-sità di Heidelberg e autore di un lavoro con l’immunolo-go Stefan Eichmüller del German Cancer Research Center e apparso sulla rivi-sta «International Journal

of Cancer»: è un’analisi dei costi a carico di un’istituzio-ne accademica che volesse produrre e non solo erogare le terapie Car-T. Il rispar-mio sarebbe comunque no-tevole, anche senza conside-rare i vantaggi della decen-tralizzazione dei centri pro-duttivi in termini di disponi-bilità della cura. In un conte-sto no-profit (in queconte-sto caso universitario) il costo scen-derebbe drasticamente: a seconda degli scenari, a 60 mila euro o, addirittura, a 33 mila, vale a dire fino a un decimo dei costi attuali, con la produzione unicamente in mano alle aziende farma-ceutiche. —

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FABIO DI TODARO

U

n farmaco diver-so per ogni malat-tia? Questo è sta-to il passasta-to, è il presente e sarà il futuro della medi-cina. Ma, se alcune opportu-nità sono consolidate dalla pratica clinica, per le sfide irri-solte si guarda in un’altra di-rezione: quella dei farmaci multispecifici.

Si tratta di «passepartout» che hanno l’obiettivo di curare gruppi di malattie. È questa, se-condo Raymond Deshaies, vi-cepresidente della ricerca del-la multinazionale farmaceuti-ca Amgen, «la nuova frontiera dell’innovazione»: così l’ha de-finita su «Nature», dove ha compiuto un’analisi delle clas-si di farmaci multispecifici e del loro meccanismo d’azione. Lo scenario appare prometten-te, sebbene le sfide per trasfor-mare in realtà questa strategia siano molteplici.

A differenza dei farmaci con-venzionali, che colpiscono un bersaglio considerato specifi-co per una malattia, i

multispe-cifici sono progettati per avere meccanismi d’azione diversi, come quello di «induzione di prossimità»: agiscono come «chiavi» in grado di adattarsi a molteplici serrature.

«Sono intermediari moleco-lari: inducendo la vicinanza tra i loro target e gli enzimi o le cellule, i multispecifici pro-ducono effetti capaci di supe-rare quelli dei farmaci conven-zionali»: a raccontarlo è De-shaies, biochimico, con un passato all’Università della California. Quello in atto, se-condo lui, non è un solo un mi-glioramento della progetta-zione dei farmaci. Ma un «cambiamento radicale»: si parte dall’individuazione dei bersagli e poi, una volta capi-to come far reagire l’organi-smo nei confronti del marca-tore della malattia, si avvia lo sviluppo della molecola.

Sono due le principali classi di multispecifici: i primi poten-ziano l’effetto di un altro far-maco, i secondi, da soli, per-mettono al sistema immunita-rio di aggredire un bersaglio te-rapeutico. Questi ultimi sono considerati i più interessanti,

in quanto consentono l’acces-so a proteine alterate che non vengono prese di mira dai far-maci «standard».

Tra i farmaci, alcuni hanno una lunga storia. La svolta si è verificata quando è stato ana-lizzato il meccanismo d’azio-ne: è il caso del Talidomide, usato negli Anni 60 per ridur-re le nausee nelle gestanti e poi bandito, una volta scoper-ta la sua attività immunomo-dulatoria è stato utilizzato nel trattamento di lebbra, mielo-ma multiplo e mielo-malattia di Crohn. E ha dato il là allo svi-luppo di altre molecole con un’azione simile (lenalidomi-de e pomalidomi(lenalidomi-de).

Discorso analogo per due immunosoppressori, tacroli-mus e sirolitacroli-mus: sono applica-ti nella terapia post-trapianto d’organo, dopo che è stato sco-perto il modus operandi della ciclosporina, il primo anti-ri-getto. E i multispecifici appaio-no promettenti anche in onco-logia con la messa a punto di anticorpi per promuovere l’ag-gressione dei linfociti T ai dan-ni delle cellule tumorali. —

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SILVIA DE FRANCIA E’ FARMACOLOGA CLINICA E RICERCATRICE DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO

“Spesso si viene

ospedalizzate

in reparti non

adeguati”

SINTOMI DIVERSI E REAZIONI DIFFERENTI: POCHI SPECIALISTI SANNO GESTIRLI

A ognuno la sua terapia

Uomini e donne non sono uguali

Lo svela la medicina di genere

Il prossimo

obiettivo

è abbattere i costi

delle infusioni

I N T E R A G I S C O N O A N C H E C O N L E P R O T E I N E A L T E R A T E

Si realizza la promessa

dei farmaci multispecifici

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MARTEDÌ 28 LUGLIO 2020 LA STAMPA

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CHIARA BALDI

I

l monito per il futuro è - spiega con una battuta il direttore scientifico dell’I-stituto Humanitas Alber-to ManAlber-tovani - «esAlber-tote pa-rati», vale a dire «siate pronti».

