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L ARENA DI POLA Registrata presso il Tribunale di Trieste n del Anno LXXVI Mensile n. 6 del 30 GIUGNO 2020

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Fondata a Pola il 29.07.1945 – Mensile di attualità, storia e cultura giuliano-dalmata – Organo dell’Associazione Italiani di Pola e Istria - Libero Comune di Pola in Esilio Direttore responsabile: Viviana Facchinetti – Redazione: Via Malaspina 1, 34147 Trieste – Cell. (0039) 388 8580593 – redazione.arena@yahoo.it - www.arenadipola.it Quote associative annuali: Italia ed Europa € 35,00, Americhe € 40,00, Australia € 40,00, da versare sul conto corrente postale n. 38407722 intestato a L’Arena di Pola, Via Malaspina 1, 34147 Trieste, o tramite bonifico bancario intestato a Libero Comune di Pola in Esilio, Via Malaspina 1, 34147 Trieste; IBAN dell’UniCredit Agenzia Milano P.le Loreto

IT 51 I 02008 01622 000010056393; codice BIC UNCRITM1222 – Le copie non recapitate vanno restituite al CPO di Trieste per la restituzione al mittente previo pagamento resi L’ARENA DI POLA – Registrata presso il Tribunale di Trieste n. 1.061 del 21.12.2002 Anno LXXVI 3.442 – Mensile n. 6 del 30 GIUGNO 2020

TAXE PERÇUE TRIESTE TASSA RISCOSSA ITALY

Iniziativa realizzata

con il contributo del Governo italiano ai sensi della Legge 72/2001 e successive proroghe POSTE ITALIANE SPA

spedizione inabbonamentopostale D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004

n° 46), art. 1, comma 2, DCB Trieste

L'incontro è solo rimandato

Il ricordo di Manuele Braico

PAGINA 2

Mattarella e Pahor a Basovizza

PAGINA 3

L'urlo contro il silenzio del M.o Donorà

PAGINA 4

La liberazione del 12 giugno

PAGINA 12

... in questo numero

Con paziente attenzione

**Pochi sanno che le prime elezio- ni italiane a suffragio universale, con voto diretto, libero e segreto avvengono con una distorsione territoriale non priva di conseguen- ze: è il 2 giugno del 1946 e, seppur

le cronache tendano a riportare la «disciplinatezza con cui gli elettori e le elettrici risposero all’appello, la paziente attesa di ore e ore sotto il dardeggiare del sole estivo, la compostezza delle fila, l’assenza di ogni contesa tra per- sone di contrastanti idee, che marciavano gomito a gomi- to verso la sospirata cabina», la storiografia ha ampia- mente dimostrato come il clima fosse tutt’altro che tran- quillo e gli allarmi per scontri e per le degenerazioni di piazza particolarmente elevati e temuti.

E lo scenario appare inevitabilmente più acuito se si spo- sta lo sguardo verso il confine orientale, all’epoca zona ad altissima instabilità, la cui permanenza nell’area di competenza italiana appariva tutt’altro che certa, tanto da considerare assolutamente inopportuno – e pericoloso – il ricorso alle urne, seppur i comizi elettorali fossero già stati indetti: infatti, dei 573 seggi dell’Assemblea Costi- tuente da assegnare e previsti dal Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, in realtà ne fu- rono attribuiti soltanto 556, mancando all’appello i 13 previsti per la Circoscrizione XII (Trieste e Venezia Giulia - Zara), oltre ai 5 della provincia di Bolzano. Con un ulte-

riore Decreto Luogotenenziale, di soli sei giorni successi- vo, fu, per l’appunto, sostanzialmente ritenuto impossibile lo svolgimento delle elezioni in quelle terre di confine, a causa della situazione internazionale.

Il progetto titino, d’altronde, era chiaro e l’ipotesi di realiz- zare una pan-Jugoslavia non poteva prescindere da Trie- ste, che rappresentava una vera e propria priorità, con mire espansionistiche che si spingevano addirittura fino all’Isonzo. Accanto a ciò, gioca un ruolo altrettanto deter- minante l’internazionalismo comunista, in nome del quale non ci sono differenze di etnia o di appartenenza che possano limitare il compimento di una repubblica a socia- lismo reale.

Ed ecco che una porzione non irrilevante del territorio na- zionale viene letteralmente delegittimata e non può espri- mere l’appartenenza nazionale attraverso l’indicazione dei propri rappresentanti ed un’area geografica di quasi un milione di persone viene amputata in modo affatto marginale dal dibattito politico, sociale, economico e cul- turale. Per una sorta di secondo scherzo del destino, co- me già era accaduto nel 1919 alla conclusione del primo conflitto mondiale, il confine orientale risultava assente dal panorama elettorale nazionale, proprio in quelle terre che più di tante altre nutrivano il senso dell’italianità e avevano conosciuto il sangue di milioni di soldati nelle trincee e di altrettante migliaia di concittadini nelle foibe.

Ed è anche da questa mancata partecipazione elettorale che trae origine la difficoltà della Storia del confine orien- tale a rientrare nell’alveo del ben più ampio contesto na- zionale: se è vero che il progetto Costituente fu un pas-

saggio fondamentale per la co- struzione del tessuto valoriale della nostra Repubblica, Trieste e la Venezia Giulia si sentirono abbandonate e lasciate al loro destino.

E non fu un caso che l’ottantaseienne presidente provvi- sorio dell’Assemblea Costituente, quel Vittorio Emanuele Orlando insigne giurista, ma altrettanto fine politico sicilia- no, decise di inaugurare i lavori ««nel ricordo del dolore disperato di quest’ora, nella tragedia delle genti nostre di Trieste, di Gorizia, di Pola, di Fiume, di Zara, di tutta la Venezia Giulia, le quali però, se non hanno votato, sono tuttavia presenti, poiché nessuna forza materiale e nes- sun mercimonio immorale potrà impedire che siano sem- pre presenti dove è presente l’Italia».

Davide Rossi

**Articolo editato anni fa per Il Giornale. Il pezzo traeva spunto da alcune ricerche avviate dal prof. Davide Rossi in vista del discorso del Giorno del Ricordo che – come da lui stesso sottolineato - ha avuto l'onore di tenere pres- so la Camera dei Deputati nel 2017. Il testo è poi defluito nel saggio, curato assieme a de Vergottini e Lo Presti, in- serito nell'opera “Il Territorio Adriatico. Orizzonte storico, geografia del paesaggio, aspetti economici, giuridici e ar- tistici” (ESI Edizioni Scientifiche Italiane Editore, Napoli, 2019).

Ci vediamo presto!

Si era a febbraio e guardavamo fiduciosi ai primi pas- si di programmazione verso quello che è il tanto atte- so PERIODO NOSTRO, ovvero l’annuale ritrovo a giugno dei polesani, idealmente segnato nel calenda- rio quasi come una sorta di nostro personale capo- danno: fra confronti e resoconti dei 12 mesi trascorsi dall'ultimo incontro collettivo, i progetti per i successi- vi giorni assieme, i ricordi tenuti sopiti e di botto rie- splosi nel respirare nuovamente aria di casa, quel profumo di mare tutto proprio, personalizzato e rivis- suto nella memoria, come i passi attraverso strade e luoghi che riportano ad una quotidianità appartenuta ma lontana, racconti e aneddoti da condividere con chi li ha ancora sottopelle e con chi invece li anela di apprendere... Ma poi scoppiò la pandemia, in un cre- scendo di paurosa incertezza che ha bloccato ogni progetto. Ora si parla di poter realizzare un NOSTRO NUOVO INCONTRO a fine estate, ma continuiamo a fare i conti con l'impressionante capacità metamorfica del virus che perdura a condizionare le nostre vite.

PER INFORMAZIONI IN MERITO, si può contare sull'amichevole disponibilità della signora Graziella via mail info@valbandon.net oppure telefonicamente al 327 3295736.

Con l'occasione, s'informa che l'assemblea dei soci, come previsto dalle norme vigenti, avrà luogo in vide- oconferenza in data che sarà per tempo comunicata.

Viviana Facchinetti

La Repubblica mutilata

La Venezia Giulia e il voto del 2 giugno 1946: una vicenda sconosciuta

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Lontani

eppur vicini

Confermata per il 13 luglio a Trieste la visita dei Presidenti Mattarella e Pahor.

L'approfondimento nel prossimo numero

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2 L'ATTUALITÀ

L’ARENA DI POLA n. 6 del 30 GIUGNO 2020

L’

Ecomuseo EGEA di Fertilia si arricchisce di un “pezzo pregiato”

ovvero di una batana, la cui storia iniziò in tempi lontani.

