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DIABETE E IPERTENSIONE

COORDINATO DAP. CAVALLOPERIN, CON LA PARTECIPAZIONE DI: C. CALVI, G. DEFERRARI, D. GIUGLIANO, G. GRASSI, G. MANCIA, C. NOACCO, A. TIENGO, R. TREVISAN, B. TRIMARCO

PRESENTAZIONE

P. CAVALLOPERIN

Dipartimento di Medicina Interna, Università di Torino

Introduzione

Il controllo della pressione arteriosa nel paziente dia- betico costituisce un problema clinicamente rilevante e di grande attualità sia per le conoscenze raggiunte nell’ultimo decennio sia per i mezzi di intervento oggi disponibili. Ciò pone il medico di fronte alla respon- sabilità professionale di operare in modo appropriato per salvaguardare la qualità di vita del paziente dia- betico limitando le conseguenze dell’ipertensione.

L’obiettivo del Forum è di fornire un’analisi dei punti salienti dell’argomento, corredata di bibliografia essenziale, nel tentativo di tradurre le conoscenze in un comportamento clinico motivato. Per favorire la leggibilità del tema, il Forum è stato strutturato rac- cogliendo il parere di un gruppo di esperti in risposta ai seguenti quesiti:

• A quali altri fattori di rischio cardiovascolare si asso- cia l’ipertensione nel paziente diabetico?

• Quali sono i criteri diagnostici e quali i valori soglia di pressione per l’intervento terapeutico?

• Quali valori di pressione devono essere raggiunti e mantenuti con la terapia antipertensiva?

• Quali sono i farmaci antipertensivi preferibili nel paziente diabetico?

• L’associazione tra farmaci antipertensivi è necessa- ria in molti casi? Vi sono alcune associazioni più indicate?

• La presenza di nefropatia pone problemi particola- ri per la terapia antipertensiva?

Alla presentazione del parere dell’esperto sul singolo quesito, si è ritenuto opportuno far precedere alcune

nozioni preliminari utili all’inquadramento del pro- blema.

L’importanza della misura della pressio- ne arteriosa nel paziente diabetico

In passato l’obiettivo della terapia del diabete consiste- va nel salvare la vita del paziente, correggere i sintomi della malattia (poliuria, polidipsia, calo ponderale) e prevenire le complicanze acute (chetoacidosi, coma iperglicemico-iperosmolare, ipoglicemia). Oggi l’o- biettivo della terapia si è esteso alla prevenzione delle complicanze croniche. Perciò, il compenso del diabete non è più soltanto riferito alla glicemia (profilo glicemi- co e HbA1c), ma è inteso in senso più allargato, coin- volgendo anche i parametri di rischio vascolare macro- e micro-angiopatico. Il concetto di “compenso globa- le” scaturisce da evidenze secondo le quali il compen- so glicemico di per sé non è in grado di ridurre il rischio cardio-vascolare senza la simultanea correzione del sovrappeso corporeo, del quadro lipidico, della pres- sione arteriosa e dell’abitudine al fumo. Ne deriva che il controllo della pressione arteriosa costituisce uno degli indici di qualità della cura del diabete. Ciò stabilisce l’importanza della misurazione sistematica della pres- sione arteriosa e di una continua correzione terapeuti- ca dei livelli pressori ritenuti pericolosi per il paziente in rapporto all’età, alle complicanze del diabete e al danno degli organi bersaglio dell’ipertensione.

La misura della pressione

Le modalità di misurazione della pressione arteriosa nel paziente diabetico non differiscono ovviamente da quelle di tutti gli altri soggetti (almeno 5 minuti di