E proprio per non farsi co-gliere impreparati l’istituto di Rozzano, alle porte di Mila-no, ha creato l’Emergency Hospital 19, una struttura de-dicata interamente alla lotta ai virus - non solo il Covid - e allo studio di questi patogeni con cui dovremo iniziare a convivere. Perché il mondo cambia e anche le patologie evolvono.

Nei 2700 metri quadrati al-lestiti in sole 11 settimane e separati dall’ospedale princi-pale così da dividere l’area «sporca” da quella “pulita», evitando il contagio, non so-lo ci si prepara ad affrontare una seconda eventuale onda-ta in autunno di coronavirus, ma si porta avanti anche un importante programma di ri-cerca scientifica proprio sui virus. «Se c’è un messaggio che abbiamo imparato in questi mesi di pandemia è che dobbiamo essere prepa-rati, in futuro, a nuovi agenti infettivi. E anche a quelli che arrivano nel Paese per il cam-biamento climatico», spiega Mantovani, che ammonisce: «Non dobbiamo dimenticare che il mondo microbico intor-no a intor-noi cambia e il Covid ce lo ha ricordato. Avvengono mutazioni che fanno poi com-parire patogeni nuovi». Di questi nuovi patogeni si occu-perà, appunto, l’Emergency

Hospital 19, di cui una delle attività principali è la ricerca scientifica a livello interna-zionale.

«C’è, infatti, una dimensio-ne internazionale della ricer-ca che è fondata sulla condi-visione dei dati scientifici on-line e sull’analisi bioinfor-matica con l’Intelligenza Ar-tificiale», chiarisce, ricor-dando che in Humanitas la collaborazione con realtà scientifiche straniere è all’or-dine del giorno. «Ad esem-pio, abbiamo appena conclu-so l’analisi, disponibile in Open Access, di una

moleco-la importante per moleco-la difesa immunitaria: abbiamo avu-to accesso a informazioni di pazienti dagli Stati Uniti e da Israele senza analizzare il sangue e le cellule del pol-mone, semplicemente ricor-rendo a tecniche di analisi bioinformatica».

Partendo dai dati disponi-bili, in questi mesi i ricerca-tori dell’Humanitas hanno condotto il primo studio di genetica della popolazione italiana. «Siamo stati parte di un grande sforzo europeo basato sull’analisi genetica, quello sul cromosoma 3 in

cui è codificato uno dei siste-mi con cui il virus entra nel nostro organismo. Abbiamo lavorato sugli anticorpi, con-ducendo a quello che conti-nua a essere lo studio più grande sugli anticorpi di sie-rologia».

Intanto, in questo momen-to, all’Humanitas si stanno sviluppando nuovi modelli diagnostici. In particolare - spiega Mantovani - «stiamo lavorando sulla prima linea di difesa del corpo, che è una delle nostre caratteristiche: qui abbiamo scoperto delle molecole che sono parte

es-senziale della prima linea di difesa, l’immunità definita “innata”. Inoltre, sapendo che il virus entra nel nostro organismo attraverso le mu-cose, studiamo l’immunità specializzata detta “mucosa-le”: è facile capire come que-sto tipo di immunità sia fon-damentale». Anche perché proprio a questo si collegano alcuni studi sui vaccini an-ti-Covid, come ad esempio l’adenovirus.

«Sul fronte dell’immunità innata - racconta Mantovani - lavoriamo sulle cellule che studiamo da sempre, le mu-cose, appunto: l’ambizione è chiarirne il ruolo. E tutti que-sti studi ci aiutano soprattut-to con gli asinsoprattut-tomaci al Co-vid. Si tratta, in generale, del livello in cui fermiamo le ag-gressioni dei microrganismi nel 90% dei casi. E’ quindi possibile che questo succeda anche a livello del coronavi-rus che possiede meccanismi tali da ingannare la risposta dell’organismo, superando la prima linea di difesa».

Studi che vanno di pari pas-so con lo sviluppo di un vacci-no contro il Covid per il qua-le, comunque, secondo Man-tovani, ci vogliono «sia spe-ranza sia cautela: io vorrei che ci fosse un vaccino già do-mani e, anzi, avrei voluto che ci fosse stato già ieri, ma con-tinuo a pensare che dobbia-mo augurarci che ci sia più di un vaccino disponibile». E per l’autunno che cosa dob-biamo aspettarci? «Sulla ba-se dei dati pubblicati oppure resi disponibili fino a oggi - ra-giona il professore - non c’è nessuna evidenza che il virus si sia attenuato. Sappiamo so-lo che la malattia si è ridotta e, adesso, è molto più gestibi-le, anche perché abbiamo im-parato a curarla meglio e a utilizzare le tecnologie dia-gnostiche molto meglio ri-spetto alle prime settimane». E conclude Mantovani: «Ciò non toglie che nei pros-simi mesi dobbiamo conti-nuare a mantenere alta la guardia, fare tutti il vaccino contro l’influenza e, inoltre, avere comportamenti che non mettano a rischio la no-stra vita e tantomeno quella degli altri». —