Giunse infatti da Rovigno nel 1948, al seguito di 13 grandi pescherecci partiti da Chiog- gia, con a bordo numerose fa- miglie di pescatori. 3 furono le batane utilizzate per portare le potenti luci, usate per attirare il pesce azzurro sia per la pesca a circuizione che per la piccola pesca con fiocina, praticata nella Laguna del Calich o nelle acque protette dell’approdo di Fertilia.

Gli Esuli infatti furono i primi a

portare in Sardegna i sistemi di pesca utilizzati nell’alto Adriatico. Particolarmente esperti, oltre che della pesca a strascico, anche di quella a circuizione, da loro chia- mata “Cianciolo” - erano riusciti a sbalordire i pescatori locali, che mai avevano visto tanto pesce pescato in una sola bordata, ribattezzandola “l’atomica”.

La Batana rimase negli anni un simbolo della Comunità

Quando la furia iconoclasta colpiva i leoni di Venezia

Giuliano-Dalmata di Fertilia, curata dal suo proprietario Armando Barison. Egli, nato ad Orsera nel giugno del 1915, assieme alla moglie Graziella ed ai figli Domina e Lino, giunse a Fertilia, dove si dedicò alla pesca.

Oggi la batana, che rappresenta un pezzo importante della storia di Fertilia, e che grazie alla canzone popolare rovignese “La vecia batana” è divenuta una delle icone per tutti i figli della Venezia Giulia e della Dalmazia. Le

cronache raccontano che più di un pescatore sia fuggito dal- le persecuzioni, vogando per mi- glia e miglia a bordo di una bata- na. Oggi questo storico reperto - che ha navigato nelle placide ac- que dell’Istria e che, seppur trai- nato dai pescherecci, ha attraver- sato dapprima l’Adriatico e poi via via lo Ionio, il Tirreno ed il Mar di Sardegna - ha trovato la sua col- locazione in un luogo simbolo del- la Città di Fondazione di Fertilia.

È stata infatti collocata sulle spon- de della foce della Laguna del Calich, in quello che anticamente era il “Villaggio dei Pescatori”. Cu- rata da Giulio Marongiu, nato a Pola nel 1938 ed ex allievo del Maestro d’Ascia Ettore Stuparich, la batana oggi non porterà più i pescatori nelle loro battute di pesca, ma condurrà i visitatori del Museo in un importante viaggio alla scoperta della Memoria e del vissuto di coraggiose genti che, sbarcate in Sardegna dopo la fuga dalle atro- cità delle Milizie Titine, hanno saputo creare la splendida ed operativa comunità dei Giuliani di Fertilia.

La Vecia Batana testimone di Istrianità

Uno storico natante esposto in Sardegna

Le notizia di attualità ci raccontano di statue di personaggi illustri abbattute o lordate di vernice, di intitolazioni toponomastiche e di prodotti commerciali messi in discus- sione per presunte venature razziste. Si tratta di una moderna lotta iconoclasta simi- le a quella che gli italiani dell’Adriatico orientale hanno avuto modo di sperimentare.

Statue, monumenti, stili architettonici e decorazioni rappresentano nei luoghi pubbli- ci simboli che attestano la presenza di una cultura, il radicamento di una comunità e l’esercizio del potere da parte di uno Stato. Colpire tali rappresentazioni simboliche

significa negare ed obliare tutto ciò che esse raffigurano ed in tal senso i leoni di San Marco, che hanno tradizionalmente indicato la Serenissima Repubblica di Venezia, sono stati vittima nel corso del tempo di distruzioni e di devastazioni in Istria ed in Dalmazia ad opera di accesi nazionalisti slavi italofobi.

Scriveva nel 1931 il poeta triestino Marco Mioni, sotto lo pseudonimo di Alma Spe- rante:

Leoni de San Marco col libro del Vangelo e el pax evangeliste, leoni bianchi, in marmo e in piera scalpeladi,

saldi e forti piantonadi

su le tori, su le porte, su le ciese e sui palazi de le cità dalmatiche, che nele brune onde del nostro mar, in spasimi se specia adolorade con calde, fisse lagrime, spetando el grande giorno.

Leoni, sentinele mute de fede e gloria, trofei de nostra storia

per tanti e tanti secoli.

Leoni bei de Spalato, de Lissa, Sebenico Traù... Se l'odio antico,

che ancora in zerti peti piantà ga le so tende, ve ga zimà le ale, ve ga mozà la testa,

leoni sempre resta

el vostro nome vivo per infiamar le anime.

No ghe xe umana forza che scanzelar mai possa le vostre eterne impronte.

Se anca una matina, xe tuto da spetarse, sarè sparidi afato, butadi in mar, o roti e in polvere ridoti,

leoni de San Marco, i dalmati, che el sangue mai no ga vù bastardo,

che in mezo a zento ostacoli ga combatù batalie de un gran poema degne, ve tien nel cor scolpidi, nel vostro nome i spera, nel nome vostro i speta, che finalmente spunti l'aurora benedeta.

Nel primo dopoguerra, infatti, le rivendicazioni italiane nei confronti della Dalmazia, in base a quanto concordato nel Patto di Londra, trovarono l’accanita opposizione dei nazionalisti croati, i quali proprio nella regione litoranea risultavano particolar- mente fieri dopo aver goduto della protezione asburgica che li aveva strumentalizza- ti contro le richieste delle comunità italiana e serba. Leoni scalpellati dai palazzi ve- neziani e simboli della plurisecolare presenza veneziana distrutti erano all’ordine del giorno, tanto che la contessa Marina Foscari Gherardini fece dono a Gabriele d’An- nunzio di una scultura leonina marciana che avrebbe dovuto trovare collocazione in Dalmazia in sostituzione di una dei quelle demolite e che oggi adorna invece la fac- ciata della chiesa di San Marco Evangelista in Agro, al quartiere Giuliano-dalmata di Roma. Il Vate, infatti, non solo aveva scritto sulla Gazzetta di Venezia del 14 gennaio 1919 la Lettera ai Dalmati, ma anche lasciato intendere durante la sua permanenza a Fiume che era pronto a proseguire la sua spedizione a Zara oppure a Spalato per assicurare l’annessione della Dalmazia al Regno d’Italia.

Se ancora negli anni Novanta del secolo scorso ultranazionalisti della Croazia da poco indipendente rinverdirono quest’astio nei confronti

delle vestigia della Serenissima (oggi tutelate anche da una specifica legge della Regione Veneto), pure duran-

te la Seconda guerra mondiale gli ustaša, benché formalmente alleati del fascismo, scatenarono il loro odio nei confronti dei simboli italiani in quella parte di Dalmazia che non rientrava nel Governatorato annesso all’Italia nell’aprile 1941.

Non furono da meno i nazionalisti croati che erano confluiti nell’esercito partigiano comunista di Tito, attratti dal suo programma espansionistico (anche) nei confronti delle province italiane annesse al termine della Prima guerra mondiale. Oltre a sin- goli episodi di lesioni e danneggiamenti a monumenti che testimoniavano la presen- za veneziana e quindi italiana in quelle terre contese, il bombardamento a tappeto di Zara fu il caso più eclatante. In base alla falsa notizia fornita da Tito che si trattasse di una importante base tedesca, il capoluogo dalmata fu pesantemente colpito dai bombardieri anglo-americani in 54 occasioni. L’esercito comunista di Tito nel novem- bre del 1944 conquistò un mucchio di macerie sotto cui giacevano le testimonianze dell’italianità e sopra le quali sarebbe stata edificata “Zadar”, come cinicamente as- serì il poeta Vladimir Nazor.

Lorenzo Salimbeni

L’

Associazione Naziona- le Venezia Giulia e Dal- mazia esprime soddi- sfazione nel vedere che le Poste croate hanno mante- nuto la promessa di ristam- pare i francobolli dedicati a Rovigno d’Istria con la deno- minazione ufficiale bilingue:

«Abbiamo mosso mari e monti – dichiara Donatella Schürzel, vice presidente nazionale vicario dell’A.N.V.G.D. – ma ne è valsa la pena. A tutti colo- ro, che hanno contribuito e sostenuto l'impegno che ho profuso a tale scopo, rivolgo un sentitissimo rin- graziamento. Ho personalmente contattato rappresen- tanze diplomatiche italiane in Croazia e croate in Italia, la Comunità degli Italiani “Pino Budicin” e la sigla asso- ciativa degli esuli rovignesi “Famia ruvignisa”, rappre- sentanti istituzionali negli enti locali istriani e al Parla- mento croato: quando si mettono insieme le energie di tutti, come è stato in questa occasione, si arriva ai rico- noscimenti».

