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Memoria / Creatività

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Academic year: 2021

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I

NTRODUZIONE

“ ... gli agghiaccianti dirupi e le pareti rocciose parlavano, testardi e rispettosi, dei tempi di cui sono figli e dei quali recano le stimmate.

parlano dei tempi in cui la terra si spaccò e si curvò, e dal suo corpo martoriato uscirono tra gli stenti tormentosi del parto vette e creste di monti.

...dicevano sempre le stesse cose, quelle rupi: ed era facile comprenderle, se si guardavano le loro ripide pareti, piegate strato su strato, incurvate, crepate, ognuna piena di ampie ferite.

“abbiamo sopportato cose raccapriccianti”, dicevano, “e le sopporteremo ancora”.

ma lo dicevano con orgoglio, con asprezza e con accanimento, come vecchi industrittibili guerrieri ... ” Peter Camensind, HermannHesse

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Madre architetto, padre ingegnere: fin da piccolo mi affascinava vedere cosa facevano e sapere cosa avevano fatto, la passione per gli studi, per l’arte e l’architettura, ma anche per il lavoro, per il “fare” e così ho sempre saputo cos’avrei voluto fare “da grande”; “le costruzioni” erano il mio gioco preferito e niente mi piaceva più di impilare i coloratissimi mattoncini di plastica.

Dalla mia iscrizione ad ingegneria sapevo anche di voler concludere il mio ciclo di studi avendo come argomento di tesi la Filanda di Forno. Lo sanno bene gli amici e i compagni di studio che fin dai primi anni mi hanno accompagnato.

Alla fine sono riuscito a dedicarle il mio tempo ma, mentre procedevo con il lavoro, raccoglievo materiale, la rilevavo, disegnavo e iniziavo a preoccuparmi della progettazione, lentamente affioravano immagini, ricordi e sensazioni

“perdute”, frammenti della mia infanzia che avevo in qualche modo “smarrito” e stavo ora recuperando.

Attraverso quegli spessi muri cadenti ho affrontato un viaggio indietro nel tempo; un viaggio in cui ho rischiato di perdermi, travolto da un rinnovato affetto per quei luoghi con cui lentamente stavo riallacciando un legame prezioso; non solo la Filanda, ma tutta la zona de “La Polla”, del Pizzo, e naturalmente di Forno.

Così, più che in biblioteche, archivi o altre raccolte di fonti “ufficiali”, ho finito per passare la maggior parte del tempo dedicato alla “ricerca” su album di famiglia, recuperati dallo scaffale in salotto, per indagare sulle tracce di un ricordo appena affiorato o di andarlo a inseguire tra quelli dei miei genitori, degli zii o dei nonni o ancora rivisitando i luoghi della mia “fanciullezza”.

Ho trascorso la mia prima infanzia a Forno, vivevamo proprio nel palazzo sopra il cotonificio, in quegli stessi appartamenti dove cinquanta anni prima stavano i tecnici dello stabilimento e le loro famiglie.

Percorrere in auto la stretta valle del Frigido per andare a Massa ogni volta era per me un viaggio.

D’altronde il mio mondo era tutto lì.

Il mio migliore amico abitava nell’appartamento di fronte al nostro, solo un pianerottolo e due porte ci tenevano lontano, e conoscevo tutti i bimbi del paese.

Ogni mattina ci accompagnavano a piedi all’ asilo, quando la mamma, quando la nonna, quando la zia; alla fine anche quello era un gioco, una comitiva di bambini scortati lungo la strada come un piccolo gregge.

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Bastava che mi affacciassi dalla finestra della mia camera o del salotto per vedere le pareti scheletriche del vecchio complesso industriale. Quante volte giocando nel pianerottolo qualche giocattolo “cadeva” dalla finestra “sfuggito al nostro controllo” per finire nei terreni del cotonificio.

Scorrazzare nel fiume facendo “a partigiani e tedeschi” (noi il più delle volte si giocava a quello, non “a indiani e cow-boys”) e finendo impantanati e bianchi per la marmettola che veniva giù insieme alle acque; o a soldatini sulla parete rocciosa ai piedi del palazzo; o ancora a nascondino fra le piane tutte intorno.

