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ALLEVAMENTO BOVINO DA LATTE: L ORIENTAMENTO DELLE IMPRESE ITALIANE NEL POST QUOTE

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Academic year: 2022

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ALLEVAMENTO BOVINO DA LATTE:

L’ORIENTAMENTO DELLE IMPRESE ITALIANE NEL POST QUOTE

Indagine campionaria

Ottobre 2013

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Premessa

Con l'imminente fine del regime delle quote, prevista per il 31 marzo del 2015, verosimilmente si delineerà un diverso contesto competitivo del settore lattiero caseario europeo, nell'ambito del quale le imprese di allevamento si troveranno di fronte a nuove opportunità, oppure ad affrontare rischi che potrebbero richiedere dei cambiamenti nella gestione della propria azienda e nell'organizzazione dell'attività produttiva. Allo scopo di conoscere le possibili reazioni degli operatori di fronte a questa svolta epocale della Politica Agricola Comunitaria, ISMEA, in collaborazione con CremonaFiere, ha condotto un’indagine sull'orientamento delle imprese di allevamento di bovino da latte all'indomani della liberalizzazione del mercato. In particolare, è stato chiesto agli operatori se, dopo lo smantellamento delle quote, intendono aumentare oppure diminuire il loro livello produttivo, se temono una fuoriuscita di aziende dal settore e ancora se in un mercato privo di vincoli produttivi temono un crollo sui prezzi.

Metodologia e campionamento

Per rispondere a tali finalità è stato predisposto un questionario ad hoc che è stato somministrato alle imprese individuate per l’indagine tra giugno e settembre 2013. L’indagine è stata condotta su un campione di 239 imprese individuato a partire dalle liste del Panel ISMEA delle imprese agricole ed è stata realizzata in modalità C.A.T.I. (Computer-Assisted Telephone Interviewing). A supporto delle informazioni rilevate presso gli operatori, l’indagine è stata completata da una serie di interviste face to face rivolte a esperti del settore con l’obiettivo di raccogliere pareri e valutazioni in merito alla possibile evoluzione del settore lattiero caseario europeo e alle ripercussioni che il sistema allevatoriale nazionale subirà in seguito all’eliminazione dei vincoli produttivi. Per la definizione del campione si è tenuto conto della struttura del settore del bovino da latte (come da rilevazione dell’ultimo Censimento dell’Agricoltura 2010 di fonte Istat) e della capacità produttiva delle diverse regioni/macro-aree del Paese (come da rilevazioni delle consegne Agea). Si è operato escludendo le aziende con meno di 20 capi allevati e aumentando la quota delle imprese più grandi, che, in ragione della loro produzione e del loro ruolo sul mercato, sono in grado di fornire delle valutazioni sui possibili cambiamenti di scenario.

Il campione è rappresentato per il 59% da aziende del Nord Ovest, per il 29% del Nord Est e per il 12% del Centro-Sud. Quanto alla destinazione del latte, il 54% del campione produce latte per formaggi a denominazione, il 22% latte per altri formaggi e il restante 24% per latte alimentare. Il 61% conferisce a Cooperative/Consorzi che trasformano il latte raccolto, il 19%

consegna a Industrie, l’11% a Cooperative/Associazioni che si occupano di raccolta e commercializzazione e il restante 9% trasforma il latte prodotto all’interno della stessa azienda agricola. In complesso, il campione Ismea risulta sbilanciato sulle classi dimensionali più grandi rispetto all’Universo Istat, ma tale distribuzione è funzionale all’indagine stessa, che ha l’obiettivo di valutare l’opinione delle imprese operative e presenti in modo significativo sul mercato del latte bovino.

I risultati dell’indagine

La produzione aziendale di latte dopo il 2015

A partire dai risultati dell’indagine è emerso che, a seguito dello smantellamento del sistema delle quote, il livello della produzione nazionale non subirà sostanziali cambiamenti. Da un lato per alcune aziende si profilerà, infatti, la possibilità di incrementare la perfomance produttiva attuale, ma l’esistenza di numerosi limiti – tra cui vincoli ambientali, diponibilità di terreno, onerosità degli investimenti – non consentirà un rilevante aumento della produzione; dall’altro lato, numerose aziende cesseranno di esistere, principalmente per problematiche di ricambio