Già in occasione della conferenza stampa di presenta- zione della prima versione del francobollo con la sola dicitura “Rovinj” era stato assicurato che una nuova ti- ratura avrebbe recepito il suggerimento del Senatore nonché cultore filatelico Carlo Amedeo Giovanardi,

condiviso dalla Prof.ssa Schürzel, di fare una secon- da edizione corretta in con- formità con la legislazione croata di tutela delle mino- ranze che, come da recente emendamento dell’On. Furio Radin (rappresentante degli italiani al Sabor di Zagabria), elenca specificatamente le località che hanno una deno- minazione bilingue.

«È la prima volta dopo la Se- conda guerra mondiale – spiega infine la dirigente nazionale dell’A.N.V.G.D., esule di seconda generazione originaria proprio di Ro- vigno – che su un francobollo relativo all’Istria appare un toponimo in doppia lingua, croato e italiano. Sicco- me tale emissione rientra in una serie di francobolli de- dicati alle località turistiche croate, ci auguriamo che future nuove uscite ispirate da città istriane abbiano da subito la denominazione ufficiale italo-croata, coeren- temente con le molteplici normative che tutelano il re- taggio dell’italianità plurisecolare dell’Adriatico orienta-

le» Lorenzo Salimbeni

Responsabile comunicazione ANVGD - Roma

Le Poste croate hanno emesso

i francobolli bilingui dedicati a Rovigno Ricordando

Manuele Braico

Il prossimo mese, il giorno 8 luglio, saranno tre anni dalla scomparsa di Manuele Brai- co. Indimenticato presidente dell'Associazione delle Co- munità Istriane, all'impegno da lui profuso nelle varie cari- che a cui fu chiamato nell'am- bito dell'associazionismo del popolo dell'esodo, Braico seppe sempre abbinare uno spontaneo legame di amiche- vole disponibilità con tutte le persone con cui si rapporta- va. Un meritorio aspetto della sua figura che rimane intatto nel ricordo, sottolineato anche nella Messa celebrata in sua memoria l'ultimo sa- bato di giugno nella chiesa di Santa Rita, per iniziativa delle Comunità istriane e dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Il rito religioso di commemo- razione è stato dedicato anche alle tante vittime del Co- vid-19 tra gli esuli di prima generazione residenti a Trie- ste, per le restrizioni imposte dalla pandemia, spesso privati di adeguate celebrazioni dei funerali e di un ultimo saluto da parte di familiari ed amici.

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L’ARENA DI POLA n. 6 del 30 GIUGNO 2020

3

L’

Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, in analogia con quanto espresso dal Sindaco di Trieste Roberto Dipiazza e dal Presidente della Regione Massimiliano Fedriga, ha colto la grande importanza della visita che il Presidente della Repubblica Sergio Matta- rella effettuerà assieme al suo omologo sloveno a Basovizza. Le altre tappe della giornata hanno dato adito a polemiche a Trieste ed in Parla- mento, ma nemmeno oltreconfine la decisione del Presidente Borut Pa- hor di recarsi al Monumento Nazionale della Foiba di Basovizza è stata esente da critiche. Eppure, a dieci anni di distanza dal Concerto dei Tre Presidenti (svoltosi al termine di una giornata in cui era stato reso omag- gio tanto al Balkan, quanto al monumento all’Esodo), si andrà a compie- re una nuova tappa nel percorso di riconoscimento delle reciproche sof- ferenze che hanno caratterizzato il secolo breve in queste terre.

L’A.N.V.G.D. è consapevole che rimangono ancora aperte molte questio- ni concrete ed economiche in merito a quanto spetta agli esuli costretti ad abbandonare le terre in cui vivevano radicati da secoli e che oggi fan- no parte della Slovenia e non abbiamo perso occasione di contestare la recente visita a Lubiana del Ministro degli Esteri, il quale non ha fatto cenno a tali problematiche. Ma alla Foiba di Basovizza il Presidente della vicina Repubblica renderà omaggio ad un luogo simbolo per l’italianità adriatica, un luogo in cui triestini, goriziani ed esuli istriani, fiumani e dal- mati hanno ricordato i loro morti, a prescindere da dove siano stati uccisi, infoibati o sepolti, il ché spesso è ancora ignoto. Pahor e Mattarella com- memoreranno così anche le vittime delle stragi titine che risiedevano a Capodistria, Pirano ed in tutte quelle località che oggi fanno parte della Slovenia.

I 34 Comitati provinciali e le 25 Delegazioni che rappresentano l’A.N.V.G.D. sul territorio invieranno loro rappresentanze, nel rispetto delle normative sul distanziamento e delle disposizioni del cerimoniale, per essere presenti a questa celebrazione e anche altre associazioni della diaspora adriatica intendono portare una loro presenza simbolica.

Chi si autoesclude o lavora (ancora una volta) per creare divisioni, pole- miche e contestazioni può continuare a bearsi nel suo individualismo im- produttivo e sterile.

Renzo Codarin

Mattarella e Pahor alla Foiba di Basovizza

Il messaggio del Presidente ANVGD

P

er ragioni pre- cauzionali e per il doveroso tributo alle vittime dell’epidemia da Co-

vid-19, il ricevimento di celebrazione della Festa della Repubblica italiana quest’anno purtroppo non potrà aver luogo. Vorrei in questa occasione anzitutto ricordare con commozione i connaziona- li che hanno perso la vita a causa della pandemia, ed esprimere profonda gratitudine a coloro che ri- schiano la loro incolumità - in Italia, in Croazia e nel mondo intero - sul fronte della lotta contro questo nemico insidioso e invisibile. Oggi più che mai avremmo bisogno di vivere le emozioni della Festa e ritrovarci in un abbraccio liberatorio. Que- ste tragiche circostanze ci costringono invece a celebrare la nostra Repubblica in modo diverso dal solito. Questo anniversario non perde per que- sto il suo profondo significato, che diventa sem- mai ancor più forte e attuale. Il 2 giugno 1946 le donne e gli uomini del nostro Paese scelsero la

Repubblica, segnan- do uno spartiacque nella storia moderna italiana: la Repubbli- ca e la Costituzione, approvata 18 mesi dopo dall’Assemblea Costi- tuente eletta quello stesso giorno, avevano poi completato l’edificio statuale - le cui radici affon- dano nel Risorgimento - rendendolo finalmente coerente con le risorgenti istanze di democrazia e partecipazione, di libertà e giustizia sociale. Pro- tagoniste di questo momento fondativo della sto- ria italiana sono state le forze vive della Nazione, che si sono mobilitate nella Resistenza antifasci- sta, il riscatto etico che ha condotto gli italiani sul- la strada della rinascita civile e democratica. Vo- glio qui ricordare le parole di uno dei nostri padri costituenti, Piero Calamandrei: “In questa Costitu- zione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il no- stro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagu- re, le nostre gioie: son tutti condensati in questi articoli”. (...)

C

ome riportato da Il Piccolo a firma Giulia Basso, durante la riapertu- ra della mostra “Ci siamo ancora”

in corso di svolgimento all'IRCI di via Torino, il sindaco di Trieste Roberto Di- piazza ha preannunciato che la stele in memoria di Norma Cossetto, eretta in Ponziana da oltre un decennio nella via a lei dedicata, sarà ricollocata in porto Vecchio davanti al Magazzino 26, pro- grammato per ospitare le masserizie degli esuli, fino ad ora custodite al Ma- gazzino 18 ed al Museo Istriano. Lo spo- stamento del monumento celebrativo, risulterà particolarmente gradito a chi da tempo contesta l'attuale collocazione periferica in un parcheggio condominia- le, dove le vetture presenti spesso impe- discono la visibilità della scultura, opera dell’artista Antonio Volpicelli, composta

da una stele, un basamento in pietra bianca, un altorilievo in bronzo che ne ritrae il volto e una frase: “A Norma, cui l’amore patrio spin-

se a far dono della vita per l’italianità della sua Istria – Trucidata la notte fra il 4 e il 5 ottobre 1943”.

«Se il Magazzino 26 diventerà uno dei

“santuari” dell’esodo, potrà certamente essere un luogo appropriato per trasferi- re il monumento a Norma Cossetto e renderlo più visibile e fruibile», ha com- mentato il presidente dell’Irci Franco Degrassi. In via Torino invece, nell’attua- le sede del Museo Istriano, rimarranno concentrate tutte le attività di ricerca e documentazione dell’Irci.

