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“LA PROBATIO DIABOLICA” Prof. Giuseppe Martini, Dr. L. Ottaviano

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Academic year: 2022

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“LA PROBATIO DIABOLICA”

Prof. Giuseppe Martini, Dr. L. Ottaviano*

Il rapporto che intercorre fra i malati e la Medicina è reso ogni giorno più complesso e più difficilmente interpretabile.

L’area delle possibilità terapeutiche si è notevolmente dilatata, la fascia di utenza ha raggiunto età intrinsecamente menomative, le indicazioni chirurgiche sono aumentate in rapporto a nuove possibilità tecniche.

In parallelo sono aumentate le aspettative ed, indubbiamente, le delusioni quando si manifesti un difetto di risultato.

Questo d’altronde, può discendere da cause diverse: la gravità della malattia, i concorsi morbosi, la complessità, e quindi la difficoltà di gestione delle organizzazioni sanitarie, la variabilità di fattori patogeni mutanti anche per effetto degli spostamenti etnici, e la crescente difficoltà per i medici di acquisire esperienze dirette e consolidate in metodologie tecniche appena espresse dalla fase di sperimentabilità.

La discriminazione causale dei fattori espressi, compita per cercare una ragione, e quindi la responsabilità, di un insuccesso, porta il malato ad affrontare una “probatio

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diabolica” che lo porta spesso ad attribuire al più diretto ed evidente elemento fra i molti che in realtà sono provvisti di “capacità” causale: il sanitario curante.

Non si vuole affermare con tale identificazione un’aprioristica precostituzione di critica e di rivendicazione da parte del malato.

Pretestuosità e delusione sono criteri molto differenti, ma è frequente che si integrino in una ricerca di compensazione forse più psicologica che patrimoniale.

Il dubbio, la scarsa informazione e pareri meramente concorrenziali di altri sanitari, non sempre in buona fede, rappresentano la diabolicità di una ricerca di prove in grado di mettere a fuoco una colpa e di un risarcimento che il malato richiede quale compenso per un risultato che può essere anche soddisfacente sul piano clinico e scientifico, ma è ritenuto anche deludente a fronte di inattendibili aspettative imprudentemente alimentate.

L’improbabilità di identificare attività specialistiche e relativi elementi di rischio specifico, rende veramente “diabolica” per il malato l’identificazione di chi ritenere responsabile del danno terapeutico.

Obiettivo diretto sarà allora il medico con il quale abbia avuto un rapporto diretto, e contrattuale, non essendo in grado il malato di immaginare la complessità e la corresponsabilità di un trattamento svolto in equipe.

La genericità delle sue accuse è spesso fonte di riferimenti non esatti nei tempi e nei modi con i quali sia stata effettuata l’attività terapeutica.

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Ciò rappresenta un lavoro di analisi quasi sempre molto difficile per chi successivamente, in sede penale e civile, sarà incaricato di una ricostruzione corretta e fedele agli eventi.

Il nuovo Codice di Procedura Penale, dal 1988, ha trasformato in accusatorio il precedente carattere inquisitorio del procedimento penale.

Nella fase istruttoria, il bilanciamento probatorio nell’uno e nell’altro senso esercitato dalla parti a sostegno delle proprie tesi può non essere improntato ad una reale equità che è forse più efficacemente rappresentata nella successiva fase dibattimentale.

La costruzione del “libero convincimento” dell’accusa e dei giudici che successivamente intervengono, è fondata su elementi di prova che l’art. 192 c.p.p.

richiede gravi, precisi e concordanti.

Tali attribuzioni appaiono peraltro generiche, e talora fuorvianti, nella loro possibilità di applicazione perché il più delle volte sono conseguenza di un’interpretazione non sempre puntuale, piuttosto che di una constatazione effettuata con rigore metodologico.

La notevole difficoltà nel ricercare ad ogni costo un chiaro elemento di prova in un ambito variabile e non del tutto convincente come quello biologico può portare ad un pragmatico atteggiamento accusatorio destinato a far arenare sulle secche della pretestuosità la ricerca di una colpa che viene a sostituirsi al più prudente criterio di difetto di risultato a causalità prossima.

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E, nel processo penale, l’aprioristica spinta all’identificazione di un colpevole non può portare che alla figura del medico perché i primo piano e perché inquietante nelle sue prerogative culturali e decisionali.

La gravità, la precisione e la concordanza degli indizi vengono postulate quando l’evoluzione del fatto morboso ne ha già chiaramente dimostrato natura, sede ed entità rendendo logica una sequenza che, precedentemente al manifestarsi del danno, era solo biologica e, come tale, notevolmente incerta ed imprevedibile.

Il giudizio fattuale e la sua verifica controfattuale hanno il loro limite proprio nel

“passato”, del participio del verbo “fare”.

