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L ARENA DI POLA - Registrata presso il Tribunale di Trieste n del ANNO LX Mensile n. 12 del 24 dicembre 2004

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Una vita tra confini e riunificazioni

Fondato a Pola il 29.7.1945 - Organo dell’Associazione del “Libero Comune di Pola in Esilio” - Via Silvio Pellico, 2 - 34122 Trieste Direttore responsabile: Silvio Mazzaroli - Redazione: via Malaspina 1 - 34147 Trieste - Telefono e Fax 040.830294

Quote associative annuali per l’Italia: € 30 - Per le Americhe € 60 - Per l’Australia € 66 - da versare sul Conto Corrente Postale n. 38407722 intestato a L’Arena di Pola - Trieste Le copie non recapitate vanno restituite al CPO di Trieste per la restituzione al mittente previo pagamento resi

ALL’INTERNO

Ricordo di un padre

di Mons. Eugenio Ravignani

***

Quando l’Istria si porta nel cuore…

testimonianza di Adriana Gobbo

***

In pericolo i tesori d’arte istriana restaurati in Italia di Gianni Godeas

***

Mezzo secolo dopo, noi istriani siamo

ancora in esilio

***

Asini e balilla di Mario Frezza

***

In Istria percorrendo la via Flavia di Piero Tarticchio

***

Convegno sulla Storia al Circolo della stampa

di Milano di Ferruccio Calegari

***

Omaggio a Straulino, leggenda della vela italiana

di Ferruccio Calegari

***

Lettere in redazione risponde Silvio Mazzaroli di Veniero Venier

di Marisella Mazzaroli

Considerazioni su di un dono molto gradito

Era

un'ipotesi. L'a- l i m e n t a v a l a notizia che la nostra “Arena” aveva acquisi- to, per il suo archivio, moltis- sime annate arretrate.

Ventilava quella stramba ipotesi l'eventualità che gli af- fezionati e fedeli abbonati po- tessero, quale natalizia stren- na 2004, rientrare in possesso dello storico n.1 di “L'Arena di Pola”, mediante sua accu- rata ristampa e puntuale di- stribuzione.

Sempre e solamente un'ipo- tesi?

Questo sino a ieri, visto che oggi è una apprezzatissima realtà quella che ci ha recapi- tata il portalettere: la copia, in

fac-simile, del primo numero del nostro giornale (Anno I°, numero 1, si legge in alto a si- nistra sopra il tondino che ri- porta una veduta dell'Arena millenaria, edificata in splen- dida pietra d'Istria; a seguire, la data ci riporta a domenica 29 luglio 1945; 2 lire l'esbor- so per una copia, come appare sopra il tondino, questa volta di destra, che raffigura la ca- pra istriana).

Il pur possibilista Direttore non si era, a suo tempo, trop- po sbilanciato sulla fattibilità della ristampa di questa rara testimonianza, ormai quasi sessantenne; il “cadeau”, ina- spettato, è giunto, pertanto, ancora più gradito.

SEGUE A PAGINA2

S

i sono succeduti, a pochi giorni di distanza, due eventi impor- tanti nella politica interna ed europea del nostro paese: il Cin- quantenario del ritorno all'Italia della città di Trieste (26 ottobre 1954) e, a Roma, la firma della nuova Costituzione europea (29 ot- tobre 2004). Due date, a prima vista, dal contenuto molto diverso ma, per altri versi, tra loro concatenate e molto vicine a ricordi in- delebili della mia vita personale.

La concomitanza delle due date, i numerosi articoli apparsi sui giornali con lunghi resoconti dei momenti storici che le hanno pre- cedute, i programmi televisivi di approfondimento e, non ultima, la naturale propensione al ricordo delle persone della mia età, mi indu- cono a parlarne brevemente sulle pagine di questo giornale.

Il ritorno di Trieste all'Italia era per la mia famiglia l'attesissimo compimento del desiderio di rimanere italiani, come lo eravamo prima a Pola, in Istria. La rivendicazione dell'identità nazionale era per noi esuli di fondamentale importanza, il solo modo per ricono- scersi dopo un esodo forzato e molto sofferto dalla popolazione.

Avevamo lasciato tutto fin dal '45 per non perdere questa identità.

Io ero bambina ma quell'atmosfera tragica, per l'abbandono della nostra terra e dei nostri averi, per non sapere come era scomparso mio padre e l'impossibilità di portare un fiore sulla sua sepoltura, è stata sempre presente nella mia adolescenza. Anche Trieste, sino a quel fatidico 1954, ha vissuto rivendicando questa identità italiana, pur restando sempre una città multietnica, forse la più cosmopolita d'Italia a quei tempi. Ricordo che gli studenti uccisi dalla polizia in piazza Sant'Antonio il 5 e 6 novembre '53, miei compagni di scuola, avevano appeso il Tricolore sulla facciata della Chiesa e questo, in una città sotto protettorato anglo-americano, era proibito.

Le celebrazioni di oggi, dopo cinquant'anni, mi sembrano abba- stanza inutili a meno che non siano legate rigorosamente a fatti sto- rici ben precisi, a ricordi dei protagonisti, a fotografie, a testimo- nianze personali; nessun discorso politico, di nessun partito di go-

verno o all'opposizione, mi appare necessario. Solo la presenza del Presidente della Repubblica, garante dell'unità nazionale, è pregna di significato e può essere di conforto. Ma il ricordo del passato non deve diventare tiranno. Io non mi sento più parte integrante di que- sta Città che fa parte dei miei ricordi; considero che per Trieste si presenta l'opportunità straordinaria di trasformare quello che per noi era un muro d'incomprensione, una frontiera insormontabile, in un ponte verso l'Oriente, verso i Balcani ed i paesi dell'Europa cen- tro-orientale, paesi ricchi di storia che già si sono affacciati sul pal- coscenico internazionale. Trieste ha sempre avuto una forte voca- zione cosmopolita, molti suoi abitanti parlano una o più lingue stra- niere, sanno adattarsi facilmente a nuove situazioni di vita, senza dimenticare le origini delle quali sono molto fieri. Oggi l'Europa, con i Paesi già entrati nell'Unione e con quelli che si apprestano ad entrarvi prossimamente, offre alla Città, dopo 50 anni, la straordina- ria possibilità che la frontiera diventi ponte.

Sono passati poco meno di 50 anni dalla prima firma “europea”; i Trattati di Roma sono del dicembre 1957. Per le celebrazioni del Decennale, sempre a Roma, nel '67, salivo la scalinata al Quirinale per raggiungere la Sala degli “Orazi e Curiazi” dove il Presidente Saragat, con al fianco sua figlia, riceveva gli ospiti. La stessa Sala affrescata, densa di storia che, lo scorso 29 ottobre, ha accolto i rap- presentanti di Stato e di Governo dei 25 Paesi, che ora compongono la “Nuova Europa”. Ho vissuto a Bruxelles negli anni 70, proprio quando erano in corso le trattative per l'entrata della Gran Bretagna nel Mercato Comune Europeo. Non si parlava ancora l'inglese nella capitale d'Europa, ma il Commissario europeo all'epoca italiano, Altiero Spinelli, fece allora il primo gesto di apertura verso l'Inghil- terra, chiamando accanto a sé due Capi di Gabinetto, uno italiano che era mio marito e l'altro, il primo in seno al M.E.C., di naziona- lità britannica. Un piccolo ma significativo contributo italiano al- l'allargamento.

SEGUE A PAGINA2

...in corsivo Lettera aperta

al Presidente della Repubblica

S

ignor Presidente, sentia- mo il dovere di esprimer- Le la nostra più viva gratitu- dine per le parole che Lei ha rivolto a Trieste, all'Italia e all'Europa, nella giornata del 4 novembre scorso in Piazza dell'Unità.

Le siamo riconoscenti per aver ricordato il distacco dal- la Madrepatria di «terre ita- liane irrimediabilmente per- dute», di territori che «sono parte della nostra storia» e di aver menzionato espressa- mente noi «profughi istriani e dalmati», che avevamo trova- to rifugio 50 anni fa nella

«città martire» di Trieste, le c u i f e r i t e « e r a n o a n c o r a aperte e sanguinanti».

SEGUE A PAGINA2 di Guido Brazzoduro *

SÌ, guardare avanti...

ma con ciglio inumidito per i ricordi del

nostro passato

2004 Natale povero… serenamente condiviso

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PAG.

2

L’ARENA DI POLA N. 12 del 24 dicembre 2004

FLASH Una vita

tra confini e riunificazioni

Trattamento pensionistico

per residenti all'estero

Abbiamo appreso, da notizie di stampa, che i cittadini ultrasettan- tenni residenti all'estero possono avvalersi di provvedimenti finaliz- zati a conseguire un reddito con potere di acquisto equivalente a quello riferibile in Italia alla som- ma di 516 euro mensili.

