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Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze? - Judicium

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Academic year: 2022

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CLAUDIO CONSOLO

Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?

Il vicepresidente del C.S.M., sulla scia del parere di tale organo, sul Corriere della sera di ieri 25 luglio ha totalmente approvato – e quasi ritenuto, anzi, solo un primo

esordio cui dare altri vigorosi seguiti – l’intervento legislativo in avanzata gestazione limitativo degli appelli e dei ricorsi per cassazione, cioè delle principali impugnazioni delle sentenze civili che ne assicurano, bene o male, il controllo. L’esigenza seri meccanismi di verifica della qualità della decisione non è tuttavia un lusso, ma una necessità, certo costosa ma allo stato poco o punto ridimensionabile e che, nella attuale conformazione, nulla toglie alla centralità e preminenza del giudizio di primo grado, realtà indubbia da almeno venti anni (cioè dalla L. n. 353 del 1990) che non poco penalizza chi ancora la sottovalutasse.

È dunque largamente esagerato concludere che l’odierno intervento legislativo è il minimo che il sistema esiga, stante il suo pur evidente affanno, che rinvia ad altre cause (finora non affrontate). Neppure val molto additare esperienze inglesi, peculiarissime, o tedesche, esse pure segnate da uno...spread remoto allo stato dal nostro. Indubbiamente questa “riforma” (abusatissima e ormai quasi insopportabile parola) non è lesiva di principi costituzionali o sovranazionali, ma non per questo essa va reputata congrua e producente. La incongruità si coglie sotto diversi profili già per l’appello: da un lato sono tre lustri da che vige, per diritto vivente, l’onere di specificazione dei motivi, a pena di preclusione al riesame vuoi di questioni di diritto vuoi di questioni di fatto:

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occorreva riscriverlo e, si licet, in modo enfatico e poco perspicuo (come tale apparso non solo agli organismi della Avvocatura, ma alla Associazione dei professori di diritto processuale, molti non inclini verso le ragioni degli avvocati e tutti non pregiudicati da esse)? Per altro verso, è realistico auspicare e pretendere che alla prima udienza si possa, da un giudice collegiale, in un mare di gravami malamente fascicolati, con infallibile e subitaneo colpo d’occhio, di cui è rara finora la evidenza proprio in appello, secernere gli appelli privi di serietà dagli altri? Qui il rischio è di poche, ma capricciose e gravatorie applicazioni “secondo ch’avvinghi”. Giustamente, nel dibattito parlamentare, si era proposto piuttosto il circuito decisorio breve e succinto che, di nuovo, già è contemplato nel ricco (già) strumentario posto a disposizione di quel giudice di appello che riesca ad esercitare, con studiosa perizia, una rapida diagnosi e prognosi.

In terzo luogo, nella foga di chiudere gli appelli alle prove nuove si è troppo ristretta la tutela dell’appellante contro le stesse ordinanze rese in primo grado con il rito sommario-semplificato, che rischierà ancor più pertanto la desuetudine, non voluta da alcuno; quanto agli appelli “di rito ordinario”, la soppressione anche delle “prove indispensabili” – salva solo la (rara) rimessione in termini per errore scusabile – non procurerà grandi vantaggi e sgravi alle Corti, che già da lustri rarissimamente riaprono la istruttoria e che non certo per raccogliere prove, indispensabili o anche frutto di decadenze incolpevoli, impiegano in media quattro anni per decidere gli appelli: il problema è solo quello della insufficienza degli organici (che agevolmente potrebbero – e bene il Ministero sta sondando questa corposa chance – essere presto e copiosamente integrati con componenti part-time tratti dai docenti che in numero elevatissimo pur si

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troverebbero disponibili nei nostri Dipartimenti e Facoltà giuridiche) e, se si vuole, del gran numero di avvocati e così della pletora eterna e aggrovigliata di liti non (più) ragionevolmente composte in via equamente transattiva, sul nascere o almeno dopo la istruttoria. Su questo gli Ordini forensi, e lo stesso mondo affollato delle Facoltà, ha colpe o almeno disattenzioni che a me paiono risalenti ed indubbie. Tuttavia quello del rispetto per la doppia (più o meno) conforme è un mito, forse di ascendenza canonistica, che stupisce non poco veder secondato, dal momento che le sue basi logiche e di sistema di sgretolano subito ad un’analisi neppure troppo minuta.

