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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 1

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 App. Potenza Sez. lavoro, 29-03-2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI POTENZA SEZIONE LAVORO

nelle persone dei mag.

dott. Pio Ferrone - Presidente -

dott.ssa Maura Stassano - Consigliere - dott.ssa Caterina Marotta - Consigliere rel. -

ha pronunziato all'udienza del 17.2.2011 la seguente SENTENZA

nel giudizio di appello iscritto al n. 307 del ruolo generale appelli lavoro dell'anno 2009 TRA

Ca.Fe., rappresentato e difeso dall'avv. An.Bo., giusta mandato a margine del ricorso in appello ed elettivamente domiciliato in Potenza presso lo studio dell'avv. R.Ro.;

Appellante E

Gestione Liquidatore della Azienda Sanitaria U.S.L. n. 1 di Venosa, in persona del Commissario Liquidatore, dott. Ed.Ia., rappresentata e difesa giusta mandato a margine della comparsa di costituzione nel giudizio di appello e delibere n. 134 del 22.7.2009 e 171 del 30.9.2009 dall'avv.

An.Sc. elettivamente domiciliata in Potenza presso lo studio dell'avv. Va.Bo.;

Appellata - Appellante Incidentale

OGGETTO: sanzione disciplinare conservativa - risarcimento del danno - Appello avverso la sentenza n. 344/2008 pronunziata in data 6.5.2008 dal Giudice del lavoro del Tribunale di Melfi.

Svolgimento del processo

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 Il Tribunale di Melfi, in composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, con sentenza pronunciata in data 6.5.2008, accoglieva parzialmente la domanda proposta da Ca.Fe. nei confronti della Azienda Sanitaria U.S.L. n. 1 di Venosa, con ricorso depositato in data 16.6.2006, avente ad oggetto l'impugnativa della sanzione disciplinare irrogata con provvedimento n. 7 del 23.12.2002 ed i conseguenti diritti alla ricostruzione della posizione economica e giuridica ed al risarcimento del danno, dichiarava la nullità della irrogata sanzione condannando l'Azienda convenuta alle somme a tale titolo trattenute, dichiarava il diritto del Ca. alla progressione economica approvata con determinazione n. 273 del 14.7.2003 a far data dal 1.1.2002, condannava la convenuta alla ricostruzione della posizione economica e giuridica del ricorrente ed al pagamento delle relative differenze retributive, maggiorate dei soli interessi legali, rigettava le ulteriori richieste risarcitorie; compensava per metà le spese di lite e poneva a carico della A.S.L. ed in favore del ricorrente la residua quota.

Avverso tale sentenza il Ca., con ricorso depositato in data 2.5.2009, proponeva appello, censurando la stessa per l'omesso riconoscimento della rivalutazione monetaria (evidenziando che questa spettava per legge, trattandosi di credito di lavoro), del danno alla professionalità (evidenziando che dello stesso vi era prova documentale), del danno morale (evidenziando che l'illecita sanzione irrogata aveva leso la sua integrità morale oltre che la sua reputazione, la sua immagine ed il suo decoro personale).

Chiedeva, pertanto, all'adita Corte di Appello di Potenza, Sezione del Lavoro, di voler accogliere le conclusioni, come specificate in epigrafe.

Fissate dal Presidente, ai sensi dell'art. 435 c.p.c., l'udienza collegiale di discussione con decreto del 6.5.2009, si costituiva la Gestione Liquidatoria della Asl n. 1 di Venosa con memoria depositata in data 22.10.2009 (per l'udienza del 5.11.2009), pure concludendo come in epigrafe. Formulava la Gestione Liquidatoria appello incidentale chiedendo la modifica della sentenza di primo grado nella parte in cui era stata ritenuta la sussistenza di un vizio procedurale inficiante la regolarità dell'irrogazione della sanzione.

All'odierna udienza, all'esito della discussione da parte dei procuratori delle parti, la Corte adita si pronunciava come da dispositivo, di cui veniva data pubblica lettura.

