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V ENTI DEL N OVECENTO 3. F ORME DELLA DIDASCALIA DRAMMATURGICA NEGLI ANNI

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Academic year: 2021

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3.

F

O R M E D E L L A D I D A S C A L IA D R A M M A T U R G I C A N E G L I A N N I

V

E N T I D E L

N

O V E C E N T O

IN T R O D U Z I O N E

Con gli strumenti semiotici e il percorso storico messi in campo nei primi due capitoli, possiamo qui sviluppare la nostra tesi; verificare cioè la presenza di una forma drammaturgica che capta e assimila all’interno del livello co-testuale della didascalia alcuni fermenti stilistici: l’impiego di una spazio-temporalità differente, policentrica, fluidificata; la messa in questione dello statuto del personaggio, con forme di alienazione/alterazione o deformazione; l’uso di una corporeità marcata e ben distinta, che trova espressione in modelli differenti (acrobatica, meccanica, musicale); l’architettura scenica rinnovata nell’assetto e nella significatività cromatica e luminosa; la musicalizzazione dei segni uditivi1.

Si tratta di una tendenza spettacolare che richiede un completamento, da parte del lettore/spettatore, dell’evidenza rappresentativa, un coinvolgimento attivo nel ricostruire quanto vi è di dinamico, di non immediato, di composito nel dato percettivo; non essendo più quest’ultimo convenzionalmente legato all’essenzialità del binomio personaggio-azione, bensì penetrato e modificato dall’insinuarsi di concatenazioni scenico-gestuali, motivi auditivo-musicali, segnali cromatici e luministici. La notazione didascalica si fa pertanto documento metastorico, ma soprattutto chiave di volta di una drammaturgia remineralizzata attraverso una trama di connotati extraverbali.

Nella multiforme casistica facente parte di un periodo tanto ricco e sfumato, i testi qui esaminati sono casi di studio che considero punte aggettanti nella somma incolonnata del teatro novecentesco. Si noterà immediatamente l’insolito ordine con il quale sono disposti gli autori e le rispettive opere; in effetti, a una disposizione cronologica ho preferito una sequenza che trova le sue ragioni nelle singole operazioni drammaturgiche, tra le quali cerco di individuare affinità e linee di sviluppo.

1 Sono questi i caratteri del cosiddetto “Teatro postdrammatico”, definizione assai controversa

che per Hans-Thies Lehmann si attaglia a una parte considerevole della produzione degli ultimi decenni, e di cui lo studioso tedesco rintraccia prodromi e avvisaglie proprio nel periodo della avanguardie storiche. Cfr. Hans-Thies Lehmann, Le Théâtre postdramatique, cit., in particolare il capitolo Rapide rétrospective sur les avant-gardes historique, pp. 85-103.

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Ciascuno degli autori di seguito riportati è testimone di un impiego differente della didascalia drammaturgica, ma egualmente decisiva ai fini dell’agencement scenico. Qualità che rendono inapplicabile buona parte delle categorie semiotiche che ho provato a riepilogare e problematizzare nel primo capitolo. Alla prova dei testi, in altre parole, i vantaggi di una scrupolosa semiotizzazione che assegni una funzione unica ai segmenti didascalici2, si dimostrano inferiori rispetto all’utilità di un itinerario fatto di incroci, tracce storiche, biografiche, tecniche e segnalazioni spurie.

Al fine di evitare ogni schematismo si lascia preferire dunque una lettura “caso per caso”, in virtù della quale la didascalia potrà apparire come strumento comunicativo di una individuale visione del mondo, oppure canale di trasmissione di acquisizioni spettacolari previste o messe a consuntivo, o ancora dispositivo di controllo del patrimonio scenotecnico e performativo a disposizione.

2 Esemplare di questo metodo è il volume di Edoardo Esposito Eduardo De Filippo: discours

et théâtralité. Dialogues, didascalies et registres dramatiques (Paris, L’Harmattan, 2004), in cui le didascalie di De Filippo sono “inventariate” secondo i criteri tassonomici proposti da Thierry Gallèpe (contenuto, scopo, incidenza, funzione, relazione con l’universo diegetico, oggettività, restrittività).

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3.1

P

I E R

M

A R I A

R

O S S O D I

S

A N

S

E C O N D O

L’assimilazione di Rosso di San Secondo all’esperienza del teatro del grottesco – a partire dal saggio di Silvio D’Amico, Il teatro dei fantocci3 – è

stata messa in discussione e sostanzialmente confutata da una impostazione critica più matura e scrupolosa4. Impostazione che ne ha evidenziato l’identità imparagonabile, rettificando la precedente associazione: «è proprio qui – nel tempo che si estende dal 1918 al 1930 – che Rosso di San Secondo lascia una zampata definitiva nella storia del teatro europeo»5. Nel periodo che intercorre tra Marionette, che passione! e Lo spirito della morte, quella di Pier Maria Rosso di San Secondo è infatti tra le voci più eloquenti e prolifiche delle nuove profondità drammaturgiche.

La vastissima opera sansecondiana, tanto nei romanzi quanto nelle commedie, sembra orientarsi intorno ad alcuni temi originari e primari, riducibili in estrema analisi a due poli: il furore sensuale (la dicotomica tensione Nord-Sud, proiezione simbolica di una dialettica tra ragione e passione, già intuita da Adriano Tilgher6 e poi indagata da Anna Barsotti7) e il senso della morte, nella sua inesplicabile e angosciosa complessità8.

3 Silvio D’Amico, Il teatro dei fantocci, Firenze, Vallecchi, 1920.

4 Negli anni Settanta l’interesse di numerosi studiosi intorno alla drammaturgia di Rosso si è

risvegliato, producendo un buon numero di testi critici, a cui non ha fatto seguito peraltro un’adeguata valorizzazione dell’opera narrativa. Tra le monografie ricordo quella di Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, Firenze, La Nuova Italia, 1978; di Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Rosso di San Secondo, Milano, Mursia, 1978; di Paolo Puppa, La morte in scena: Rosso di San Secondo, Napoli, Guida, 1986, che si sommano alle occasioni di convegni, incontri e giornate di studio. È attualmente in corso il progetto di riedizione del teatro completo, curato da Andrea Bisicchia per la casa editrice Salvatore Sciascia e giunto, a questa data, al secondo dei cinque volumi previsti.

5 Ruggero Jacobbi, Introduzione a Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, cit., vol. II, p. 18.

Asserzione che possiamo sostanziare con quest’altra, di Francesco Flora: «Rosso ha sentito tra i primi in Italia l’esigenza di un teatro libero da schemi preventivi nella materia e nella forma, tecnicamente più ardito, ma senza audacie arbitrarie o incoerenti, capace di mescolare, pur senza confonderli, in una trasparenza onirica il sogno delle notti e l’estenuata allucinazione delle veglie, l’immaginazione del vero e quella della fantasticheria, talvolta in una favola che vuol dar forma agli aspetti misteriosi di ciò che è ignoto e che il mito stesso della loro inconoscibilità rende più magnetici e attrattivi», Francesco Flora, Introduzione a Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, cit., vol. I, p. 52.

6 Cfr. Adriano Tilgher, Il teatro di Rosso di San Secondo, in Id., Studi sul teatro

contemporaneo, cit.

7 Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit. Tensione che trova sbocco nel

tema-mito della “fuga”, ovvero della fuoriuscita dalla propria condizione sociale, dal luogo d’origine, dalla solitudine intellettuale e dal malessere.

8 Cfr. Paolo Puppa, La morte in scena: Rosso di San Secondo, Napoli, Guida, 1986. Si veda

anche, dello stesso autore, Dalle parti di Pirandello (Roma, Bulzoni, 1987), in cui proprio «l’ossessiva frequentazione funebre» è considerata il trait d’union tra Rosso e Pirandello (p. 179). Scrive Rosso in una commedia del 1925: «Non andiamo tutti sconosciuti a noi stessi, con

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Per Rosso, fortemente ricettivo nei confronti della concitata cultura europea – al pari di Pirandello – la “rivelazione” consiste nella scoperta di quella che si è soliti chiamare la ‘psicopatologia della vita quotidiana’. Ma se i personaggi del maestro, conterraneo e amico, sono guidati da una sforzata logica razionale, che li porta a «illudere il problema»9, quelli dell’allievo sembrano manovrati dall’istinto o dal caso. In entrambi i casi tuttavia gli antieroi dei drammi passionali incubano il male di vivere fino alle conseguenze esiziali, rendendosi testimoni di un manque esistenziale. Adesso, con sguardo retrospettivo, cogliamo, nell’attenzione di Rosso per l’inautentico, il provvisorio, il paradossale e l’ineluttabile, in quei fantocci o marionette appartenenti anche alla koiné drammaturgica pirandelliana, convertiti talora a un parlato mimetico del grigiore quotidiano, il segno della «corrosione della commedia borghese»10 e delle sue formule apodittiche.