Vagare con la zia tra i resti del cotonificio, fin a salire sulla terrazza; andar a veder i carri di Carnevale in costruzione nel magazzino del convitto; e la sfilata con i costumi che mamma ci preparava.

Fare il bagno nelle pozze a “Le Guadine” sul vecchio e “dispettoso” Garelli dello zio oppure più in alto con tutta la famiglia in quelle del Canale Regollo, oltre la Val delle Rose.

Accompagnare la nonna fino al Pizzo Acuto per dar da mangiare a galline e conigli e girovagare poi tra i pomodori e i fagiolini; e aspettare sul terrazzo il nonno che torna dal bosco con la fascina di legna sulle spalle.

Andare ad aprire al babbo e al nonno andati a prendere l’albero di Natale, così alto da toccare il soffitto, e prepararlo tutti insieme.

Eppoi andar al Col dalle Scope, la vecchia, per non dire “antica”, dimora della mia famiglia dove sono cresciute mia mamma, mia nonna e generazioni di parenti di pastori e cavatori; un dimora che per anni ha rischiato di sparire, letteralmente mangiata da escavazioni selvagge, tanto da esser ora solo un’ombra di quella che era in passato.

Così è accaduto alla Filanda.

“Nelle fabbriche abbandonate spesso svuotate dei loro macchinari, ciò che prende il sopravvento è l'approssimazione edilizia, il muro scrostato dall'insinuarsi dell'erba che delimita i vuoti sconfinati, i quali ormai non hanno altro senso che quello del mistero dell'assenza: il vento rasoterra che muove sul pavimento d'asfalto qualche foglio di giornale, la presenza impropria del cielo attraverso i buchi nei lucernari e i resti intrasferibili: basamenti di macchine, cunicoli aperti, fosse, mensole di cemento armato robustissime che non sostengono più nulla. Il fascino della rovina è solo per metà traccia della memoria di ciò che vi avveniva; per l'altra metà è ritorno della costruzione allo stato di

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materia e niente di meglio dei materiali edilizi si presta a quel dissolvimento: non si producono rottami ma polvere, materie prime che ritornano alla terra”.

Ricordando così l'infanzia trascorsa nell'opificio tessile paterno, Vittorio Gregotti descrive il processo di scomparsa definitiva delle fabbriche abbandonate, di quelle “reliquie architettoniche evocative dei ritmi quotidiani di una comunità operosa”, dei suoni e dei colori di una “civiltà del lavoro”

scomparsa.

Ma gli spessi muri han resistito e, come avverte Eugenio Battisti, “le rovine, quando sono simboliche, non si sgombrano facilmente anzi rischiano di soffocarci. Da noi, in Europa, la loro subdola poesia, che ammalia, allontanando dai problemi reali che sono sempre quelli dello sviluppo e non solo della conservazione, è risorta in un’accezione quanto mai raffinata, come una idolatria…”…

...“Il fascino dell’architettura industriale è questo: non si tratta soltanto di ruderi vicini a noi (cento anni fa..), ma di un patrimonio vivente da collettivizzare. Ma perchè da casa dei padroni divenga casa del popolo non basta andar dal notaio e cambiare proprietà.

Inoltre, per quanto si tratti di storia recentissima, essa è terribilmente appiccicata alle mura di questi edifici e alla nostra pelle in quanto è fra esse che è nata la vera condizione umana moderna”.

La Filanda rappresenta un’opportunità.

Acquistata dal comune di Massa nel 1983 la Filanda è stata interessato da un gran numero di tentativi di intervento, che non sono riusciti a definire un intento programmatico.

Evidente è però l’intento pubblico e sociale che l’amministrazione ha sempre avuto. D’altronde nel territorio comunale non esiste uno spazio, sia fisico che politico, che permetta e offra la possibilità di fare attività alla cosiddetta “società civile”.

Il progetto presenta l’utilizzo di uno spazio che possa essere catalizzatore e trampolino di esperienze volte a creare uno spazio di confronto culturale e sociale per i cittadini, rivolgendosi in particolare ai giovani; un progetto che consideri socialità, cultura e attivismo sociale al di fuori delle logiche di mercato ma funzionali ai bisogni e ai diritti.