Ma la scelta davvero più incongrua e nociva per le attese di una giustizia civile accurata, che dia a ciascuno quanto gli spetta (e nei tempi e modi “di spettanza”), è quella di non consentire più che le motivazioni gravemente insufficienti o illogiche (ancorché non omesse del tutto) vadano esenti dal controllo di logicità (che è pur sempre un riflesso del controllo di legittimità) della Cassazione: la amputazione di gran parte dell’attuale n. 5 dell’art. 360 c.p.c., lungi dal far ritrovare alla S.C. un ruolo più consono, significherà avere giudizi di cassazione pressoché in egual numero (ed egualmente costosi per le imprese e per i cittadini) ma troppo spesso, e ancor più spesso di oggi, sostanzialmente sterili e quello della inutilità, da anni, è lo spettro che si aggira fra i nostri processi, per vero più su quelli civili che su quelli della giustizia amministrativa. Purtroppo le sentenze di appello, proprio perché la loro lunga attesa non equivale affatto a porre le premesse per una più accurata fattura, non di rado fanno acqua dal punto di vista motivatorio (e il CSM è certo consapevole che le sue procedure di selezione nell’accesso alle Corti di appello – diverso è per la Cassazione - non hanno una capacità filtrante adeguata) e infatti, stando alle decisioni stesse della Cassazione

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(non alle paure degli avvocati o alle critiche della dottrina: le une e le altre prese sottogamba), quella della grave insufficienza motivatoria è una esperienza quasi all’ordine del giorno (chi lo negasse sarebbe un celestiale Pangloss). Così queste decisioni fallose passeranno tutte in giudicato e si perderà un frutto prezioso dell’opera della Cassazione che fu, è e dovrà in futuro rimanere un organo di controllo anche quanto alla conferenza e dirittura motivatoria sulle questioni di fatto: le attese dei litiganti e i diritti delle parti non sono sopiti fino a che dura il rapporto processuale ed in effetti sono quegli stessi della società civile, lo ius litigatoris è cosa degna che si viene cosi trascurando; gli errori di diritto non sono un vizio più grave e si prestano anzi - si noti - a controlli e a disincentivi vari e diversi, compresa la critica dottrinale, mentre le motivazioni slabbrate e inconferenti sui fatti e sulle prove, rimosso il loro unico attrezzato Custode, e la percezione della sua attivabile presenza, rischieranno di divenire ancor più pigramente frequenti e soprattutto di rimanere largamente occulte.

L’ansia per l’efficienza e per l’economia non possono rimuovere un dato di realtà ineluttabile: spegnere la luce sulle motivazioni delle decisioni di appello avrà costi pesanti, mentre la spesa di sede e organici della S.C. e la sua velocità registreranno progressi visibili solo al microscopio, mentre la Corte perderà di peso sociale se si ritrae nel limbo della purissima legittimità. Nulla, nelle esperienze processuali, può impunemente ambire alla purezza e alla incontaminata razionalità.

Va da sé che l’accesso alla Cassazione andrebbe da tempo escluso per le liti socio- economicamente bagatellari: questa è l’anomalia, questo l’unico lusso anacronistico.

Ma un vero filtro non compete al legislatore ordinario di ordirlo.

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Il torreggiante Palazzaccio (che ospita da circa un secolo con proporzioni egizie prima tutta la giustizia romana e da tempo solo la Cassazione) è l’emblema, lo crediamo anche noi, di una bulimia processuale sulla quale e sui cui guasti non si può che concordare, ma fino a che non si ripensi il tutto, e la sua copertura costituzionale, quell’edificio oltre che mastodontico, rimanga ancora almeno aperto, comprensivo, ospitale: non si ripieghi sulla mitologica e rarefatta nomofilachia (che ha senso del resto soprattutto presso le sezioni unite) o peggio sul formalismo procedurista e su riedizioni di giochi di abilità che nel decennio passato, come l'on. Vietti e tutti noi ben ricordiamo, incontrarono un ben prevedibile ripudio ad opera della vita concreta del diritto, ossia di quella esperienza giuridica, per quanto sempre un poco misteriosa, lasciata esprimersi sempre con grande utilità per la nostra lacerata società e che invece troppo spesso vediamo trascurata da novelli illuministi progettuali e modellatori.

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