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Capitolo III L’Evasione dall’Essere verso l’Infinito

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Capitolo III

L’Evasione dall’Essere verso l’Infinito

1. Come evadere dalla brutalità della storia? Uno sguardo complessivo sull’istanza dell’Infinito in Lévinas

Il pensiero di Lévinas, che nelle opere giovanili conserva un’impostazione ancora accademica, è una ricerca in fieri, che viene segnata dalla brutalità della storia, dall’irrompere dei regimi totalitari sulla scena politica e ideologica.

Il nostro autore ha la lucidità di intuire il potenziale negativo della propaganda nazista fin dai primi sintomi, scorgendo nelle formule retoriche che avevano destato «la nostalgia segreta dell’animo tedesco»1, nella «fraseologia mirabile»2 da cui molti tedeschi si erano lasciati cullare, qualcosa di oscuro e di minaccioso. Egli non aveva abbassato la guardia di fronte al fenomeno di massa che si stava diffondendo e lo affrontava con le armi critiche di cui disponeva, dimostrandosi attento non solo alle novità teoretiche, ma anche agli avvenimenti concreti del suo tempo.

Nell’introdurre il testo lévinassiano del ’34, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Agamben rileva, non senza un intento provocatorio, che si tratta «dell’unico tentativo riuscito della filosofia del Novecento di fare i conti con l’evento politico decisivo del secolo».3 Pochi pensatori si erano confrontati, in quegli anni,

1 E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, in «Esprit», 2, 1934, tr. it. Alcune

riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, a cura di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996, p. 23;

d’ora in poi QR. 2 Ibid.

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con il fenomeno del nazionalsocialismo: il caso Heidegger, com’è noto, era sfociato in un «disastro senza attenuanti»4.

Lévinas aveva compreso che il nazismo «non era qualcosa che ci si potesse illudere di orientare a proprio piacere verso quella o questa sponda»5. «Ben più che un contagio o una follia, l’hitlerismo è un risveglio di sentimenti elementari»6, e su ciò che è primordiale non si può esercitare alcun controllo. L’errore del filosofo tedesco, al contrario, è stato quello di voler incanalare le forze nazionalsocialiste in un progetto teorico che esaltasse lo spirito del suo popolo: «allora credevo che il movimento potesse essere indirizzato spiritualmente verso altre vie», ammetteva Heidegger a posteriori, «e consideravo questo tentativo conciliabile con le tendenze sociali, e in generale, politiche, del movimento»7.

Lévinas subisce il triste destino dei suoi contemporanei: deve confrontarsi con l’incapacità della filosofia di arginare la violenza e di far fronte a un male radicale e storico. Egli condivide lo stesso senso di impotenza che Simon Weil esprime davanti all’inevitabilità della guerra, denunciando la cecità degli intellettuali, che non sapevano servirsi della loro cultura per comprendere le emergenze del tempo in cui vivevano: «La nostra civiltà copre con il suo sfavillìo un’autentica decadenza intellettuale»,8 scriveva la filosofa francese:

La nostra scienza contiene, come in un deposito, i meccanismi intellettuali più raffinati per risolvere i problemi più complessi, ma noi siamo quasi incapaci di applicare i metodi

4 Ibid. 5 Ibid. 6 QR, p. 23. 7

M. Heidegger, Estratto da una lettera al presidente della commissione politica di epurazione, in

Scritti politici (1933- 1966), Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 234.

8 S. Weil, Écrits historiques et politiques, Éditions Gallimard, Paris 1960, tr. it. Sulla guerra. Scritti

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elementari del pensiero ragionevole. In ogni ambito, sembriamo aver perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di grado, di proporzione, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di connessione tra mezzi e risultati. Per restare nell’ambito delle questioni umane, il nostro universo politico è popolato esclusivamente di miti e di mostri9.

Anche il nostro autore si misura con la carenza della scienza teoretica nell’ambito dei valori umani. L’adesione al nazismo di Heidegger, il maestro che gli aveva trasmesso il senso della responsabilità verso l’essere, costituisce un evento traumatico a partire dal quale valutare la necessità di una nuova epoché: mettere in discussione i punti forti della filosofia fino ad allora riconosciuta, per lasciare spazio all’umanità che era stata dimenticata, rinnegata.

In Umanesimo dell’altro uomo Lévinas manifesta la sua indignazione verso la ricerca intellettuale fine a se stessa; «la filosofia sorge come una forma sotto la quale si palesa il rifiuto di impegnarsi nell’Altro, l’attesa preferita all’azione, l’indifferenza verso gli altri»10. E prosegue: «L’itinerario della filosofia resta sempre quello di Ulisse la cui avventura nel mondo non fu mai che un ritorno all’isola natia, compiacimento nel medesimo, sconoscimento dell’altro»11.

Il filosofo comprende che l’ideale di un cogito che si astrae dal contesto, il proposito di dar vita a una scienza autarchica, ciò che aveva elogiato in Husserl come paradigma di libertà, non soddisfa le esigenze del suo tempo; un pensiero responsabile dinanzi a se stesso non è sufficiente, non fa che perpetuare la logica del

9 Ibid. 10 HAH, p. 65. 11 Ibid.

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Medesimo ed emula, anche senza volerlo, l’egoismo autoreferenziale delle ragioni dei carnefici.

Occorre spezzare il cerchio della guerra. Scrive Mosès: «Se si deve dunque immaginare ancora un al di là della guerra, questo non potrà essere pensato che a partire dalla realtà inaggirabile della Storia e, per così dire, all’interno di questa»12. Lo spiraglio che permette di intravedere una speranza nell’equilibrio dei rapporti tra nazioni, una luce in fondo alle tenebre dei corsi e dei ricorsi storici, sempre ugualmente inclini all’eccidio, risiede nella scoperta di una verità interpersonale. L’“al di là” teorizzato da Lévinas nella sua opera matura non è un’utopia messianica collocata alla fine dei tempi.Non si tratta di un «movimento orizzontale che giunge al suo termine, ma piuttosto di una rottura nello svolgersi della Storia, ovvero dell’irruzione, nel cuore stesso del divenire, di una dimensione assolutamente altra. È questo assolutamente altro che Lévinas chiama infinito»13.

Il concetto di infinito, che trova un’elaborazione piena in Totalità e infinito, si preannuncia fin dai primi scritti.

In questo capitolo si vuole mostrare come il desiderio di trascendenza, che rappresenta il punto fermo della filosofia matura di Lévinas, sia rintracciabile anche nelle opere giovanili, nel bisogno di evasione, nella volontà di superare l’incatenamento dell’essere a se stesso. Inizialmente, consiste in una via d’uscita

12 S. Mosès, Al di là della guerra. Tre saggi su Lévinas, a cura di D. Di Cesare, il Nuovo Melangolo, Genova 2007, p. 12. Mosès ricorda il debito di Lévinas nei confronti di F. Rosenzweig, sottolineando i punti di contatto tra Totalità e Infinito e La stella della redenzione. Nel testo di una conferenza tenuta nel ’64, Lévinas presenterà Rosenzweig come un esempio di «ebraismo emancipato», capace di credere in una società interconfessionale. Il filosofo tedesco era risalito «all’ebraismo per sollecitare una risposta alla crisi dell’umanità o per cercarvi un rifugio o una via d’uscita», ma aveva compreso che anche il cristianesimo, che «egli non abbraccia, sarebbe altrettanto necessario alla redenzione del mondo che è in balia della violenza», cit. da Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno, in E. Lévinas, Hors Sujet, Fata Morgana, Montpellier 1987, tr. it. di F. P. Ciglia, Fuori dal soggetto, Marietti, Genova 1992, pp. 53-68.

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soltanto ipotetica, senza sbocco, una scappatoia dagli eventi tragici della storia e dall’indifferenza del pensiero; la soluzione che il nostro filosofo riuscirà a trovare nelle riflessioni successive sarà legata, non più a una fuga, ma a un recupero.