In particolare, le potenzialità sfruttate dalle didascalie di Rosso sembrano articolare il passaggio da un approccio veristico-naturalista a uno simbolico-espressionista. Per essere più chiari, l’uso segnaletico delle indicazioni sceniche poste a margine del testo dialogico in ambito naturalista soccorre come abbiamo visto una chiara e decisa intenzione ritrattistica. I marcatori espressionisti controllano invece un linguaggio effigiativo ambiguo, segnato da zone d’ombra, apparenze contraddicenti, dettagli astraenti. La nebulosità di tale contrasto potrà forse diradarsi nel confronto con quanto avviene nelle arti figurative, dove alla fermezza del ritratto ottocentesco subentra un modo pittorico più sciolto, dai contorni sprezzanti, appuntiti o violenti. Dalla finezza drammatica e non priva di abilità scenica delle tele di Vincenzo Vela, di Francesco Hayez, o di Giuseppe Molteni, forse tra i primi ad allestire intorno alla figura del ritrattato una vera e propria “scena”, si passa cioè a uno stile tendente alla deformazione qual è quello di Giovanni Boldini.

Tale processo è percepibile già nelle Sintesi drammatiche11, esempio di mescidanza di registri e di forzatura dei codici interpretativi, in cui rimorsi, pulsioni represse, debolezze e inquietudini sovraccaricano la storia individuale dei personaggi. «Proiezioni lirico-simboliche di momenti dell’anima del

un mistero inesplicabile nell’anima, ignorando di dove veniamo, che cosa vogliamo, verso la morte?» (Pier Maria Rosso di San Secondo, L’avventura terrestre, in Id., Teatro, cit., vol. I, p. 508).

9 Ferdinando Taviani, Uomini di scena uomini di libro, cit., p. 83. 10 Cfr. Paolo Puppa, Il teatro dei testi, cit., pp. 3-41.

11 Si tratta di una silloge di sette brevi testi drammatici (scritti probabilmente tra il 1905 e il

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poeta»12, la cui esistenza emblematica sta per quella di una classe di individui,

essi appaiono ridotti a pura interiorità. Addirittura nella prima brevissima sintesi, L’occhio chiuso, il dialogo si svolge tra l’Occhio e la Palpebra, eletti in chiave simbolica e simbolistica a riassumere la visione interiorizzata e il meccanismo di apertura e chiusura al mondo esterno.

Il porsi della sintesi al limite della concezione naturalista e l’avanzare del côté espressionistico fanno di La Notte, seconda sintesi della raccolta, un passaggio decisivo per chi voglia analizzare la poetica drammaturgica di Rosso. Anche in questo caso niente più di un generico sostantivo nomina i personaggi: L’Uomo, la Donna, la Bambina. Nella modesta stanza di una famiglia di operai, le «ombre fantastiche» che si profilano sulle pareti evocano in maniera quasi sineddochica la ben più corposa ombra del tradimento subito dal marito, forse imperdonabile nonostante il ritorno della moglie pentita. Tra i silenzi tesi e le lunghe e penosissime pause, un denso viluppo immaginativo scaturisce dalle didascalie e dovrebbe scaricarsi, riverberarsi nelle scarne battute. Va da sé che non si possa rappresentare, senza ingombranti flashback, la frangia di emozioni che prelude alle secche battute dei due coniugi, i ricordi e le sensazioni di cui è satura la loro conversazione muta:

L’UOMO […] Egli, che spasima di dolore, comprende quale schianto interno ella

sentirà ad ogni sussulto. – Pensa alle insidie della vita; pensa all’eterno rimescolio della strada dove, costretto a lavorare, ha sentito più volte le acuminate punte dell’invidia, dell’odio, del livore, del disprezzo pungergli il cuore; vede l’intricato turbinio dell’umanità, ne sente il brulichio, ne vede l’incomposto serpeggiare delle passioni. Si sforza di pensar quella donna, quell’esile creatura peccatrice, solo in mezzo al mondo.

[…]

LA DONNA (si avvicina al letto, vi si siede; guarda la bimba che dorme, ha un

movimento verso di lei ma si trattiene; gli occhi le si riempiono di lagrime; cade con la testa sui guanciali)13.

Poco più che invocazioni, le battute si danno appuntamento in funzione della didascalia, a cui compete, di fatto, l’esternazione del sentimento tragico, la manifestazione di una passionalità che, dovendo giudicare dalle sole espressioni verbali, si direbbe anestetizzata.

12 Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, cit., p. 122.

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In questa «sintesi» infatti, pare che Rosso abbia voluto isolare dal dramma borghese […] un momento di massima tensione, quando nella casa vuota per l'abbandono della moglie e della madre restano l’uomo e la bambina; togliendo via l’antefatto per concentrarsi sul senso di solitudine che invade il luogo e i suoi superstiti abitanti, e amplificarne l’eco di smarrimento e di squallore. E per averlo tradotto in un ambiente chiaramente popolare (L’UOMO ha il viso bruno e le occhiaie nere di polvere di carbone), sembra esprimerne meglio il profondo significato universale14.

Verificando il giudizio di Chiarini e la posizione di Anna Barsotti, Roberto Salsano ha argomentato la centralità del ruolo delle didascalie nel progetto di distanziamento dal realismo rappresentativo, di arricchimento “universalizzante” del materiale scenico nella suggestione che promana dalla qualità viva, icastica e segnaletica degli oggetti15. Non già come rilievo naturalistico, le povere suppellettili nominate nella didascalia d’apertura, raccontano l’abbandono e lo smarrimento senza che siano mai esplicitamente riferiti: «Un letto largo matrimoniale; un letto piccolo parallelo al primo. Una tavola avanti la finestra. Ai piedi del letto, alla parete opposta, un canterano: su di esso un lumino ad olio arde davanti all’immagine della Madonna»16.

Se il taglio della composizione farebbe leggere l’esordio di Rosso come una forma di futurismo avant la lettre, la «saldezza drammaturgica che elude ogni logica polemica di raccorciamento come ogni folgorazione rappresentativa basata sull’immotivato»17 esclude che questa giovanile scelta sintetica sia da ricondurre alle motivazioni che saranno dell’avanguardia marinettiana. Quel che invece preme considerare è la scrittura torrenziale, dal ritmo irregolare, in cui le didascalie di Rosso soccorrono un preciso sottofondo mentale, mantenendo «distanze, risonanze, echi misteriosi tra battuta e battuta»18.

Incunabolo di spunti e temi replicati numerose volte nella produzione successiva, insieme alle novelle di Ponentino (1916) e al romanzo La fuga (1917), le Sintesi applicano un presupposto cardine dell’espressionismo: la

14 Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 15.

15 Roberto Salsano, Drammaturgia e scena nelle didascalie della sintesi drammatica La notte,

in Id., L’immagine e la smorfia. Rosso di San Secondo e dintorni, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 69-88.

16 Pier Maria Rosso di San Secondo, La notte, in Id, Teatro, cit., vol. I, p. 57.

17 Roberto Salsano, Drammaturgia e scena nelle didascalie della sintesi drammatica La notte,

cit., p. 87.

18 Silvio D’Amico, L’ospite desiderato di Rosso di San Secondo, in «L’Idea Nazionale», 26

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visione interna della realtà come unica verità dell’anima e delle cose. E questo sguardo interiore rende assiomatica la distanza tra realtà interna ed esterna (del personaggio), visualizzandone il quoziente per il tramite di una cifratura drammaturgica che ha nelle ambientazioni una delle novità più dirompenti. Al salotto borghese, epicentro dei drammi di fine secolo, ambiente cinetico standard e custode della proiezione mentale di una consolante quarta parete, Rosso oppone uno spazio e un’idea di teatro affatto diversa19: «questo oscuro senso di costrizione (che è nei tempi storici) è espresso nella resa drammaturgica degli ambienti […] mediante un corredo scenico di oggetti reso significante e attorico dalla didascalia»20.

Si spiega così il set di Marionette, che passione!, con il suo primo atto ambientato in un emblematico luogo di incontro delle disunite entità metropolitane, la Sala del Telegrafo centrale di Milano21. Catturando la situazione in maniera soppesata e riflessiva, le didascalie «rilevano l’anomalo silenzio che avvolge un posto solitamente animato di voci, un silenzio che s’accorda con la penombra e il clima di sonnolenza che alla domenica pomeriggio rendono sordo e vacuo l’ambiente»22:

Da sinistra verso il fondo corre la vetrata con gli sportelli, di cui due soli sono aperti. In fondo s’indovina, più che non si veda, la porta d’entrata. A destra parete, con manifesti, affissi, prescrizioni. Sul davanti, verso sinistra, una larga tavola per la scrittura dei telegrammi. Più in fondo, verso destra, una tavola

19 «Gli interni borghesi, i giardini finti, i luoghi pubblici tradizionali, o vengono abbandonati,

oppure sono stravolti dall’interno da un linguaggio, da una recitazione, da un uso delle luci, della platea e dello stesso edificio teatrale in forme inusitate, tutte puntualmente indicate nelle didascalie, perché proprio ad esse l’autore affida il compito di tradurre la propria scrittura in spettacolo virtuale, il ritmo non concluso di un’azione scenica; siamo ormai in presenza di un autore che anche quando si avvale di mezzi tradizionali li deforma, o ingessandoli in una ridicola fissità o immettendo in essi uno o più elementi di disturbo, che riverberano nel quadro d’insieme alcunché di ambiguo e di conturbante. Ed ecco nascere nelle officine dei drammaturghi o la simultaneità e la sorpresa dei futuristi, o il palcoscenico vuoto di Pirandello, o la sala del telegrafo di Rosso di San Secondo, o il Mar dei Sargassi di Federici, o il caffè di Astolfo di Bontempelli, o la platea-mare di Eduardo, per citare alcuni dei più cospicui esempi, ma non i soli, a testimoniare che è nata una nuova idea, se non di teatro, di drammaturgia», Morena Pagliai, Didascalie teatrali tra Otto e Novecento, cit., pp. 59-60.