Ciò, attraverso un apposito isti- tuto perequativo codificato in un recente decreto del Ministro Tre- maglia, di concerto con i dicasteri del Welfare e dell'Economia. E' stato annunciato, altresì, che il provvedimento, interessante circa 50 mila italiani, secondo le stime del Ministero per gli Italiani all'E- stero, dovrebbe avere effetto re- troattivo a decorrere dal I° gennaio 2003.

Poiché desideriamo informare al riguardo i nostri lettori - in partico- lare i connazionali residenti all'e- stero - ci siamo rivolti direttamen- te al Ministero in questione per avere notizie più precise e possi- bilmente il testo del decreto, in modo da poter informare circa la prassi da seguire per la fruizione dei benefici in parola. Ne daremo comunicazione non appena avuta risposta.

C. MONTANI

Un anno di eventi

Convegni, mostre, spettacoli

Sì, guardare avanti...

ma con ciglio inumidito per i ricordi del nostro passato

SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

Ora siamo di fronte alla Carta Costituzionale. Malgrado i mil- le difetti che le sono stati attri- buiti e che certamente ha, que- sta Carta è comunque fondata su quel modello sociale euro- peo, sorto dalla cultura e dal pensiero politico e filosofico, che ha individuato la sostanza democratica dei Paesi europei.

Su questa base fondamentale c'è ancora bisogno di molto la- voro, presente e futuro. E' un bene che il Parlamento Italiano sia stato il primo a ratificare la Nuova Costituzione Europea, per farne la prima pietra miliare dell'Europa Unita.

Dal canto mio, ho rivendicato la mia appartenenza all'Italia quando il mio Paese ha dovuto cedere la terra delle mie origini al “nemico”, ho partecipato con entusiasmo ai primi passi del- l'Europa nascente, mi sono sempre sentita in “terra di fron- tiera”, da dove, per la necessità di dover superare le difficoltà proprie di questi territori, na- scono solitamente le idee mi- gliori. Da più di trent'anni tra- scorro i miei giorni migliori in Umbria, a Spoleto, una mia ter- ra d'elezione, dove ancora una volta, ho la sensazione di appar- tenere ad una comunità cosmo- polita, che ha per confini il mondo intero. Ma non basta. A Spoleto sono diventata nonna felice di due nipotini americani;

altri due sono spagnoli e vivono a Madrid. Non è forse un esem- pio di “globalizzazione indivi- duale” al positivo?

MARISELLAMAZZAROLI

teatrali: il 2005 sarà un anno pie- no di iniziative per il Centro di Documentazione Multimediale (Cdm) della cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata. I programmi sono reperibili sul si- to www.arcipelagoadriatico.it.

A Trieste, già dallo scorso no- vembre e per il 2005, sono previ- sti incontri mensili con persona- lità del mondo della cultura e del- la comunicazione per far cono- scere al resto d'Italia ed al mondo la storia sofferta del nostro eso- do; in particolare, uno di questi convegni verterà sulla situazione attuale degli esuli, su come han- no saputo integrarsi e fare carrie- ra. In marzo ci sarà un convegno sulla letteratura dell'esodo e, nei prossimi mesi, una mostra dedi- cata al Vescovo Santin.

Il 10 febbraio 2005 ci sarà uno spettacolo tutto dedicato all'eso- do e alle testimonianze degli esu- li. I momenti più importanti ri- guarderanno, però, due mostre che si terranno: la prima a marzo, presso le scuderie del Castello di Miramare, sarà dedicata alle “ca- site” e all'architettura mediterra- nea, la seconda in primavera al Museo Revoltella, relativa al re- stauro delle opere d’arte di cui si tratta ampiamente in altre parti del giornale.

Messe e pranzi di Natale

Domenica 19 dicembre gli esuli residenti a Milano si sono ritrovati

alla Basilica di San Lorenzo, dove alle 10,30 il sacerdote fiumano pa- dre Sergio Katunarich ha celebrato la Santa Messa nella “Cappella Cittadini” (S.S. Sacramento)

Successivamente si sono trasfe- riti nel vicino Circolo “Ai Navigli”

in Via De Amicis, dove prima del pranzo sono stati intrattenuti dal- l'avv. Cesare Papa, da Bologna, sull'atteso tema dei “Beni abban- donati”. L'organizzazione era cura- ta dal consigliere G. A. Godeas, coadiuvato da altri colleghi, ed è stata molto apprezzata.

E' stata una importante occasio- ne di ritrovarsi, anche perché non tutti hanno l'opportunità di visitare con frequenza la sede del Comitato in Via S. Pellico per gli abituali in- contri settimanali del mercoledì.

F. CALEGARI Il Comitato ANVGD di Varese, ha radunato i propri Soci, unita- mente ad amici di Milano, Como e Novara, presso il Ristorante “Rag- gio d'Oro” di Varese per il tradizio- nale scambio degli auguri natalizi;

auguri che gli intervenuti, attraver- so le pagine anche di questo gior- nale, desiderano rivolgere a tutti i nostri Esuli nel mondo.

SISSYCORSI

Nuova presentazione del libro

di Romana

de Carli Szabados

Dopo il blitz romano del 3 ot-

Lettera aperta...

SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

Sappiamo che nei prossimi giorni verrà in visita a Roma il Presiden- te della Repubblica di Croazia, on.le Stipe Mesic, che Lei ebbe occa- sione di incontrare, con noi presenti, nella Sua indimenticabile visita in Croazia nel 2001. Il Presidente Mesic è un politico aperto allo spirito della nuova Europa, ma la sua nobiltà d'animo incontra qualche diffi- coltà nelle complesse dinamiche politiche del suo Paese. La preghiamo umilmente, Signor Presidente, di confermare anche in questa prossima occasione i Suoi intendimenti sui principi cui deve ispirarsi l'amicizia tra i due popoli, sia per quanto riguarda i diritti e la memoria di noi Esuli, sia per quanto attiene alla tutela dei nostri connazionali che ri- siedono nelle terre di origine.

Molti progressi sono stati compiuti dopo quell'ottobre 2001, anche per merito delle nostre Associazioni che collaborano attivamente con le Comunità della minoranza italiana e con enti ed autorità croati, co- me certamente Le sarà noto per i costanti contatti che intratteniamo con i Suoi Consiglieri

*Presidente della Federazione degli Esuli Apprendiamo che, nei giorni scorsi, il suddetto incontro c'è stato e che il clima è stato cordiale e costruttivo. Non sappiamo se sono stati affrontati anche i temi a cui il Presidente Brazzoduro ha fatto riferi- mento. Apprendiamo, però, che nel corso del colloquio è ritornato alla ribalta il progetto, di cui già parecchio tempo fa si era parlato ed al qua- le nei giorni immediatamente successivi avrebbe aderito anche il Presi- dente sloveno, Janez Drnovsek, di compiere un atto di riconciliazione, nel nome delle vittime della seconda guerra mondiale, attuando un pel- legrinaggio congiunto dei tre Presidenti, a tre luoghi simbolo delle sof- ferenze di quei tempi. Ancorché nulla sia stato definito, i luoghi a suo tempo indicati erano: la Foiba di Basovizza, la Risiera di San Sabba ed il Campo d'internamento di Gonars. Tutti, ed è lecito chiedersi il per- ché, in Italia.

Anche noi Esuli guardiamo con favore alla riconciliazione, sulla base però del riconoscimento delle reciproche atrocità commesse. Per que- sto, non siamo certo contrari al progetto, ma rimaniamo convinti che, se si ha da fare, la visita debba riguardare tre luoghi simbolo scelti uno per ciascuna Repubblica. Il nostro suggerimento potrebbe essere: la Ri- siera di San Sabba, il Campo di concentramento di Borovnica e la Foi- ba di Vines.

RED.

SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

La sua affrettata lettura mi ha, però, procurato un notevole senso di tristezza; riporto, anche se tutti ab- biamo potuto rileggerlo, un passag- gio dell'articolo di apertura, dal tito- lo “Più luce”: “…Perché, italiani, di- ciamo che l'Italia ritornerà nella Ve- nezia Giulia; ritornerà su questa ter- ra che è destinata a rifiorire per il merito dei suoi figli, ai quali tutti una concreta autonomia ammini- strativa assicurerà pace e lavoro.