Il medico si è invero trovato di fronte ad divenire biologico ed alle sue incognite future da affrontare con una conoscenza logica ed analogica.

E’ lo stesso percorso che dovrebbe compiere il consulente tecnico dell’accusa o del Giudice, procedendo in progressione e non in regressione cronologica.

Una corretta ricostruzione di eventi accorsi anche anni prima rappresenta una

“probatio diabolica” tanto per l’accusatore per l’accusato, ove siano posti nello stesso piano di incertezze iniziali.

Se certamente un’imprudenza può essere imputata al medico, questa riguarda la stesura della documentazione clinica in quanto coeva e diretta testimonianza di fatti che potrebbero essere sottoposti ad un severo esame successivo.

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Le possibili esimenti descritte dall’art. 2236 c.c. non possono essere ricordate, ma verificate in una descrizione di intervento o di prassi terapeutica probatoriamente attendibili purchè redatte in assenza di contenzioso risarcitorio, ed “ab initio”.

E sempre “ab initio” deve anche essere intesa la prerogativa del Magistrato di avere statura culturale di “peritus peritorum”.

Questa espressione dovrebbe indicare che la perizia della quale è tenuto a dar prova nella sua attività giuridica non deve essere solo quella di attribuirsi una perizia che difficilmente può essere ritenuta esaustiva nel valutare fatti biologici o tecnici.

In un’accezione che riteniamo più aderente allo spirito delle leggi, il magistrato deve essere perito anche nel valutare il grado di esperienza e quindi di perizia, dei consulenti che nomina.

E questa rilevante difficoltà di scelta rappresenta, anche per il Giudice una “probatio diabolica”.

In sede civile l’onere di prova è univoco, in direzione malato-medico, nella responsabilità extracontrattuale od aquiliana che si realizza in assenza di un preventivo accordo a finalità terapeutiche.

Il riscontro di un danno ingiusto, secondo l’art. 2043 c.c. o ritenuto tale, porta il danneggiato a fornire la prova del danno, il rapporto causale con l’attività medica e la condotta colposa che può averla caratterizzata.

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E’ chiaro che il problema, difficile ma non certo diabolico, è quello di discriminare i limiti del danno patologico da quello ritenuto iatrogeno.

La vera difficoltà è rappresentata nell’individuare in un’equipe medico-chirurgica che operi in un ambiente ospedaliero una figura che, pur avendo un rapporto con la sede di cure, non lo abbia direttamente con il paziente realizzando la extracontrattualità del rapporto.

Il malato d’altronde, accettando il rapporto contrattuale con la struttura, deve implicitamente riconoscere in tutto i sanitari che in essa operino il reale interlocutore, inteso come altra parte del contratto.

Nella responsabilità contrattuale, molto più frequente, è preliminarmente da riconoscere l’obbligazione di mezzi e non di risultato regolata dagli artt. 2222 e 2229 c.c.

La difficoltà probatoria, che solo in alcuni casi può essere definita “diabolica”, è rappresentata dalla ripartizione dell’onere accusatorio nei confronti di quello difensivo.

A norma dell’art. 2697 c.c., nel primo comma si stabilisce l’obbligo per la parte attrice di dimostrare la sussistenza di un danno derivato casualmente da un’attività medica.

Questa presunzione comporta l’inversione dell’onere di prova che, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, fa carico al convenuto di dimostrare che l’evento lesivo non deriva dal suo comportamento, dimostrandone la correttezza od invocando la

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Come già detto, può risultare diabolico per il medico fornire la prova di quanto effettuato a distanza di anni ove si consideri la frequente carenza documentale, particolarmente in presenza di interventi plurimi e di disparati ambiti di responsabilità.

A questo proposito, non si ritiene esaustiva ad indicare responsabilità plurime la sentenza n. 6220/1988 della Suprema Corte che individua piuttosto genericamente

“interventi di facile ed interventi di difficile esecuzione”.

Ma ciò che può essere ritenuto facile per un operatore, dotato di notevole cultura ed esperienza, può non esserlo per un altro.

Ed allora, un ulteriore livello di difficoltà è rappresentato dalla valutazione di capacità professionale del convenuto o della adeguatezza delle strutture assistenziali delle quali possa disporre.

Forse si può considerare il divario che si presenta fra una procedura terapeutica normale, ed una che manifesti anomalie non previste perché non prevedibili.

Se una conclusione può essere espressa a queste considerazioni, l’unica esorcizzazione della “probatio diabolica” può essere prodotta dalla perizia, dalla prudenza e dalla diligenza con le quali le parti in causa affronteranno il problema per esporre alla Magistratura una serie di prove che potranno anche essere divergenti, ma che non dovranno mai divenire “diaboliche”.

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