L’orizzonte della filosofia deve poter salvaguardare l’infinito dell’incontro personale con l’altro, una metafisica finalmente “umana”, che segna la possibilità di una rinascita dopo Auschwitz. «La storia può ricominciare in una nuova direzione: nulla di ciò che è stato è irrevocabile, nulla è irrimediabile. La continuità e l’omogeneità del tempo, necessariamente implicate in una storia di tipo hegeliano, scompaiono a vantaggio di un tempo costantemente interrotto dall’orizzonte del nuovo»14.

La novità con cui il pensiero deve confrontarsi non appartiene più all’ordine del pensiero: è la persona ad essere privilegiata e non la sua proiezione intellettuale, l’altro uomo mi vieta di ucciderlo con la sua presenza e non in virtù di un imperativo categorico concepito razionalmente e opinabile come le altre teorie. Il volto altrui fa valere le sue priorità, come ciò che non può essere disatteso: la consapevolezza di questo appello, diretto alla responsabilità di ciascuno, costituisce la base di un nuovo inizio.

Il percorso del nostro autore si può intendere, in questo senso e alla luce degli eventi storici, come possibilità sempre aperta di un cominciamento, alla maniera husserliana, ma, a differenza del filosofo tedesco, con uno sguardo rivolto alla realtà concreta.

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La nozione di infinito rappresenta anche per Lévinas un terreno di contatto e allo stesso tempo di confronto con la tradizione filosofica francese15: Descartes aveva inserito Dio nella sua visione filosofica come garante dell’evidenza razionale. Scrive Ciaramelli a proposito dell’opera cartesiana: «Dieu ne serait que l’autre nom de la raison dans sa prétention de généralité»16. Nella riflessione del pensatore lituano, invece, l’infinito interviene a destabilizzare l’ordine, opponendosi «à la clôture de la raison dans la totalité»17.

Si rimproverava a Cartesio di essere rimasto un conservatore, anche dopo il radicale esercizio dello scetticismo, di aver restaurato il quadro del mondo esteso mediante l’idea tradizionale di Dio, il cui intervento serviva, come quello di un deus ex machina, a sigillare il sistema. La scelta di Lévinas non si colloca, allo stesso modo, nell’alveo della consuetudine filosofica: il suo infinito, che ha il compito di scardinare il sistema, è qualcosa di extra-filosofico, di mistico, ma anche di esperienziale.

Derrida scorge l’originalità del pensiero lévinassiano proprio in questo punto: «Ciò che Platone e Descartes non hanno riconosciuto [...] è che l’espressione di questo infinito è il viso»18.

Il viso è «ciò che è visto», che mi vede e che ricambia lo sguardo. Non si tratta di un concetto filosofico, ma di un’apertura priva di intenzionalità, «l’apertura dell’apertura, ciò che non si lascia rinchiudere in alcuna categoria o totalità, vale a

15 Cfr. F. Ciaramelli, in Phénoménologie et crise du sujet, «Revue philosophique de Louvain», 86, 1988, p. 397, scrive che: «Lévinas choisit comme point central de sa relecture de Descartes l’idée de l’infini».

16 Ibid. 17 Ibid.

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dire tutto ciò che, dell’esperienza, non si lascia più descrivere nella concettualità tradizionale e che fa resistenza anche ad ogni filosofema»19.

Secondo Derrida la dimensione del volto è un al di là che non va ricondotto neanche «all’autorità di tesi o di testi ebraici»20. Dev’essere inteso «con un ricorso all’esperienza stessa. All’esperienza stessa e a ciò che vi è di più irriducibile nell’esperienza: tramite e uscita verso l’altro»21.

In questo senso, l’evasione di Lévinas è uno «scavalcamento reciproco di due origini e di due parole storiche, l’ebraismo e l’ellenismo»22, un superamento che realizza anche, in modo misterioso, la «complicità dell’oggettività teoretica e della comunione mistica»23.

Si ritrova, ancora una volta, nel pensiero del nostro autore, la compresenza di elementi opposti. L’ossimoro è la figura tipica della mistica e della religione, non solo ebraica, ma soprattutto cristiana, di cui il nostro filosofo riprende molti aspetti. La “metafisica” del volto non può non richiamare alla mente il mistero dell’incarnazione, il «Dio-uomo», come realtà ossimorica per eccellenza che realizza l’infinito nel finito.

Lo stesso Lévinas amava citare il passo del Vangelo in cui Dio si rivela nell’alterità affamata, assetata, forestiera, nuda, ammalata, carcerata24. Egli ammetteva in

19 Ibid., p. 105. 20 Ibid. 21 Ibid. 22 Ibid. 23 Ibid., p. 110.

24 Cfr. Mt 25, 37-40. «Allora i giusti risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

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un’intervista: «Cito sempre, quando parlo ad un cristiano, Matteo 25: la relazione a Dio vi è presentata come relazione all’altro uomo»25.

Il nostro autore condivideva con Rosenzweig l’intento di condurre la filosofia all’atteggiamento teologico26; non si tratta di dare spazio alla scienza fenomenologica e razionale di Hering, né di soffermarsi su una mistica ermetica e incomunicabile: il «volto» dell’altro uomo non è una verità dottrinale, esso è accessibile a tutti come esperienza del sacro27.

L’evasione verso l’infinito è dunque la ricerca di una risposta che risiede nella filosofia, nella storia, nella religione, nella realtà, ma anche oltre.

Per spiegare l’intervento del concetto di infinito in Lévinas, non basta rifarsi alla potenzialità del pensiero di Cartesio, che, secondo l’interpretazione meta-storica di Dupuis, avrebbe relativizzato l’intenzionalità del cogito husserliano, tramite la nozione eccedente di Dio28. Non è esauriente parlare di un ordine «qui échappe à la structure du cogito cogitatum»29. Allo stesso modo, non si può giustificare l’esigenza di oltrepassare la storia riferendosi, in termini stretti, a un’escatologia di tipo messianico.

25 Cit. da G. Schillaci, «Relazione senza relazione», op. cit. p. 360-361. L’intervista è ripresa da L. Ghidini, Dialogo con Lévinas, Morcelliana, Brescia 1987, p. 102. A p. 103 Lévinas si legge: «Io penso l’Eucaristia sia questo, cioè Dio è presente nell’amore dell’altro».

26 Cfr. E. Lévinas, Fuori dal soggetto, op. cit., pp. 57-58. Scrive Lévinas : «L’essenziale del progetto – cosciente e lucido – di Rosenzweig, consiste appunto nel collegare la filosofia all’esperienza e all’atteggiamento teologici. E questo si avvicina alla tesi, divenuta, da allora, familiare a filosofi incontestabili, dell’importanza delle esperienze prefilosofiche per la filosofia». Il riferimento è a A. De Waelhens, La philosophie et les expériences naturelles e J. Hyppolite. «L’esperienza teologica non si identifica con l’esperienza mistica non comunicabile, né con il ricorso al “contenuto” della rivelazione, ma è l’esistenza oggettiva delle comunità religiose, la totalità dei significati articolati dal loro stesso essere, esistenza religiosa antica quanto la storia».

27 Cfr. Ibid.

28 Cfr. M. Dupuis, Le cogito ébloui ou la noèse sans noème, «Revue philosophique de Louvain», 94, 1996, p. 303. Secondo la rivisitazione del pensiero di Cartesio di Dupuis «Dieu signifie le non-contenable, ce qui dépasse toute “capacité”. Et qu’est-ce que cela signifie pour la philosophie d’aujourd’hui? C’est qu’avant la lettre, Descartes a relativisé la doctrine husserlienne de l’intentionnalité».

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Il bisogno di evasione passa attraverso l’inquietudine della prigionia. Il sentirsi “incatenati” al proprio essere è un sintomo ontologico rilevato da altri intellettuali dell’epoca, riconoscibile nella “nausea” sartriana e nell’angoscia heideggeriana. È come se tutti questi elementi fossero riuniti insieme e superati.