Un'Italia libera e d e m o - cratica, garante di una recipro- ca con- vivenza d e g l i istriani non più disuniti da un odio so- praffat- tore, ma concor-

di nella comprensione delle recipro- che necessità. Il Governo…ha già affermato pubblicamente che alle minoranze, che resteranno sul terri- torio nazionale, sarà riconosciuto ogni diritto all'uso della propria lin- gua e delle tradizioni popolari nazio- nali. Gli Slavi pertanto entreranno nell'orbita della nuova vita italiana, il cui sistema politico è risorto….”

Vero che fa male al cuore leggere queste irrealistiche affermazioni?

Completamente rovesciato negli sviluppi successivi a quelle date, l'articolo andrebbe riletto invertendo i ruoli delle due etnie protagoniste, non tralasciando qualche ritocco an- che nei contenuti programmatici.

Alla luce dei fatti, mi sembra, che la nostra tristezza ed afflizione siano inevitabili! Giunge a mitigarle, que- sta volta a pag. 2, l'articolo “…drio la Rena…” che ci riporta sentimen- talmente a quello che è l'insieme del secolare Monumento della nostra

consolidata civiltà e del Foglio che, di quella civiltà, continua a perpetra- re la cultura e le tradizioni; la voluta immodestia e l'orgoglio di esserne figlio e partecipe riescono, così, a prendere il sopravvento su quelle tri- sti negatività.

Bello e graditissimo omaggio, del quale dobbiamo ringraziare sentita- mente il Gen. Mazzaroli e tutto il suo validissimo staff. Anzi, questi ringraziamenti dovremmo moltipli- carli addirittura …per tre, perché - quasi “un non c'è due senza tre” - non una, ma ben tre so- no state le sorprese.

S t e s s o portalette- re, stesso plico: al suo inter- no anche un interes- sante fa- scicoletto riportante- ci con compiutezza l'aggiornata Anagrafe del “Libero Comune di Pola in Esilio”; pubblicazione utilis- sima dalla quale, oltre essere viatico per riallacciare antiche e smarrite amicizie, apprendiamo, compiaciu- ti, che gli abbonati alla nostra “Are- na” superano le 1500 unità; scontato che non tutti possono dichiararsi

”istriani doc”, ma, comunque, signi- ficativo il fatto che in tanti possano venir portati a conoscenza di situa- zioni ed accadimenti che riguardano da vicino la nostra sfera di esuli. Se- condo simpatico regalo!

Il terzo, infine, ci propone una chiara e dettagliata Pianta della Città di Pola, aggiornata al maggio 1940, con la toponomastica delle vie e del- le piazze che, ancora solamente per qualche anno a venire, avrebbero conservato la loro originaria matrice italica, soppiantata poi inevitabil- mente da quella dei nuovi venuti. In nitida quadricromia, questa pianta viene a sostituire molto opportuna- mente una analoga, da tempo in mio possesso per solerte interessamento del documentatissimo Bruno Carra, ma che, nata da una serie di ripetute fotocopiature dal primitivo origina- le, risulta ormai - informe reticolo di sbavati segni in bianco e nero, quasi una rete di ragno mal tessuta - poco intelligibile. Quanto interesse ed a quanti di noi, lo scorrere attento di questa piantina ha suscitato? Tanto ed a tanti! Perché siamo riandati con la memoria a ripercorrere quelle vie nelle quali siamo nati, ad attraversa- re quelle piazze conosciute, ad en- trare ancora una volta nelle nostre scuole e nelle nostre chiese, per rivi- vere dei momenti di vita che, magari apparsi poco significativi nel mo- mento del loro accadimento, oggi assumono maggiori valenze e si ca- ricano di dolenti nostalgie.

E' molto giusto guardare avanti, impegnarci ed agire per la futura vi- ta dei nostri giovani, perché cono- scano la nostra Storia e la Verità; ma sia concesso a chi ha ormai i capelli bianchi e la schiena incurvata dal peso dei troppi anni di rivedersi bambino in quei giardini, in quelle vie scanzonato monello, in quelle piazze gioioso studentello o uomo ormai, attorniato da tutti i suoi cari, dai suoi amici, da tutta la sua civile ed orgogliosa popolazione di concit- tadini che, in un mai rimpianto gesto di patriottica libertà, ha saputo a tut- to questo rinunciare per sempre!

Tutta la nostra cultura, tutta la genesi delle nostre vite, tutto il nostro cuore di figli lontani, stanno segnate in quella Pianta. Certamente dobbiamo guardare avanti, ma per una volta, per questa sola volta, ci sia scusato questo ciglio inumidito.

VENIEROVENIER

tobre, quando in piazza San Pie- tro fu presentata la riedizione ag- giornata del libro su Carlo d'A- sburgo, con il nuovo titolo “La pace impossibile di Carlo d'A- sburgo”, l'autrice Romana de Carli Szabados, nativa di Pola ma residente a Mestre, germani- sta e già insegnante di tedesco a Venezia, è stata ospite del Centro Culturale mestrino “Santa Maria delle Grazie”.

Come è noto, la pubblicazione tratta della beatificazione di Car- lo I, un evento scomodo che ha innescato polemiche non solo in Italia ma anche in mezza Europa per i giudizi storici contrastanti sull'ultimo imperatore di Vienna.

Ha presentato la scrittrice lo sto- rico Francesco Fornasaro di Ci- vidale del Friuli.

Fra il pubblico, oltre al presi- dente del Circolo ospitante, Maurizio Del Maschio, i vicari del Patriarca di Venezia, monsi- gnor Fausto Bonini, e dell'Ordi- ne di Malta, Ruggero Caccia Do- minioni.

Il libro è stato presentato nel Trevigiano il 3 novembre, in oc- casione dell'omaggio ai Caduti nell'Isola dei Morti da parte del Presidente della Repubblica Car- lo Azeglio Ciampi, il 3 dicembre a Collalto di Susegana, in zona fronte del Piave e lo sarà, in data da stabilire, a Nervesa della Bat- taglia, dove, come è noto, vi è anche il sacello di Francesco Ba- racca.

TEDDYSTAFUZZA

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Testimonianza di Adriana Gobbo, segretaria del Club Giuliano Dalmata di Toronto

Quando l’Istria Quando l’Istria si por

si por ta nel cuor ta nel cuor e... e...

A

driana Gobbo è nata a Pola e vive a Toronto dal 1976.

E' ritornata recentemente, per una vacanza, nella sua Istria e nella sua città natale, dove ha la mamma, il papà e il fratello e vi si è trattenuta sino ad ottobre. A To- ronto, in Englinton Avenue, Adriana Gobbo è proprietaria di una agenzia di viaggi, la “Trave- lone”. Sposata a Claudio Gobbo, anche lui polesano (i suoi genito- ri si trasferirono dapprima a Pari- gi nel 1959, quando lui aveva ap- pena cinque anni e poi a Mon- treal) hanno due figlie ormai grandi: Silvia, ventiseienne, che ha scelto con successo di far car- riera nell'industria cinematografi- ca e Diana, diciannovenne, che è prossima ad iniziare gli studi in veterinaria, ma che attualmente è più vicina al settore in cui opera mamma Adriana (lavora al “Four Season Hotel” di Toronto).

Prima di espatriare in Canada, subito dopo aver ultimato gli stu- di alla Facoltà di pedagogia di Pola, Adriana ha fatto per un bre- ve periodo l'insegnante di italia- no dapprima a Dignano e poi per circa un anno anche a Fiume, al- l'elementare italiana “Mario Gen- nari”, oggi “San Nicolò”. Ricor- da con molto affetto e simpatia l'allora direttrice Maria Schiava- to. Dei suoi coetanei invece ram- menta del periodo trascorso ai

banchi della scuola media, per spigliatezza, simpatia e vivacità Elvia Malusà, ovvero la prima at- trice della compagnia del istriano Dramma Italiano, Elvia Nacino- vich. Ha poi fatto un'esperienza di studio a Perugia, dove oltre a frequentare corsi di arte, italiano e architettura, ha approfondito anche l'inglese. Dopo essersi tra- sferita a Toronto, dove aveva una zia, Adriana lavorò per circa quattro mesi come traduttrice al Consolato italiano di questa me- tropoli canadese. Poi fece per un breve periodo anche la maestra d'asilo, prendendo nel contempo, la sera, lezioni di turismo fino al momento in cui non fu in grado di mettere in piedi l'attività in proprio che gestisce attualmente.

Ha sempre avuto tanta passione anche per il teatro. L'esperienza che ebbe a suo tempo con il pro- fessor Spezzano, insieme al cui gruppo teatrale mise in scena per gli italiani emigrati in Canada “I gemelli veneziani”, “Pinocchio”

e altri lavori, la induce, ora che trova il tempo di fare un po' più

di attività in seno al Club Giulia- no Dalmata di Toronto, a riflette- re sulla possibilità di istituire un gruppo di filodrammatica in cui poter impegnare i bambini figli di esuli ed emigrati a recitare nei nostri bei dialetti. La cosa riavvi- cinerebbe i ragazzi alle radici fa- miliari e li legherebbe di più alla lingua dei loro nonni e genitori, mantenendola ovviamente più vi- va.