Il monumento a Norma Cossetto

Nuova collocazione prevista in Porto vecchio

L'ATTUALITÀ

2 giugno penalizzato da cause di forza maggiore

Dal messaggio del Console Generale d'Italia a Fiume Davide Bradanini

L’

Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalma- zia, sconcertata dalla mancata attenzione prestata nei confronti delle questioni ancora aperte riguar- danti gli esuli istriani, da parte del Ministro degli Affari Esteri Di Maio durante la sua visita in Slovenia, chiede che una delegazione delle associazioni degli esuli istria- ni, fiumani e dalmati possa incontrare il Presidente del Consiglio Conte.

In occasione della cerimonia istituzionale del Giorno del Ricordo 2020 il Presidente Conte aveva espresso parole adeguate e dimostrato interesse per la risoluzione delle problematiche ancora da portare a compimento in termi- ni di diritti negati ai connazionali costretti ad abbandona- re Istria, Fiume e Dalmazia. Eppure nel corso di questa legislatura non si è ancora riunito il tavolo di lavoro tra FederEsuli e la Segreteria della Presidenza del Consi-

La visita in Slovenia

del Ministro italiano degli Affari Esteri

Perplessità e considerazioni espresse dal presidente ANVGD

glio e il Ministro Di Maio a Lubiana ha affrontato le tema- tiche di interesse della minoranza slovena, una cui dele- gazione ha partecipato ai lavori, senza tenere in minima considerazione il problema dei beni abbandonati dagli esuli in territorio oggi sloveno (il distretto di Capodistria).

Consapevole delle necessità collegate all’attuale situa- zione di uscita dalla crisi sanitaria, l’A.N.V.G.D. ritiene tuttavia doveroso che nelle sedi competenti non venga- no per l’ennesima volta trascurate le richieste degli esuli e dei loro discendenti, che chiedono giustizia a oltre set- tant’anni dalla firma del Trattato di pace, e che sia per- tanto necessario riavviare la collaborazione con il Gover- no affinché si addivenga finalmente ad una soluzione.

Renzo Codarin Presidente ANVGD

D

urante una visita in Istria, l'Ambasciatore d'Ita- lia in Croazia Pierfrancesco Sacco, assieme al Console Generale d'Italia Davide Bradanini, si è recato anche alla Comunità degli Italiani di Pola, accolto dalla Presidente della C.I. Locale e da nume- rosi rappresentanti istituzionali, con cui ha condiviso gradevoli momenti in un apprezzato incontro.

I

l 29 giugno, nel piazzale anti- stante la Catte- drale di San Giusto, si è svolta la ceri- monia per lo scopri- mento e la benedi- zione del busto di S.E. Mons. Antonio Santin, collocato sulla facciata della Chiesa a memoria del grande Vesco- vo, Defensor Civita- tis.

Il busto, opera dello scultore Marcello Mascherini, fuso

presso la fonderia Railz di Moimacco, è stato collocato su mensole in pietra d’Aurisina. I lavori, coordinati dall’architetto Eugenio Meli ed eseguiti dalla ditta Ros- so costruzioni, sono stati concordati con la Soprinten- denza che ha seguito la progettazione e i lavori attra- verso l’architetto Francesco Crecich.

Mons. Antonio Santin ebbe i natali a Rovigno il 9 di- cembre 1895, primogenito degli undici figli di Antonio e di Eufemia Rossi, lui marinaio e lei operaia in tabacchi- ficio. Dopo le prime classi a Rovigno, frequentò il gin- nasio di Capodistria. Avviò gli studi teologici presso il seminario di Gorizia, che però durante la prima guerra mondiale spostò la sua sede nel monastero cistercen- se di Stična. Fu ordinato presbitero il 1° maggio 1918 dal vescovo di Trieste Andrea Karlin. Fu incardinato nella diocesi d’origine, Parenzo-Pola. Il 5 maggio 1918 celebrò la prima messa a Vienna, essendo la famiglia internata in un campo profughi di quella regione. Nomi- nato Vescovo di Fiume il 10 agosto del 1933, fu Ordi- nato Vescovo il 29 ottobre dello stesso anno. Il 16 maggio 1938 fu nominato Vescovo delle Diocesi unite di Trieste e Capodistria. Il 13 luglio 1963 Papa Paolo VI lo insignì del titolo ad personam di Arcivescovo. Si riti- rò, secondo le nuove disposizioni del Concilio Vaticano II a cui partecipò, il 28 giugno 1975. Morì il 17 marzo 1981 ed è sepolto a Trieste, nella cattedrale di S. Giu- sto.

Inaugurato il busto del Vescovo Santin

Incontro a Pola con

l'Ambasciatore d'Italia

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L’ARENA DI POLA n. 6 del 30 GIUGNO 2020

M

olti, molti anni fa Vento, scorraz- zando per il mondo con i suoi fi- gli, tra cui Bora, la più bella e la

più amata, capitò in un verdeggiante altipiano che scen- deva ripido verso il mare. Bora si allontanò dall’allegra brigata dei suoi fratelli, per correre a scombussolare tutte le nuvole che si trovavano in quell’angolo di cielo e a gio- care con i rami dei quercioli e dei castagni, che si agitava- no nervosi al suo passaggio. Dopo un po’, stanca di cor- rere di qua e di là senza alcuna meta, Bora entrò in una grotta dove, nel frattempo, l’umano eroe Tergesteo, uno degli Argonauti sulla via del ritorno dall’impresa del “Vello d’Oro”, aveva trovato rifugio da tutta quella buriana. Ter- gesteo era così forte e così bello e così diverso da Vento, e da Mare e da Terra e da tutto quello che fino a quel mo- mento Bora aveva visto e conosciuto, che di colpo se ne innamorò. E fu subito passione tempestosa, passione che Tergesteo ricambiò con eguale impeto: e i due visse- ro felici in quella grotta tre, cinque, sette splendidi giorni d’amore.

Allorché Vento si accorse della scomparsa di Bora (ci vol- le un bel po’ di tempo perché i suoi figli erano tanti e molti di loro parecchio irrequieti) si mise a cercarla tutto infuria- to. Cerca di qua, cerca di là, cerca che ti cerca - al vedere tanta furia tutti zittivano al suo passaggio - fino a quando un cirro-nembo brontolone, irritato da tutto quel trambu- sto, gli rivelò il rifugio dei due amanti.

Vento arrivò alla grotta, vide Bora abbracciata a Terge- steo, e la sua furia aumentò enormemente. Senza che la disperata Bora potesse in alcun modo fermarlo, si avven- tò contro l’umano, lo sollevò e lo scagliò contro le pareti

della grotta, finché l’eroe restò immobile al suolo, privo di vita. Vento, per nulla pentito del suo gesto, ordinò a Bora di ripartire, ma lei impietrita dal dolore non ne voleva sa- pere e, per di più, piangeva disperatamente e ogni lacri- ma che sgorgava dal suo pianto diventava pietra e le pie- tre erano ormai talmente tante, da ricoprire tutto l’altipia- no. Allora Eolo, il dio dei venti, che era un dio saggio, ordi-

nò a Vento di lasciare Bora sul luogo che aveva visto nascere il primo amore di un essere umano per la natura. Ma Bora ancora non cessava di versare le sue lacrime di pie- tra. Di conseguenza Madre Natura, preoccupata per tutte quelle pietre, che rischiavano di rovinarle irrimediabil- mente il paesaggio, concesse a Bora di regnare sul luogo della sua disperazione. E Cielo, per non essere da meno, le consentì di rivivere ogni anno i suoi tre, cinque, sette giorni di splendido amore. E finalmente, con il sollievo di tutto il paesaggio, Bora smise il suo pianto.

Le storie dei grandi amori finiti male commuovono sem- pre e anche Buona Terra sentì un piccolo nodo alla gola nel vedere la disperazione di Bora. E così dal sangue di Tergesteo fece nascere il Sommaco, che da allora inonda di rosso l’autunno carsico. Anche Mare Adriatico volle dare il suo contributo e diede ordine alle Onde di lambire il corpo del povero innamorato ricoprendolo di conchiglie, di stelle marine e di verdi alghe.

Così Tergesteo si elevò alto verso il cielo diventando più alto di tutte le alte colline, che già coprivano quest’angolo di mondo. E i primi uomini giunti su queste terre si inse- diarono sulla collina del mitico eroe e vi costruirono un Castelliere con le lacrime di Bora diventate pietre.