Chiedersi come mai il nostro autore chiami in causa l’infinito equivale a domandarsi, come ha fatto Jonas, «in che senso Auschwitz chiama in causa Dio»30. Si potrebbe citare La notte di Elie Wiesel per evocare il senso dell’interrogazione teologica davanti alla persecuzione dei più deboli. Nella scena dell’impiccagione dei tre prigionieri, tra cui un bambino, la domanda che ritorna con frequenza è: «Dov’è Dio?»31. La risposta: «Dov’è? Eccolo, è appeso lì a quella forca...»32. Anche Lévinas avrebbe condiviso questa ricerca del sacro nell’umanità sofferente.

Il quesito radicale che si cela dietro la filosofia del nostro autore e di tutti coloro che hanno vissuto la persecuzione nazista è lo stesso di Giobbe: Come è possibile che il male esista se Dio è onnipotente e buono? Il Creatore ha chiuso gli occhi di fronte allo sterminio?

Il concetto di Dio dopo Auschwitz è un saggio scritto nell’87, in cui Jonas riflette sul mistero dell’intervento divino nelle vicende umane, mettendo in discussione la concezione ebraica consolidata di un creatore “Signore della storia”.

L’unico modo per non lasciarsi tentare dalla soluzione desolante della morte di Dio e per accettare logicamente la coesistenza della sua bontà con il Male che accade «sotto il sole», è postulare la figura di un Deus absconditus, che si ritrae dopo aver

30

C. Angelino, Introduzione, in H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, il nuovo Melangolo, Genova 2004, p. 10.

31 Ibid. 32 Ibid.

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creato, che rinuncia alla sua potenza e alla sua assolutezza per lasciare spazio all’azione dell’uomo:

Rinunciando alla sua inviolabilità il fondamento eterno consentì al mondo di essere. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con essa tutto ciò che può ricevere dall’al di là. Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare33.

Lévinas condivide questo pensiero: Dio si è allontanato dalla creazione, lasciando solo delle tracce. Da quel momento la responsabilità del bene e del male è stata trasferita all’uomo. Nei quaderni scritti durante la prigionia, si trovano alcune annotazioni schematiche lasciate dal filosofo, in cui figura questo aspetto: «Le visible – c’est l’essentiel de l’idolâtrie», mentre il «Deus absonditus» ha la prerogativa di essere un «mystère – seul trait du judéo-christianisme qui le distingue de tous les monothéismes purement numérique»34.

Jonas, nel suo saggio, fa riferimento ad alcuni passi dell’Antico Testamento, dove l’immagine predominante della maestà divina sembra essere contraddetta: «Non incontriamo forse nella Bibbia ebraica un Dio che si sente ignorato e misconosciuto dall’uomo e che di ciò si rattrista? Non lo vediamo rammaricarsi per aver creato l’uomo, soffrendo per la delusione che l’uomo gli ha procurato?».35 Uno dei momenti descritti si trova in Genesi: «Il Signore vide che la malvagità dell’uomo nella terra era grande e che ogni creazione del pensiero dell’animo di lui era

33 Ibid., p. 39.

34 Carnets, p. 152. Per una presentazione di questi testi di Lévinas, recentemente editi, vedi sotto, III.3. 35 Ibid., p. 28.

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costantemente soltanto male. Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò nel cuore»36.

Sperimentare il silenzio di Dio, per il popolo eletto, è una grande prova, dover raccogliere le tracce di un senso smarrito, per poter continuare a credere, quando l’orrore della realtà sembra sopraffare qualunque rivelazione.

La riflessione di Lévinas realizza questo progetto: egli ha cercato una via di fuga dalla storia, che conservasse all’umanità una missione, un’investitura, e non lasciasse l’ultima parola al male. La sua filosofia prevede la possibilità per ogni uomo di sentire l’appello dell’umanità sofferente, come un dato originario che viene prima di ogni pensiero.

Egli crede che la verità dell’incontro umano superi la significazione del logos: «Non penso affatto che la relazione con l’altro sia un discorso, la prima parola è nel volto stesso, intendo cioè la parola di Dio, l’ordine: “Non ucciderai»37. Il comandamento “Non uccidere” è formulato in modo tale da poter anticipare ogni giudizio e da poter prevenire anche la colpa passiva: «Non lascerai l’altro solo di fronte alla morte»38.

La riflessione teologica nel periodo dello sterminio si è spesso concentrata sull’aspetto fragile di Dio. Lévinas ha lasciato, in un intervista, il segno di questo pensiero così scandaloso per la tradizione dogmatica:

36 Il passo di Gn 6, 5-7 è riportato nella nota 3 dell’opera di Jonas sopracitata, p. 28. La tr. it. è di A. S. Toaff in Bibbia ebraica. Pentateuco e Haftaroth, Torino 1979, p. 13.

37

L. Ghidini, Dialogo con Emmanuel Lévinas, op. cit., p. 28. A pag. 66 Lévinas spiega il senso del termine scelto: «Uso l’espressione “parola di Dio” per sottolineare quelle cose straordinarie, la cui significazione e la cui interpellazione provocano l’arresto in me del mio essere mentre è».

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Io cerco di pensare l’autorità di Dio senza la forza. Questa è l’etica, l’autentica autorità. Ma non è un’idea che si può predicare, solo i santi possono ammettere questo. Si dice, al contrario, che Dio è onnipotente, così lo si insegna al popolo, e da lì viene la sua autorità. Sono però cose molto intime che provengono da questo secolo: che cosa debbono pensare di Dio le vittime di Auschwitz? O dicono che non c’è niente, o debbono pensare sia un’idea così difficile da non poterla predicare né dire agli altri. In fondo l’etica è questo39.

Un’altra testimone ebrea, la giovane olandese Etty Hillesum, morta ad Auschwitz a soli ventisette anni, ha lasciato nel diario che scriveva prima di essere deportata, il segno di un’intuizione profonda:

Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. [...] Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi40.

Gli uomini ereditano dal Creatore la responsabilità delle loro opere. Quando il viso dell’Onnipotente si sottrae, emerge quello dell’uomo. Dio, in quanto bisognoso d’aiuto, è assimilabile all’uomo che soffre.

Il nostro autore ha custodito questa verità, riscoprendo nel volto altrui una speranza di cambiamento. Un’altra frase che spicca nei quaderni della prigionia è: «Dans l’exigence de l’espoir pour le présent il y a déjà Dieu»41.

39 Ibid., p. 104.

40 E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 2002, p. 162. 41 E. Lévinas, Carnets, p. 82.

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Dio è già presente nel desiderio di evadere dal male, nell’esigenza di andare avanti. «Solo Dio impedisce al mondo di Lévinas di essere il mondo della peggiore e più pura violenza», scrive Derrida, «il mondo dell’immoralità stessa»42.

Dopo la tragedia dell’Olocausto, Adorno scriveva: «Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche» è una prova che «che lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini»43. Il pensatore lituano, da parte sua, risponde alla domanda: «Si può ancora filosofare dopo Auschwitz?»44, affidandosi alla lungimiranza dell’insegnamento: «Bisogna insegnare, ricordando la memoria di coloro che - ebrei e non ebrei - seppero, senza neppure conoscersi né vedersi, comportarsi in pieno caos come se il mondo non si fosse disintegrato»45.

«Insegnare è un comandamento della Bibbia»46, e dunque un dovere imprescindibile. Lévinas è consapevole che essere presenti nell’epoca in cui si consumavano quelle stragi, significa essere chiamati a trasmettere un messaggio a tutti quelli che verranno: «consiste nel ritenere, nonostante il fallimento, nonostante la rottura, nonostante l’umanità, che l’umanità non è senza valori. Bisognava vivere

42 Derrida, La scrittura e la differenza, op. cit., p. 135.

43 T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975, p. 330-331.

44Il riferimento è sempre a T. W. Adorno, Ibid., che scriveva: «Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia [...] Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna».

45 L. Ghidini, Dialogo con Emmanuel Lévinas, op. cit., p. 40. 46 Ibid.

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negli anni ’40, ’41, ’42,’43», testimonia il filosofo, «per dire che aiutare l’altro è necessario, che tutto non è perduto, che tutto non è indegno»47.