“Devo ammettere che più gli anni vanno avanti e più sento la nostalgia dell'Istria. Nella mia vi- ta ho viaggiato tanto, ho visitato luoghi stupendi, ma l'Istria è sempre rimasta per me qualcosa di particolare. Mi rendo conto che a lei mi legano gli affetti più cari per cui la porto dentro, ce l'ho nel cuore e quando ne parlo lo faccio forse da un punto di vi- sta molto personale. Ma d'altron- de so di non esagerare perché ve- do che ogniqualvolta i miei clien- ti arrivano nell'agenzia turistica che gestisco nell'Ontario, all'otta- vo piano di una palazzina del centro di Toronto, dove tutte le

pareti sono tappezzate di foto di questi luoghi, ne rimangono en- tusiasti e lo sono ancora di più dopo che quei luoghi li hanno an- che visitati.

A Toronto i Giuliano Dalmati sono in tutto circa 3mila tra i 600mila canadesi di origini italia- ne che vivono in questa enorme città. Ci sono poi circa 100mila canadesi di origini croate, tra cui parecchi istriani che hanno a loro volta un club, l'“Istra Ucka”. Ci si conosce e accade non di rado che ci si frequenti anche. Con il so- stegno e la collaborazione anche di altri attivisti vi si potrebbe isti- tuire un coro. C'è il nostro Livio Stuparich, anche lui nato a Pola, che con il canto e con la musica ce la sa proprio fare. Tra gli altri membri più attivi del Club Giu- liano Dalmata, oltre al presidente Guido Braini, ci sono: Bruno Bocci, Gino Bubola, il lussigna- no Konrad Eisenbichler, l'istriana Loredana Semenzin e tanti altri esuli e figli di esuli. Tra di noi, membri del Club, non usiamo quasi mai l'inglese: parliamo tutti

i nostri bei dialetti. Ci ritroviamo ad ogni buona occasione, anche se spesso, vuoi per gli impegni di lavoro, vuoi per questioni fami- liari, è il tempo che manca. To- ronto è una città immensa e per arrivare da una parte all'altra del- la metropoli spesso si impiegano ore. Ma non si manca mai a even- ti importanti.

Il 4 ottobre abbiamo organizza- to la nostra tradizionale Festa d'autunno: una serata di gala con ballo e cenone. Ma io non c'ero perché ero a Pola. Il 7 novembre, abbiamo commemorato i nostri morti con una messa, celebrata presso la chiesa di Saint Peter a Woodbridge. A officiare la fun- zione è stato padre Moser, fratel- lo del noto campione Claudio Moser. Ovviamente poi per le fe- ste di Natale organizzeremo, co- me da tradizione, una serie di eventi”.

TRATTO DA

MAILINGLISTHISTRIA Cogliamo l'occasione della pubblicazione di questo articolo, per formulare a tutti i nostri Let- tori presenti in Canada ed in tutti gli altri Paesi esteri, i più cordia- li auguri per un Felice 2005, invi- tandoli ad inviarci le loro testi- monianze e la loro sintetica sto- ria.

RED.

E

ro poco più di un bambino. Ero stato ammesso alla Prima Comunione nel nostro bel duomo di Pola ed attendevo il giorno della Cresima. Pochi giorni dopo appena, dal 7 al 12 maggio 1940. Mi incu- riosiva ed intimidiva il fatto che avrei visto il vescovo.

Per me un avvenimento grande. Lo ricordo ancora. Era un po' avanti negli anni, una faccia aperta e buona, lo sguardo sereno. Stava seduto e noi gli passavamo davan- ti per l'unzione. Era Mons. Trifone Pederzolli, la cui sag- gezza e semplicità sono ancora nella nostra memoria.

Qualche anno dopo vidi un vescovo nuovo. Alto, solen- ne, nobile nel volto e nel portamento. Vestiva un abito grigio. Ma non era il rosso il colore dei vescovi? Almeno così mi pareva di sapere. Ignoravo, allora, che i religiosi - e padre Radossi era un frate conventuale - vestivano se- condo la tradizione del loro Ordine.

Nel 1943 entrai nel piccolo convento che egli aveva vo- luto a Parenzo. Una famiglia lieta che in lui aveva un pa- dre premuroso ed affettuoso. Gli anni si fecero sempre più gravi. Da Pola, dove vivevo con i miei genitori, si an- dava a Parenzo con il vescovo, stipati in tre almeno sul sedile posteriore della Fiat 1100 color oliva scuro, PL 2909. Ai finestrini bianchi fazzoletti e davanti il guidon- cino con lo stemma vescovile. Così si passava, non senza qualche apprensione, attraverso i paesi dell'Istria, per- correndo strade che nascondevano l'insidia dei partigia-

ni e le repressioni dei nazisti. Per noi era un'avventura.

Per il vescovo, che era continuamente in viaggio, era an- dare incontro a pericoli, prevedibili e non, ed una quoti- diana fatica.

A ripensare a quegli anni sento in me una grande am- mirazione per un vescovo che sapeva affrontare con co- raggio situazioni tragiche e senza alcun timore opporsi ai potenti di turno a difesa della verità e della giustizia;

per un vescovo che condivise l'angoscia della sua gente e l'umiliazione dell'esodo; per un vescovo che ogni giorno accettava il rischio e continuava a viverlo anche dopo essere stato vittima di ignobile e vile attentato.

Ma sentivo, e sento ancor oggi, una vivissima gratitu- dine per la paternità sua, calda e attenta, di cui anch'io ho potuto godere. E non solo perché a noi seminaristi provvedeva come un buon padre di famiglia, caricando la sua automobile all'inverosimile di quanto gli veniva donato perché non avessimo a soffrire ristrettezze e forse la fame. Ma soprattutto per il suo tratto semplice, per l'affetto che sentivamo vivo in lui per ciascuno di noi, per la sua serenità e la delicata sensibilità dell'animo suo, per le visite così cordiali alle nostre famiglie.

Non pensavo che mi sarebbe stata data occasione per ricordare colui che fu anche mio vescovo. A chi me l'ha offerta sono grato. E l'ho fatto volentieri!

Una cosa sola vorrei dire ancora. Considererei un vero

dono del Signore se, come accadde per Eliseo, che otten- ne un lembo del mantello del profeta Elia, potessi anch'io avere almeno un poco del suo spirito per vivere oggi il mio servizio nella Chiesa.

* Vescovo di Trieste

Ricordo di un padre

di Mons. Eugenio Ravignani *

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L’ARENA DI POLA N. 12 del 24 dicembre 2004

In pericolo i tesori In pericolo i tesori

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D

urante la Seconda guer- ra mondiale, alcune opere d'arte del periodo rinascimentale e taluni reperti ar- cheologici furono legittimamente trasferiti dall'Istria (avevano col- locazione soprattutto a Capodi- stria e Pirano) in Italia, al fine di preservarli dagli eventi bellici. Si tratta di circa un centinaio di ele- menti, tra cui dipinti degli artisti capodistriani Carpaccio, Bene- detto e Vittore, ma anche del Tie- polo, del Vivarini ed il trittico di Cima da Conegliano, provenien- te dalla Chiesa di Sant'Anna a Capodistria. Su tali beni è in atto un contenzioso con la Slovenia che ne vorrebbe oggi la restitu- zione. Peraltro, alcune di queste opere d'arte sono state recente- mente restaurate nel nostro Paese e ne è prossimamente prevista l'e- sposizione al pubblico al Museo Rivoltella di Trieste (probabil- mente nella primavera 2005).

L'argomento è stato affrontato anche in occasione della recente visita di alcuni rappresentanti dell'Ulivo alle Comunità degli Italiani di Slovenia e Croazia, cui ha preso parte anche il Presidente della Federazione Brazzoduro. In tale circostanza Maurizio Tre- mul, Presidente dell'Unione degli Italiani, ha detto che «sarebbe oggi giusto che questo patrimo- nio torni a casa, magari allesten- do una specie di museo perma- nente» e proposto di «istituire in maniera paritetica, tre U.I. e Fe- derazione, una Fondazione che gestisca le opere d'arte istriane», il tutto al fine di «una congiunta azione di tutela e valorizzazione del comune patrimonio cultura-

posizione da parte di quanti ne sono venuti a conoscenza.