20 Anna Barsotti, La drammaturgia di Rosso di San Secondo (dalle Sintesi drammatiche a Lo

spirito della morte), in Borgese, Rosso di San Secondo, Savarese, cit., p. 230.

21 Che tanto piaceva a De Monticelli: «Ho un debole per questo primo atto che è soltanto una

lunga scena; e che riportandoci a un tempo remoto e a un luogo preciso (descritto nella didascalia iniziale) ci colloca, in compagnia di quei tre personaggi-fantocci, non solo fuori dal tempo e dalla storia, ma fuori d’ogni possibile topografia urbana», Roberto DeMonticelli, Tre angosce gridano con disperati silenzi, in «Il Giorno», 20 ottobre 1972 (recensione della messinscena datane da Lorenzo Grechi), ora in Id., Le mille notti di un critico, cit., vol. II, p. 1208.

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piccola, per la guardia. Silenzio e sonnolenza. Fuori è uggioso: pioviggina. L’intero atto sarà recitato a bassa voce con lunghe pause23.

Il tono in sordina previsto da Rosso, entro il quale si muovono i pochi insonnoliti impiegati, genera un’antitesi rispetto all’umore dei protagonisti, colmo di eccitazione trattenuta, e avvolge con un velo di inquietudine un ambiente che si mostra insolitamente deserto in luogo dell’usuale affollamento.

Dopo la “prima” di Marionette, che passione! le voci critiche dell’epoca non potevano rimanere indifferenti24. Due di queste, quelle di

Vincenzo Cardarelli e di Silvio D’Amico, si mostrano significativamente concordi su un aspetto. Così D’Amico:

Virgilio Talli aveva inscenato la commedia con una cura evidente: quel second’atto in casa delle cantanti e specialmente quel primo atto al telegrafo e quel terzo atto in trattoria - ambienti d’un genere che non abbiamo mai veduto riprodurre sulla scena con la necessaria fedeltà realistica, se non dalle compagnie dialettali - iersera ci furono ridati in modo perfetto25;

Ancora più elaborata la considerazione di Cardarelli:

Nel primo atto l’autore ha descritto l’incontro di due amanti abbandonati e la loro subita melanconica solidarietà, interrotta da un certo signor incomodo, nella sala del telegrafo di Milano, in una fredda e piovosa domenica. Ne è uscita una pittura d’ambiente un poco simile a certi atti di Salvatore Di Giacomo, con effetti e contrasti di luce più fulminante, quasi fantasmagorici. Basta un brivido per fare del nostro vecchio teatro dialettale qualche cosa che potrebbe anche lentamente somigliare, se non al teatro di Ibsen, a quello di Maeterlinck, e Rosso di San Secondo, che è stato una volta in Olanda, deve aver appreso fra quelle nebbie il gusto e la consuetudine degli spettri26.

Per D’Amico e Cardarelli un set tanto “profano” come quello scelto da Rosso era stato fino a quel momento adottato solo da compagnie dialettali. E

23 Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, cit., p. 133.

24 Il debutto avviene al Teatro Manzoni di Milano, la sera del 4 marzo 1918, protagonisti Maria

Melato, Annibale Betrone, Ettore Berti e Ione Frigerio.

25 Silvio D’Amico, Marionette, che passione! di Rosso di San Secondo al Teatro Argentina

[Compagnia Talli-Melato-Betrone], in «L’Idea Nazionale», 21 aprile 1918, ora in Id., Cronache 1914/1955, cit., vol. I, p. 241.

26 Vincenzo Cardarelli, Marionette, che passione!, in «Il Tempo», 27 novembre 1918, ora in

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illuminante appare il riferimento di Cardarelli alla “pittura d’ambiente”, che lascia pensare a qualcosa di bozzettistico o di oleografico, così come il nome di Salvatore Di Giacomo usato come termine di paragone.

Dalle parole pur benevole dei due cronisti possiamo intuire sottotraccia l’implicito rifiuto di un’ambientazione reputata sconveniente o inadeguata al contesto del teatro alto di prosa; ma si può avvertire altresì una malcelata diffidenza nei confronti di simili “evasioni”, tacciate di vacuità e di prolissità (esemplare in tal senso la stroncatura di Gramsci27) e assai impegnative da portare in scena in maniera soddisfacente28. Le testimonianze fotografiche e

cronachistiche confermano che lo sforzo di esperire una nuova dimensione scenica, posta al limite della naturalità da un parlato scheggiato e contratto (ma anche decisamente “urbano”), era probabilmente al di sopra delle possibilità delle consuetudini esecutive italiane, anche nelle realtà indipendenti come il Teatro del Convegno, dove il dramma fece tappa nel novembre del 192429.

Anni dopo, trapiantato in contesti dove il linguaggio scenico era meno calligrafico, la trasfusione ottenne ben altro riscontro: vale la pena ricordare che al Teatro Municipale di Praga si ebbe ad esempio nel 1925 una versione di Marionette del tutto diversa per impostazione scenografica e stilizzazione recitativa di quelle date in Italia. In alcune riproduzioni fotografiche vediamo l’ufficio postale e la sala del ristorante restituiti con pannelli graficamente molto arditi, che tradiscono il riuso di indicazioni provenienti dalle arti figurative. Gli ambienti comuni della socialità non sono trattati in modo neutro ma con bizzarre soluzioni di design, come fossero specchi deformanti di una realtà interiore sommossa, sganciando così la scrittura scenica dalla tipicità di un fondale stereotipato30.

E l’anno prima, al suo debutto in Polonia (al Teatro Municipale Slowacki di Cracovia), il regista Teofil Trzcinski aveva immerso l’azione mimica dei personaggi in un’atmosfera magica e umbratile, con un gioco di

27 «Avventure di sfaccendati, sceneggiate da un dilettante d’ingegno», Antonio Gramsci,

Marionette, che passione! di San Secondo al Carignano, in «L’Avanti!», 21 aprile 1918, ora in Id., Letteratura e vita nazionale, cit., p. 325.

28 Conduce un interessante ragionamento in tal senso l’articolo di Donatella Orecchia, Sul

grottesco in Rosso di San Secondo, Tatiana Pavlova e le prime rappresentazioni di “Marionette, che passione!”, in «L’asino di B.», a. II, n. 2, 1998, pp. 89-126. In riferimento alle considerazioni di D’Amico, scrive la studiosa: «è qui evidente nel critico un’aspettativa schietta nei confronti della realizzazione scenica del testo dettata proprio dal fatto che, nel panorama della scena italiana, era allora difficile individuare quale tipo di linguaggio della scena avrebbe potuto meglio interpretare una drammaturgia per certi versi così distante dai canoni naturalistici» (p. 97).

29 Cfr. Anna Maria Cascetta, Teatri d’arte tra le due guerre a Milano, cit., p. 93. 30 La foto di scena è riprodotta in «Comoedia», a. VII, n. 1, 1925.

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luci dalle tonalità scure e aberranti che accentuava il messaggio “spirituale” del testo drammatico31. Nondimeno, la prosa non ordinaria del poetico Preludio (che, come quello anteposto a La Bella addormentata, va integrato ai tre atti del testo drammatico), gli spunti metaforici contenuti nelle didascalie e il carattere di eterotopia assunto dallo spazio, ponte tra due sfere sociali poste in comparazione, siglano l’energica ricusa del dramma borghese.

Se il Preludio è un luogo privilegiato in cui l’autore convoca il lettore alla massima attenzione, indicandogli il proprio punto di vista e in definitiva la chiave di lettura del testo, l’Avvertenza per gli attori premessa al testo chiarisce ancor meglio la direzione presa da Rosso: «Tengano presente gli attori che questa è una commedia di pause disperate. Le parole che vi si dicono celano sempre una esasperazione che non può essere resa se non in sapienti silenzi»32.

I nomi di Ibsen e Maeterlinck, citati provvidenzialmente da Cardarelli, aprono inoltre un paragone con la rarefazione propria della scrittura nordica, in cui una faglia tende ad aprirsi nella pienezza della mimesis e in cui il quadro scenico emerge come un’immagine fotografica dopo bagno di sviluppo.