«In un mondo in cui il volto fosse pienamente rispettato (come ciò che non fa parte del mondo)», asserisce Derrida, «non ci sarebbe più guerra»48.

Tuttavia, il volto è anche guerra, in quanto separazione, rottura del sé. La complessità di questa ambivalenza fa sì che la riflessione di Lévinas non possa essere sottoposta a semplificazioni: si può distinguere tra bene e male, ma non si può tracciare una rigida demarcazione tra essere e nulla.

Nel pensiero del filosofo lituano, come afferma Lissa, «La dialettica tra l’essere e il nulla [...] doveva cedere il posto ad una dialettica nuova, a quella che, attraverso il suo gioco, fa vedere quanto sia forte la carica di negatività che deriva dalla constatazione della insopprimibilità dell’essere»49.

L’essere è colpevole di non essere nient’altro che se stesso. L’autore arriva a questa conclusione dopo aver attraversato il pensiero di Heidegger ed esserne uscito. In un’intervista, Lévinas afferma che: «Un uomo che inizia a filosofare non può non aver attraversato la filosofia di Heidegger, sia pure per uscirne»50. L’evasione si compie, dunque, a più livelli, e la filosofia è chiamata a sostenere, con le sue argomentazioni, la volontà di andare oltre, di andare avanti dopo Auschwitz.

47 Ibid. 48

Derrida, La scrittura e la differenza, op. cit., p. 135.

49 G. Lissa, Critica dell’ontologia della guerra e fondazione metafisica della pace in E. Lévinas, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVI, I, 1987, p. 134.

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1.1. L’hitlerismo come filosofia dell’esistenza

Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo è apparso in «Esprit», rivista del cattolicesimo progressista d’avanguardia, nel 1934, come ricorda Lévinas, «pressappoco all’indomani dell’arrivo di Hitler al potere»51. La prefazione è in realtà una postfazione, infatti è stata aggiunta nel 1990, quando era ormai chiaro quali crimini fossero stati commessi dal nazismo contro l’umanità.

Il nostro autore scrive: «L’articolo procede dalla convinzione che l’origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialismo non sia in una qualche contingente anomalia della ragione umana, né in un qualche malinteso ideologico accidentale»52. L’hitlerismo non è, per Lévinas, una follia passeggera né una semplice illusione teorica.

Nel 1963 Hannah Arendt pubblica La banalità del male dove il processo ad Eichmann, ufficiale nazista, che aveva fatto carriera grazie alle deportazioni forzate organizzando il trasporto degli ebrei nei campi di concentramento, diviene l’emblema di un’inquietante indifferenza etica, molto diffusa nella Germania di quegli anni e potenzialmente insita in ogni uomo.

Eichmann non era consapevolmente malvagio, non nutriva un odio personale verso gli ebrei, eppure diventò il loro carnefice:

Non s’iscrisse al partito per convinzione, né acquistò mai una fede ideologica: ogni volta che gli si chiedevano le ragioni della sua adesione, ripeteva sempre gli stessi luoghi comuni sull’iniquità del trattato di Versaglia e sulla disoccupazione. Fu piuttosto - come egli stesso

51 QR, p. 21. 52 Ibid.

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ebbe a dire al processo – “inghiottito dal partito senza accorgersene e senza avere avuto il tempo di decidere; fu una cosa così rapida e improvvisa!”. Non ebbe il tempo e nemmeno il desiderio, d’informarsi bene; non conosceva il programma del partito, non aveva mai letto

Mein Kampf. Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle SS?”, e lui rispose: “Già,

perché no?”. Andò così53.

Lévinas inizia il suo articolo scrivendo: «La filosofia di Hitler è rudimentale»54. Come nell’analisi della Arendt, il nazismo appare un fenomeno contagioso nella sua banalità. Ma nonostante il carattere istintuale, scrive il filosofo lituano, l’hitlerismo è «filosoficamente interessante. Perché i sentimenti elementari racchiudono una filosofia; esprimono la prima attitudine di un animo di fronte all’insieme del reale e al suo destino»55.

Dopo la Shoa, Lévinas avrà qualche resistenza a mantenere intatto il titolo del suo scritto: «come mettere assieme la nobiltà della filosofia e l’ignobiltà del nazionalsocialismo?»56.

Secondo Abensour, il testo del ’34 si rivela profetico; «possiede uno statuto eccezionale che va ben al di là della denuncia» per fornire un’«interpretazione, dimostrando in actu che una forma superiore di denuncia esige il lavoro dell’interpretazione»57. La realtà del nazionalsocialismo è affrontata in modo indiretto, attraverso «riflessioni» che non hanno l’ardire di presentarsi come teorie globali, ma che invitano a comprendere il fenomeno e a prevedere le sue ricadute sul futuro.

53 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2002, p. 41. 54

QR, p. 23. 55 Ibid. 56 QR, p. 42.

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È stata più volte notata una mancanza troppo grande per non destare sospetto: Heidegger non è mai citato, né nominato nell’articolo, ma, leggendo tra le righe, la filosofia del professore tedesco che, nel 1933 aveva sposato la causa del nazionalsocialismo, diventando rettore dell’università di Friburgo, appare il vero bersaglio della critica lévinassiana. Nella prefazione del 1990 il nostro autore lo ammetterà apertamente: «La possibilità essenziale del Male elementale [...] s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura di essere»58, secondo l’espressione heideggeriana.

Lévinas sostiene che l’hitlerismo si oppone alla tradizione filosofico-politica dell’Occidente, nonché al pensiero giudaico-cristiano, che prevedevano la liberazione dello spirito dai legami sensibili e storici; il nuovo movimento, al contrario, verte sulla concezione biologica dell’uomo, si fa guidare dalla «voce misteriosa del sangue» e dagli «appelli dell’eredità e del passato, di cui il corpo è l’enigmatico portatore»59.

Il sentimento di identità nazionalsocialista è il risultato di una sintesi tragica tra l’io e il suo corpo: un materialismo definitivo, che non aspetta di essere superato, come in Marx, ma che si esprime in un incatenamento:

Tale sentimento d’identità tra l’io e il corpo [...] non permetterà dunque mai, a chi prendesse le mosse da esso, di ritrovare al fondo di questa unità la dualità di uno spirito libero che si dibatte contro il corpo a cui sarebbe stato incatenato. Per costoro, al contrario, è in questo incatenamento al corpo che consiste tutta l’essenza dello spirito60.

58 QR, p. 21. 59 QR, p. 31. 60 Ibid.

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Sappiamo che lo stesso Heidegger, nel discorso con cui assunse il rettorato, L’autoaffermazione dell’università tedesca, aveva fatto riferimento alle categorie del sangue e del suolo come realtà spirituali, anche se «il biologismo razzista propriamente detto gli rimase sempre estraneo»61.

La sua definizione di «mondo spirituale» si riduceva infine, a quello che Lévinas chiamava «primordiale»: «Il mondo spirituale di un popolo non è la sovrastruttura di una cultura», affermava il pensatore tedesco, nella sua ben nota orazione, ma è «la potenza della più profonda custodia della sua forza di terra e sangue, in quanto potenza della più intima vivacità e del più ampio sconvolgimento del suo Dasein»62. Secondo Fédier, il nazionalsocialismo di Heidegger non si avvale di argomentazioni “biologiche”: «l’aggettivo “tedesco”», spesso evocato dal filosofo di Essere e tempo, «ben più che a un determinismo naturale, rimanda a una determinazione nativa»; s’intende cioè: «la possibilità di tradizione, di ricevere un’eredità, di trasformarla in qualcosa di nuovo»63.