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riposo, arto superiore appoggiato, parte centrale del- l’avambraccio all’altezza del cuore, misurazioni ripetu- te in più di 2 occasioni diverse per la diagnosi ecc.). È tuttavia importante tenere presenti tre considerazioni:

a) la maggior parte dei pazienti con diabete di tipo 2 (60-70%) presenta sovrappeso o obesità con risultan- te aumento della circonferenza del braccio; b) la macroangiopatia diabetica può determinare stenosi arteriose a livello dei tronchi sopra-aortici su base ate- rosclerotica con risultanti valori di pressione arteriosa diversi tra le due braccia; c) la neuropatia diabetica autonomica può causare ipotensione ortostatica. Ne deriva l’importanza: 1) di utilizzare bracciali di misura appropriata per evitare errori di sovrastima; 2) di misu- rare la pressione arteriosa inizialmente su entrambe le braccia per poter prendere in considerazione il valore più elevato e controllarlo successivamente sullo stesso braccio; 3) di procedere alla misurazione sia in clino- che in ortostatismo per svelare una eventuale ipoten- sione posturale da neuropatia autonomica. La presen- za di ipotensione ortostatica assume rilevanza anche ai fini della terapia: inizio del trattamento farma- cologico, scelta appropriata dei farmaci antipertensivi, livelli ai quali mantenere la pressione arteriosa.

L’ipertensione nelle varie forme di diabete

A parte le forme di diabete associato a particolari con- dizioni o sindromi, in cui talora è presente una forma di ipertensione secondaria, le caratteristiche cliniche dell’ipertensione essenziale variano notevolmente tra il diabete tipo 1 e il diabete tipo 2.

• Nel diabete tipo 1

1. L’ipertensione è assente alla diagnosi di diabete 2. Lo sviluppo di ipertensione è correlato all’insor-

genza della nefropatia

3. La pressione sistolica e quella diastolica aumenta- no proporzionalmente

4. L’ipertensione accelera notevolmente la progres- sione della nefropatia

• Nel diabete tipo 2

1. L’ipertensione è di comune riscontro alla diagnosi di diabete

2. L’ipertensione è correlata con il grado di obesità e con l’età

3. La pressione sistolica aumenta in misura maggiore rispetto alla pressione diastolica

4. L’ipertensione è scarsamente correlata con la pre- senza di nefropatia

La patogenesi dell’ipertensione nel diabete

La patogenesi dell’associazione tra ipertensione e dia- bete non è ancora completamente chiarita. Si ritiene che diversi meccanismi di alterato controllo possano essere in misura diversa responsabili dell’elevazione dei valori pressori e anche della difficoltà della loro correzione terapeutica. I principali sono elencati di seguito:

Fattori di regolazione della pressione arteriosa nel paziente diabetico

Fattori genetici multifattoriali Disfunzione endoteliale spesso presente Pool del sodio scambiabile di solito aumentato Catecolamine plasmatiche normali

Ipertono simpatico spesso presente Attività reninica plasmatica normale o bassa Aldosterone plasmatico normale o basso Sensibilità barorecettoriale ridotta

Compliance arteriosa ridotta Resistenze arteriolari aumentate Risposta agli stimoli

pressori aumentata

Aumentata escrezione

urinaria di albumina spesso presente Adiposità addominale/ aumentata nel diabete

viscerale tipo 2

Insulino-resistenza presente nel diabete tipo 2 e nel tipo 1 con microalbuminuria Trasporto cationico aumentato transmembrana controtrasporto

sodio-idrogeno

Come risulta dalla frammentarietà delle alterazioni sopra elencate, non è possibile proporre un modello unificato per illustrare la patogenesi dell’ipertensione nel diabete. Ciò è facilmente comprensibile data l’e- terogeneità fisiopatologica presente sia nel diabete sia nell’ipertensione essenziale. Provvisoriamente, si può ipotizzare che, in presenza di una predisposizio- ne genetica all’ipertensione, le alterazioni metaboli- che e/o emodinamiche presenti nel diabete possano determinare l’aumentata penetranza del fenotipo ipertensione negli individui diabetici.

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Epidemiologia dell’ipertensione nel diabete

La prevalenza dell’ipertensione è del 25% nella popo- lazione adulta, in cui rappresenta il fattore di rischio cardiovascolare più comune. L’ipertensione aumenta il rischio cardiovascolare di 2-3 volte ed è responsabi- le del 35% di tutti gli eventi cardiovascolari.

La prevalenza del diabete è del 4-7% per il diabete tipo 2 e dello 0,1% per il diabete tipo 1, ma la preva- lenza di entrambe le forme è in aumento. Nel diabe- te tipo 2 l’aterosclerosi rappresenta la prima causa di morte e circa il 50% dei pazienti con infarto miocar- dico è diabetico. Il diabete tipo 2 presenta un rischio cardiovascolare circa doppio rispetto alla popolazio- ne non diabetica.