Motivi della decisione Questioni di ordine logico impongono il prioritario esame dell'appello incidentale proposto dalla

Gestione Liquidatoria della Azienda Sanitaria U.S.L. n. 1 di Venosa (costituitasi a seguito della notifica del ricorso in appello effettuata alla Azienda Sanitaria Usl n. 1 di Venosa).

Ritiene, al riguardo, la Corte (confermando il proprio orientamento di cui alla sentenza n.

1289/2009) che sussista il difetto di legittimazione attiva (a proporre appello incidentale) della Gestione Liquidatoria.

In base alla legge regionale di Basilicata n. 12/2008 (v. artt. 2 e 6) all'ente convenuto in

primo grado, soppresso alla data del 31.12.2008 (al pari di tutte le altre unità sanitarie locali della

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 pertinenza (v. infra), la Regione Basilicata, attraverso la gestione liquidatoria dell'ente, e, relativamente a tutti gli altri rapporti ad esso facenti capo, fra i quali rientra quello sub iudice, la Asp (Azienda Sanitaria locale di Potenza), sicché, vertendosi chiaramente in ipotesi di successione ex lege a titolo particolare nei rapporti di cui era titolare l'ente soppresso, la legittimazione ad impugnare spetta quivi, secondo i principi fissati dall'art. 111 c.p.c., (non alla Gestione Liquidatoria della ex Azienda Sanitaria Usl n. 1 di Venosa, ma) alla Asp, come successore nel rapporto controverso nel corso del giudizio di primo grado, iniziato con ricorso del 16.6.2006 e definito con l'impugnata decisione del 6.5.2008 (si vedano l'art. 2 co. 4 e 5 della L. n. 12/2008: "Il 31 dicembre 2008, con decreto del Presidente della Giunta Regionale, le Aziende UU.SS.LL, istituite con L. 24 dicembre 1994 n. 50, sono soppresse e alle stesse succedono dal 1 gennaio 2009 l'Azienda Sanitaria locale di Potenza e l'Azienda Sanitaria locale di Matera che subentrano, nei modi e nei termini specificati ai successivi artt. 5 e 6, nei procedimenti amministrativi in corso, nella titolarità delle strutture, nei rapporti di lavoro in essere ed in tutti i contratti e gli altri rapporti giuridici attivi e passivi esistenti alla data di entrata in funzione delle nuove Aziende e facenti capo alle Aziende preesistenti, salvo quanto previsto dal successivo art. 6, commi 3"(...) "L'Azienda Sanitaria di Matera succede all'Azienda Sanitaria USL n. 4 di Matera ed all'Azienda Sanitaria Usl n. 5 di Montalbano Jonico", l'art. 5 co. 1: "I Direttori Generali delle Aziende Sanitarie UU.SS.LL. restano in carica sino alla data di entrata in funzione dell'Azienda Sanitaria locale di Potenza e dell'Azienda Sanitaria locale di Matera. Dalla medesima data le Aziende Sanitarie UU.SS.LL. di cui alla L. n.

50/1994 sono poste in liquidazione", l'art. 6 co. 3: "I crediti e i debiti delle Aziende Sanitarie UU.SS.LL. preesistenti alla data di entrata in funzione delle nuove Aziende restano in capo alla Regione attraverso la gestione liquidatoria, secondo le modalità stabilite dal successivo comma 4.";

si vedano, altresì, sul punto, con riferimento all'analoga normativa statale ex artt. 6 legge n.

724/1994 e 2 legge n. 549/1995: Cass. 14.6.2002 n. 8586; Id. 13.4.2007 n. 8826).

Orbene nello specifico è la Asp che è subentrata nel rapporto di lavoro del Ca. e, dunque, in tutte le obbligazioni inerenti a questo.