Così, ad esempio, si è espresso un “rimasto”: «forse non tutti sa- ranno d'accordo con me, ma io spero vivamente che queste opere d'arte tornino nelle chiese che le hanno ospitate per secoli (e' deso- lante vedere le cornici vuote). E assieme a loro spero che tornino anche gli istriani. Io trovo che Tremul abbia ragione. Ma a so- stenere questa tesi sono stati pri- ma di lui esuli capodistriani del calibro di Francesco Semi, Bruno Maier...». Gli ha replicato un

“esule”, niente meno che dal Ca- nada: «… è sì desolante vedere le chiese capodistriane con le corni- ci vuote...ma ancora più deso- lante è vedere quei banchi delle chiese senza i capodistriani au- toctoni. Sono loro che hanno fat- to la storia di Capodistria, quelle opere d'arte sono state fatte per loro, per il loro godimento, sono stati i loro avi a pagarle. Mi sem- bra, dunque, che sarebbe oppor- tuno chiedere ai capodistriani, lontani da Capodistria, cosa ne le». Non risulta che tale idea sia

stata confutata dai visitatori ita- liani, nemmeno dal rappresentan- te degli esuli. Quantunque non sia stata presa in merito alcuna decisione sussiste, pertanto, una situazione di pericolo per questi tesori dell'arte istriana. La noti- zia, apparsa su taluni giornali e diffusa anche via internet, ha però suscitato immediate prese di

pensino. Solo loro e non altri do- vrebbero decidere se è giusto o sbagliato farle ritornare in Istria...

Per avere certe cose indietro bi- sogna anche saperne dare delle altre in cambio..., ma pare che fi- nora i capodistriani esodati ab- biano avuto poco in ritorno, tutt'altro...». Sempre a titolo di

esempio, tra le opere d'arte da re- stituire potrebbe esserci un qua- dro di Bartolomeo Gianelli, già della famiglia capodistriana De- rin, che sottratto ai legittimi pro- prietari all'atto dell'esodo, fa oggi bella mostra di se nel Museo del- la cittadina istriana. Trattandosi di un bene privato, il Governo sloveno, oggi così democratico ed europeo, dovrebbe, in base al diritto internazionale, restituirlo ai legittimi proprietari, ossia alla famiglia Godeas - Derin. La mia famiglia!

Auspico, pertanto, che le pro- poste del cittadino sloveno Tre- mul vengano respinte da tutte le organizzazioni dei Giuliano Dal- mati e che le opere d'arte della nostra gente vengano, un domani, collocate nel costituendo “Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata di Trieste” e non finisca- no, come il quadro di Nicolò De- rin, in qualche museo slavo! I no- stri connazionali rimasti, se vera- mente ci tengano a preservare l'i- talianità delle nostre opere d'arte, rivolgano piuttosto la loro atten- zione agli innumerevoli capola- vori di arte italica rimasti nelle terre dovute abbandonare, per evitare, come purtroppo sta suc- cedendo, che altri dopo essersene appropriati materialmente lo fac- ciano anche culturalmente; lasci- no a noi il piacere, oltre che l'one- re, di preservare quel poco che ci è rimasto a ricordo delle nostre radici.

A tutti noi la responsabilità di vegliare su intese sottobanco, purtroppo possibili!

GIANNIGODEAS

Il

28 novembre 1954, a poco più di un mese dal ritorno di Trieste all'Italia, per iniziativa dell'avvocato Lino Sardos Albertini, nasceva l'U- nione degli Istriani; primo Presidente l'armatore di Lus- sinpiccolo, architetto navale Nicolò Martinoli; il padre di chi scrive, dr. Luciano Maz- zaroli, uno dei primi 40 consi- glieri della neo nata Associa-

zione. Cinquanta anni dopo, l'attuale Presi- dente, Silvio Delbello, ha voluto celebrare quel fondamentale momento di aggregazio- ne della comunità triestina degli esodati con una intensa giornata, ricca di significati e di emozioni.

La giornata è iniziata con la celebrazione della S. Messa nella Cattedrale di San Giu- sto, officiata da monsignor Antonio Des- santi, uno dei quattro superstiti del gruppo dei fondatori dell'Unione degli Istriani (gli altri sono Giovanni Tomasi, Piero de Fa- vento e Lino Sardos Albertini). Successiva- mente, tre corone sono state depositate ai piedi dei due monumenti che, nel Parco della Rimembranza, sono dedicati ai Cadu- ti di tutte le guerre ed agli Infoibati e della targa che ricorda il primo “Raduno degli Istriani”, avvenuto a Trieste il 3 - 4 novem- bre 1964, che così recita: “Cacciati dalla patria terra, in te Trieste trovammo il porto fraterno ove ai naufraghi si offrì un rifugio sicuro e pane e conforto alla loro desolata sorte. Qui ricominciò la vita, rifiorì la spe- ranza, con te rimanemmo, gli occhi fissi laggiù ove riluce il profilo amato dell'Istria Madre”.

Nel primo pomeriggio in Piazza della Li- bertà, poco prima di salire sull'altopiano per la celebrazione ufficiale del Cinquante- nario di fondazione presso la mostra sui

“Centri Raccolta Profughi” allestita a Pa-

driciano, una rap- presentanza di esuli ha deposto altre due corone di fiori sulla tar- ga, di recente col- locata dal Comu- ne sul muro del Silos, a ricordo del lungo periodo dovuto trascorre- re al suo interno, in condizioni di assoluta

precarietà, da molti di lo- ro e al Monumento all'E- sodo, inaugurato appena un mese fa a memoria dei 350.000 Istriani, Fiu- mani e Dalmati che ab- bandonarono le loro ter- re per rimanere italiani.

L'appuntamento con- clusivo del pomeriggio ha visto a Padriciano centinaia di persone, che

hanno gremito l'angusta sala scelta per l'oc- casione. Erano presenti diversi esponenti politici ed amministratori locali che hanno rivolto parole di saluto ai presenti. Nella sua breve allocuzione il Presidente Delbel- lo ha, tra l'altro, detto: «Di fronte al nostro esodo, che ebbe carattere biblico, il mondo rimase indifferente. A cinquant'anni di di- stanza siamo ancora in esilio e, in questa condizione, ci apprestiamo a vivere questa giornata. Siamo qui perché vogliamo ricor- dare le nostre radici latine, venete e italiane e continuare a studiare la storia della nostra Istria, per poterla tramandare agli ”esuli della terza generazione”, ai nostri giovani.

L'esodo non ha sradicato una massa anoni- ma di emigranti in cerca di fortuna, ma un popolo che l'ingiustizia ha allontanato dalla propria terra». La parola è poi passata al

sig. Massimiliano Lacota, coordinatore del Gruppo Giovani dell'Unione degli Istriani e tra gli ideatori della mostra che, in partico- lare, ha voluto inquadrare la nostra condi- zione di esuli in quella più ampia di altre popolazioni europee che hanno vissuto le stesse esperienze e con le quali si opera congiuntamente per ottenere quella giusti- zia che sinora ci è stata negata. Durante la cerimonia sono state consegnate medaglie ricordo agli intervenuti di riguardo ed ai presidenti delle varie “famiglie” che com- pongono l'Associazio- ne. Gli interventi degli oratori sono stati in- frammezzati dalla ese- cuzione di cori esegui- ti dalla corale dell'U- nione degli Istriani; in particolare, è stato eseguito per la prima volta in pubblico l'In- no dell'Unione, musi- cato dal maestro Luigi Donorà, presente in sala, su testo del

poeta gradese Biagio Marin.

L'intensa gior- nata, che ha vo- luto celebrare gli oltre cin- quant'anni du- rante i quali si è cullato invano il desiderio del “ri- torno”, è termi- nata al canto

spontaneo da parte di tutti i presenti, molti con i lucciconi agli occhi, del «Va' pensie- ro».

Piace concludere questo sintetico reso- conto di una giornata memorabile con le semplici parole di una triestina che, riferen-

dosi alla mostra organizzata nel ex C.R.P.

di Padriciano, avvalendosi di reperti, rico- struzioni e documentari che ben raccontano il dramma dell'esodo, che è poi anche una pagina della storia del nostro Paese, così si è espressa sulle pagine di “Il Piccolo”:

“ Premetto che non sono un esule, ma ve- dere ciò mi ha profondamente commossa.

Invito tutti ad andare a vedere quanto han- no sofferto queste persone. Spero che quel- le foto ed il documentario facciano riflette- re sulla necessità di non dimenticare il dramma che ha colpito migliaia di persone costrette ad abbandonare i loro cari, le loro case e le loro bare a causa di un opprimente regime comunista”.

Anche per questo, per la sensibilità dimo- strata da una cittadina “qualunque”, ci sa- rebbe piaciuto che la mostra fosse visitata oltre che dalle migliaia di persone, che ne hanno decretato il successo, anche dal Pre- sidente del Repubblica.