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2 generazionale o per questioni di inefficienza economica legate alla dimensione (numero di capi in allevamento) o alla localizzazione (scarsa accessibilità in termini logistici). Il risultato complessivo dovrebbe essere, quindi, quello di una compensazione a livello produttivo, frutto di un ulteriore (e fisiologico) processo di concentrazione degli allevamenti bovini da latte nazionali. Scendendo nel dettaglio, la metà delle imprese interpellate ha dichiarato che anche dopo l’abolizione delle quote manterrà inalterato il proprio livello produttivo a fronte di un altro 23% che pensa invece di aumentarlo a seguito della liberalizzazione; in soli 6 casi è stato riscontrato un orientamento al ridimensionamento produttivo, mentre il 7% dei rispondenti propenderà per la chiusura dell’attività aziendale. Quest’ultima ipotesi appare più frequente nelle aziende di piccole e medie dimensioni (fino a 100 capi) ed esclusivamente paventata da conduttori over 40; da notare che la bassa incidenza di questa risposta sul campione è molto influenzata dalla composizione stessa del campione che di fatto esclude proprio pe realtà più piccole (meno di 20 capi) e più esposte al rischio di chiusura. La riconversione aziendale, con conseguente orientamento produttivo verso altre tipologie di allevamento o verso seminativi/altre colture, non è stata presa in considerazione da nessuna impresa intervistata.

Previsioni delle aziende sulle scelte di produzione post 2015 (%)

Analizzando i risultati in base alla dimensione aziendale, espressa in numero di capi allevati, si evince che la decisione sul livello produttivo futuro è influenzata dall’ampiezza dell’impresa. In dettaglio, la propensione ad aumentare la produzione aziendale risulta relativamente più diffusa tra le imprese molto grandi (oltre 200 capi) e tra quelle con un numero di capi compreso tra 20 e 49: nel caso della aziende molto grandi, infatti, l’aumento della produzione potrebbe consentire il raggiungimento del grado ottimale di utilizzo della capacità produttiva;

diversamente nelle aziende medio-piccole l’aumento della produzione potrebbe essere realizzato sotto l’impulso derivante, in primo luogo, dall’assenza di vincoli e, in secondo luogo, dalla disponibilità di risorse precedentemente impiegate per le gestione stessa delle quote (affitto o prelievo). L’orientamento a mantenere lo status quo, pur essendo generalmente diffuso, è stato riscontrato in misura leggermente superiore tra le imprese medio-grandi (tra 100 e 500 capi), che - probabilmente - avendo già effettuato investimenti importanti nel corso degli anni hanno già raggiunto un livello dimensionale ottimale ovvero un livello di output che permette di utilizzare i fattori produttivi nel modo tecnicamente ed economicamente più efficiente.

Studio del comportamento delle imprese

Profilo delle imprese che hanno dichiarato che manterranno inalterata la produzione dopo la fine delle quote

Il sottogruppo è costituito dalle 120 imprese che hanno dichiarato che modificheranno il livello attuale della produzione, trattandosi, della quota prevalente di rispondenti, presenta un profilo

aumento del livello produttivo attuale

23%

mantenimento del livello produttivo

attuale 50%

riduzione del livello produttivo attuale

3%

chiusura azienda 7%

non so/n.r.

18%

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3 abbastanza sovrapponibile al Campione Ismea complessivamente considerato, sia per età del conduttore sia per distribuzione territoriale. In termini di indirizzo produttivo, rispetto al Campione, il sottogruppo presenta una quota maggiore di aziende orientate alla produzione di latte destinato a formaggi senza una Denominazione di Origine. Il canale di sbocco prevalente per le imprese del sottogruppo è la Cooperativa o il Consorzio di trasformazione, in misura leggermente più accentuata rispetto alle caratteristiche complessive del campione.

L’imminente abolizione del regime delle quote non viene considerata dalle imprese di questo gruppo un evento determinante sulle scelte produttive né in termini quantitativi (incrementare/diminuire la produzione di latte) né in termini di destinazione finale. La rigida struttura della filiera non favorisce, infatti, cambiamenti rapidi né per quanto concerne i flussi di prodotto (latte alimentare e freschi -formaggi DOP- formaggi non DOP) né con riferimento ai rapporti tra gli operatori delle diverse fasi (allevatore-cooperativa o allevatore-industria). Nel complesso l’allevatore (soprattutto nel caso di realtà associative) è abbastanza indifferente rispetto alla destinazione del latte che viene prodotto nella propria stalla: le peculiarità del prodotto latte (deperibilità, impossibilità di stoccaggio, necessità di mungitura quotidiana) fanno sì che gli obiettivi principali dell’allevatore siano il ritiro del prodotto e la sua remunerazione. In dettaglio, dall’indagine è emerso che:

- l’84% dei rispondenti (101 imprese su 120) ha dichiarato l’intenzione di mantenere l’attuale indirizzo produttivo e il 14% (17 imprese su 120) ha assunto un atteggiamento di attesa senza esprimere un parere;

- il cambiamento di indirizzo produttivo è preso in considerazione dagli operatori solo in due casi e in entrambi si tratta di una scelta rivolta al segmento dei formaggi a Denominazione di Origine.