Non è di ostacolo a tale conclusione la circostanza che il primo giudice abbia condannato (in data 6.5.2008, e dunque, prima della soppressione) la Asl alla restituzione in favore del ricorrente delle somme trattenute in applicazione dell'irrogata sanzione nonché al pagamento delle differenze retributive in conseguenza della disposta ricostruzione della posizione giuridica ed economica, perché tale pronuncia (che, a ben guardare, si sostanzia in una condanna non assistita dai requisiti di liquidità ed esigibilità richiesti dal comma 3 dell'art. 6 della L. n. 12/2008, non evincendosi dallo stesso titolo i criteri per una esatta quantificazione dei crediti) non consente di ritenere che dalla sentenza sia conseguito un debito ex se imputabile alla sfera della Gestione di Liquidazione. La successione della Regione Basilicata, per il tramite delle gestioni liquidatorie degli enti soppressi, nei rapporti obbligatoli facenti capo agli stessi ha riguardato, per testuale previsione normativa, solo

"i crediti e i debiti (dell'ente) ...preesistenti" alla soppressione (v. art. 6, co. 2, legge n. 12/2008 cit.), laddove, nella specie, si tratta di un debito (risarcitorio) che, pur derivando da un fatto (illegittima adozione di una sanzione disciplinare) antecedente alla soppressione dell'unità sanitaria locale convenuta in giudizio (Ausl n. 1 di Venosa), all'epoca di detta soppressione (verificatasi il 31.12.2008), non era ancora un debito definitivo, onde, alla stregua della disciplina regionale dianzi richiamata (che, come rileva dal comma 3 della disposizione citata, pone a carico della gestione liquidatoria il compito di curare l'estinzione dei rapporti di credito e debito relativi alle preesistenti

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 aziende che siano certi, liquidi, esigibili e, quindi, scaduti), deve gravare sulla ASP, con la già evidenziata conseguenza in ordine alla legittimazione ad impugnare.

Del resto, se la ratio della previsione delle così dette "gestioni stralcio", e poi delle "gestioni liquidatone" è stata quella di evitare che il soggetto di nuova costituzione (nello specifico la Asp) avesse a patire di una situazione debitoria consolidata facente capo all'azienda soppressa, tale esigenza di salvaguardia evidentemente non sussiste con riguardo a quelle posizioni non consolidate al momento del subentro e, dunque, ancora in divenire. Né, peraltro, risulta documentata dall'appellante incidentale una avvenuta ricognizione dei debiti della suddetta Unità Sanitaria Locale n. 1 di Venosa (per i quali, come detto la Gestione Liquidatoria, è legittimata ad agire) fosse inserita una apposita posta contabile alla categoria degli oneri latenti, cioè di passività il cui rapporto creditorio fosse in corso di definitivo accertamento.

Di conseguenza il gravame incidentale de quo va dichiarato inammissibile. Va, poi, ritenuto infondato l'appello principale.

Correttamente il primo giudice ha escluso la condanna dell'Azienda al pagamento, sul credito riconosciuto, anche della rivalutazione monetaria.

Per i crediti lavorativi dei pubblici dipendenti vige l'art. 22, co. 36, legge 23 dicembre 1994, n. 724.

Tale norma ha esteso il divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria di cui alla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, "agli emolumenti di natura retribuiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza". La Corte Costituzionale, con la sentenza n.

459/2000, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto art. 22, comma 36, della L. n. 724 del 1994, limitatamente alle parole "e privati". Chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della stessa norma (per quanto ormai applicabile soltanto ai lavoratori pubblici) la Corte Costituzionale ha dichiarato l'infondatezza della questione sollevata, rilevando che la dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di cumulo di interessi e rivalutazione, relativamente al rapporto di lavoro privato, era fondata sulla constatazione che la norma impugnata poteva incentivare l'inadempimento del datore di lavoro, consentendogli di lucrare (con investimenti finanziari, pur privi di rischio) l'eventuale differenziale tra il rendimento dell'investimento ed il tasso di svalutazione; tale ratio decidendi non poteva però essere automaticamente estesa al datore di lavoro pubblico, poiché la pubblica amministrazione conserva pur sempre, anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato, una connotazione peculiare, sotto il profilo, in particolare, della conformazione della condotta cui essa è tenuta durante lo svolgimento del rapporto al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, cui è estranea ogni logica speculativa (così Corte Cost. sent. n. 82/2003). Quanto ai motivi di appello attinenti alla esclusione di alcune voci di danno, gli stessi sono infondati.