Con il passare del tempo il Castelliere divenne una città, che in ricordo di Tergesteo venne chiamata Tergeste – oggi Trieste – dove ancora oggi Bora regna sovrana, sof- fiandovi impetuosa: “chiara” fra le braccia del suo amore

“scura” nell’attesa di incontrarlo.

www.eddavidiz.com

L’

urlo dall’abisso è il titolo della mia Cantata musicale compo- sta per Soli, Coro e Orchestra in memoria degli infoibati dell’Istria, dramma perpretato dalle truppe ju- goslave di Tito. Ho composto que- sta cantata per meditare sulla puli- zia etnica del nostro popolo: uomini, donne e bambini innocenti venivano presi vivi e gettati nella profondità della terra. Aveva vinto l’odio. L’infa- mia dell’uomo aveva vinto. Agli infoi- bamenti seguirono l’esodo della po- polazione, stanca di una vita insop- portabile e disumana. Noi istriani, giuliani e dalmati abbiamo lasciato tutto ciò che possedevamo e giorno dopo giorno siamo partiti dalle no- stre terre per prendere la via dell’e- silio. Col cuore gonfio di amarezze abbiamo peregrinato da un centro di raccolta profughi all’altro, accolti da- gli italiani quasi con disprezzo...

Molti profughi presero la via verso gli Stati Uniti d’America o di altri continenti pur di poter fare una vita

migliore, cercando di rendere meno insopportabile il do- lore, affrontando disagi di ogni genere. Il nostro esodo ha generato lo sfollamento quasi totale degli abitanti delle nostre terre, portando nei cuori i tristi avvenimenti subiti dalla gente buona. Questi ricordi vengono celebra- ti in una giornata istituzionale che il Governo Italiano ha scelto di celebrare il 10 febbraio di ogni anno. Il 9 febbra- io di quest’anno, in ricorrenza della Giornata del Ricordo, il Concerto del Ricordo è stato eseguito presso la Cap- pella Paolina del Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, assieme ad altre Au- torità ed ai rappresentanti delle Associazioni del popolo istriano giuliano e dalmata. In questo concerto sono stati eseguiti brani tratti dalla Cantata L’urlo dall’abisso.

Da più parti mi è stato chiesto perché ho scritto questa Cantata e dove ho trovato l’ispirazione. La risposta sta nel titolo della composizione, perché se ci pensiamo la Nostra storia è un urlo rimasto a lungo inascoltato. Pove- ri uomini e povere donne hanno tentato di richiamare all’umanità i loro carnefici, che però hanno preferito ob- bedire ad ordini superiori o, peggio, li hanno assecondati per paura, interesse o sadismo: l’unico risultato ottenuto da quel richiamo è stato l’urlo finale, quel disperato urlo dall’abisso.

Poco tempo più tardi, come effetto del clima di terrore instaurato contro la popolazione italiana di quelle Nostre terre, il silenzio ci accolse – ma il silenzio può accoglie- re? – nelle nostre nuove case: campi profughi o paesi stranieri, da dove richiamavamo all’umanità i nostri vici- ni, i quali perlopiù rispondevano con diffidenza o con ci- nismo. Richiami inascoltati, finché ci è stata data voce con l’istituzione del Giorno del Ricordo, al quale ancora qualcuno reagisce costringendo la sua umanità a menti-

spondere alla disumanità si doves- se rispondere con la stessa disu- manità, invece che ricorrere al suo contrario, l’umanità appunto. Tante richieste son rimaste inascoltate, la voce del popolo sembrava senza suono, incapace di essere ascolta- ta. Tanti richiami all’umanità sono rimasti inascoltati, tanti diritti violati.

Alla fine si è levato un urlo. Urlo che ha impiegato anni per essere senti- to, a causa della politica, molto spesso volta a salvaguardare i i

“buoni” rapporti economici e politici con le altre potenze. Il silenzio è stato anche quello degli storici. Pu- re in ambito musicale si è affrontato l’argomento molti anni dopo, perché solo nel 1997, al Teatro Carlo Felice di Genova, quest’arte ha parlato della Nostra tragedia e dei Nostri morti, proprio con questa Cantata, essa stessa un urlo dopo una lunga attesa. L’attesa che venissero ricor- dati i tanti innocenti privati della pie- tà e lasciati nell’oblio.

L’ispirazione è venuta da sè, raccogliendo nell’anima mia l’umanità propria di questi morti: dentro me ho senti- to la loro fragilità, la loro paura, la loro speranza, la loro fede, la loro disperazione, l’amore per la loro terra e per i loro conterranei, il pianto delle madri. Ho raccolto in mu- sica tutto ciò che gli infoibatori cercarono di disperdere, perché la musica è un linguaggio universale che può so- lo unire. La mia Cantata è un gesto di umana pietà, una preghiera, un grido di dolore che vuole arrivare a chi ha dimenticato. La musica è un linguaggio universale che può toccare ogni singolo cuore, contribuendo a scrivere un pezzo di Storia. La Cantata è stata eseguita per la prima volta dai solisti e dal coro e orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova sotto la direzione del maestro Lazareev, direttore del Teatro Bolchoi di Mosca, e dal maestro Fulvio Angius direttore del coro, il giorno 29 maggio 1997. Grande è stato il successo di pubblico e di critica. La Cantata è ispirata e dedicata a “tutti loro con profonda pietà”.

Se è vero, come dicevo, che la musica è un linguaggio con cui poter scrivere una parte della Storia, mi chiedo perché nessun compositore prima, e forse anche dopo di me, ha sentito la necessità e il dovere morale di ricor- dare i poveri martiri delle foibe, nostri fratelli, nostri com- paesani, istriani ed italiani. La musica non fa politica:

tocca i cuori e le coscienze, fa domande, e risponde con le emozioni che provoca. La musica non si schiera: si fa ascoltare, si fa ricordare, si lega intimamente a pensieri e ricordi, evoca sensazioni, invita al dialogo interiore.

La musica ha la capacità di ricostruire suoni, rumori, sibi- li, spari, mitraglie, tensione, paura, abbandono… proprio come sul baratro delle foibe.

Luigi Donorà

L'urlo contro il silenzio

L

a caratteristica che meglio distingue Triestini, Istria- ni, Bisiachi e Quarnerini delle “Vecchie Province”

non è tanto insita nel forte legame affettivo per la loro terra, quanto nell’amore per il “loro” vento di Bora che, come scrisse Tomizza, l’istriano scrittore di “Matera- da”: “porta ognuno a ritrovare una parte di se stesso ri- masta immutata dai giorni dell' infanzia, e nel contempo uguaglia tutti, rendendoli anche solidali fra loro, fedel-

mente attaccati a questo unico e composto margine di terra che ogni tanto, con la bora appunto, dichiara la sua assolutezza e la sua irripetibilità”. Dal direttore del Museo della Bora, Rino Lombardi, la Bora invece, è così poeti- camente, descritta: “Un vento unico, magico, adriatico,

catabatico. Un vento che fa paura, un vento che fa ridere, un vento che emoziona, un vento che pulisce, un vento che sveglia, un vento che scombussola, un vento amato, un vento odiato, un vento amato e odiato nello stesso tempo. Un vento un po’ matto, come noi triestini!” Quanti modi per definire la Bora! Ma anche un vento pieno di storie fantastiche. Come quella nata, molti anni fa, dalla penna di Edda Vidiz, che state per leggere.