Anche dopo la Shoah, ed è uno degli elementi che più deludono Lévinas, Heidegger manterrà la pretesa di aver rinnovato la mentalità tedesca con i suoi insegnamenti: «Ho commesso molti errori nell’amministrazione dell’Università», confesserà, «sia riguardo ad aspetti tecnici, sia personali, ma non ho mai sacrificato al Partito lo spirito e l’essenza della scienza e dell’Università, al contrario, ho tentato di rinnovare l’Universitas»64. Il nazismo heideggeriano, scrive Sansonetti, «non si conclude con la parentesi del rettorato, avvenuta per altro molto presto, ma riguarda

61 Cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte e l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringheri, Torino 1991, p. 36.

62

M. Heidegger, Discorso di rettorato. La quadratura in se stessa dell’Università tedesca, in Scritti

politici (1933-1966), op. cit., p. 135.

63 F. Fédier, Venire a maggiore decenza, Ibid., p. 66. 64 M. Heidegger, Scritti politici (1933-66), op. cit, p. 234.

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il fatto ben più consistente che – come si diceva – il filosofo non sentì mai la necessità di prendere le distanze da esso»65.

Tra il silenzio delle vittime e dei superstiti, in un contesto in cui ognuno era chiamato a deporre il proprio orgoglio, Heidegger continuava a reclamare i propri meriti e ad aspettarsi riconoscenza:

Quando si sostiene fin troppo grossolanamente che, durante il mio anno di rettorato, molti studenti sarebbero stati “traviati” verso il “nazionalsocialismo”, allora giustizia vuole che ugualmente si riconosca questo: che tra il 1934 e il 1944, con i miei corsi, educai migliaia di uditori a meditare sui fondamenti e sui principi metafisici della nostra epoca, e aprii loro gli occhi e lo sguardo sul merito dello spirito e sulle sue grandi tradizioni nella storia dell’Occidente66.

I virtuosismi intellettuali del filosofo tedesco, impegnato a discolparsi di fronte alla tragedia umana dell’Olocausto appaiono miseri e fuori luogo; Heidegger voleva essere dispensato dalla responsabilità della sua scelta politica, rifugiandosi nella bontà del suo progetto filosofico. Diceva di non aver mai incitato nessuno alla lotta; egli parlava di guerra «nel senso di Eraclito»67 e quando faceva riferimento alla

65

G. Sansonetti, Lévinas e Heidegger, Morcelliana, Brescia 1998, p. 11. In EI, p. 63, Lévinas rifiuta di considerare Heidegger senza colpa e senza responsabilità per quello che è accaduto.

66 Scritti politici (1933-66), op. cit., p. 229.

67 M. Heidegger, Scritti politici (1933-1966), op. cit., p. 246. Heidegger, nel suo discorso di auto-difesa, rivela come il suo appello alla lotta sia stato in realtà un incompreso invito al reciproco ascolto, un «esporsi all’essenziale, riconoscendosi l’un l’altro». Il sofisma heideggeriano, condotto sul frammento 53 di Eraclito, è tristemente raffinato: «La dizione πόλεµος, con cui inizia il frammento,

non significa “guerra”, ma ha lo stesso senso della dizione ἔρις, utilizzata da Eraclito in senso analogo. Ma ἔρις significa Streit, “contesa”, “controversia”, “dibattimento”, ma non nel senso di alterco, della rissa o del dissidio; ancora meno nel senso della violenza e della soppressione dell’avversario; ma, all’opposto, nel senso dell’Aus-einander-setzung, cioé del porsi reciprocamente fuori nel dibattito dirimente».

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difesa, non chiamava il popolo alle armi in senso aggressivo, ma «unicamente in senso proprio: servizio di legittima difesa»68.

Quando il rettore dell’Università di Friburgo affermava in pubblico che il popolo tedesco doveva agire sul suo destino, ottenendo, «con una lotta sempre rinnovata, il proprio mondo spirituale»69, era difficile riuscire ad intendere che egli in realtà stesse parlando di uno scambio di idee democratico.

Heidegger lamentò che i suoi discorsi fossero stati fraintesi e disse di sentirsi incompreso sia dagli studenti, sia dal Partito70, ma in un contesto bellicoso come quello nazionalsocialista, chi ascoltava gli incitamenti retorici di Heidegger non aveva elementi per affermare che il suo messaggio fosse diverso da quello di Hitler, specialmente quando i discorsi agli studenti sul Dasein si concludevano in questo modo: «Ciò che lo studente fa si determina a partire da ciò che egli è. Ed egli è ciò che diviene quando si sa impegnato sotto l’autorità della nuova realtà tedesca»71, e ancora: «Il Fürer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà di domani e quindi la sua legge»72.

Lévinas, nel suo saggio, non parla della scelta politica del maestro, ma nel primato dell’esperienza del corpo che, a suo giudizio, caratterizza la filosofia dell’hitlerismo, si può riconoscere il concetto heideggeriano di Stimmung, la disposizione affettiva: Abensour sostiene che il nostro autore, facendo un’analisi attenta della Stimmung hitleriana, in realtà rivolgeva una critica contro il filosofo tedesco, «quasi l’autore intendesse chiarire ad Heidegger, con l’aiuto dei suoi stessi concetti, la natura del

68 Ibid., p. 154. 69 Ibid., p. 137.

70 Cfr. Ibid., p. 249. Heidegger si sentiva isolato in quegli anni; egli affermava: «Il discorso non venne inteso da coloro ai quali era rivolto», «il discorso, e con ciò la mia posizione, furono in effetti compresi ancor meno dal Partito e dalle istanze dirigenti».

71 Lo studente tedesco come lavoratore. Allocuzione pronunciata durante la cerimonia di

immatricolazione degli studenti, 25 novembre 1933, Ibid., p. 161.

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movimento cui aveva pubblicamente aderito nel maggio 1933 pronunciando il discorso del rettorato»73.

Agamben ritiene che il pregio dell’articolo lévinassiano consista nel riferimento alla filosofia contemporanea: «Ciò che rende la diagnosi di Lévinas propriamente incomparabile è il coraggio con cui egli riconosce all’opera, nella filosofia dell’hitlerismo le stesse categorie che sono o saranno in quegli anni al centro del suo cantiere filosofico»74.

Nell’hitlerismo il nostro autore riscontra il fenomeno dell’incatenamento: l’être rivé, un legame assoluto con il proprio essere-corpo, che influisce anche sul modo di intendere il tempo. «L’hitlerismo è abdicazione dalla libertà», afferma Abensour, «poiché esso accetta, o meglio, si fonda su una duplice tirannia, del tempo e del corpo»75.

Lévinas sottolinea la tragicità della dimensione del tempo, costretta ad obbedire alla legge e ai vincoli del passato. Egli parla di «condizione dell’irreparabile»:

Il tempo, condizione dell’esistenza umana, è soprattutto condizione dell’irreparabile. Il fatto compiuto, travolto da un presente che fu, sfugge per sempre alla presa dell’uomo, ma grava sul suo destino. Dietro alla malinconia per l’eterno fluire delle cose, per l’illusorio presente di Eraclito, c’è la tragedia dell’inamovibilità d’un passato incancellabile che condanna l’iniziativa a non essere che una continuazione. La vera libertà, il vero inizio, esigerebbero un vero presente che, sempre al culmine di un destino, ricominciasse eternamente76.

73 QR, p. 45. 74 G. Agamben, Introduzione, in QR, p. 7. 75 QR, p. 77. 76 QR, p. 24.

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Il richiamo sottointeso è ad Essere e tempo, l’opera che aveva segnato la formazione filosofica di Lévinas. Secondo il filosofo, una temporalità che si esprime solo in quanto «tempo dell’essere»77 è degradata, il presente vi si svolge come inevitabilmente deciso o compromesso dal passato; un «destino», altra parola heideggeriana, non visitato dalla prospettiva del futuro.

«L’hitlerismo munisce l’uomo di un insieme di servitù corporee, native, biologiche» che egli deve «prendere su di sé per conquistare la sua autenticità»78. In questo sfondo determinista, si intravede ancora la filosofia di Heidegger: L’Essere è prigioniero del suo corpo finito, del suo «Ci», dove l’Esser-ci è «l’ente che io stesso sempre sono. L’esser-sempre-mio» diventa la sola «condizione della possibilità dell’autenticità e dell’inautenticità»79.