Rimanendo in tema, a sottolineare il suc- cesso ottenuto dalla mostra allestita a Pa- driciano e le emozioni da essa destate in ambito cittadino, il Sindaco di Trieste, Roberto Di Piazza, ha voluto fare dono, ai giovani che l'hanno ideata e ne hanno curato l'allestimento, della me- daglia di bronzo della Città. Il 9 dicembre sono stati, a tal fi- ne, ricevuti in Municipio: Ma- ria Decleva, Annamaria e Pie- ro Delbello, Fiore Filippaz, Alessandro Flego, Silvana Gu- lin, Massimiliano Lacota, Alan Male, Mariella Manzutto, En- rico Neami e Nelia Verginella. I “giovani”, che ci sono ed ai quali vanno il nostro rin- graziamento ed apprezzamento, aspettano che altri giovani si uniscano a loro. Per non dimenticare, c'è ancora moltissimo da fare!

SILVIOMAZZAROLI

Mezzo secolo dopo, noi istriani siamo ancora in esilio

Contenzioso italo-sloveno sulla restituzione del patrimonio artistico

Cinquantesimo anniversario della nascita dell’Unione degli Istriani

Ritratto di Nicolò Derin (1858-1862), olio su tela di Bartolomeo Giannelli (1824-1894) Capodistria-Museo Regionale

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Asini e balilla Asini e balilla

di Mario Frezza

I

l signor Sambo era nostro pa- drone di casa. Moro, corpulen- to, quattro capelli posti di tra- verso al cranio pelato, aveva be- cherìa in piazza del Mercato e bene- diceva la guerra che aveva, per così dire, movimentato i suoi affari. La signora Evelina, sua moglie, era boema di nascita, parlava male l’ita- liano, ma era di modi gentili e face- va un gòlash che spandeva gli aromi del garofano per tutto il caseggiato.

La signora Evelina portava grandi mutandoni di cotone azzurro, che stendeva ogni settimana sulla corda tesa nel cortile. Io salivo spesso a casa sua ad accudire al canarino. Mi piaceva osservarlo mentre cantava, gonfiando il collo come un vero te- nore. Un pomeriggio vidi la signora Evelina che faceva il bagno. Nella stanza fumosa, il tafanàrio bianco- burroso di lei mi apparve in tutta la sua possanza. Capii le dimensioni dei mutandoni stesi al sole, chiusi pian piano la porta che avevo inav- vertitamente socchiuso, e corsi via. I panni stesi sono una pagina scritta, una seduta d’analisi vera e propria.

Non solo dichiarazione di facoltà e censo, ma confessione di gusto, di tendenze, di aspirazioni inconscie.

Si dovrebbe, per dir di conoscere una persona, vederne il bucato steso alla finestra. Tralasciando il tafanà- rio e le aspirazioni inconscie della signora Evelina, bisogna dire che lei faceva di tutto per culturizzare ed elevare socialmente il marito, tant’è che si vedevano spesso al Ciscutti, in palco, a sentire l’opera. Il signor Attilio però prendeva sonno, e co- minciava a russare, immancabil- mente, prima della fine del primo at- to. A volte cedevano i posti ai miei e fu così che sentii Beniamino Gigli che cantava il Trovatore.

Alcune serate estive nel cortile di casa, con i muri ancora caldi di sole e una lunga tavolata di fortuna. C’e- rano anche i miei zii da Milano che villeggiavano, tutti gli anni, a Sac- corgiana.

Il signor Sambo tira fuori dal fri- gorifero dei tagli di carne speciale, che non gliene mancava, e farcisce l’anguria con il cognac. Mia madre ne mangia con avidità, quella polpa dolce, fresca, traditrice, se ne ubria- ca e la portano a braccia a letto che sembrava morta. Lo zio Gino canta- va con voce tenorile “…ridi pagliac- cio” e di sopra mia madre vomitava.

I

ricostituenti. Un termine che la medicina acquisisce negli anni trenta e non ha ancora mollato. Un termine fortunato che non corri- sponde spesso, e nella fattispecie, a ciò che vuol significare. Siamo nel pieno fulgore della medicina che de- ve ricostituire; c’è l’autarchia, la tu- bercolosi, il rachitismo e perciò: le vitamine, il calcio, il ferro-china, il fegato crudo, la bisteca de caval co’

l’ovo de sora e le sponte.

“No voio saver de cossa, basta che sia sponte, che le me fa più ben”

diceva santola Maver appassionata di ricostituenti robusti. Molti anni più tardi, dato che giudicò le pasti- glie di Lanoxin troppo piccole, ne assunse per alcuni giorni 2 al matti- no e 2 alla sera. Fu ricoverata in ria- nimazione più di là che di qua.

Tra i ricostituenti, per così dire meno invasivi, c’era l’oio de bacalà, maleodorante pozione che doveva servire a non diventar rachitici (el xe mezo rachitico e ci si immaginava un essere malfatto e deforme). Si

Com’era la città ...

... e la campagna

cercava di confondere il sapore mangiandoci sopra del pane o della mela acerba. Ma spesso, nulla servi- va ad evitare gli infiniti rigurgiti di quello che è rimasto, tra noi ragazzi di una volta, il sapore per antono- masia di quegli anni. Dopo sarebbe venuto l’oio de rizino, ma siamo or- mai nella storia patria e non in quel- la personale dei nati di allora.

Andavo con la mamma alla Cassa Malati a fare le sponte ricostituenti.

C’era un’infermiera grassa ed anti- patica che diceva: “Oh che bel cule- to” e zac ti piantava l’ago nel più profondo dell’anima. La me gà tocà l’osso era l’espressione più usata per indicare il massimo del dolore.

Ci si fermava poi da Baldini in via Campo Marzio per un soldatino da aggiungere al mio esercito persona- le.

La Cassa Malati (non capivo le ragioni di quel nome ed i rapporti con altre casse, come la Cassa di Ri- sparmio, la cassaforte o anche la cassa da morto) era un edificio au- stero, dove si respirava lo stesso odore dell’Ospedale. Per le scale ed i corridoi erano intervallate grandi tazze bianche di metallo smaltato: le sputacchiere. Io credevo che tutti dovessero, rispettosi delle norme, sforzarsi di sputare dentro; seppi in- vece, più tardi, che dovevano farlo solo i poveri malati di polmoni, i ti- sici per capirci, per evitare di diffon- dere, sputando in ogni dove, la loro terribile malattia.

C’era stato in città qualche caso di paralisi infantile e per un probabile ordine dell’Autorità Sanitaria, tutti i bambini portavano sul petto, attac- cato alla collanina del battesimo, un sacchetto di garza con dentro della naftalina. Non so se ciò avesse real- mente effetto sul virus della polio, certo è che noi eravamo sicuramen- te inattaccabili dalle tarme.

I

n quegli anni il telefono era in funzione solo con alcune linee che collegavano i principali uffici pubblici. Rare le linee ad uso priva- to. Apparecchi monumentali, ma ben costruiti che oggi fanno la deli- zia dei collezionisti; le chiamate passavano tutte attraverso la “signo- rina”, la cui voce era l’unica cosa amata e tangibile del servizio.

Per molti e soprattutto per quelli che non avevano consuetudine di la- voro con l’apparecchio, il telefono era una cosa inquietante, di cui si nutriva una certa soggezione, se non di più.

Raccontava mia madre, testimone di un gustoso episodio, in quanto autrice della chiamata, che un visi- tatore, trovandosi solo nell’ufficio

di mio padre e in attesa, evidente- mente colto da terrore nell’udire lo squillo, alzò rapidamente la cornet- ta, gridò con quanta voce aveva in gola: “Qua xe Mario (lui) Bepi (mio padre) no xe, Vico (il magazziniere) xe in cesso” e interruppe la chiama- ta senza voler null’altro sapere da quell’orrendo marchingegno. Ne succedevano anche di queste.

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l paese distava dalla città non più di otto chilometri ma, la polvere d’estate e il fango d’inver- no, ci s’impiegava in bicicletta più di un’ora.

Ogni sabato la vecchia Bianchi con il carter, i freni a stanghetta e il sellino rosso usciva dal ripostiglio.

Le mie gambe a penzoloni erano in grave pericolo. Un paio di volte il piede mi entrò tra i raggi, finché Nin non applicò ai lati della forcella un più sicuro fermapiedi.

Mia madre che non aveva mai imparato l’arte del velocipede, per quanti sforzi avesse fatto mio padre, ci seguiva con la corriera.