Profilo delle imprese che hanno dichiarato che aumenteranno la produzione dopo la fine delle quote

Le aziende orientate ad un accrescimento della produzione (54 casi) sono prevalentemente localizzate nelle regioni nordoccidentali e nordorientali e sotto il profilo dimensionale si tratta di realtà molto grandi (con oltre 200 capi allevati) o medio piccole (con un numero di capi compreso tra 20 e 49), prevalentemente associate a realtà di tipo cooperativo e che produce latte destinato a formaggi a denominazione e, in misura non trascurabile, latte alimentare.

Questo sottogruppo di aziende, fatta eccezione della distribuzione per età del conduttore, presenta alcune differenze rispetto al Campione di indagine considerato nella sua totalità. In particolare, il sottogruppo è caratterizzato da: 1) una maggiore concentrazione territoriale nelle regioni di Nord Ovest, a discapito di quelle del Nord Est; 2) un indirizzo produttivo maggiormente orientato ai formaggi a Denominazione di Origine e al latte alimentare; 3) un canale di sbocco maggiormente rappresentato da Cooperative/Consorzi di trasformazione e dall’industria.

Per le aziende che hanno dichiarato un aumento della produzione dopo il 2015, l’entità di tale incremento si profila piuttosto esiguo e, in tutti i casi, la decisione prescinde dalle caratteristiche dell’azienda sia in termini dimensionali sia in termini di destinazione produttiva e canale di sbocco. In particolare, 2 allevatori su 5 hanno indicato che la crescita della produzione di latte non supererà il 10% degli attuali livelli aziendali e, nel complesso, solo 4 operatori hanno indicato un incremento superiore al 50% del volume attuale. Del resto, sebbene non più regolamentato dalle quote dal 2015, l’aumento della produzione aziendale è ostacolato da molteplici vincoli ambientali, strutturali ed economici. In primo luogo, infatti, le prescrizioni della cosiddetta “Direttiva nitrati” , imponendo il divieto di spargimento dei reflui degli allevamenti oltre un limite massimo annuo per ettaro (170 kg di azoto), stabiliscono una proporzione obbligatoria tra numero di capi di bestiame in allevamento e superfici idonee allo smaltimento dei reflui zootecnici prodotti. In secondo luogo, e strettamente connesso al primo punto, esiste una ridotta disponibilità di superfici agricole a causa dell’erosione del suolo per fini urbanistici e costi di affitto/acquisto molto elevati.

Altri vincoli all’espansione produttiva delle aziende sono rappresentati da fattori strettamente connessi alla marginalità, ossia:

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4 - livelli di remunerazione che non consentono di effettuare investimenti finalizzati

all’incremento della produttività;

- struttura dei costi troppo esposta alla volatilità, in particolare con riferimento ai costi di alimentazione (che rappresentano quasi il 50% dei costi totali) che negli ultimi anni hanno subito forti oscillazioni a causa dei prezzi dei mangimi, soprattutto del mais e della soia (fenomeni speculativi, trade-off biocarburanti).

Strumenti a sostegno delle aziende: gli allevatori conoscono il “Pacchetto latte”?

Nella seconda parte dell’indagine gli allevatori sono stati invitati ad esprimersi sulle misure previste dal Regolamento (UE) n. 261/2012, ovvero il cosiddetto “Pacchetto latte”, al fine di verificare quanti sono gli operatori del settore che le conoscono e, tra quelli che le conoscono, quanti sono quelli che le considerano uno strumento idoneo ad attenuare i probabili effetti negativi derivanti dall’abolizione del regime delle quote e, più in generale, dal minore sostegno al mercato previsto dalla nuova PAC.

Poco più della metà degli operatori intervistati ha dichiarato di conoscere le misure del

“Pacchetto latte”. Ne consegue che circa 2 aziende su 5 non sono informate sulle nuove misure che riguardano i rapporti contrattuali nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari. La disinformazione è generalmente diffusa a livello territoriale sebbene con maggiore intensità nelle aree del Centro-Sud e tra gli imprenditori più giovani. In base all’aspetto dimensionale, sembra invece che meno informate siano quelle con meno di 50 capi allevati, mentre la conoscenza risulta decisamente superiore alla media se si considerano le imprese molto grandi (con un numero di capi allevati compreso tra 500 e 999). Tra quelli che hanno affermato di conoscere il “Pacchetto Latte”, però, in 8 casi su 10 è stata dichiarata un’insoddisfazione rispetto alla tutela assicurata dalla normativa.

Le principali conseguenze della liberalizzazione del mercato del latte: il parere degli operatori e degli esperti

L’indagine si è conclusa con una domanda in cui gli allevatori sono stati invitati ad esprimersi su quali saranno, a loro avviso, le principali conseguenze della liberalizzazione del mercato del latte a partire dal 1° aprile 2015.