Anche per l’autore di Essere e Tempo, l’«essere-presso-l’ente» nella dimensione della Cura, significava un «decadimento» nell’orizzonte del presente. Abensour fa notare che, fin dai primi saggi sul pensiero del maestro, Lévinas rimarca il dato della fatticità: «insiste sul carattere già imposto delle situazioni, persino delle possibilità, e sulla fatalità dell’essere-gettato, che egli traduce con il termine déréliction»80.

Il filosofo lituano scrive nel testo del ’32: «Esistendo, il Dasein è già sempre gettato in mezzo alle proprie possibilità e non posto di fronte ad esse. Le ha già sempre colte o mancate. Heidegger dà il nome di Geworfenheit al fatto di essere gettato e di dibattersi in mezzo alle proprie possibilità e di esservi abbandonato»81. Nello stesso scritto, Lévinas afferma che l’effettività «si realizza attraverso un Dasein

77 Il riferimento è a ET, § 5, p. 30. Heidegger concepiva il tempo come «orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere».

78

QR, p. 24. 79 ET, § 12, p. 73. 80 QR, p. 74. 81 EDE, p. 78.

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che esiste il suo Da, il suo qui, che è gettato nel mondo. Essere stati gettati nel mondo, abbandonati e consegnati a se stessi, è questa la descrizione ontologica del fatto»82. L’ontologia accoglie l’ingiustizia originaria e dirompente di un essere che non è padrone del suo sé, ma che deve accettarne il peso.

L’espressione «être rivé» che contraddistingue l’hitlerismo e che, letteralmente indica l’essere inchiodati o appiattiti su qualcosa, «il gesto di ribattere un chiodo per conficcarlo completamente nel legno»83, compare per la prima volta significativamente, proprio nel saggio giovanile dedicato ad Heidegger, Martin Heidegger et l’ontologie: «Mais la disposition affective dont la compréhension ne se détache point nous révèle un caractère fondamental de cette dernière. Elle nous révèle le fait que le Dasein est rivé84 à ses possibilités, que son "ici bas" s’impose à lui»85.

Rolland avverte una carenza significativa nell’interpretazione heideggeriana di Lévinas, un’omissione che non si nota nei primi studi, ma che è evidente nello scritto del ’34 e nei saggi successivi: il filosofo lituano sembra ignorare l’Entwurf, il progetto. Egli isola il concetto heideggeriano di Geworfenheit, come se non esistesse altro al di fuori dell’«essere-gettati», dimenticando, quindi, l’«essere-avanti-a-sé» e il «poter-essere»: considerando soltanto il «fatto, per il Dasein, di essere legato indissolubilmente alle sue possibilità»86.

Scrive Rolland: «Si potrebbe dire che la riflessione di Lévinas indugia sulla Geworfenheit in modo da scoprire e descrivere una situazione in cui l’esistenza non

82 Ibid. 83 QR, p. 8.

84 In corsivo nel testo di Lévinas. 85

E. Lévinas, Martin Heidegger et l’ontologie, op.cit., p. 28.

86 E. Lévinas, De l’évasion, in «Recherches Philosophiques», V, 1935-1936, tr. it. Dell’evasione, a cura di D. Ceccon e G. Francis, Elitropia, Reggio Emilia 1984; Edizioni Cronopio, Napoli 2008, p. 80; d’ora in poi E

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trova più in essa una propensione ad andare al di là della situazione imposta e in cui l’essere-gettato paralizza in qualche modo ogni possibilità di progettarsi»87. Il nostro filosofo ravvisa nell’«apertura» del pensiero del suo maestro, nell’intenzionalità che collega l’Essere al suo qui, una essenziale prigionia. «Si è molto parlato dell’aperto come categoria centrale del pensiero di Heidegger», commenta Agamben:

Dimenticando, però, troppo spesso che la specificità e la novità di questa apertura consistono precisamente nel suo essere innanzitutto apertura a una chiusura e attraverso una chiusura. L’Esserci è fin dall’inizio gettato senza scampo nel suo Ci, rimesso a una tonalità emotiva e a una situazione fattizia determinata che gli stanno davanti come un enigma impenetrabile, in modo tale che la sua apertura coincide in ogni punto col suo essere consegnato a una caduta.88

Nel saggio giovanile del ’32, Lévinas aveva previsto una via d’uscita dal carattere inesorabile dell’esistenza; la dimensione dell’essere poteva essere scavalcata attraverso la progettualità: «Mais si la compréhension des possibilités par le Dasein se caractérise comme sa déreliction, cette existence, précisement en tant que compréhension des possibilités, a en elle une propension allant au delà de la situation imposée».89

La propensione ad andare al di là del proprio Esser-ci già determinato e «de se jeter en avant vers ses propres possibilités»90 risiede proprio nel concetto di Entwurf,

87

J. Rolland, Uscire dall’essere per una nuova via, in E, p. 81. 88 QR, p. 11.

89 E. Lévinas, Martin Heidegger et l’ontologie, op. cit. p. 417. 90 Ibid., p. 418.

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definito dal nostro autore come «lo slancio verso ciò che non è ancora»91. Continua Lévinas: «Heidegger dà il nome di Entwurf a tale movimento, il progetto»92.

Ci si potrebbe chiedere come mai, dopo il saggio del ’34, la progettualità non figuri più tra i concetti heideggeriani evocati dal nostro autore. Perché Lévinas fa prevalere il dato della derelizione?

Il nostro filosofo leggeva prudentemente i segni del suo tempo. Dove altri vedevano l’inizio esaltante di una «missione storica», egli scorgeva la decadenza, sapeva che il mito della Germania come popolo «metafisico» e il razzismo non potevano realizzare alcun sogno di gloria. Aveva la ferma consapevolezza che non era tanto «questo o quel dogma della democrazia, del parlamentarismo, del regime dittatoriale o della politica religiosa ad essere messo in causa»93 dal nascente hitlerismo, ma «l’umanità stessa dell’uomo»94.

L’uomo del nazionalsocialismo, secondo Lévinas, sceglieva di diventare servo in modo volontario e incosciente, incatenandosi con le proprie mani a un destino di desolazione. Agamben ricorda l’aneddotto di Hannah Arendt, la quale paragonava Heidegger a una volpe, ingannata dalla sua stessa furbizia, che nell’intento di costruire un covo sicuro, «aveva scelto come tana una trappola»95.

Pare che il filosofo tedesco fosse rimasto particolarmente colpito dal racconto di Kafka, La tana96: un’inquietante metafora che illustra come lo spazio vitale,

91 EDE, p. 79. 92 Ibid. 93 QR, p. 35.

94 Ibid. Riguardo al pessimismo di Lévinas, si può dire che, per quanto il filosofo non abbia mai smesso di cercare una via d’uscita dal male della storia, il suo sguardo sulla realtà sia rimasto segnato dagli eventi negativi: nell’intervista di L. Ghidini, Dialogo con Emmanuel Lévinas, op. cit., p. 28, l’autore afferma: «L’apertura dell’essere non è già la venuta del Messia, al contrario, sono molto pessimista: l’essere pesa, si rafforza, torna nel suo essere. Il ventesimo secolo non ci offre una filosofia dell’essere ottimista: guardiamo la guerra, Auschwitz e tutto ciò che imita Auschwitz». 95 QR, p. 11.

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nazionale, soggettivo, filosofico, il cogito stesso, possa trasformarsi in una trappola mortale, dove è possibile soffocare nel cumulo delle proprie provviste e dove si finisce per diventare vittime di se stessi.

Anche Nolte formula un giudizio simile sulla figura di Heidegger nazionalsocialista, sottolineando il circolo vizioso della sua politica: egli sarebbe caduto nel tranello di Platone, nella velleità del re-filosofo; avrebbe avuto la «pretesa di fare da guida (fûhren) a chi faceva da guida (fûhrer)»97, senza accorgersi di essere diventato schiavo della sua adesione, la quale rimaneva comunque una scelta di allineamento.