Si rileva che in sede di ricorso introduttivo aveva prospettato, quali conseguenze dell'ingiusto provvedimento disciplinare:

1) la perdita della progressione economica ed il conseguente danno patrimoniale;

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 2) la lesione dell'integrità psico-fisica, al decoro personale, all'immagine, alla personalità, alla vita relazione (danno biologico, morale ed esistenziale),

3) il pregiudizio professionale (danno da dequalificazione per illegittima sottrazione di competenze, perdita di chance ed impoverimento del bagaglio professionale). Delle indicate voci di danno il primo giudice ha riconosciuto solo la prima. Ha escluso la sussistenza di un danno biologico, ritenendo che non vi fosse alcun nesso causale tra le patologie documentate dai certificati medici prodotti e la sanzione irrogata (e la decisione, sul punto, non ha formato oggetto di specifica censura). Ha, inoltre escluso, per difetto di allegazione e prova il danno esistenziale, inteso come pregiudizio sul fare areddituale del soggetto nel senso di lesione di un precedente "sistema di vita".

Ha, ancora, escluso, sempre per difetto di allegazione e prova, il danno da dequalificazione.

Di tale ultima esclusione si duole l'appellante, così come, nella sostanza, dell'omessa considerazione, da parte del primo giudice, del danno esistenziale. E' pur vero, infatti, che il motivo di appello è incentrato sul mancato riconoscimento del danno morale (che, in quanto tenuto distinto, in sede di ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, dal danno esistenziale andrebbe evidentemente circoscritto alla sfera interiore del sentire), tuttavia la circostanza che, come sostiene il Ca., lo stesso deriverebbe ex se dalla mera adozione di una sanzione disciplinare illecita e dal fatto che la stessa, inserita in un atto pubblico avente rilievo e diffusione nell'ambiente di lavoro, avrebbe avuto riflessi sulla sua reputazione, sulla sua immagine e decoro professionale, fa comunque pensare ad un danno non circoscritto alla sfera interiore del sentire ma destinato alla obiettiva esternalizzazione (come, cioè, un danno morale "oggettivo" corrispondente, in concreto, a quello esistenziale e diverso dal danno morale "soggettivo).

Quanto al danno alla professionalità sostiene che la prova della privazione per il periodo di un anno e sette mesi (a far data dall'8.4.2001) e dell'assegnazione a mansioni semplici e ripetitive risulterebbe per tabulas.

La questione che ci occupa deve essere, invero, risolta alla stregua dei principi generali in materia di risarcimento del danno, non rivelandosi accettabile ogni eventuale assunto basato su una c.d.

"presunzione assoluta di danno".

Al riguardo, è opportuno ricordare che la Suprema Corte di Cassazione, pronunciandosi sul contrasto di giurisprudenza rilevato in materia di danno esistenziale (v. ord. Cass. n. 4712 del 25.2.2008), con particolare riferimento agli oneri probatori e di allegazione posti a carico del danneggiato, ha affermato, in sintesi, quanto segue:

1) il danno patrimoniale è risarcibile ex art. 2043 c.c., quello non patrimoniale secondo il disposto degli artt. 2043 e, 2059 dello stesso codice; 2) la categoria del danno patrimoniale si articola nelle due sottovoci del lucro cessante e del danno emergente; 3) la categoria del danno non patrimoniale si articola, a sua volta, in un sottosistema composto dal danno biologico in senso stretto, dal danno esistenziale e dal danno morale soggettivo; 4) il danno biologico ed il danno esistenziale hanno morfologia omogenea (entrambi integrano una lesione di fattispecie costituzionali, quella alla salute il primo, quelle costituite da "valori/interessi costituzionalmente protetti" il secondo) ma funzioni diversificate (anche per volontà del legislatore ordinario), con conseguenti differenze sul piano dei