L’associazione tra diabete e ipertensione è molto fre- quente. La prevalenza dell’ipertensione è circa dop- pia nei diabetici rispetto alla popolazione generale:

circa il 40% dei pazienti con diabete tipo 1 e circa il 60% di quelli con diabete tipo 2 sviluppano iperten- sione nel corso della malattia. Nei pazienti con iper- tensione arteriosa la prevalenza del diabete risulta aumentata rispetto ai soggetti normotesi: 6,3% vs 4,3% negli uomini e 6,4% vs 2,1% nelle donne. La prevalenza dei soggetti affetti da diabete e iperten- sione nella popolazione generale è stata stimata del 3-4% e la compresenza delle due patologie si associa a un rischio cardiovascolare 4 volte superiore a quel- lo dei soggetti esenti dalle due affezioni. I pazienti diabetici con ipertensione arteriosa presentano un’in- cidenza (numero di nuovi eventi in un dato interval- lo) di episodi cardiovascolari superiore al 4% per anno, vale a dire un’incidenza cumulativa del 40% in 10 anni. La presenza di altri fattori di rischio cardiova- scolare (obesità, dislipidemia, fumo) produce un effetto moltiplicativo sul rischio cardiovascolare. Ne deriva l’importanza di valutare nel singolo paziente il

“rischio cardiovascolare assoluto” non solo ai fini pro- gnostici ma soprattutto per stabilire l’intervento tera- peutico più adeguato per prevenire l’insorgenza o rallentare l’evoluzione delle complicanze.

Rischio cardiovascolare nel diabetico iperteso

Gli studi epidemiologici dimostrano una correlazione positiva indipendente e continua tra valori pressori ed eventi cardiovascolari, senza evidenziare un valore soglia al di sotto del quale venga meno il rapporto tra valori pressori ed eventi. Inoltre, la relazione tra pres-

sione arteriosa e rischio cardiovascolare è proporzio- nalmente simile nella popolazione diabetica e non- diabetica: nei pazienti diabetici ogni grado di incre- mento pressorio si associa allo stesso incremento pro- porzionale del rischio dei soggetti non diabetici, ma parte da un livello basale più elevato.

• Cardiopatia ischemica. La prevalenza della cardio- patia ischemica nel diabete tipo 2 risulta molto ele- vata (40-50%) e nel 50-70% dei casi ne costituisce la causa di morte. Il rischio di infarto miocardico nel paziente diabetico è pari al 20% nell’arco di 7 anni e risulta del tutto sovrapponibile a quello di recidi- va dell’evento nella popolazione non diabetica già colpita da un infarto in precedenza. I dati disponi- bili per il diabete tipo 1 indicano un rischio relativo di cardiopatia ischemica paragonabile a quello del diabete tipo 2: la mortalità per eventi coronarici raggiunge il 35% prima dei 55 anni di età in con- fronto al 4-8% nella popolazione non diabetica.

Anche il decorso della fase acuta e post-acuta suc- cessiva all’infarto miocardico risulta più sfavorevo- le, configurando una prognosi peggiore nel pazien- te diabetico: si registra un eccesso di mortalità del 38% negli uomini e dell’86% nelle donne, con una mortalità totale entro il primo anno del 44% negli uomini e del 37% nelle donne. La prevalenza dell’i- schemia miocardica silente nel paziente diabetico risulta 3 volte più elevata rispetto a quella della popolazione generale, attestandosi su valori del 6- 12%.

• Ictus. Il rischio di ictus nel paziente diabetico risul- ta doppio rispetto alla popolazione non diabetica ed è responsabile del 15% della mortalità totale. In presenza di diabete e ipertensione il rischio relativo di ictus e TIA raggiunge il valore di 3-6 volte rispet- to alla popolazione esente da diabete e ipertensio- ne. Come nel soggetto non diabetico anche nel paziente diabetico l’ictus ischemico rappresenta la forma largamente più frequente rispetto all’ictus emorragico. La prognosi risulta più sfavorevole nel paziente diabetico: la sopravvivenza a 5 anni è del 20% nel paziente diabetico rispetto al 40% nel sog- getto non diabetico; la frequenza delle recidive è del 24% nei pazienti diabetici e del 7% nei sogget- ti non diabetici.