La leggenda della Bora Fresco di stampa

re, dicendo oggi come allora “fascisti”, oppure dicendo che “quelli prima hanno fatto lo stesso”, come se per ri-

(5)

L’ARENA DI POLA n. 6 del 30 GIUGNO 2020

5

E

l pan xe el primo bisogno de l’omo, che el sia bianco, nero, de segala o azimo senza lievito, come che i magna i ebrei e i arabi. Una volta, anche ne le manifestassioni che fasseva i operai durante i sioperi, i scriveva sui cartei “Pane e Lavoro”, dopo invesse i ga cambià in “Pane e Salame”e altre robe ancora. Indi- ferente, mi go dei ricordi del pan che me son portà drio per tuta la vi- ta e, ancora adesso, quando che ghe penso, me emoziono. El pan per la nostra gente iera sacro, guai butarlo via e, se per disgrazia, un tochetin te cascava per tera, ti do- vevi ingrumarlo subito, netarlo e darghe un baso prima de magnar- lo. Mia mama diseva: chi che buta via el pan, andarà a ingrumarlo in inferno e a casa nostra no se ga mai butà via un toco de pan. Mio papà, che gaveva provà miseria in tempo de guera, el voleva gaver sempre la scorta de pan e el ghe ne comprava tanto. Ma no rivavimo a magnarlo tuto in un giorno e alora lo magnavimo el giorno dopo, per- chè xe pecà de Dio butar via pan, che xe ancora tanti che ga fame. E cussì magnavimo sempre pan ve- cio!A Pola, de picio, magnanimo pan nero de quel che scricolava soto i denti. I diseva che iera farina che vigniva de la Turchia dove che iera deserto e che alora ghe iera dentro sabia. Mio nono diseva inveze che la sabia ghe la meteva dentro i go- vernanti per far pesar de più la fari- na. Ma iera pan anche quel e me ricordo ancora le fete de pan nero con la marmelata che me prontava mia mama quando che andavo al bagno. El pan bianco iera una roba che me sognavo de note, spetavo de andar dei noni in paese per ma- gnar quel pan bon che fasseva la nona col frumento che i gaveva in campagna. Mia nona la fasseva el pan una volta a la setimana. De matina presto, la tirava fora la tavo- la del pan e la scominsiava a tami- sar la farina. La farina la vigniva zò su la tavola come neve bianca e la semola la restava in tel tamiso. Do- po con la semola se fasseva pa- ston per darghe a le galine e anche al porco. Quando che la nona ga- veva tamisà tuta la farina, la la in- pastava con l’acqua e col lievito e la scominsiava a lavorar la pasta.

Iera una bela fadiga perché la pa- sta bisogna “domarla”, farla diven- tar bela tenera, ubidiente. Iera co- me una lota, con le sue forti mani la nona la la tirava in lungo e in largo,

la la rimeteva insieme, la fasseva come una bala, la ghe dava pugni e la la rodolava, la la plasmava, la la carezzava con la man infarinada…

La pasta la resisteva, la pareva una roba viva che se ribeli, la fasseva de le bolle, dei sbuffi de aria ma, a la fine, la doveva arenderse a la forza de la nona, la diventava tene- ra, morbida, plasmabile, la iera “do- mada”! Alora la nona la la coverse- va con una coverta vecia, per tignir- la in caldo e farla lievitar. Per mi veder ‘sta pasta che se gonfiava, che cresseva de volume quasi a vi- sta de ocio iera come una magia, un mistero. Ogni tanto andavo a vardar soto la coverta, ma senza farme veder de mia nona perché guai se la pasta ciapava fredo, la se sgonfiava de colpo!

Nel tempo che la pasta la se leva- va, la nona la andava in corte, dove che gavevimo el forno, a impissar el fogo. In forno se brusava frasche e legni suti che fa una bela fiama perché el forno se devi scaldar ben, prima de meter dentro el pan.

Quando la pasta se iera levada, la nona, dopo gaverla lavorada un’al- tra volta per farla diventar ancora più morbida, la fasseva le struzze e i paneti. Iera un spetacolo veder come, con el suo toco magico, de una massa informe la tirava fora fi- gure elaborate e belissime, vere sculture de un’arte antica. L’opera iera squasi completada ma, prima de esser messo in forno, el pan do- veva lievitar ancora una volta. E, fi- nalmente, rivava l’ora de meter el pan in forno. Dopo gaver messo da parte le bronze e scovada via la zenere, la nona con una paleta la meteva dentro le struzze e i paneti e la serava ben la portisela del for- no, per mantignir el calor. El pan doveva star in forno per un ora cir- ca ma zà dopo meza ora se comin- ciava a sentir el profumo per tuta la corte e fin in piassa. Al momento de tirarlo fora, noi fioi ierimo zà tuti là a spetar. Mia nona la verseva el forno e la tirava fora una strussa. La ba- teva coi diti su la crosta e, a secon- da del rumor che la sentiva, la sa- veva se el pan iera coto o no. Se el iera pronto alora la lo tirava fora tu- to. La prima strussa iera per noi e la ne dava a ognidun un tocheto.

Qualche volta, se iera giornata bo- na, la ne dava anche una fetina de lardo o de panseta de meter in me- so al pan caldo. De quela volta xe pasai tanti ani e mi go avudo oca- sion de frequentar anche grandi ri- storanti ma, raramente go magna qualcossa de più bon!

L’ARENA DI POLA

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EL CANTONZIN DEL NOSTRO DIALETO

Le nostre man

La mia man stanca, pozada sora el libro serado

che più no legio, vardo e penso quando

tenera e lissa, come in un nido ne la tua,

granda,

la se strenzeva palpitando co insieme se trovavimo

de sera.

No la me par più quela, la xe una man

rugosa e la tua anca xe nodosa e suta

‘desso.

Ma no importa: co le se sfiora ogi xe come ieri

dolze la vita

Graziella Semacchi Gliubich

El pan de mia nona in Istria

Roberto Stanich

Poetessa casalinga

Me vien l’ispirazion, a mi, co scrivo, cussì sempre go vizin

un folio e una biro.

El fero va su e zo sul linziol bagnà e ogni tanto lo lasso per scriver un per de righe.

Sucedi anche purtropo che ogni tanto me sbalio

e sul folio passo svelta

…el fero caldo.

Xe più grave però, lo ameto, quando con mossa decisa passo la biro su la camisa.

Mio marì xe rabià e perplesso, e el me fa vignir un complesso

“ su le camise ‘desso te scrivi?

cossa xe mai sta novità?

Forsi xe scherzi de menopausa.

Ben se xe questo te passerà”.

Me sento propio poco capìda ma intanto la lissia xe tuta stirada e no me son gnanca tanto stancada.

Oggi, 2 giugno 2018, festa della Repubblica Italiana, io ricordo...

In Arena co’l “Va pensiero”

Al tre de setembre, Tonin, con tanta altra gente, iera in arena. Iera una bela serata, el ciel iera seren e una bavisela rinfrescava l’aria.

Davanti al palco iera l’orchestra che zà provava i strumenti. De drio stava el coro, duecento coristi scelti tra i cori de tute le comu- nità italiane de l’Istria.

Dopo i saluti preliminari i ga sonà i inni nazionali e quando che i ga fato quel italian, Tonin ga sentì che ghe vigniva come un gropo in gola, un gropo che no’l rivava smolar e che no ghe andava ne su ne zò ma no’l voleva lassarse andar ala comossion, el voleva tignirse su. Dopo, ga parlà i due presidenti, el stesso discorso in italian e croato. “Bele parole”, ga pensà Tonin, “ma bisogna veder i fati. Però anche le parole xe importanti, se le xe sincere” e el ga a batù le mani convinto, insieme con tuti i presenti.

E finalmente ga incomincià la musica, tochi de opera: l’Ouverture del Nabucco, el Te Deum dela Tosca, mi chiamano Mimì de La Boheme di Giacomo Puccini e altri tochi ancora de musicisti croa- ti, che Tonin no conosseva. Tuto bel, bela musica, bravi cantanti ma quel che Tonin spetava con impazienza iera el “Va pensiero”, el “Va pensiero” sonà e cantà in arena, dopo tanti ani, finalmente!

E, quando che el coro ga intonà “Va pensiero su l’ali dorate…”, Tonin ga sentì che el gropo che’l gaveva in gola el se smolava, alora el ga serà i oci e el se ga lassà andar completamente.

El se sentiva leger come una piuma, el andava in alto seguendo l’onda de la musica, el volava su le “ali dorate”, sempre più su, tra le arcate de l’arena, sempre più in alto, sora el mar, sora la città, la via Medolin, dove che’l iera nato, Veruda, dove che’l stava, Veru- dela, Scoio dei Frati, Frascher, picio e grande, Promontore, el faro de Porer... el volava e insieme con lui iera tanta altra gente, istria- ni, polesani, iera suo fradel Bepi, el suo amico Mario, i sui compa- gni de scola, quei de la squadra del balon, quei che iera andadi in Italia, in America, in Australia, tuti insoma e iera tuti contenti, tuti in pase, che i se sorideva l’un con l’altro e iera bel, bel, cussì bel che no'l gaveva più voia de tornar in tera.

Roberto Stanich

Me ga servì!

"Te devi esser ordinada"

me sona ne le orece la vose de mia mama.

Iero un strafanic', molavo tuto dove che cascava.

Me ga servì le sue parole, ecome!

Son diventada perbon un orologio de precision.

Le go ripetude, fin a sgolarme, ai fioi.

Altra generazion, generazion de sordi,

che me rispondi:

"mama, ma coss' te fazessi tuto 'l giorno, se no te gavessi de disbratar la casa?"