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R I C E R C A I T A L I A N A A P R E N U OV E P R O S P E T T I V E S U L C E RV E L L O

C’è chi soffre di troppa memoria

“Merito di un archivio biologico”

FABIO DI TODARO

D

i memoria si par-la molto. Gli scienziati ne la-mentano i deficit e si dedicano allo studio della «mac-china dei ricordi» per capire in quale punto possa incep-parsi. Ma, se la quota di chi perde la memoria è prevalen-te, occorre tenere conto di chi ha un «magazzino» che non conosce rivali: per quan-tità e qualità delle informa-zioni stoccate. È il caso degli «ipermemori».

Sono individui capaci di ri-cordare anche i più piccoli dettagli di ogni giorno della loro vita. In modo ossessivo e

totale. A che cosa è dovuta questa dote eccezionale? A una capacità quasi svizzera di archiviare i ricordi, grazie alla quale si mantiene nitida anche la memoria degli even-ti più superflui e remoeven-ti. È sta-to un gruppo di ricercasta-tori italiani (Fondazione Santa Lucia, Istituto Superiore di Sanità, Università La Sapien-za di Roma e Università di Pe-rugia) a fare luce sulle pecu-liarità del cervello di questi individui in uno studio sulla rivista «Cortex».

E’ stato chiesto a otto indi-vidui dotati di una memoria fuori dal comune di ricorda-re un evento verificatosi al-meno 20 anni prima. Mentre le «cavie» lavoravano per

ri-portare alla luce accadimen-ti ormai dataaccadimen-ti, la loro ataccadimen-tivi- attivi-tà neuronale è stata rilevata in tempo reale attraverso la risonanza magnetica funzio-nale: è una tecnica non inva-siva che osserva il cervello in azione e ne identifica le aree più attive.

Al gruppo di «ipermemori» è stato quindi affiancato un al-tro gruppo, composto da 21 persone normodate, vale a di-re senza particolari abilità né deficit della memoria. Dal confronto è emerso che la ca-pacità di discriminare tra ri-cordi autobiografici vecchi e nuovi risiede nella specializ-zazione di un’area della cor-teccia prefrontale: è la porzio-ne ventro-mediale, deputata

all'organizzazione delle fun-zioni cognitive superiori. Questa regione, la cui attività è considerata eccezionale ne-gli «ipermemori», risulta inve-ce più vulnerabile nelle mag-gior parte di noi, dotati di una capacità limitata di immagaz-zinare nomi e luoghi. Un effet-to del «coreffet-tocircuieffet-to» infor-mativo che si crea con il

tem-po nel cervello della quasi to-talità degli esseri umani.

Gli individui dotati di iper-memoria autobiografica - questo è un dato che era emerso in una precedente ri-cerca - ricordano con incredi-bile accuratezza giornate ap-parentemente normali. Ol-tre a «custodire» il giorno del-la settimana di una data

lon-tana nel tempo («il 3 agosto del 2011 era un martedì», è la risposta di uno di loro), so-no in grado di dire, per esem-pio, come fossero vestiti o co-sa avessero mangiato. Il tut-to senza esitazioni.

«Le differenze funzionali spetto alle altre persone ri-guardano soprattutto la fase di accesso al ricordo e non quella relativa alla sua elabo-razione», raccontano i ricerca-tori. Un aspetto che dimostra un’eccezionale capacità nell’accedere alla «camera» dei ricordi e nello scovare tracce di memoria non rileva-bili da altri. Da qui la maggio-re capacità di riportamaggio-re alla lu-ce dettagli del passato.

Gli studi sull’ipermemoria autobiografica toccano an-che la possibilità di aprire nuove frontiere. «Compren-dendo i sistemi neurobiologi-ci, si otterranno importanti in-dicazioni su come stimolare il cervello e ripristinare un fun-zionamento adeguato dei ri-cordi: in chi soffre di un defi-cit o è stato colpito da una le-sione neurologica». —

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ALBERTO MANTOVANI IMMUNOLOGO, È DIRETTORE SCIENTIFICO DELL’ISTITUTO CLINICO HUMANITAS DI MILANO E PROFESSORE DELLA HUMANITAS UNIVERSITY

Si chiama Emergency Hospital 19: è la struttura milanese dedicata interamente alla lotta ai virus

SI ST UDIA COME IL COVID AGGREDISCE L’ORGANISMO SUPERANDO LA BARRIERA DELLE MUCOSE

L’ospedale con i virus nel mirino

Mantovani: all’Istituto Humanitas di Milano

il centro contro le prossime pandemie

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LASTAMPA MARTEDÌ 28 LUGLIO 2020

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