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 parametri valutativi delle poste risarcitorie; 5) in particolare, il danno esistenziale attiene alla sfera del fare areddituale del soggetto, e si sostanzia nella lesione di un precedente "sistema di vita", durevolmente e seriamente modificato, nella sua essenza, in conseguenza dell'illecito; 6) il danno morale soggettivo si caratterizza, invece, per una diversa ontogenesi, restando circoscritto nella sfera interiore del sentire, mai destinato all'obiettiva esteriorizzazione; 7) tanto il danno esistenziale, quanto il danno morale soggettivo sono incondizionatamente risarcibili entro i limiti della riserva di legge di cui all'art. 2059 c.c.; 8) tanto il danno esistenziale, quanto il danno morale soggettivo sono risarcibili anche oltre quei limiti se (e solo se) il comportamento del danneggiale abbia inciso su valori/interessi costituzionalmente tutelati (e il superamento del limite della riserva di legge vale tanto per l'una quanto per l'altra categoria di danno, come si legge nella sentenza n. 8828/2003 della Suprema Corte); 9) tanto il danno esistenziale, quanto il danno morale soggettivo sono risarcibili se (e solo se) di entrambi il soggetto danneggiato fornisca la dimostrazione (anche mediante allegazioni e presunzioni), non esistendo, nel nostro sistema civilistico, danni in re ipsa.

Successivamente, le Sezioni Unite della Corte, nel rispondere ai quesiti ad esse sottoposti dalla Terza Sezione Civile con la citata ordinanza n. 4712 del 25.2.2008, con quattro sentenze depositate l'il novembre 2008 (Sezioni Unite Civili n. 26972, 26973, 26974 e 26975, Pres. Carbone, Rel.

Preden), hanno "codificato" il danno non patrimoniale risarcibile, escludendo, tra l'altro, la configurabilità del danno esistenziale come sottocategoria comprensiva di ogni pregiudizio alla qualità della vita e ribadendo che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate.

Pur, dunque, dovendosi configurare il danno morale "soggettivo" e, per quanto di interesse nel presente giudizio, il danno esistenziale (id est il danno morale "oggettivo") come sottocategoria del danno non patrimoniale risarcibile, il riconoscimento del diritto del lavoratore al relativo risarcimento, in ragione del comportamento della P.A., non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.

Di quest'ultimo, poi, deve essere fornita la prova, sia pur con il richiamo a presunzioni che, però, devono assurgere, ex art. 2929 c.c. - in quanto gravi, precise e concordanti anch'esse a fonti di prova.

Se è pur vero che le condotte datoriale di cui si denuncia l'illegittimità possono determinare un vulnus ad interessi che, per essere oggetto di copertura costituzionale, devono essere risarciti (il lavoro assume rilevo a livello della Carta Costituzionale e di ciò è connotata l'intera disciplina che lo regola) tuttavia è necessario che il pregiudizio sia effettivo e che dello stesso sia fornita la prova (cfr. Cass. n. 10864/2009, Cass. 20980/2009).

Nella specie, invece, non si rinvengono, nell'atto introduttivo del giudizio, puntuali deduzioni in merito a tale danno rilevandosi al punto B) del ricorso di primo grado una mera asserzione ("oltre al danno morale") priva di ogni riferimento a circostanze fattuali da cui desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio.

Del pari generica è la evidenziata sussistenza di un danno da dequalificazione professionale in ragione della illegittima sottrazione di competenze e dell'impoverimento del bagaglio professionale.