La situazione iniziale preordina il carattere tensivo dell’intero dramma: nella «sala del Telegrafo centrale di Milano» in un pomeriggio domenicale – un giorno di pausa, come quelle che Rosso di San Secondo raccomanda agli attori – tre personaggi, tre «randagi della vita»33, confidando nell’anonimato e nella pena comune, si confessano il proprio fallimento sentimentale e umano. Delusi e sconfitti, essi somigliano a marionette giacché la loro persona ha cessato di manifestare una volontà definita, subordinandosi a una decisione ineffabile. Il Signore in Grigio, la Signora dalla Volpe Azzurra, il Signore a lutto non sono che «semplici schematizzazioni, sagome senza nome»34. Come

31 Ringrazio l’amico Massimo Tria per avermi segnalato una cronaca anonima dell’epoca

contenuta nel quotidiano liberale «Nowa Reforma», datata 1 aprile 1924.

32 Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, in Id., Teatro, cit., vol. I, p.

129. Assai simile l’avvertenza che si legge nell’incipit di L’ospite desiderato: «La vicenda del dramma, pur essendo essenzialmente umana, è nata da uno stato d’incubo dell’animo. La realtà vi è dunque trasfigurata in sintesi allarmate e assorte come nei sogni tormentosi. Gli attori, perciò, e nella voce e nei gesti, avranno sempre un che di sonnambolico e di angoscioso che possa far giungere allo spettatore, oltre che la essenza del personaggio da loro rappresentato, l’atmosfera di penoso lirismo in cui il personaggio stesso si muove», Pier Maria Rosso di San Secondo, L’ospite desiderato, in Id., Teatro, cit., vol. I, p. 289.

33 Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, cit., p. 129. 34 Roberto De Monticelli, Tre angosce gridano con disperati silenzi, cit., p. 1208.

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riassunse Pirandello: «un marito oltraggiato, un amante tradito, un’amante calpestata. Non importa conoscerne la storia: è la più comune»35.

Il biasimo della critica del tempo si appuntò proprio su questo difetto di realtà, che Rosso intensifica ad ogni didascalia, intramettendo ai dialoghi i segni inequivocabili di una dolorosa ipersensibilità. I tre protagonisti prorompono in gesti ossessivi, maniacali, tremanti; si riassestano per poi ricadere in uno stato di tensione; si incoraggiano vicendevolmente, si ricompongono e nuovamente cedono. Le frequentissime similitudini di cui Rosso fa uso nelle didascalie vogliono rendere visibile una condizione di cattività o di malattia della coscienza36, in cui l’individuo si esprime «come istupidito»37; «come preso da un’improvvisa ossessione»38; «come impaurito e diffidente»39; «come idiota»40. Di tale sequela di contrappunti mimici e fisionomici sembrò naturale a Giuseppe Emiliani, regista di una messinscena a dire il vero poco apprezzata nel 1984, dare conto attraverso la lettura delle didascalie stesse. La soluzione, che ricordiamo invocata da Gobetti per La bella addormentata, si concretò nella versione di Emiliani facendo pronunciare agli attori a ogni battuta i corsivi dell’autore, scandendo perfino con un gong le pause consigliate41.

Con Marionette, che passione!, all’indomani del primo conflitto mondiale, compaiono nel teatro di prosa i primi luoghi pubblici, ove si incontra una socialità indistinta. La scelta di una «scena debole»42, luogo di incontro comune e anonimo, è, in realtà, un segno “forte”, per cui la virtualità della rappresentazione, opaca e non diottrica, si fa immagine caratterizzante dell’alienazione umana. Scomparso il “carattere”, ovvero il personaggio indicatore di una realtà come deposito di certezze, la vita individuale tende a

35 Luigi Pirandello, Marionette, che passione!, in «Il Messaggero», 4 aprile 1918, ora in Id,

Saggi, poesie, scritti varii, Milano, Mondadori, 1960, p. 1008.

36 «Il Signore in grigio ha profferite queste parole in una concitazione lucida, scattante,

metallica. Sembra un uomo perfettamente ragionevole, anzi terribilmente logico: soltanto gli occhi hanno uno scintillio vitreo, in cui s’avverte l’anormalità del suo stato. Il Signore a lutto è rimasto sbalordito. La Signora dalla volpe azzurra ha chinato gli occhi sulla tavola e rimane a capo basso. Silenzio. Il Signore a lutto si risiede automaticamente: il Signore in grigio riprende dopo la pausa», Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, cit., p. 132.

37 Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, cit., p. 163. 38 Ivi, p. 131.

39 Ivi, p. 125. 40 Ivi, p. 124.

41 Cfr. Ugo Volli, Un vagabondo poeta che recita Brecht. Ma non era un teatro grottesco?, in

«La Repubblica», 15 maggio 1984. Nel pezzo di Volli troviamo un affidabile resoconto delle perplessità suscitate dalla messinscena.

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sparire in quella collettiva43 e il rito voyeuristico del teatro non può che situarsi

in un contesto metropolitano.

Così La danza su di un piede44, dramma composto intorno al 1921, prende avvio in un night-club sotterraneo, modellato su quello di Bragaglia, alla cui figura eclettica si richiama il personaggio di Rapidi. La descrizione del locale dove si svolge il primo atto, il Cabaret-Rapidi, è un omaggio ironico alla sua fulminea genialità:

Saloni, grande esposizione del pittore sintetico alchimista, ultrafisico, Federico Capèro. Convegno pomeridiano, tè poetici ultravioletti. Spettacolo serale: teatro a scompartimenti a baleni magnetici. Si daranno le seguenti novità: La rana volante – L’amor turchino – Un pipistrello nei capelli – Passa di qua, Camaleonte – Spettacolo a notte lunga: Balletti spasmodici di Susanna Benè, ovverosia Mademoiselle Dynamite45.

Tra i frequentatori del cabaret è anche la nobile Elena Morini, la cui gelosia parossistica spinge l’amante, il pittore Paolo Arrighi, alla separazione, extrema ratio per difendersi dagli eccessi di una passione che porta con sé «la sensazione oscura e minacciosa di un tremendo pericolo»46.

43 Cfr. Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, cit., p. 59 sgg.

44 Il testo fu pubblicato per la prima volta su «Comoedia», a. VII, n. 5, 1925. Stando al

resoconto di Luigi Ferrante, la commedia in tre atti era già andata in scena al Teatro Eliseo con la compagnia di Teresa Franchini nel 1922 e il 23 novembre 1923 al Teatro Manzoni, per opera della compagnia Gramatica (cfr. Luigi Ferrante, Rosso di San Secondo, Bologna, Cappelli, 1959, p. 47). Il primo a individuare in La danza su di un piede uno dei vertici della drammaturgia sansecondiana (e a recuperare l’ironia delle citazioni) fu probabilmente Emilio Barbetti, che vi rinviene i segni di una vivacità inquieta e moderna, passante per l’impiego di inusitati mezzi simbolici. Si veda Emilio Barbetti, Ritratti critici di contemporanei: Rosso di San Secondo, in «Belfagor», a. X, n. 6, 1957, p. 655.

45 Pier Maria Rosso di San Secondo, La danza su di un piede, in Id., Teatro, cit., vol. I, p. 32.

Rosso ironizza sui nomi, sui titoli e sugli insoliti accostamenti caratteristici della nostra avanguardia (Le ranocchie turchine, che si legge tra le righe, è il titolo di una raccolta poetica di Enrico Cavacchioli). Ma Rapidi non è l’unico personaggio che Rosso trae dal contesto romano. È Fortunato Depero l’originale dello svagatissimo pittore Capèro (scritto con l’accento sulla e, come usava fare Depero sul suo cognome), che nel primo atto, mentre i segni di una catastrofe sentimentale gli turbinano davanti, non sa far altro che rimanere al tavolino distrattamente perso nei suoi astrusi disegni. Lo stesso Capèro è l’autore della pantomima che dovrà provarsi nel locale, frequentato da habitués come Orio Tramani e Lionello Dantuso, “nomi senhal” dietro i quali si celano Orio Vergani e Filippo Anfuso. Già menzionato il primo – drammaturgo e fratello dell’attrice Vera – del secondo si può brevemente ricordare la carriera di giornalista (fu al seguito dell’impresa fiumana di D’Annunzio e la sua firma appare spesso accanto a quelle di Malaparte, Aniante, Vergani, Longanesi con i quali si incontra abitualmente nella famosa “terza saletta” del Caffè Aragno) e successivamente quella di uomo politico nel governo fascista e poi nella RSI.

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Da qui il dramma si trasferisce in una casa di campagna ove vive isolata la sorella di Elena, Ester, che ha rinunciato all’amore per paura o ribrezzo. La cornice all’interno della quale Rosso immette il dramma di una relazione sentimentale giunta alle sue estreme conseguenze si inserisce dunque in una precisa dinamica topografica, che pone in tensione dialettica sfera pubblica e sfera privata. Il tracollo psichico dei protagonisti è individuato dai gesti, dalle reazioni, dalle alterazioni somatiche che zavorranno il dialogo. Proprio il progressivo abbattimento di Ester, schiacciata dalle emozioni altrui e dai propri rimpianti, si fa annunciare da una serie di indicazioni ascendenti.