Bussolèr, Scàttari, Sichìci, Mon- tiròn, ville date in appannaggio a coloni militari romani dopo la resa degli Istri, erano ora poveri paesini conosciuti solo per i loro rustici no- mi che facevano vista di sé sui car- telli stradali, bersaglio delle fionda- te della mularìa. Tappe indimentica- te di quei viaggi del sabato pome- riggio. La strada s’impennava co- stringendoci a proseguire a piedi vi- cino alla stanzia Rizzi e sul rato di Scàttari, quella dopo il cimitero era invece una salitella da quattro soldi, e si era subito in paese.

La famiglia di mio padre abitava in due case contigue: il palazo, la casa più vecchia, di nobile fattura, con molte stanze, la soffitta, la ci- sterna e la casa nova di costruzione più recente, che a piano terra aveva la cantina, la càneva, e di lato, la stalla e il tigòr. Sul davanti c’era un

grande cortile con un’altra cisterna, il cesso e la fabrerìa delle macchine ed attrezzi. In fondo alcune mede di paglia e una lunga fila di gelsi bian- chi, che d’estate spandevano una fresca ombra nella calura immobile del cortile.

Per i miei parenti, agricoltori del- la campagna dell’estremo meridio- nale della penisola istriana, mia ma- dre era una zitadina, con tutto il ri- spetto, ma forse anche con tutto il distacco che quell’origine poteva comportare. Figlia di un arsenaloto defunto, impiegata provetta ma sen- za immobili al sole, deve aver fati- cato parecchio per entrare nel cuore di barba Bepi (che poi era nel cuore di tutta la famiglia). Nonno Bepi era di stirpe italiana e lui ne era testimo- ne convinto. “Delegato” del paese durante il governo austro-ungarico, era stimato e benvoluto dai paesani, alcuni dei quali aveva sfamato du- rante gli anni più tristi della fine del secolo, quando in campagna ci si vendeva per un tozzo di pane o un piatto di minestra. A casa si parlava italiano, ma lui se doveva bestem- miare (lo faceva di rado, quando non ne poteva fare a meno, e poi ca- deva in una pesante tristezza) lo fa- ceva in croato, quasi la cosa fosse meno grave. Però molto spesso il

“iebènti” iniziale era seguito solo da un digrignar di denti e il “Boga”, ri- manendo solo nelle intenzioni, mu- tava il peccato da mortale in veniale (come diceva don Camillo quando gli chiedevamo se per quelle be- stemmie il nonno sarebbe andato al- l’inferno).

Barba Bepi era un vero tollerante, uomo di confine che sapeva convi- vere con gente di altra nazionalità senza sopraffare, né venir sopraffat- to. Era alto e robusto, con i capelli a spazzola e due baffoni di tutto ri- spetto. Aveva mani di cuoio maroc- chino, afferrava come niente fosse le bronze dal fogolèr per accendersi la pipa. Fumava indifferentemente pipa, sigari o sigarette anche a letto, talché qualche volta, per essersi ad- dormentato con la pipa accesa, ave- va dato fuoco alle coltri. I figli lo chiamavano papa, con la parola, senza accento, di uso comune in Istria che sembrava sottointendere un vero potere pontificale del padre sui figli.

La tolleranza. La tolleranza sareb- be certamente da comprendere tra le virtù cardinali. Se Domineddio rifa- cesse i comandamenti, penso che dovrebbe prendere in considerazio- ne la necessità di includervi qualcu- no che imponesse la tolleranza, ma- gari accanto all’amore, virtù massi- ma (siamo d’accordo) per un cristia- no, ma così difficile da esigere! An- che in mancanza dell’amore, la tol- leranza è comunque in grado di sal- vare la barca dal naufragio.

In qualsiasi modo la si voglia mettere, nonno Bepi era fondamen- talmente un tollerante. Era stato un buon suddito durante la dominazio- ne austro-ungarica, così come non si era mai lamentato, nel ventennio, del fascismo: non ne condivideva certamente alcuna convinzione, ma sopportava e andava per la sua stra- da. Purtroppo non riuscì invece a vedersi nell’Istria comunista. O for- se, più precisamente, lui avrebbe anche tollerato, magari a fatica, i nuovi padroni, ma non c’era nessu- na possibilità che essi potessero tol- lerare un uomo come lui. E così, alla bella età di settantaquattro anni, pre- se cappello.

Mia nonna Caterina era di fami- glia croata, aveva portato in dote al- cune proprietà che non erano dispia- ciute alla famiglia, ma non avrebbe mai osato insegnare la sua lingua ai numerosi figli. Anche quando veni- va a trovarla la sorella Agnese, che aveva sposato il fratello del nonno, per pudore o per uno stato di timore reverenziale, si appartavano da qualche parte per confabulare nel loro idioma materno.

La nonna vestiva sempre di nero, portava una lunga treccia, girata a chignon sul capo, che copriva con il fazzoletto. Era una donna di pace e di devozione. Dieci figli uno dietro all’altro, due morti in tenera età, se- condo le proporzioni di allora. Ogni volta che ci incontrava chiedeva se avessimo mangiato. “Oj me meni, ti gà magnà picio?” a qualsiasi ora del giorno o della notte questo capitas- se. La calma inamovibilità della nonna era proverbiale e, a dimostra- zione di ciò, si diceva che all’ultimo tocco di mezzogiorno, con una squadra di affamati che entro poco sarebbe andata a tavola, ella, imper- turbabile, si metteva alla ricerca di una zèpola per arrotolare i fusi. Na- turalmente farina ed altro sarebbero venuti dopo.

Nonna Cate soffriva di reumati- smi alle ginocchia ed andava, ogni anno, ai bagni di Santo Stefano.

Nessuno sapeva dove fosse questo luogo, né come la nonna ci arrivas- se: a noi sembrava un luogo lonta- nissimo e miracoloso.

Ma a proposito di tolleranza forse qualcuno potrebbe obiettare che era facile essere tolleranti quando gli slavi si sentivano talmente minoran- za da non osare ad insegnar la loro lingua ai propri figli. E questo è cer- tamente un punto di meditazione.

L

a vita del paese era improntata da un’antica cultura contadi- na, per la quale contava soprattutto aver la terra. “Se no gà la tera un omo no gà niente, la tera xe come l’anema…” e qui il discorso si face- va difficile e gli uomini, che magari avevano cominciato quel ragionare tra una briscola e un bicèr, preferi- vano tacere o portare il discorso su argomenti più consoni al loro parla- re quotidiano. In paese quello che era al di sopra del desiderio di tutti era l’interesse della famiglia, la soli- darietà tra quelli dello stesso ceppo, anche se ciò valeva fino a che la fa- miglia era unita e si stava assieme.

Dopo, quando i figli e quindi i fra- telli si dividevano, tornava a vigere l’interesse del nuovo gruppo e quin- di grandi lotte per i lasciti, le eredità, i pezzi di terra lasciati e ricevuti, ma anche per i beni meno fruttiferi. E qui la legge, non scritta ma anche di più rispettata, era crudele: ci si met- teva le mani addosso per una pecora o qualche sacco di grano, non ci si guardava più in faccia fino alla mor- te, per ancor meno.

(CONTINUA)

Città e campagna

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A cura della Redazione di Milano diretta da Piero Tarticchio L’ARENA DI POLA N. 12 del 24 dicembre 2004

di Claudio Antonelli di Piero Tarticchio *

I

l gigantesco “uomo nuovo”, che il titoismo proclamava dai vari pulpiti nazionali e inter- nazionali di aver creato, e che per le forze pro- gressiste italiane era un modello a ven-

tiquattro carati dinanzi al quale era edi- ficante e gioioso prostrarsi, non si è mai materializzato. Il disfacimento della Jugoslavia nelle lacrime e nel sangue è stato portato a termine pro- prio da lui, l’ “uomo nuovo” che, dietro il pesante belletto dell’autogestione, dell’equidistanza, dell’antifascismo e della fratellanza tra i popoli, aveva mantenuto intatto il ghigno dell’esclu-

sivismo etnico-tribale. Anche oggi che la Slove- nia è entrata in Europa tra il tripudio estasiato del- le masse italiane, nemiche giurate dei confini, an- zi dei propri confini, e da sempre disposte alla po- sizione supina per agevolare i “rapporti di buon vicinato”, le beghe mai sopite tra gli ex fratelli, un tempo marcianti tra un tripudio di bandiere rosse sotto il Sol dell’avvenire, riesplodono tra un di- grignare di denti, a proposito del confine che co- me una coperta ognuno dei due vuol tirare dalla parte sua. Gli Sloveni, forti del proprio diritto di veto, minacciano i Croati di non farli entrare nella casa europea.

Ma i Croati finiranno con l’entrarvi, non dispiac- cia ad una minoranza di esuli giuliano-dalmati, nemici del progresso e dall’inguaribile animo no- stalgico e guerrafondaio.