• Scompenso cardiaco. Nel soggetto iperteso non diabetico il rischio relativo di sviluppare scompenso cardiaco è pari a 4,0 nei maschi e 2,1 nelle femmi- ne. Nel paziente diabetico il rischio è fino a 2,5 volte più elevato rispetto alla popolazione non dia- betica e l’ipertensione è considerata responsabile dello scompenso cardiaco nel 30-40% dei casi.

Nello studio UKPDS il rischio assoluto di scompen-

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so cardiaco è risultato di 3 eventi/1000 pazien- ti/anno. A parità di livelli di pressione arteriosa, la prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra risulta doppia nei pazienti diabetici ipertesi rispetto ai pazienti non diabetici ipertesi (72% vs 32%).

Questo dato è rilevante in quanto l’incidenza di scompenso cardiaco aumenta di circa 8 volte in presenza di ipertrofia ventricolare sinistra. Nella storia naturale della cardiopatia ipertensiva del paziente diabetico iperteso, la disfunzione diastoli- ca compare in modo anticipato rispetto alla disfun- zione sistolica; in particolare, è stato osservato che la disfunzione diastolica è documentabile nel paziente iperteso con alterata tolleranza al glucosio anche in assenza di ipertrofia ventricolare sinistra.

• Arteriopatia periferica. Nell’iperteso non diabetico il rischio relativo di arteriopatia periferica è di 2,0 negli uomini e 3,7 nelle donne. I pazienti diabetici presentano un rischio di amputazione degli arti infe- riori 10-15 volte superiore a quello dei non diabetici, con un’incidenza annuale variabile tra 3 e 18/1000.

È stata documentata una correlazione positiva tra pressione sistolica e arteriopatia agli arti inferiori, particolarmente evidente nel diabetico anziano.

Ipertensione arteriosa e complicanze microangiopatiche

Oltre all’associazione con il rischio cardiovascolare, l’ipertensione costituisce insieme all’iperglicemia un determinante maggiore della microangiopatia. È stato infatti documentato che livelli pressori elevati, anche nell’ambito della normotensione, sono in grado di favorire l’insorgenza e/o di accelerare l’evo- luzione sia della retinopatia che della nefropatia, mentre non sembrano influenzare la neuropatia dia- betica. In particolare, l’evoluzione della retinopatia e della nefropatia è sfavorevolmente influenzata da valori crescenti della pressione arteriosa, senza che sia possibile individuare un valore soglia di rischio.

Accanto agli studi osservazionali, gli studi di interven- to hanno documentato che la riduzione dei livelli di pressione arteriosa risulta protettiva sull’evoluzione del danno retinico e renale.

Terapie non farmacologiche nell’ipertensione del diabetico

Il trattamento antipertensivo si avvale non solo di far- maci, ma anche di modificazioni dello stile di vita, le

quali devono essere realizzate in fase iniziale e man- tenute successivamente durante la terapia farmacolo- gica.

• Dieta. La correzione del sovrappeso risulta efficace a migliorare il compenso globale del paziente dia- betico. Infatti, la correzione anche parziale del sovrappeso è in grado di ridurre l’insulino-resisten- za, la pressione arteriosa, i valori glicemici e lipide- mici. La riduzione dell’apporto di sodio, combinata con la restrizione calorica, produce un effetto anti- pertensivo additivo. Ciò dipenderebbe dal fatto che la riduzione del sodio riduce la reattività vascolare, mentre il calo ponderale riduce la volemia, il ritorno venoso, la portata cardiaca e l’ipertono simpatico. È perciò indispensabile un’informazione continua del paziente, richiamando nel tempo la sua attenzione sull’importanza della riduzione dell’apporto calori- co. Nel paziente con escrezione urinaria di albumi- na aumentata è opportuno ridurre l’apporto pro- teico entro 0,8-1 g/kg/die (microalbuminuria) o

< 0,8 g/kg/die (macroalbuminuria), dando la prefe- renza all’uso di proteine di origine vegetale. Ciò nell’intento di ritardare la progressione verso l’in- sufficienza renale, sebbene non vi siano ancora prove definitive di efficacia in proposito. La risposta pressoria all’introito di sodio è variabile e solo il 50% dei pazienti ipertesi è “sodio-sensibile”.