È prezioso ancora una volta il dettaglio onomastico, che rimarca la contrapposizione del nome Ester, dal sostantivo ebraico che significa “stella”, con Elena, etimologicamente legato al greco helane, fiaccola, torcia che si consuma. In effetti, la “stella fissa” Ester darà inizialmente l’impressione di un’altera fermezza: ascoltando le pene d’amore della serva, reagisce «senza voltarsi e senza muover palpebra»47, e durante il colloquio con Paolo risponde con ironia sprezzante, con «risolutezza» e «osservando freddamente»48. Tuttavia, quando infine udrà le confessioni di Ludovico, l’uomo di cui non è riuscita a corrispondere l’amore, precipiterà anch’essa in una sofferenza crudele e inevitabile: «si avvicina lentamente all’ottomana, si mette a sedere su di una sedia ai piedi di essa. È stravolta. I suoi occhi nuotano nel vuoto»49.

Ossessione amorosa e annientamento psicofisico sono temi centrali anche in un dramma di pochi anni posteriore, Il delirio dell’oste Bassà (1925)50: il taverniere Raimondo Bassà vive nell’adorazione quasi feticistica della moglie Cecilia. Quando questa muore, l’incorruttibile fedeltà dell’uomo è messa alla prova dall’ostinata smania seduttrice di Annita, una prostituta innamoratasi di lui.

Anche in questo caso una sequenza di didascalie racchiuse in poche pagine raccoglie i momenti nevralgici e decisivi dello sforzo compiuto da Raimondo per respingere le pulsioni sessuali51. In una scena a un tempo tragica e grottesca del secondo atto, Raimondo, in uno stato di esaltazione, commissiona a un amico pittore un ritratto della moglie defunta: «Entra Raimondo da destra, come uno che vada barcollando; l’omone difatti

47 Ivi, p. 334. 48 Ivi, p. 339. 49 Ivi, p. 360.

50 All’Argentina di Roma la “prima”, nel gennaio del 1925, protagonisti Maria Melato e

Annibale Betrone.

51 Cfr. François Orsini, Drammaturgia europea dell'avanguardia storica: Pirandello-Rosso di

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congestionato dallo spasimo, con le vene del collo gonfiate, con gli occhi rossi e febbrili, va trascinandosi nel suo barcollio»52.

A sua insaputa Annita si offre come modella, vestendosi con gli abiti della moglie; quando Raimondo la vede, crede di trovarsi di fronte Cecilia. Scoperto l’inganno, è preso da un delirio estatico che le didascalie dipingono come una sorta di cerimonia penitenziale: «rimane con gli occhi spalancati sul vuoto»53, «percuotendosi il capo ed il petto con i pugni chiusi»54, «folle, fiutandola, mordendola nelle pieghe del vestito»55, «esausto […], smaniando in una soffocazione mortale»56, «alzandosi in un nuovo estremo impeto con le

braccia levate»57.

Alla fine della scena, «con i denti stretti […] a voce bassa, sinistramente»58, l’oste immaginerà il piano omicida con cui liberarsi dalla persecutoria vicinanza della meretrice. L’effigie della moglie, «come una Dea della purezza per la quale Bassà celebra il rito sacrificale della carne»59, presiederà il banchetto del terzo atto, organizzato da Raimondo per avvelenare se stesso e Annita: «Illuminata da due candelabri a cera posti sul banco, quella immagine, a tratti, comunica l’illusione che l’ostessa vi sia seduta in realtà e consideri da un’assonnata lontananza il banchetto che si celebra ai suoi piedi»60.

Il tentativo di raggiungere la massima espressività vocale, mimica e gestuale è evidente scorrendo le notazioni sceniche di Canicola, una breve commedia del 192561. Già con il sottotitolo, Acquaforte in due quadri, Rosso approfitta di un termine prelevato dalla tecnica artistica per annunciare il

52 Pier Maria Rosso di San Secondo, Il delirio dell’oste Bassà, in Id., Teatro, cit., vol. I, p. 529. 53 Ivi, p. 530. 54 Ivi, p. 531. 55 Ivi, p. 537. 56 Ivi, p. 539. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 540.

59 Maria Cristina Menghi, Rosso di San Secondo tra l’Espressionismo e il Mito, Firenze,

Atheneum, 1996, p. 169.

60 Pier Maria Rosso di San Secondo, Il delirio dell’oste Bassà, cit., p. 541. Angela Guidotti

accosta l’empio baccanale a cui Raimondo invita tutte le prostitute della casa di piacere dove lavora Annita a certe sequenze dei plays cinquecenteschi: «È una scena molto forte piena di sangue, turgori espressivi e gestuali degni di una tragedia elisabettiana in cui si ritrova spesso proprio il motivo del banchetto di morte allestito per vendetta», Angela Guidotti, Il teatro dal 1918 al 1931, in Flora di Legami, Angela Guidotti, Natale Tedesco, Pier Maria Rosso di San Secondo, Marina di Patti (ME), Pungitopo, 1988, p. 55.

61 La Compagnia Pilotto porta in scena per la prima volta la commedia al Quirino di Roma, il

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grafismo esasperato con cui incide, su una matrice espressionistica, un dramma di «affocata sensualità mediterranea»62.

Il pacifico rapporto coniugale che Maurizio vorrebbe con la moglie Valeria è minato dal sanguigno e misogino amico Gubani, che crede di dover vendicare l’irriverente desiderio di libertà della donna nei confronti del marito spingendola al tradimento. La tensione parossistica e irrazionale che ne scaturisce si volge ad una incontenibile deformazione dei tratti somatici, che investe soprattutto Valeria, portandola a esprimersi «stridendo

rabbiosamente»63, ridendo «spasmodicamente»64, «guardandolo

biecamente»65, «con una smorfia di disprezzo»66, «con acredine disperata»67, «mandando un ruggito cupo dalla bocca»68, «inferocita, urlando»69, «con il viso proteso, le narici dilatate e sbuffanti»70; e conduce a un finale grottesco in cui i tre sono travolti da un furore quasi epilettico:

VALERIA (gettandosi in terra in preda alla convulsione, ulula). Oh! oh! oh!

BARCO (ride, ride, ride).

GUBANI (scappando dal fondo). Sono pazzooo!... Sono pazzooo!...71

La stessa transizione notata in La danza su di un piede si ripropone in La scala72, un altro dramma del 1925, il cui primo atto è ambientato nel vano scale di uno stabile:

pianerottolo di una scala umida e grigia di parecchi piani e di molti inquilini: la scala di una di quelle case-formicai in cui la vita congestionata delle città industriali ammucchia la media e piccola borghesia. […] La nebbia, la pioggia, l’umidità della strada, si rivela molti segni nella scala, che spesso è invasa, a rifoli e a rabuffi, dall’aria rigida di fuori. Dalla strada giunge anche, a ventate,

62 Ruggero Jacobbi, Parabola di Rosso di San Secondo, in «Il lettore di provincia», a. III, n. 9,

1972, p. 21.

63 Pier Maria Rosso di San Secondo, Canicola, in Id., Teatro, cit., vol. I, p. 551. 64 Ivi, p. 552. 65 Ivi, p. 553. 66 Ivi, p. 555. 67 Ivi, p. 556. 68 Ivi, p. 557. 69 Ibidem. 70 Ibidem. 71 Ivi, p. 561.

72 Debutto al Teatro Olympia di Milano il 16 novembre 1925, nella messinscena della

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l’eco fragorosa di trams, automobili, carri, furgoni, voci, fra lo scroscio, a tratti, della pioggia73.

Da uno spazio collettivo, caotico e affollato, nel quale l’individuo subisce l’inevitabile condizionamento sociale, si passa a un’ambientazione riservata, di placida quiete domestica. Ma questo contrasto (quasi una tipicità del teatro di Rosso) ne tiene in prospettiva anche un altro, più interessante ancora, tra l’intimità e l’esteriorità, tra il vero e l’apparente74. Siamo portati a credere che i personaggi non possano essere introdotti se non mostrandone il loro inserimento in un contesto di socialità, inibitorio e confondente, nella casualità ineluttabile di un incontro. Gli stessi, riassorbiti dalla propria dimensione intima o domestica, mostreranno un’identità dimidiata, fragile e corruttibile.

Dopo La scala Rosso deciderà per un rifiuto sistematico di scenari convenzionali e nelle opere posteriori, «siano esse di tenore idillico-paesano oppure partecipi ancora di quel pessimismo dell’era meccanica che aveva caratterizzato specialmente il suo “espressionismo metropolitano”, l’interno convenzionale s’apre sempre più decisamente verso spazi e dimensioni inusitate»75. La parabola del teatro sansecondiano fletterà verso la stesura di situazioni anti-realistiche, stati coscienziali d’incubo, di sogno o d’illusione, approssimandosi talora alla liturgia e alla mitologia (come nel Ratto di Proserpina, in cui Rosso attinge all’humus isolano, riscoprendo risorse antiche dalla terrestrità solare e agreste del luogo d’origine), ma non perderà mai la predilezione per un linguaggio allusivo, carico di velami, segnacoli e messaggi sottaciuti76.