Non si tratta di appiattire la filosofia del pensatore tedesco, paragonandola alla corrente politica del Terzo Reich, ma Losurdo mostra come, nel pensiero heideggeriano di quegli anni, risuonassero alcuni elementi propri della Kriegsideologie, dell’«ideologia della guerra»: i temi della comunità, della morte, del pericolo e del destino.

Nel corso delle lezioni di Heidegger del 1934-35, scrive Losurdo, «il tema della “comunità”, esplicitamente contrapposta alla “società”, non solo è presente ma viene anche collegato al tema della morte. “Il cameratismo dei soldati al fronte” trova il suo fondamento nel fatto che la “vicinanza della morte in quanto sacrificio collocava ognuno nella medesima nullità»98.

L’elogio del cameratismo99 rispondeva a una precisa logica di “inquadramento”: il rettore dell’Università di Friburgo esortava gli studenti a vincolarsi a tre tipi di

97 E. Nolte, Martin Heidegger tra politica e storia, Editori Laterza, Roma-Bari 1994, p. 146. 98 D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, op. cit., p. 36.

99

Cfr. M. Heidegger, Scritti politici (1933-1966), op.cit., p. 162. «Il cameratismo impronta il singolo esponendolo a ciò che è al di là di se stesso e lo plasma, con forza, all’impronta di un genere affatto singolare di giovani leve. Conosciamo la fermezza dei tratti dei loro volti, la tesa chiarezza del loro sguardo determinato, il modo deciso con cui stringono la mano, la schiettezza del loro parlare».

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servizio: quello del lavoro, quello della difesa e quello del sapere100. La parola «vincolo» richiama alla mente la condizione descritta da Lévinas: l’«être rivé». Il “sentirsi incatenati all’essere”, di cui parla il filosofo lituano, realizza uno stato di chiusura e di coazione; non è un’ipotesi remota riferire il senso di questo disagio al clima dei discorsi heideggeriani sull’«estrema quadratura della propria esistenza»101. «La volontà della quadratura di noi stessi nella nostra responsabilità», asseriva Heidegger, «non è solo una legge fondamentale dell’esistenza (Dasein) del nostro popolo, ma è anche l’avvenimento fondamentale della configurazione del suo stato socialista nazionale»102.

La servitù volontaria al disegno tedesco, così come la intendeva il filosofo tedesco, era equiparata alla «più alta libertà»103: si giungeva a negare il valore della autonomia personale e della libertà accademica:

La “libertà accademica” (che era stata tanto cantata) è espulsa dall’Università tedesca; infatti tale libertà non era genuina, perché era soltanto negativa. Essa significava prevalentemente indifferenza, arbitrarietà delle intenzioni e delle inclinazioni, mancanza di vincoli nel fare e nel disfare. Il concetto di libertà dello studente tedesco viene adesso riportato alla propria verità. A partire da questa si dispiegano i futuri vincoli e i connessi servizi degli studenti tedeschi104.

100 Ibid., p. 137. «Il primo vincolo è quello stretto con la comunità del popolo [...] assicurato e fatto attecchire, con buone radici, nel Dasein studentesco attraverso il servizio del lavoro»; «Il secondo vincolo è quello stretto con l’onore e con il destino della nazione in quanto popolo tra gli altri popoli [...]. Questo vincolo abbraccia e perpetua per l’avvenire l’intero Dasein studentesco in quanto servizio della difesa»; «Il terzo vincolo degli studenti è quello stretto con la missione spirituale del popolo tedesco».

101 Il riferimento è al discorso del rettorato, ma non solo: l’idea della «quadratura dell’esistenza» era ricorrente nelle orazioni politico-filosofiche di Heidegger.

102 M. Heidegger, Discorso pronunciato a Lipsia, sabato 11 novembre 1933, Ibid., p. 151. 103 Ibid., p. 136.

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Nei discorsi di Heidegger, emerge l’obbligo a collaborare all’idea di un destino storico, hegeliano, di cui il führer si fa portatore, rafforzando il sentimento comune del Volk: un Miteinandersein orchestrato e disposto dalle potenze della storia. Il filosofo tedesco condivideva con il nazionalsocialismo anche il disprezzo della sicurezza come valore dell’uomo mediocre, secondo il ben noto argomento di Nietzsche, e l’esaltazione del pericolo, considerato a fondamento della Kultur:

Come il tema della comunità viene fatto valere anche per l’università, così il tema del pericolo e del rifiuto della tranquilla banalità della vita del filisteo viene applicato anche all’interpretazione della figura dell’autentico filosofo, cui risulta decisamente estranea la «confortevole ricerca di comode risposte» e la «tranquilla confortevolezza di un’occupazione priva di pericoli, volta a promuovere un mero progresso di conoscenze»105.

Il mandato spirituale del popolo tedesco è quello di essere responsabile di un deutsche Dasein, di un Esserci radicato nel sangue e nella terra, che si espleta, secondo il filosofo tedesco, nel servizio alle armi e in quello del sapere.

Dopo gli eventi tragici della Shoah, Lévinas si accosterà al pensiero del maestro, con il ricordo sempre pressante dell’ombra nazista; in seguito all’esperienza della prigionia, della deportazione, e al martirio della sua famiglia d’origine, come afferma Bonan: «La fenomenologia husserliana e quella heideggeriana sono considerate niente di meno che una prigione dalla quale bisogna uscire, come se queste fossero responsabili, insieme a tutta la tradizione del pensiero occidentale, dei crimini orrendi che sono stati perpetrati in nome di una distorta concezione di uomo e di

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civiltà»106. Il filosofo teorizzerà il bisogno di abbandonare i modelli filosofici sopravvissuti alla guerra, tramite la formulazione del concetto di evasione. Nell’opera Autonomia, potere, minorità, Iacono sottolinea il legame stretto tra la categoria dell’uscita e l’epoché, come forme di emancipazione dal dominio di un’epoca:

Il punto di vista dell’Ausgang, dell’uscita, ci suggerisce che il mettersi alle spalle un mondo o un’età conta assai di più del mondo o dell’età che ci attende e che vorremmo o dovremmo raggiungere. Il mettersi alle spalle un mondo, l’uscire da questo mondo non significa di per sé l’entrare in un altro. Mettere l’accento sull’uscita è come porre in rilievo un’epoché, una sospensione, accompagnata da una sorta di smarrimento. Una decisione, l’uscita, apre un campo di possibilità e di scelte. A differenza di quel che sosteneva Hobbes, secondo il quale ogni decisione presa sancisce la fine della libertà che egli identifica con la potenzialità, l’uscita è una decisione che si apre alla libertà, alla potenzialità e alla possibilità107.

Il filosofo lituano vuole guadagnare una lettura del reale non più ideologica, ma che permetta di «juger l’histoire du dehors, à partir de l’extériorité, d’un point de vue qui est «au dessus de la mêlée»108. Il desiderio di trascendenza e di esteriorità, per Lévinas, è anche la possibilità di gettare sulle vicende contemporanee uno sguardo, che non sia astratto come quello husserliano, ma che sia in grado di scardinare i principi idealistici, totalitari, hegeliani, per ricostruire tutto a partire dalla responsabilità.

106 E. Bonan, Soggetto ed essere, op. cit., p. 74. 107

A. M. Iacono, Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura della meraviglia, del

guardare con altri occhi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 21.

108 J. De Greef, Étique, réflexion et histoire chez Lévinas, «Revue philosophique de Louvain», 67, 1969, p. 455.

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Andare al di là della sintesi, aprire un varco nel nodo dell’Analitica del Dasein, che aveva consegnato «la soggettività alla finitezza, la teoria della conoscenza all’ontologia, la verità all’essere», per allargare le prospettive umane e riparare le colpe di una filosofia, che non era stata capace di concentrarsi su nient’altro che il proprio orgoglio teoretico.