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 Come è noto il demansionamento si concretizza nella privazione in tutto o in parte delle mansioni cui il lavoratore ha diritto: si configura non soltanto quando un lavoratore viene adibito a una mansione inferiore, ma anche quando è sottoposto a un periodo di inattività prolungato ed ingiustificato (demansionamento omissivo). Anche il demansionamento può essere un fenomeno generatore di danno nella sfera del lavoratore. Si può trattare di un danno patrimoniale, consistente, oltre che nell'eventuale riduzione della retribuzione, nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità ed eventuale perdita di chances (Cass. Sez. Un., n. 6572/2006 cit.), sia eventualmente di danno non patrimoniale. Come tutti i pregiudizi di carattere non patrimoniale, anche in questo caso assume rilievo tipico la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, con incidenza sulla vita professionale e la prova del danno subito può essere fornita in giudizio con qualsiasi mezzo. Tuttavia, il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno derivante dal demansionamento non può prescindere da una precisa allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio subito. Ai fini della dimostrazione della sussistenza del danno non patrimoniale può, invero, assumere rilievo la prova presuntiva: "per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove" Cass. n. 21223/2009, e, in senso conforme Cass. n. 15405/2009, Cass. n.

29832/2008, Cass. n. 28274/2008; Cass. n. 2729/2008, Cass. n. 2621/2008. In termini, recentemente, Cass. n. 2652/2009: "in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto" nonché Cass. n. 19785/2010 che - peraltro recuperando una nozione di danno esistenziale quale autonoma categoria di danno - ha comunque ribadito il principio di diritto secondo il quale "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo".

Inoltre "mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione all'integrità psico - fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed inferiore, ma aggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011 soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico giuridico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignota, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove". Ne discende che "il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone infatti quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo, rientrante sulla suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cuiall'art.

2097 c.c.".

Orbene, nel caso in esame, contrariamente all'assunto dell'appellante nessuna prova (neppure di tipo presuntivo) del dedotto demansionamento è dato evincere dalla documentazione in atti da cui, anzi, si rileva che il Ca., pur a seguito dell'assegnazione all'U.O. Personale, ha continuato ad espletare le stesse mansioni della propria posizione funzionale precedentemente svolte presso il Centro di Controllo direzionale (dalle note in atti si evince, inoltre, che le lamentele del Ca. riguardavano più che altro la delimitazione delle competenze tra le strutture ed il fatto che le direttive gli erano impartite verbalmente).

Peraltro, il ricorrente non aveva articolato alcun mezzo di prova al fine di un compiuto raffronto tra le mansioni svolte prima e dopo l'assegnazione all'U.O. Personale, né, invero, dedotto quali fossero stati i compiti allo stesso sottratti ed in cosa fossero effettivamente consistite le mansioni di nuova assegnazione. Né elementi per il suddetto raffronto possono trarsi dalla nota prot. 29521 del 24.10.2002, a firma del Direttore Sanitario da cui si evince l'affidamento di attività istruttorie di tipo amministrativo nonché di attività di controllo compatibili con la categoria di inquadramento del Ca.

(e cioè la categoria "C").

Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza di primo grado deve essere tenuta ferma.

L'esito dell'appello principale e di quello incidentale costituiscono motivo per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Potenza, Sezione Lavoro, definitivamente pronunziando sull'appello proposto da Ca.Fe. con atto depositato in data 2.5.2009 nei confronti di Gestione Liquidatore dell'Azienda Sanitaria U.S.L. n. 1 di Venosa e sull'appello incidentale proposto dalla Gestione Liquidatore Dell'azienda Sanitaria U.S.L. n. 1 di Venosa avverso la sentenza del Tribunale di Melfi n. 344/2008 pronunziata in data 6.5.2008, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa così provvede:

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S.I.Ve.M.P Corte d’Appello Potenza Sentenza 29/03/2011

2) dichiara l'inammissibilità dell'appello incidentale;

3) compensa tra le parti le spese processuali del presente grado di giudizio.

Così deciso in Potenza, il 17 febbraio 2011.

Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2011.

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