Speriamo solo che la casa europea abbia le pareti solide per resistere alle rudi, manesche abitudini degli ex fratelli balcanici. C.A. da Montréal Corriere della Sera:

Un confine mai (del tutto) definito. Anni di scara-

mucce. Fino all’arresto di dodici politici sloveni sconfinati per qualche metro in Croazia.

E tra Lubiana e Zagabria, i due Stati cugini che nel 1991 se ne sono “andati” dalla Ju- goslavia (pur con travagli diversi), è scoppiata la più pesante crisi degli ulti- mi anni. Tanto seria che la Slovenia ha minacciato di bloccare l’adesione della Croazia all’Unione europea, se la fron- tiera non verrà una buona volta traccia- ta: in 13 anni, infatti, sul confine marit- timo i due Paesi non sono mai riusciti ad accordarsi. “Finché la Croazia non accetterà la politica europea di evitare i conflitti - è intervenuto il primo ministro sloveno Anton Rop - la Slovenia non può permettere che siano avviate le procedure per l’ingresso della Croazia nell’Ue”. Come dire, abbiamo come tutti i Paesi Ue il diritto di veto e potremmo usarlo.

Una questione serissima, nata da una faccenda ri- sibile.

Infatti una dozzina di politici sloveni, capeggiati dal leader dei popolari Janez Podobnik, hanno fatto visita a tal Josko Joras, un nazionalista (o

“patriota”) sloveno convinto che il suo podere si trovi non già in Croazia - come dice la geografia - bensì in Slovenia.

Di ritorno in patria, direttamente per i campi (chiaramente senza passare dal valico), i politici sono stati fermati dagli agenti croati. Si sono ri- fiutati di mostrare i documenti e sono stati spediti in cella senza tanti complimenti. “Mi hanno mal- menato”, si è lamentato Podobnik. Possibile che un simile incidente rallenti le aspirazioni europee della Croazia? “Assolutamente - ha detto il pre- mier sloveno Rop - Noi siamo parte dell’Unio-

ne”. C.A. da Montréal

L’ex “uomo-nuovo”

In Istria per

In Istria per corr corr endo la via Flavia endo la via Flavia

E

’ uscita la pubblicazione che affianca il libro “Ragu- sa Va Re-

pubblica Marina- ra Italiana” che tanto successo ha ottenuto, al pun- to che la prima edizione è ormai esaurita.

Con il secondo libro, il Centro di Cultura Giuliano Dalmata intende proporre, attra- verso un itinera- rio fotografico realizzato da Li- vio Del Pino, una delle ultime ri- cerche del pro- fessor Mario Mi-

rabella Roberti intitolata “In Istria percorrendo la Via Flavia”.

Secondo il grande archeologo, l’arteria si snodava lungo un trac- ciato preistorico che attraversava le grandi vallate del Quieto e del Leme, fra doline e castellieri, fino ad approdare a Pola. Possiamo ipotizzare che quel percorso fu se- guito da Giulio Claudio Pulcro - nel 177 a.C. - per conquistare Ne- sazio, capitale degli Istri.

La regione è suddivisa in tre zone:

a nord “la bianca”, caratterizzata dal colore grigiastro del terreno;

quella centrale, “la verde”, per i toni cromatici dei boschi e dei col- tivi; infine, “la rossa”, dal partico- lare color sanguigno assunto dalla terra ricca di bauxite. Tutta la pe- nisola istriana è disseminata da in- sediamenti romani e ogni pietra ha una sua storia da raccontare.

Le strade consolari, che da Roma si irradiavano verso il mondo allo- ra conosciuto, diffondevano la ci- viltà, il diritto, la pubblica ammi- nistrazione e l’organizzazione mi- litare latina. Le aquile dei Flavi e dei Cesari garantirono una pace lunga e durevole per la popolazio- ne della Decima Regio “Venetia et Histria” che prosperò dall’Alpe Adria a Capo Promontore.

La calata delle orde barbariche portò nella regione epidemie, sac- cheggi e la fine della civiltà latina, di cui oggi sono rimaste le mae- stose vestigia.

Anche se la via del mare è sempre stata la più agevole per gli scambi commerciali tra le popolazioni co- stiere dell’Adriatico, coloro che volevano raggiungere l’Istria via terra dovevano obbligatoriamente percorrere la Via Flavia. Il viaggio iniziava da Aquileia, importante colonia romana fondata nel 181 presso il Natisone, congiungendo le vie dell’ambra e del ferro a oc- cidente, attraverso la valle del Po con l’oriente - e dopo valicate le Alpi - collegava il mondo latino con le genti Danubiane e della Pannonia.

Aquileia fu un importante centro della romanità, da qui, fin dal Se- condo secolo, il cristianesimo si spinse in Istria trovando humus fecondo per la sua diffusione.

La Via Flavia iniziava dove si tro- va la grande basilica paleocristia- na di Aquileia e, attraversato l’I- sonzo, proseguiva in direzione di Tergeste (Trieste). Superato il Ri- sano (per i latini Formio), la stra- da si inoltrava nella penisola istriana passando per Aegida (Ca- podistria) e seguendo un percorso tortuoso e affascinante terminava

a Pola. Attraversando una natura aspra e selvaggia, il viaggiatore ri- maneva incanta- to alla vista di scorci di rara bellezza.

Oggi l’antica via consolare Flavia è stata cancellata dal tempo e dagli avvenimenti sto- rici, ma le tracce della sua esisten- za - come ha ri- badito nel suo saggio il profes- sor Mirabella Roberti - sono confermate dal ritrovamento di alcune epigrafi miliari.

* Presidente del Centro di Cultura Giuliano Dalmata

Da una ricerca del professor Mario Mirabella

Roberti è nato un libro sulla via consolare che da Aquileia giungeva

fino a Pola.

A sinistra: la copertina del libro.

Sotto: la carta dell’Istria con il tracciato della via Flavia.

A destra: la pietra miliare con la scritta VespasianusFlaviam fecit

P

erché l'uomo scrive? Lo fa per ri- cordare, per sconfiggere l'amne- sia, il silenzio, i buchi grigi del tempo, per compiere il miracolo del ritorno.

In questo senso la scrittura diventa l'alleata contro la morte. Ben venga quindi in soccorso alle disattenzioni della storia nazionale quel genere di letteratura che si riallaccia al tema del ricordo, per proporre momenti di vita vissuti inquietamente, come i giorni che segnarono il destino dei giuliano dalmati, sradicati dalla propria terra e dispersi per il mondo. A che serve par- lare di memoria se non la si condivide con gli amici e con i sopravvissuti di quella tragedia? Facciamolo almeno per tenere in vita - non so ancora per quanto tempo- quella fiammella che, giorno dopo giorno, sta diventando sempre più flebile.

“La figlia del sergente di marina” è un libro scritto con spunti autobiogra- fici da Tullio Tulliach. Ripercorre gli avvenimenti che accaddero alla fine della guerra, nell’intermezzo delle forze d’occupazione alleate e con l’e- sodo da Pola. La narrazione ha un rit- mo incalzante ed è espressa attraverso una prosa corretta e coinvolgente. Per certi versi richiama alla mente una

“West side story” nostrana; con un fantasmagorico avvicendarsi di dan- ze, cantate, bevute, dispetti tra giova- ni, intercalate dalle immancabili inge- nue, tenere e garbate storie d’amore, nelle quali si ha la sensazione che l’autore diventi “l’io narrante”.

E’ certamente un mezzo per ap- profondire l’evoluzione dei fatti, an- che se in certi passaggi si avverte la sofferenza di chi non riesce a domina- re le proprie pulsioni, che gli vengono dal suo fragile e incerto amore per la persona amata. Nel dipanarsi del rac- conto, le emozioni giovanili si alter- nano alle azioni che incisero pesante- mente sui destini della nostra terra, come ad esempio nel passaggio in cui viengono descritte le firme “carpite”

ai lavoratori di Scoglio Olivi e in se- guito manipolate per scopi politici.

Di grande impatto sono le pagine rela- tive alla imponente manifestazione di piazza Forum. La determinazione dei ragazzi di raggiungere le bandiere ha il sapore di una sequenza cinemato- grafica. Quella fatica -che esplode con forza dirompente- dà al lettore la misura dell’italianità dei polesani. Si ha l’impressione che sia la smania di vivere, dell’autore protagonista, a di- segnare con tratti attenti e sentiti la morale dell’intero racconto. P.T

...come una West side story

istriana scritta da Tullio Tulliach

Il libro può essere richiesto diretta- mente all’autore che, ai lettori dell’Arena. praticherà lo sconto del 30% sul prezzo di copertina di

€ 16,50.

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