2. La genesi del concetto di evasione

Nell’articolo del ’34, come si è visto, Lévinas utilizza l’espressione être rivé, per descrivere la filosofia dell’hitlerismo e indica l’appartenenza al «suolo» e al «sangue» come emblema di una prigionia: lo stesso termine ritorna, un anno dopo, nel saggio De l’evasion, per denotare l’incatenamento all’essere.

Secondo Abensour, l’«analisi del dolore fa da ponte tra i due testi»109: lo scritto sull’evasione porta a «compimento la riflessione sull’hitlerismo»110.

«Dei rapporti stretti, reversibili» legano questi studi. Il fatto dell’«incatenamento non richiama forse l’elaborazione della categoria di evasione? E, al contrario, la categoria di uscita non illumina a sua volta il fenomeno dell’incatenamento?»111. L’identificazione con il corpo che, agli occhi di Lévinas, caratterizzava il nazionalsocialismo, ha rivelato che l’umanità non può sfuggire a se stessa: il corpo non è solo ciò che l’uomo ha, ma ciò che egli è. Il saggio sull’evasione elabora, in modo ancora enigmatico, questo bisogno di oltrepassare l’essere.

«La verità che c’è dell’essere – dell’essere che vale e che pesa» si manifesta «con una profondità che dà la misura della sua brutalità e della sua serietà»112. La

109 QR, p. 62. 110 Ibid., p. 58. 111 Ibid.

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sofferenza nasce dal fatto che l’essere non si possa interrompere: non è un ostacolo da superare, ma un’identità. «Così l’evasione è il bisogno di uscire da se stessi, cioè di spezzare l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto che l’io è se stesso»113.

De l’evasion è un’opera unica nel suo genere, perché mantiene un carattere emozionale e un’audacia, che saranno ridimensionate negli scritti successivi. Rolland si rende conto che si tratta di un testo «filosoficamente vivo»114, una riflessione che appare poco ponderata, ma che apre, proprio a motivo della sua vibrata spontaneità, uno «spazio di interrogazione»115 molto ampio.

Essa spiana «il cammino ad un pensiero unitario»116. Le contraddizioni che si riscontrano dal confronto con gli studi posteriori sono «giustificate “dal carattere inevitabilmente successivo di ogni ricerca»117.

Negli studi che seguono, non si parla più di evasione, ma il senso del termine rimarrà intatto nello spirito della filosofia di Lévinas: «ciò che si nasconde dietro questa metafora» è «l’esigenza di pensare al di là dell’essere, inteso in senso verbale, esigenza che non troverà una sua adeguata espressione filosofica, se non coniando il contro-concetto dell’altrimenti-che-essere»118.

Scrive ancora Rolland: «La parola essere incontrata in questo testo “giovanile” resterà immutata fino alle opere più mature»119, per significare il dramma dell’identità a cui l’uomo è consegnato e da cui non può liberarsi.

112 E, p. 14. 113 E, p. 17. 114 Ibid. 115 E, p. 72. 116 E, p. 73. 117 Ibid. 118 Ibid. 119 Ibid.

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Non è il senso del limite che opprime l’io, ma, al contrario, la presenza illimitata e ineluttabile del sé a se stesso, «la disperazione di una morte che non viene»120. Il bisogno di evasione, in questa logica invertita, non è un desiderio che nasce dalla mancanza, ma il rifiuto di una pienezza.

Si tratta di una disposizione affettiva, di un’esperienza pre-filosofica che non rinuncia, tuttavia, all’elaborazione intellettuale. La categoria dell’evasione si insinua nel saggio attraverso una riduzione fenomenologica.

Il nostro filosofo passa in rassegna tutti i significati che il linguaggio comune attribuisce al termine, eliminando, con un procedimento di spoliazione tipicamente husserliano, le accezioni inadeguate: l’evasione non è un tema letterario, non coincide con la ricerca dell’esotico, né con il desiderio borghese di infrangere le convenzioni, non è il tentativo di «trascendere i limiti dell’essere finito»121, né la volontà di trovare un rifugio. Non è neanche uno slancio creativo: «Nello slancio vitale andiamo verso l’ignoto», ma andiamo pur sempre da qualche parte, «mentre nell’evasione non aspiriamo se non a uscire»122.

«Questa categoria dell’uscita, non assimilabile né al rinnovamento né alla creazione», scrive Lévinas, dev’essere colta «in tutta la sua purezza»123.

Il saggio potrebbe apparire filosoficamente ingenuo, per la scelta di un soggetto oscuro e chimerico, più adatto all’orizzonte aporetico della poesia, che alla dissertazione scientifica. In ultima battuta, l’evasione rimane non realizzata e

120 E, p. 25. 121 Ibid. 122 E, p. 17. 123 Ibid.

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utopica. Come è possibile condannare l’essere a cui siamo condannati?, «Où fuir dans la révolte inutile et perverse?»124, scriveva Mallarmé.

Alla fine della sua analisi, il filosofo lascia intendere che una via per eludere l’essere esiste e che bisogna cercarla125, ma, a questo punto, la scrittura si interrompe. Qual è il nuovo sentiero da percorrere? Lévinas ha posto solo quesiti, rimandando il tempo delle risposte. Ha descritto il dramma che l’uomo deve affrontare e non il modo per sottrarsi all’onnipresenza dell’essere. Leggendo il testo, viene il dubbio che la soluzione si trovi già nell’enigma.

Oltre alle analisi assertive del fenomeno, riecheggia la domanda: «L’essere basta a se stesso?»126. Per uscire dal cortocircuito del Medesimo, occorre interrogarsi sulla sufficienza di noi a noi stessi.

«C’è una profonda verità nel mito dell’eternità che peserebbe agli dei immortali»127, scrive l’autore. L’impossibilità di morire all’io, di svincolarsi dall’essere sempre presente, sempre visibile, è sovvertita dal mistero del «morire per l’invisibile»128, prerogativa descritta in Totalità e infinito.

Il «rifiuto di abitare» l’essere in cui siamo incatenati da sempre129 ha il suo rovescio nel desiderio metafisico di “essere per l’altro” che, nelle opere mature, sarà tratteggiato con caratteristiche opposte a quelle ontologiche, come una via inedita, da cui si parte e non si torna uguali a se stessi.

124 E. Mallarmé, «L’azur», in Poesie, tr. it. di L. Frezza, testo francese a fronte, Feltrinelli, Milano 1966, p. 35-36. 125 Cfr. E, p. 46. 126 E, p. 41. 127 Ibid. 128 TI, p. 33. 129 E, p. 24.

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«Nell’evasione non aspiriamo se non a uscire»130, il «desiderio metafisico», invece, «non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese in cui non siamo mai nati. Di un paese straniero a ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai. Il desiderio metafisico non si fonda su nessuna parentela preliminare»131; proprio per questo opera una rottura con il fatto heideggeriano «che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere»132.

«Anche se i nomi di Husserl e di Heidegger non sono mai citati», afferma Salvarezza, «il riferimento al tema ontologico domina in ogni pagina di questo breve scritto»133. Il pensiero heideggeriano non è affrontato direttamente, ma il testo si presenta, nella sua interezza, come «la più radicale condanna della filosofia dell’essere»134.

Lévinas è consapevole del carattere provvisorio delle sue riflessioni, ma sa anche di aver trovato lo slancio per intraprendere una ricerca nuova all’interno di un percorso già segnato dall’opera dei suoi maestri.

«Il bisogno di evasione – pieno di speranze chimeriche o no, poco importa – ci conduce al cuore della filosofia», scrive l’autore: «permette di rinnovare l’antico problema dell’essere in quanto essere»135.

L’eredità raccolta è quella di Heidegger, che in Essere e tempo si era proposto di riesumare la secolare questione ontologica, caduta nell’oblio136. L’intervento di Lévinas, tuttavia, non è volto a salvaguardare la tradizione: egli vuole mettere in dubbio il primato dell’essere.

130 E, p. 17. 131 TI, p. 32. 132 ET, § 1, p. 15. 133

F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, op. cit., p. 30. 134 Ibid.

135 E, p. 18.

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