Un tale centro vuole pertanto colmare un vuoto culturale e relazionale, che

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sempre più si respira nella città di Massa, nella sua periferia e ancor più nei paesi della montagna; vuole diventare un punto di riferimento e di aggregazione per tutti i soggetti della cittadinanza che in esso si possono ritrovare.

In armonia con le destinazioni che l’amministrazione attribuisce alle altre parti del complesso (Museo Archeologico Industriale, Porta del Parco delle Apuane e Museo della Memoria nel “blocco anteriore”; ostello e sale conferenze nel

“convitto”), è risultata spontanea la proposta dell’inserimento nell’edificio principale di un centro culturale; quantità di spazio e impronta dell’eventuale intervento sull’aspetto pubblico, culturale e sociale hanno suggerito di indirizzarlo alla totalità delle arti: pittura, scultura, teatro, musica, cinema, ecc.

L’originale vocazione del complesso ha spinto inoltre a non limitare il progetto alla creazione di uno spazio in cui poter solo godere dell’opera altrui ma di trasformarlo in una vera e propria “Fabbrica di Cultura”, una serie di spazi in cui essa possa non solo essere fruita, ma anche e soprattutto “creata”.

Il processo di progettazione si è sviluppato in diverse fasi di studio che si sono susseguite temporalmente (Luogo, Informazione, Memoria/Creatività e Progetto) per poi giungere all’esito progettuale che si articola a vari livelli di definizione ( Progettazione Urbanistica, Architettonica e Strutturale di un elemento architettonico emergente).

Progetto

Parte 1: Aspetti urbanistici

Parte 2: Progettazione architettonica

Parte 3: Progettazione strutturale di un elemento “architettonicamente rilevante”

Memoria / Creatività

- il contesto antropico-ambientale - il paese di Forno: com’ era

com’ è

- La Filanda: com’ era

com’ è

Luogo

-Soluzione tipologiche

- Normativa sull’edilizia per lo spettacolo (D.M. 19.08.1996) - Arte “en plein air”

- Il riuso e l’esistente: archeologia industriale, edifici “simbolo”

- Aspetti formali

Informazione

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La fase di studio iniziale sul Luogo ha riguardato il complesso industriale e il paese di Forno: si sono esaminati da una parte i rapporti che intercorrevano tra Filanda, Forno, contesto ambientale e Massa e dall’altra lo stabilimento vero e proprio attraverso un’analisi del suo funzionamento e delle relazioni che ne legavano le varie parti.

E’ stata eseguita una ricerca informativa sugli aspetti tipologici, funzionali e formali e sui vari aspetti e problemi che il tema del recupero della Filanda ha portato alla luce.

Successivamente è iniziata la fase creativa in cui le informazioni accumulate sono state filtrate e selezionate in base a scelte progettuali.

Il Progetto si è concretizzato poi a più livelli.

L’ aspetto urbanistico ha riguardato da una parte il recupero e il ripristino di un legame tra la Filanda e il contesto in cui si inserisce ( la valle del Frigido, Forno e Massa) e dall’altra la definizione di un’ organigramma complessivo coerente con le destinazioni che l’amministrazione comunale prevede per il complesso e con l’organizzazione “originale” dello stabilimento.

In particolare la prima parte si è concretizzata in una proposta progettuale di un percorso didattico ambientale nel tratto di fiume tra Forno e la Filanda, e nel recupero a museo “en plein air” degli orti abbandonati del cotonificio.

L’analisi del “funzionamento” dell’edificio è stata riproposta in maniera più approfondita in fase di progettazione architettonica del centro culturale attraverso l’ulteriore definizione degli spazi funzionali e il recupero e la ricostruzione dei rapporti interni.

Anche l’approccio formale è stato indirizzato dall’analisi condotta sul complesso edilizio e per la quale sono stati definiti due problemi essenziali: il rapporto con le rovine architettoniche e la progettazione all’interno di una scatola, individuata dal “recinto” murario.

L’esito progettuale ha avuto risultati tali che il lavoro è proseguito attraverso lo studio di una scala esterna in acciaio come elemento strutturale architettonicamente emergente evidenziando così il legame biunivoco esistente tra scelte formali e scelte tecniche e tecnologiche.

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