Di questa vocazione “ideogrammatica” le didascalie saranno sempre la meridiana, comunicando attraversi segni paralleli e rafforzativi l’irrazionale forza perturbatrice della passione, che distrugge dall’interno la libertà dei protagonisti, “contagiando” l’atmosfera circostante e facendo di questa un’estensione iperespressiva. Si guardi per esempio alle numerose occorrenze della pioggia nei testi sansecondiani, presente nelle didascalie con un numero

73 Pier Maria Rosso di San Secondo, La scala, in Id., Teatro, cit. vol. I, p. 565.

74 Cfr. Ruggero Jacobbi, Introduzione a Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, cit., vol. II,

p. 19.

75 Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 158.

76 Non ci è dato approfondire qui la cospicua produzione di Rosso posteriore agli anni Venti,

per la quale si richiamerà dunque la più volte quotata monografia di Anna Barsotti e gli apparati critici di Andrea Bisicchia in Pier Maria Rosso di San Secondo, Tutto il teatro, Palermo, Sciascia, 2008-2009.

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sufficiente di varianti e mutazioni da far pensare a un preciso cifrario, oltre ad essere una condizione di non semplice realizzazione77.

Al pari dei colori, che agiscono da correlativo oggettivo degli stati interiori, rilasciando effetti “figurali” e diventando anch’essi forme del dissidio, la precisa corrispondenza tra le perturbazioni meteorologiche e quelle dell’animo è una ulteriore testimonianza del costante e totalizzante impegno di significazione stabilito da Rosso per i suoi testi drammatici.

3 . 1 . 1 MU S I C A D I F O G L I E M O R T E

Un uso differente delle indicazioni sceniche, ma egualmente caratterizzante la poetica del teatro sansecondiano degli anni Venti, si ha nel “notturno” dal titolo Musica di foglie morte, rappresentato per la prima volta al Teatro del Convegno il 7 aprile 192578.

Non solo in molti momenti «la didascalia prevale assolutamente sull’azione, fin quasi a sostituirla»79, ma Rosso ricava la stessa struttura del dramma dalla forma musicale, assoggettando lo sviluppo dinamico dell’azione a un tracciato di supporto cadenzato su ritmi e misure, su tempi e battute80. Si tratta di un uso strindberghiano della musica, che il drammaturgo svedese

77 Ne trascrive alcuni esempi Margherita Francalanza in La finzione dichiarata: il teatro di

Rosso di San Secondo e di Enrico Cavacchioli, in Pier Maria Rosso di San Secondo nella letteratura italiana ed europea del Novecento, a cura di Marisa Sedita Migliore, Caltanissetta, Sciascia, 1989, pp. 138-139.

78 I tre protagonisti, Virgilio Frigerio, Giulietta De Riso e Olga Ventura, si vedono in una foto

di scena apparsa su «Comoedia», a. VII, n. 10, 1925. La prima pubblicazione in volume risale al 1926, in cui l’editore Treves raccoglie sotto il titolo Notturni e preludi i tre brevi drammi Musica di foglie morte, L’illusione dei giorni e delle notti (rappresentato al Teatro Manzoni di Milano il 22 gennaio 1926) e La Madonnina del Belvento, exploit interpretativo di Ettore Petrolini nel 1928. Dopo la messinscena al Teatro del Convegno, Musica di foglie morte fu rappresentato il 22 marzo 1928 per l’esordio di un teatro minimo a Bologna, poi da Bragaglia, in una serata celebrativa, il 9 marzo 1935, al Circolo delle Arti e delle Lettere di Roma, insieme a Maniera d’amare e La Madonna del Belvento (cfr. Arnaldo Beccaria, Gli Indipendenti al Circolo delle Arti – Il successo della serata in onore di Rosso di San Secondo promossa da «L’Italia letteraria», in «L’Italia letteraria», 16 marzo 1935); ed è infine noto per essere il primo testo messo in scena da Ruggero Jacobbi, nel 1940.

79 Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 132.

80 Come rileva Gianni Rondolini, non pochi artisti, scrittori o pittori, che provarono a

recuperare al teatro la dinamicità e la primarietà del visivo si interessarono direttamente o indirettamente anche di musica, avvicinando la scrittura gestuale e l’intreccio di valori segnici a un tracciato sonoro. Ciò spiega anche l’uso abbondante di termini musicali per designare questo o quell’esperimento: sinfonia, studio, variazione, orchestra e, appunto, notturno o preludio. Cfr. Gianni Rondolini, La musica nel cinema, in Aa. Vv., Musica in Scena, cit., vol. VI, p. 291.

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aveva radicalizzato nelle pièces del Teatro da Camera81, e di cui Rosso si

impossessa fin dall’appellativo di “notturno”; termine che designa in musica una composizione di carattere lirico e melodico, latrice di climi sognanti e sentimenti ambivalenti, e in senso ampio ispirata alla notte.

La scelta di soffermarsi su questo breve dramma deriva proprio dal modo innovativo con il quale Rosso incorpora il ritmo dei brani selezionati nei due tempi dell’azione, all’interno dell’atmosfera elegiaca, nostalgica, trasognata, che le corpose didascalie suggeriscono ampiamente. La musica, altrove introdotta nel dramma al fine di preservare l’atmosfera scenica dalla diluizione dovuta alle pause e ai cambi di scena, assume qui una funzione di interazione con l’elemento visivo, secondo un parallelismo non casuale.

Introdotto da un cameriere, un individuo identificato come il Signore dal pastrano verde prende alloggio in una stanza d’albergo che, secondo l’indicazione di Rosso «dovrà riuscire a dare allo spettatore un senso di raccoglimento morbido, di silenzio ovattato, entro cui tanto le parole che le pause possano conservare quel tepore di commozione ch’è in tutto il clima del dramma»82. Il silenzio sarebbe completo se non s’udisse «molto fioco, il suono

d’un pianoforte che esegue la Reverie di Debussy»83.

L’uomo entra nella camera «con passo stanco e malfermo»84 e, appena pronunciata la prima battuta, una lunga didascalia di presentazione «discioglie nel ritratto psico-fisico del personaggio la forma tradizionale di svolgimento dell’azione»85. Come è stato gia notato, il colore, ancor più che veicolo di un sottotesto simbolico, è l’attributo che alimenta il gioco delle impressioni sceniche, consentendo in questo caso «riverberi spettrali sul viso “desolato” e malato del protagonista»86:

Egli è d’un pallore cadaverico, reso ancora più desolato dai riflessi verdi del pastrano. Negli occhi grandi e belli un velo mortale; sulla fronte un cruccio

81 Si ricorderà in Temporale la fugace risonanza della Fantaisie Impromptu di Chopin, la stessa

che ritorna, fuori scena, all’inizio di Il pellicano. Un movimento della Sonata n. 31 di Beethoven si sente invece in Il guanto nero. Cfr. August Strindberg, Teatro da camera, Milano, Adelphi, 1980. Con i Kammarspel Strindberg trasferiva nella rappresentazione teatrale il concetto di musica da camera, ricavando la struttura del dramma dalle forme musicali classiche, la sonata, il preludio o la fuga. Cfr. August Strindberg, Notes to the members of the intimate theatre, (trad. Evert Sprinchom), in «Tulane Drama Review», Winter 1961, p. 154.

82 Pier Maria Rosso di San Secondo, Musica di foglie morte, in Id., Teatro, cit., vol. III, p. 167. 83 Ibidem.

84 Ibidem. 85 Ivi, p. 133.

86 Paola Daniela Giovanelli, Drammaturgia dell’estremo in Rosso di San Secondo: «Notturni e

preludi», in Pier Maria Rosso di San Secondo nella letteratura italiana ed europea del Novecento, cit., p. 109.

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irrimediabile; i capelli radi che non riescono a nascondere la calvizie, sono brizzolati; nella bocca soltanto, quasi a testimonianza d’una grande bontà e d’una sconfinata delicatezza di spirito, gli rimane come un vezzo infantile, e, tratto tratto, spunta sulle sue labbra l’accenno d’un sorriso fresco, che subito però si perde come un ricordo che non si precisi87.

La conversazione col facchino procede tra ripetute e dilatatissime pause: le insolite domande dell’anziano Signore, assecondate dall’«indeciso» e «titubante» inserviente, sono strumentali alla reviviscenza di un passato lontano che costituisce l’antefatto della situazione presente.

Fin da questo momento dobbiamo immaginare il continuum scenico procedere in parallelo con la musica; l’allineamento consente cioè all’azione di ricevere una forma di modalizzazione dall’accompagnamento sonoro. Se scorriamo la partitura della breve pagina pianistica di Debussy notiamo come le prime battute ripetano un accompagnamento simmetrico e quasi ipnotico; l’intera aerea melodia sembra profilarsi su una superficie liquida lievemente ondeggiante. Il metro è binario, restituendo l’iterazione tipica di un moto oscillatorio e acquoreo, ma le costanti legature di portamento ne smussano gli spigoli, sostenendo una dinamica tenue e pulsante. È una “liquidità” accorata e dolente a caratterizzare la prima parte dell’atto; come le note ribattute di Rêverie il dialogo possiede un tessuto di assonanze, anafore e ripetizioni:

IL CAMERIERE. Devo… dunque svegliarla… veramente? (Pausa)

IL SIGNORE DAL PASTRANO VERDE. Sì… veramente…

IL CAMERIERE. Alle tre le va bene, per partire alle quattro?...