Su tutti gli scenari paventati dagli operatori risulta prevalente quello della contrazione del numero di allevamenti: l’uscita dal mercato delle aziende, soprattutto di quelle di dimensioni ridotte e di quelle meno efficienti sotto il profilo dei costi, è l’ipotesi confermata da circa un terzo degli intervistati. Gli operatori sono pervasi, poi, da una sensazione di incertezza sul

“cosa accadrà dopo” e non riescono a formulare ipotesi ben precise sull’evoluzione futura del mercato. Abbastanza condiviso è anche il timore del calo del prezzo del latte - come conseguenza di una maggiore offerta e di una più spinta concorrenza in ambito nazionale ed europeo - e il verificarsi di speculazioni a danno degli allevatori da parte degli industriali o della GDO o ancora delle multinazionali. Una quota analoga di rispondenti ha indicato che non ci saranno cambiamenti significativi e che lo scenario rimarrà sostanzialmente rispetto allo stato attuale. Presenti anche pareri favorevoli all’abolizione del regime delle quote che ravvisano all’indomani della liberalizzazione un miglioramento del funzionamento del mercato del latte.

Più pessimistica, invece, la previsione di chi si attende una penalizzazione degli “onesti”, ossia di coloro che hanno sempre rispettato le quote a vantaggio di chi non le ha rispettate e che si teme rimarrà impunito con l’abolizione delle stesse. Questa preoccupazione è emersa anche in relazione al fatto allo stato attuale non è previsto alcun indennizzo per coloro che hanno effettuato investimenti per l’acquisto di quote e che al 1° aprile 2015 vedranno di colpo azzerato il valore patrimoniale delle stesse, con conseguenze anche dal punto di vista dell’esposizione finanziaria.

Minoritarie, poi, altre opinioni che indicano, come principale conseguenza della fine delle quote, l’aumento delle importazioni di latte nel nostro Paese. Poco frequente - ma presente - infine, anche il punto di vista di chi ha posto l’accento sulla diversa collocazione altimetrica degli allevamenti, ipotizzando una situazione più difficile per i piccoli allevamenti di pianura che

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5 verosimilmente subiranno le pressioni e la concorrenza degli operatori più grandi. Di converso, l’assetto produttivo degli allevamenti di montagna risulterebbe preservato dalle nuove dinamiche della liberalizzazione proprio a motivo della loro localizzazione geografica.

Le principali conseguenze dell’abolizione del regime delle quote latte

Altre interessanti considerazioni in merito ai possibili scenari post 2015 sono emerse dalle interviste realizzate face to face.

- Tutti gli esperti intervistati sono concordi nell’affermare che la fine delle quote latte non determinerà grandi stravolgimenti negli assetti produttivi attuali né a livello nazionale né a livello comunitario.

- L’eventuale maggiore disponibilità di latte a livello comunitario potrebbe rappresentare un rischio in situazioni contingenti di prezzi esteri più vantaggiosi: l’afflusso di latte estero in cisterna potrebbe rappresentare un grande limite per le aziende nazionali che puntano tutto sulla territorialità del prodotto. Il timore è che si perda il valore aggiunto dei prodotti caratterizzati da un forte legame con il territorio (latte fresco e formaggi a denominazione) e che si svilisca eccessivamente la remunerazione delle stalle nazionali.

- Attualmente, molti Stati Membri (soprattutto dell’Europa orientale) producono già abbondantemente sotto quota; pertanto l’eventuale aumento della produzione, soprattutto da parte grandi Paesi tradizionalmente produttori di latte (Germania, Francia, Olanda, Danimarca), non dipenderebbe dalla liberalizzazione del mercato, piuttosto dal profilarsi di nuove opportunità di sbocco giustificate dalla rapida evoluzione della domanda mondiale. Rispetto al sistema italiano, principalmente orientato alle produzioni di qualità e incentrato sul mercato domestico, i produttori comunitari possono fare affidamento su una maggiore apertura internazionale dei propri sistemi produttivi, oltre che su una diversa organizzazione della filiera e potrebbero, quindi, cogliere le opportunità derivanti dal mercato mondiale.

- La consapevolezza dell’importanza delle proteine nella dieta, la diffusione di modelli consumo più evoluti e la maggiore solvibilità da parte dei Paesi emergenti hanno fatto crescere la domanda in misura esponenziale, creando un gap di offerta a livello mondiale e generando fenomeni di elevata volatilità. I prezzi delle commodity (soprattutto latte in polvere e burro) hanno, quindi, subito un’impennata tanto da divenire un business appetibile a livello di fondi di investimento (future) e l’introduzione di elementi speculativi potrebbe avere risvolti negativi sulla filiera ed esasperare la volatilità del settore (come già accaduto per il mercato dei cereali).

3%

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5%

12%

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17%

31%

più latte estero importato penalizzazione degli "onesti"

miglioramento del mercato nessun cambiamento speculazioni all'interno della filiera crollo prezzo del latte

incertezza chiusura aziende

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