Grazie, crature, anche de parte de nona

che de lassù la ridi.

(6)

C

Coom mee eerraavvaam moo

Le mulete polesane degli anni Trenta viste da

SSiillvviiaa

LLuutttteerrooddtt SSiizzzzii

LL’’A Arreennaa ddii PPoollaa::”Come eravamo” - Cultura, Arte, Fatti e Tradizioni

a cura di Piero Tarticchio

di PIERO TARTICCHIO

V V iinnttaa ggee

F

ulvio Tomizza na- sce nel 1935 a Mate- rada, frazione di Umago, in Istria. Secon- dogenito, dopo il fratello Nerio, di Ferdinando To- mizza di etnia italiana, piccolo proprietario ter- riero e commerciante, e di Margherita Frank Trento, discendente da una famiglia assai mode- sta di origine slava. Gra- vemente malato di fega- to, Fulvio Tomizza muo- re a Trieste il 21 maggio 1999 e viene seppellito nel cimitero di Giurizza- ni frazione di Materada.

Trascorre un’infanzia difficile a causa delle tensioni interetniche, sia dalla politica fascista, durante la seconda guer- ra mondiale, sia dagli

slavi di Tito. Nel frattempo svol- ge la sua formazione, prima nel seminario di Capodistria, poi in un collegio di Gorizia e infine al liceo “Carlo Combi” di Capodi- stria, dove consegue la maturità classica.

Dopo la fine della guerra e la isti- tuzione del Territorio Libero di Trieste, nel 1947 il padre viene in- carcerato per due volte dai titini e i suoi beni confiscati. Si trasferi- sce quindi con la famiglia a Trie- ste, dove si guadagna da vivere gestendo un bar; nel 1953, grave- mente malato, riesce a tornare a Materada accompagnato da Ful- vio, e qui muore a 47 anni.

Con la stipula del Memorandum di Londra (1954), Materada passa definitivamente alla Jugoslavia e Fulvio Tomizza decide di trasfe- rirsi definitivamente a Trieste, dove risiedono la madre e il fra- tello.

Esordisce in letteratura nel 1957, quando vince con tre racconti il premio “Cinque Bettole” di Bor- dighera. Nello stesso periodo co- mincia a lavorare per Radio Trie- ste, dove si occupa della rubrica

“Cari stornei”. Nel 1966 iniziano le pubblicazioni della “Trilogia istriana”, che comprende i ro- manzi “Materada” (1960), “La ra- gazza di Petrovia” (1963) e “Il bo- sco di acacie” (1966). Gli ultimi anni della sua vita li passa nella natia Materada. Dopo la sua mor- te, la Comunità degli italiani loca- le gli intitolerà la sede sociale, con annesso un teatrino.

I suoi primi romanzi, con pagine di epica contadina, inseriscono il giovane Tomizza nella variegata corrente europea degli scrittori di frontiera, è solo l’inizio di un’e- stesa opera narrativa il cui tema costante è la perdita d’identità dei profughi istriani, al centro di complessi intrecci geopolitici, istituzionali e ideologici. Pubbli- ca altri romanzi, alcuni sospesi tra la fantasia e la realtà come

“L’albero dei sogni” (1969), con il quale vince nello stesso anno il

“Premio Viareggio”, altri vicini alla ricostruzione storica, come

“L’ereditiera veneziana” (1989).

In mezzo a questi due romanzi c’è una vasta narrativa, tra cui si ricorda “La torre capovolta”

(1971), “La città di Miriam”

(1972), “L’amicizia” (1980) e “Il male viene dal Nord” (1984). Con il romanzo “La miglior vita”

(1977) Fulvio Tomizza” si aggiu- dica nello stesso anno il Premio Strega.

Nel 2006 viene pubblicato “Vera Verk”, un dramma inedito in tre tempi (Ibiskos Editrice Risolo, a cura di Paolo Quazzolo), ambien- tato nel 1930 in un paesino del Carso istriano. Il dramma è anda- to in scena per la prima volta nel 1963 a Trieste. Tra gli interpreti Paola Borboni, Fosco Giachetti, Marisa Fabbri. Questa tragedia rusticana, che per certi versi può far pensare al Verismo di fine Ot- tocento o alle grandi tragedie del mondo classico - dove amore e

morte, colpa ed espiazio- ne, si legano indissolu- bilmente l’una all’altra, va in realtà inserita in un momento peculiare del teatro europeo del Se- condo Novecento.

Tomizza ha vinto il Pre- mio Campiello / il Pre- mio Viareggio per la nar- rativa / il Premio Strega / il Premio di Stato au- striaco per la letteratura europea.

Ha scritto anche libri per ragazzi e bambini:

“Trick, storia di un cane”

(1975), “La pulce in gab- bia” (1979), “Anche le pulci hanno la tosse”

(1993), “Il gatto Marti- no”, (2001, pubblicato postumo), e “La scoper- ta di Bild” (2010, pubbli- cato postumo).

La miglior vita

Scritto così può sembrare poca cosa, ma questo romanzo, non solo è unico nel suo genere che potremmo definire epico di fron- tiera, ma è anche una storia di uo- mini complessi e semplici al tem- po stesso, di sentimenti, di gioie e di dolori. Al riguardo, le pagine in cui viene descritto il trasporto a casa su un carretto trainato da un asino (alla cui guida c’è Mar- tin) il cadavere del suo unico fi- glio Antonio, morto combattendo con i partigiani, sono di una bel- lezza indescrivibile; non c’è il ri- corso alla facile commozione, an- zi questo viaggio, che è forse una metafora di un popolo così smembrato e che può ritornare alle sue case solo quando non è più in vita, è descritto con uno sti- le asciutto, senza indulgere a pie- tismi, ma proprio per questo toc- ca livelli di alta drammaticità che segnano profondamente l’animo del lettore, ap- parendo del tutto naturali.

Il romanzo ter- mina con l’ulti- ma annotazio- ne di Martin, che avverte che la sua ora sta per arrivare, e scrive: “Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spa- lanca la miglior vita? Questo non sapevo, che il mondo muo- re a ogni morte di un uomo.” E’

un per chi suo- na la campana che conclude in modo superbo un romanzo di rara bellezza.

Fulvio Tomizza

LIBRI E CURIOSITÀ LETTERARIE

FULVIO TOMIZZA

La miglior vita

Lavoreti Scolastici

P

arlemose ciaro, mi son quela dele lane: sempre inpegnada a sferussar per mi bele maie e gilé. Li fassevo anca per i mii fioi, ma lori i vo- leva solo colori scurissimi, nero o blu scuro, e la mia vista, man man che i ani passava la se ga scurtà. Adesso lavoro ai feri so- lo per mi.

Gavevo imparà presto a sferus- sar co’ frequentavo le elementa- ri. A quei tempi, i lavori femini- li per le

m u l e t e a n d a v a ben, ogni setimana due ore de

“lavoro”.

In prima gavevimo comincià fassendo un bel centrin ri- camà a

“punto fil- za” e co’

l’orlo a

“punto fe- ston”. Sto c e n t r i n , una dele rarissime robe che a n c o r a conservo,

el xe proprio bel, col motivo or- namental blu e rosa, su un’idea dela nostra maestra, Italia Tra- canelli, che la iera assai brava e fantasiosa per crear motivi de ricamo. (Devo agiunger anca che la iera un’ottima pitrice!).

In seconda calasse iera la volta del uncineto. Per impratichirse gavevimo dovudo far el ciapin dele pignate in coton bianco.

Una prova laboriosa perche’ ie- ra facile per noi mulete sbaliar i punti saltando le cadenele o in- gropar el filo se nol iera ben la- vorà. E po’ gavevimo fato un centrin con un disegno original tuto traforà sempre su creas- sion dela nostra maestra. An- che questo bel lavoreto lo go ancora, solo el xe un fià sbiadì de tanto che lo go adoperà e lavà.

In tersa classe gavevimo im- parà i lavori a feri e gavevo fato una siarpa a punto drito. Ierino za in tempo de guera e me ri- cordo che quei ani se usava el

“lanital”, una lana artificial, utarchica, ricavada dal late, no so con qual sistema chimico!