IL SIGNORE DAL PASTRANO VERDE. Sì, per partire per il mare…

IL CAMERIERE. Buon sonno… quel po’ di sonno che può fare… signore. (Mentre

s’avvia, soffermandosi) Sente?... continuano a suonare… Se ora crede che io avverta…

IL SIGNORE DAL PASTRANO VERDE. Sì, continuano a suonare…

Uscito il cameriere, mentre nel silenzio, ribadisce Rosso, «s’ode, come ovattato, soltanto il pianoforte che esegue la Rêverie di Debussy»88, il forestiero, abbandonatosi a sedere su una poltrona, sprofonda letteralmente nei ricordi. La levità oscillante e sonnifera della melodia sembra sostenere il tragitto della memoria, che si allinea così a quello musicale:

87 Pier Maria Rosso di San Secondo, Musica di foglie morte, cit., p. 167. 88 Ivi, p. 170.

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parrebbe ch’egli si fosse addormentato, se la mano poggiata al bracciuolo del seggiolone non prendesse in maniera appena percettibile a scandire il tempo della musica. […] Fissa il vuoto come se vedesse qualcosa, come se ricordi del tempo lontano gli rivivessero dinnanzi; muove a tratti le labbra, accenna appena qualche gesto come volesse parlare alle figure del suo ricordo89.

La rêverie del Signore dal pastrano verde si interromperà – o forse, volendo credere a un’interpretazione “medianica”, troverà una materializzazione – con l’apparizione di una ragazzina dall’aspetto delicato e intimidito, che Rosso nomina La Giovane dalla chioma castana, ritornata nella stanza precedentemente occupata per recuperare un baule smarrito.

La comparsa della ragazza getta l’uomo in uno stato di ansia ed esitazione che si trasmette nella conversazione, insistentemente arrestata da puntini di sospensione90; nella figura della Giovane l’uomo rivede infatti una donna che appartiene al proprio passato. Si intuisce subito che si tratta della madre della ragazza, a cui quest’ultima somiglia «come una miniatura» e che per giunta si diverte a imitare indossandone per gioco l’abito nuziale (fig. 3a). Non vi saranno più dubbi allorché la madre, richiamando sommessamente la figlia, entrerà nella camera del forestiere: «(fissa il forestiere allo specchio, batte le ciglia, torna a fissarlo, e ha come una vertigine; chiude di nuovo gli occhi, par che vacilli)»91.

Il secondo tempo si apre dopo che la ragazza ha lasciato la scena. L’uomo si nasconde nel pastrano mentre la donna – la Dama della miniatura – si tiene a distanza, rimanendo nell’ombra, «facendo vivere soltanto lo spirito delle sue parole e della sua voce»92. Le prime pagine del secondo tempo sono interamente occupate dal monologo della Dama, accompagnato dal pianoforte fuori scena, che esegue il Preludio Op. 28 n. 15 di Frédéric Chopin:

S’ode soltanto il pianoforte che esegue il Preludio di Chopin […] Discosta da lui, e tenendosi indietro nell’ombra della stanza con delicatezza di pudore, come

89 Ibidem.

90 Scrittura che ricorda da vicino quella dei periodi strindberghiani, i cui valori ritmici sono

calcolati e “misurati” da puntini, lineette, virgole e altri segni di interpunzione, indicazioni esplicitamente rivolte agli attori con l’obiettivo di rallentare l’esecuzione.

91 Pier Maria Rosso di San Secondo, Musica di foglie morte, cit., p. 173. 92 Ivi, p. 174

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a scomparire, facendo vivere soltanto lo spirito delle sue parole e della sua voce, La dama della miniatura comincia a parlare lentamente93.

Scritto fra il 1831 e il 1838 e conosciuto anche con il titolo apocrifo di La Goccia D’Acqua (a causa dell’effetto onomatopeico dovuto all’incessante ribattuto della stessa nota sul pianoforte), questo preludio presenta un’articolazione formale abbastanza consueta, che dispone due sezioni dal registro contrastante (una prima più lirica e una seconda drammatica) con una ripresa finale della prima.

Come intuito da Anna Barsotti, il breve componimento riflette «la musica tutta interna, in sequenze assimilabili a strofe, d’una rievocazione del passato che in tal modo si svela anche allo spettatore, attualizzandosi»94. Avviene così che il tono dimesso e misurato della prima parte del Preludio si appesantisca gradualmente, come alle prime idilliache immagini rammemorate dalla donna (i furtivi incontri nella villa immersa nella natura) ne subentrano altre, portatrici di un turbamento più profondo (il duello tra l’amante e il marito, l’uccisione di quest’ultimo, l’esilio volontario dell’uomo, rifugiatosi al Nord95). In uno stato quasi allucinatorio la donna rievoca successivamente l’amore mai cessato, vissuto nell’incertezza e nel dolore, un momento che si presta all’analogia con l’incalzare ossessivo della nota ribattuta, la Goccia. Il preludio chopiniano si conclude con una ripresa del tema iniziale, percorsa però da un’impressione di latente irrequietezza; non altrimenti l’immaginazione rapita della donna sembra placarsi, o meglio disciogliersi in una permanente angoscia.

La comparazione sembra plausibile anche in considerazione dell’espressività richiesta alla recitazione della donna, modellata sullo sviluppo musicale; il lungo monologo della Dama della miniatura è infatti punteggiato da una serie ritmica di pause, equidistanti l’una dall’altra, «come in una ripresa musicale»96. Il paragone con Strindberg si dimostra ancor più fondato, se ricordiamo un analogo momento in Sonata di fantasmi, durante il monologo

93 Ibidem.

94 Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 134.

95 Per la precisione le parole della donna sono «tra le brume di paesi lontani sconosciuti»,

un’espressione che ricorda da vicino quella che lo stesso Rosso adoperò nella dedica a Maria Melato che fa da preludio a La bella addormentata; una sorta di autoritratto con il quale Rosso fa risalire la sorgente della propria ispirazione poetica alla propria condizione di transfugo: «Nato fra l’ardore dello zolfo e il sole africano, sperai quietare la nera piaga nativa tra le brume dei nordici giardini», Pier Maria Rosso di San Secondo, La bella addormentata, cit., pp. 235-236.

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del Vecchio, intervallato da lunghi silenzi e contrappuntato dal battere ritmico di un orologio a pendolo97.

Siamo alle battute finali: nel timore di rovinare l’immagine di giovinezza che porta impressa nella memoria, l’uomo interviene per chiedere alla Dama di non mostrarsi. La musica non accompagna questo dialogo, visto che lo strumento fuori scena torna a farsi sentire solo alla fine (Rosso specifica, a poche battute dalla fine: «Il pianoforte, cessato da un po’, si fa udire ancora»98), suonando la Marcia funebre di Chopin99; nello stesso momento rientra la Giovane dalla chioma castana. Ed è ancora una didascalia a suggellare l’ultima allucinazione del Signore dal pastrano verde100, che fissa la ragazza «con stupore, come s’ella venisse avanti in un’aureola soprannaturale»101.

È interessante notare come Rosso amministri il tema del doppio, qui declinato come memoria immaginativa, come ritorno o reviviscenza. L’uomo vuole preservare la latenza mnemonica della madre da giovane, attraverso il duplicato filiale. Le notazioni sceniche appuntate da Rosso non vogliono esplicitare con chiarezza la verità; preferiscono invece, se possibile, lasciare tutto in sospensione, tutelando l’ambiguità che evidentemente deve possedere l’intera rappresentazione.

Allora, nel primo tempo, la sorpresa dell’uomo dinanzi alla “copia conforme” della donna amata in un tempo remoto si manifesta con lo stupore interdetto di chi non sappia se credere o meno ai propri sensi: «la fissa ancora in silenzio, come se non credesse ai suoi occhi»102, e si esprime poi «con voce stentata» e «quasi con un gemito»103. Alla ingenua e inconsapevole battuta di lei – «Io somiglio molto alla mamma» – l’uomo trasale, intravedendo, «con angoscia ansiosa», la possibilità di incontrare nuovamente la donna amata,

97 Cfr. August Strindberg, Sonata di Fantasmi, in Id., Teatro da camera, cit., pp. 134-136.

Particolarmente interessante è il riferimento alla «ritmica drammaturgica» strindberghiana compiuto da Franco Perrelli in Il ritmo scenico degli attori di Strindberg, in Il tempo a teatro, cit., pp. 69-89. Contributo che evidenzia come le modulazioni con cui Strindberg impartisce all’attore le dinamiche e la musicalità del testo da recitare siano ottenute con un peculiare utilizzo della punteggiatura, secondo un sistema uniforme che ricorda la notazione musicale.

98 Pier Maria Rosso di San Secondo, Musica di foglie morte, cit., p. 177.

99 È interessante rilevare che le note della marcia funebre chopiniana (si tratta per la precisione

del terzo movimento della Sonata n. 2) concludono anche La maschera e il volto di Luigi Chiarelli, allorché Paolo e Savina, ribellandosi agli obblighi dell’onore, si ricongiungeranno, mentre «Tutto il dramma passato rivive dolorosamente nella loro anima», Luigi Chiarelli, La maschera e il volto, in Id., La Maschera e il volto ed altri drammi rappresentati (1916-28), a cura di Giancarlo Sammartano, Roma, Bulzoni, 1988, p. 91.

100 Cfr. Anna Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, cit., p. 135. 101 Pier Maria Rosso di San Secondo, Musica di foglie morte, cit., p. 177. 102 Ivi, p. 171.

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come se gli si offrisse la possibilità di riguardare il film della propria giovinezza. Visione che non si concreta in maniera diretta bensì attraverso il filtro di uno specchio. Quando la Dama fa il suo ingresso nella stanza chiamando la figlia, il Signore dal pastrano verde si volge per non guardarla in faccia, ma si trova «di fronte lo specchio e in esso la scorge; come, allo specchio, ella scorge il volto di lui»104. Gioco di specchi e di ricordi che fa scivolare anche la donna nel deliquio.

Quando la situazione prossemica si sarà stabilizzata – siamo all’inizio del secondo tempo – impedendo l’incrocio degli sguardi (evitando cioè che il presente sbricioli l’integrità del passato tutelato dalla memoria), è la voce a essere incaricata di prolungare la reminiscenza: in una poetica quanto impegnativa raccomandazione, Rosso chiede che la voce della Dama restituisca «in un accoramento sospeso e nostalgico, la sensazione dell’aria stessa in cui la storia d’amore si svolse»105.

Infine, le ultime parole dei quattro personaggi (la madre e la figlia, il signore dal pastrano e il cameriere), che «come intermittenze ritmiche»106, compresse in un impasto di pause e silenzi, incedono fino all’«inevitabilità sepolcrale della rinuncia»107, insistono sulla coniugazione del verbo “rivedere”. La giovane, perplessa e timorosa, non si spiega come mai l’uomo mostri di averla già conosciuta, e usi per l’appunto il verbo rivedere108, al che il Signore, «allucinato», conferma: «Rivedo… Rivedo»109; la Dama, provando a ricomporsi in presenza della figlia, ma «con un tremito, ed il pianto in gola»110, conclude: «Lei rivede, signore, rivede?... ». La figura dell’epanalessi associa così le tre forme verbali a tre differenti momenti dell’anima, replicando peraltro un analogo gioco linguistico al termine del primo tempo (in cui era il verbo “vedere” a ripetersi). Dopo una netta cesura, che immaginiamo giunga in un funereo silenzio, si fanno udire «tre colpi lenti» battuti alla porta della stanza dal cameriere, che da fuori annuncia, quasi per ironia: «Le tre»111.

Si è visto così come il fraseggio delle didascalie sia il «congegno fondamentale del testo», mirato «a costruire quella fuga in avanti che scandisce

104 Ivi, p. 172. 105 Ivi, p. 174.

106 Paola Daniela Giovanelli, Drammaturgia dell’estremo in Rosso di San Secondo: «Notturni

e preludi», in Pier Maria Rosso di San Secondo nella letteratura italiana ed europea del Novecento, cit., p. 110.

107 Ivi, p. 111.

108 Pier Maria Rosso di San Secondo, Musica di foglie morte, cit., p. 178. 109 Ibidem.

110 Ibidem. 111 Ibidem.

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il crescendo»112. Va detto infine che l’uso della musica in funzione

extradiegetica, segno complementare del dialogo in grado di trasferire in scena spazi virtuali, spazi “di fuori”, ritorna negli altri due testi della trilogia di Notturni e preludi. Un’analisi non lontana da quella proposta per Musica di foglie morte si potrà dunque condurre per La Madonnina del Belvento, dove una stessa confessione accorata, nutrita di tenerezza e di estrema rassegnazione, ha nel Preludio n. 17 di Chopin il suo analogon; e per L’illusione dei giorni e delle notti, che si accompagna alla Sonata op. 7 di Grieg, “alla minuetto”.

3 . 1 . 2 DA WE R T H E I M

L’atto unico Da Wertheim (Emporio berlinese 1928), scritto verosimilmente durante il soggiorno a Berlino dell’autore, nel dicembre del 1928, e incluso più tardi nella raccolta Il nuovo teatro113, mostra, pur nella sua brevità e nell’appartenenza a un nucleo di testi drammatici sottovalutati e mai rappresentati, una costruzione stilistica e modalità drammaturgiche paragonabili ai testi anteriori. Nell’uso di un’ambientazione non convenzionale, di particolari segni extra-verbali e di una dizione forzatamente accelerata e innaturale, ritroviamo cioè i segni e i temi della produzione migliore di Rosso, quella che fa perno sulla secchezza della comunicazione per rivelare la costipazione della vita sociale e l’insensatezza dei rapporti umani.

Giudicato da Chiarini un «lavoro minore, un divertimento privo di grandi ambizioni»114, è per Francesco Flora «un’invenzione scenica irresistibile», un perfetto congegno in cui «un dialogo essenziale che acquista vigore dalla varia presenza di persone con interessi differenti ma tutte accomunate da una unica tensione del vivere. Una coralità discorde, veloce e

112 Paola Daniela Giovanelli, Drammaturgia dell’estremo in Rosso di San Secondo: «Notturni

e preludi», cit., pp. 110-111.

113 Il nuovo teatro (Milano, Garzanti, 1947) è una raccolta di brevi atti unici (o monologhi,

quali?), non legati a una unità di genere: essi anzi attraversano, per tema e struttura formale, gli estremi del teatro sansecondiano antecedente. Da Wertheim era già stata inserito, in forma di novella, nella raccolta C’era il diavolo o non c’era il diavolo?, nel 1929. La prima apparizione si ha però in «Il secolo XX», con illustrazioni di Marcello Dudovich, a. XXVIII, n. 1, 1929, pp. 7-9.

114 Paolo Chiarini, Rosso di San Secondo e il teatro tedesco del Novecento, in «Studi

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lampeggiante, con i più vari temi allusivi, appena accennati e già compresi, si ordina nell’animo dell’autore che muove i fili di tante marionette»115.

Di fatto, Da Wertheim è un esempio di “pantomima” metropolitana, ambientata nella Berlino degli anni Venti, in cui l’emporio più grande della città è reso con una descrizione quasi diaristica, quale potrebbe essere quella di un turista sorpreso da un luogo sbalorditivo:

Da Wertheim, cioè a dire migliaia di metri quadrati di negozio: sei o sette piani, millecinquecento scompartimenti, centoventi ascensori, settanta scale mobili. Vi si vende tutto il vendibile. Servizio di restaurant ad ogni passo; orchestre, grammofoni, radio, giardini d’inverno, ecc. Si apre alle otto del mattino, si chiude alle sette della sera: dal momento che si apre al momento che si chiude la ridda non si arresta un momento116.

Berlino, la capitale di fatto della Repubblica di Weimar, era allora una città in trasformazione, assolutamente “centrale”, seducente e insieme inquietante117. Dai nessi che la città intrattiene coi presupposti dell’avanguardia

internazionale – la frastornante aggressione uditiva e visiva, il fermento inarrestabile, l’immagine labirintica118 – intuiamo le ragioni del fascino esercitato su molti intellettuali europei.

Luogo simbolico dell’Erlebnis novecentesco, il grande magazzino ripercuote ed emblematizza la struttura spaziale della città, la sua mobilità accentuata, ipertesa, infrenabile. È fin troppo evidente che la didascalia iniziale descriva un ambiente sovradimensionato rispetto alle proporzioni dello spazio teatrale, ed esiga pertanto una stilizzazione. Il luogo scenico potrà quindi ridursi a un

salone di confluenza di tre reparti, con due ascensori, un restaurant e relativa orchestra. In mezzo, trofeo di stoffe spiegate con gusto, e manichini muliebri dal

115 Francesco Flora, Introduzione a Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, cit., vol. I, p. 37. 116 Pier Maria Rosso di San Secondo, Da Wertheim, in Id., Teatro, cit., vol. III, p. 253.

117 Per approfondire le rispondenze tra la topografia urbana e la visione artistica, letteraria e

politica di quegli anni, è prezioso il volume di Paolo Chiarini e Antonella Gargano, La Berlino dell’espressionismo, Roma, Editori Riuniti, 1997.

118 Quanto fosse d’ispirazione il fervore e la “vita nervosa” berlinese diranno alcuni esempi,

come la pellicola di Ruttmann Berlin. Symphonie einer gross Stadt, in cui la bellezza meccanica dei mezzi di trasporto, delle fabbriche, delle insegne, dei luoghi di divertimento, suggeriscono i principi ritmico-musicali che regolano sia la colonna sonora di Meisel sia l’occhio della telecamera; o il romanzo di Döblin Berlin Alexanderplatz, del 1929, in cui al montaggio creativo della narrazione corrisponde il perdersi nel cammino di una città che si dilata improvvisamente, sottoposta a una costante accelerazione.

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