La mia siarpa iera color avana, e per ravivarla un fiatin la mae- stra me gaveva fato far sui orli dele righe rosse ‘ssai de efeto, con le franze analoghe al termi-

ne. La gavevo tanto portada finché, co’ ierimo sfoladi a Me- dolin, le tarme la me la gaveva magnada. Passemo adesso ala quarta elementare, dove che in- segnava una maestra assai an- siana, la siora Robba. Alta, ca- vei bianchi, severissima (La ie- ra stada in zoventu’ maestra de lavoro de mia mama!) Gavevi- mo dovudo far le mudande a forma de braghete, taiade in quatro parti. Noi mulete no ca- pivimo come che sti tochi dove- va esser messi insieme fina di- v e n t a r mudandi- ne! Cusi- de a man a “punto machina”

con le do- vude riba- tidure e orlade a p u n t o giorno sul orlo dei gambaleti.

Le iera c u s s ì grandi per la mia mi- sura che le go dovù p o r t a r l e solo dopo l’esodo!

U l t i m o ano, la quinta, ga tocà far el combiné (che saria la sotoveste). Ma, causa dela guera e dei bombar- damenti, le scole iera stade se- rade e el combiné, interoto a metà. Lo go finido, a machina, dopo l’esodo.

E la Rita, mia sorela, sinque ani piu’ de mi, quai lavoreti la ga- veva fato? Anche de ela go qualche cimelio, co’ la iera con la maestra Augusta Degni.

La gaveva fato, a l’uncineto, un portapetine bianco, con punti assai dificili che formava un ri- camo. Ai feri, una magnifica siarpa de lana color turchese, persa a scola con gran disperas- sion de mama. In quarta classe, con la stessa maestra Robba, el lavoro preliminar iera un to- vaiolin ricamado coi orli che presentava a ogni angolo un di- verso tipo de ramendo esegui- do ala perfession. El lavoro principal iara stada una splen- dida tovaieta ricamada a punto croce con motivi floreali, che ancora ogi la par nova! Infine le mudande, ma le sue gaveva sul’orlo del gambaleto un ele- gante ricamin fato a l’uncineto che pareva fato co’ l’ago de tan- to fin che el iera.

Me ricordo che dopo l’esodo, a Udine, gavevimo mostrà sti la-

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a cura di Piero Tarticchio

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LL’’A Arreennaa ddii PPoollaa::”Come eravamo” - Cultura, Arte, Fatti e Tradizioni

disegno di Piero Tarticchio

FOGLIE DI SALICE

Piega il sàlice i suoi rami al declino sulla sponda del fiume.

L’acqua scorrendo già si porta via quel silenzio pensoso che lambisce il fluire dell’istante tradotto in sentenza immediata.

Trèmola il sàlice,

pèndulo amàlgama di scontate tristezze, foglie su foglie,

corollario del pianto immaginato

nel carpe dièm della vita

LA FOGLIA DELL’EDERA Foglia d’edera sul muro sgretolato in caparbia e sinuosa positura che non provi caducità della stagione nell’ anfratto del tempo:

breccia indivisa del sopravvivere abbarbicato.

Foglia d’edera tagliata alla radice e posta nel riflusso dei ricordi, nel diario di una vita che non è la tua ma l’accompagni

lungo intricati sensi della mia memoria ...

Foglia gialla dell’edera d’una verde infanzia chiusa tra pagine di libro già sfogliato in- interrotta-mente ...

NEL TREMORE DI FRONDA Un brivido profondo, viscerale, che sale dai recessi della terra, abbatte moltitudine di uomini dentro rifugi fragili di pietra: ...

uno scrollare sismico di fronda sorpresa da eccessivo stormire;

un cadere ondeggiante di foglie nell’inerzia innocente e fatale ...

FOGLIA DI ROVERE

(a ricordo di un esodo d’inverno) Foglia di rovere che al suolo d’Istria adombri la terra rossa e l’erba

e variegheggi a guisa di lichene la roccia bianca che qua e là vi affiora, se scenderai in declivio verso il mare staccata con la bora dal tuo ramo, fermati un poco al tralcio della vite che ha perso le sue foglie con l’inverno per consolarla e dirle che l’ulivo sta barbagliando ancora con il sole a dispetto di tutte le stagioni.

IN VOLO D’ANIMA

Sento una foglia dentro la mia vita come racchiusa in pagine di libro:

scolorirà col tempo in consunzione ma attingerà l’essenza dal suo esistere.

Quando il mio assunto volgerà all’epilogo ella si farà incorporea, polvere fina, che si disperderà in volo d’anima con fatua trasparenza.

L’ANGOLO DELLA POESIA

tratto dal volume “VARIAZIONI - Uomini e Foglie” di Otello Soiatti

vori a dale siore nostre vicine, esperte de cucito e ricamo. Le ne gaveva dito: “Cossa, ste bele robe imparavi a far a scola?

Qua no. Mai avudo lessioni de

“lavoro” per le putele dele ele- mentari, né una volta e gnanca adesso”.

Qualche parola… a modo mio.

SAL - Mi penso de gaver una predisposission al suicidio per- ché, de quando che me xe sta proibido el sal a causa della pression ata, no fasso altro che sognar de magnar sardele sala- de, e ogni tanto, de scondon le magno.

CUOR - El fa rima con amor e che xe atribuimo i sentimenti più nobili detadi da l’impulso e dala generosità. Epur, a vardar- lo dal punto de vista anatomi- co, a mi al me par piutosto bru- tin!

FORTUNA - Tante volte se sen- ti dir: per riessir nela vita ocori daver anca tanta fortuna. Per conto mio, queste xe le teorie dei falidi che no vo darse per vinti de le sue disgrassie. Cossa xe la fortuna? Mi la vedo cussì:

Una valanga de soldi che te piovi adosso co’ ti vinsi la Lot- teria, el Totocalcio, el l’Enalotto e via de seguito. De colpo, chi che ga vinto se trova cussì rico de poder competer coi divi del cine, dela television o canpioni del sport. Cossa no xe fortuna, quela? I ghe ne ga abastansa per meter a posto se stessi, la famiglia, tuta la parentela e fina le amicissie più strete e anca ghe ne ‘vansà! Dopo qualche ano, se sti fortunai no ga volu- do mantegnir l’anonimato, i giornalisti va a sercarli per ve- der come che i sta e cossa che i ga fato con tute quele richesse a disposission. E cossa i trova?

Miseria, rovina, disgrassie e po’

in braghe de tela! Perché, co’ no i xe boni de manesar tanta ri- chessa, i se la ga magnada o fa- ta magnar in afari sbusi, inve- stimenti balordi, spese sensa senso.

LAVORO - A volte sui giornai, nela rubrica riservada ai letori, capita de leger letere compa-

gne: “Ala fine dela guera ierimo tuti rovinadi. Ma mi e mia mo- glie no semo stadi la a spetar la manna dal ciel. Se gavemo tirà su le manighe, gavemo lavora’

duro e adesso semo qua, a go- derse la veciaia nela nostra vila con piscina, circondadi da fioi e nipoti!” Bravi, bravissimi ghe digo mi. Tanto de capel!

Ma ve gavè dimenticà due ro- be: de specificar le vostre pro- fessioni e el percome del vostro sucesso!

MEMORIA - De quando che go avudo per due setimane un bruto febron, giusto prima del Nadal passà, no fasso che di- menticarme de qua a la’ le ro- be’(robe de poco per fortuna), ma fina me dimentico i nomi de le robe. Lo stesso me consolo pensando a cossa che ministri e parlamentari inglesi perdi (no se sa come!) o dimentica sui tre- ni: borse con dentro documenti stretamente confidensiali,i se dimentica dei i sussidi alle fa- milie in difficoltà, ai aiuti ai in- validi - incluse i nomi dele ma- latie. Fina borse con segreti mi- litari va perse, con grande im- barasso del Governo. E de re- cente, in una sola setimana, ben due volte i passeggeri ga trovà sui treni incartamenti e pachi con documenti “Top Secret” ri- guardanti el terorismo e la sicu- ressa nassional. Cossa volè de più? A far i confronti e pensan- do aIe “mie” dimenticanse, posso tegnirme fortunada!

RIDER - Una volta go ricevù sto consilio: “No la stia rider tropo de tuto e de tuti, incon- gruense religiose incluse. Mi penso come lei, per questo ghe digo: la ris’cia de procurarse inimicissie!” Giusto o sbaglià?

Ai esperti l’ardua sentensa pur- ché no ghe manchi el senso del umorismo!

POESIA - Me ricordo sta strofa (ma no chi che la ga scrita?):

“Dovunque il guardo giro - im- menso Dio ti vedo, - nell’opre tue ti ammiro - mi riconosco in te.” Belissimo. Ma quel ‘ultimo verso - “…mi riconosco in te” – el me sa un fiatin de presun- sion.

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