Tuttavia, poiché i pazienti sodio-sensibili non sono facilmente identificabili e una moderata restrizione sodica (6 g/die di cloruro di sodio o 2,3 g/die di sodio) non produce alcun danno, questa dovrebbe essere prescritta a tutti i pazienti diabetici in cui sia necessario ridurre la pressione arteriosa. Un eccessi- vo consumo di alcool si associa a un’aumentata prevalenza di ipertensione, ma un moderato apporto comporta un più ridotto rischio coronarico rispetto all’astinenza totale. Sembra perciò appro- priato consigliare un apporto di etanolo non supe- riore a 30 g/die (ad es. 200-300 mL di vino oppure 500-600 mL di birra) e invitare all’astensione totale solo nei rari casi in cui l’effetto pressorio si manten- ga anche per tali dosi. Sebbene acutamente l’as- sunzione di caffeina induca un aumento della pres- sione arteriosa, il consumo cronico di caffè non si accompagna a un significativo aumento della pres- sione arteriosa. La proscrizione assoluta del consu- mo di caffè rappresenta pertanto un provvedimen- to ingiustificato, mentre l’assunzione di 2-3 tazzine di caffè al giorno non costituisce alcun rischio nel paziente con questa abitudine.

• Attività fisica. L’esercizio fisico moderato, regolare, aerobico, isotonico (non anaerobico-isometrico!), non è pericoloso e può migliorare i valori pressori,

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glicemici e lipidemici. Se sono sedentari, tali pazienti devono perciò essere incoraggiati a com- piere ad esempio 3-4 km al giorno a passo di mar- cia oppure 40 minuti di bicicletta in pianura (o di cyclette in casa) almeno 3 volte alla settimana. Tale programma migliora l’efficacia della restrizione calorica, riducendo l’insulino-resistenza e la pressio- ne arteriosa.

• Abolizione del fumo. Sebbene il fumo di sigaretta aumenti acutamente la pressione arteriosa, nel tempo si sviluppa tolleranza agli effetti emodina- mici della nicotina, cosicché cronicamente l’abitu- dine al fumo non si associa a livelli di pressione più elevati o a una più elevata prevalenza di iperten- sione. Tuttavia, il fumo è un importante fattore di rischio cardiovascolare indipendentemente dagli effetti sulla pressione arteriosa. Perciò tutti i pazienti diabetici ipertesi dovrebbero essere fer- mamente e ripetutamente convinti a smettere di fumare, poiché questa misura rappresenta uno strumento efficace per ridurre il rischio cardiova- scolare.

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A QUALI ALTRI FATTORI

DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE SI ASSOCIA LIPERTENSIONE NEL PAZIENTE DIABETICO?

C. NOACCO

Unità di Diabetologia, Ospedale di Udine

La ricerca epidemiologica nel campo dell’ipertensio- ne ha riconosciuto che l’elevazione della pressione arteriosa (PA), sia sistolica (PAS) che diastolica (PAD), è un fattore di rischio comune e significativo di tutte le maggiori malattie cardiovascolari: malattia corona- rica ischemica, ictus, arteriopatia periferica e scom- penso cardiaco.

L’ipertensione si presenta tuttavia in forma isolata in non più del 20% dei casi, mentre è spesso associata ad altri fattori di rischio cardiovascolare. Il diabete e la ridotta tolleranza al glucosio, l’obesità, l’ipertrofia ventricolare, le dislipidemie sono i principali fattori di rischio cardiovascolare ai quali l’ipertensione è asso- ciata.

L’associazione dell’ipertensione con due o più di que- sti fattori di rischio si verifica con una frequenza 4 volte superiore a quanto ci si potrebbe aspettare se l’associazione fosse casuale. Tale aumentata associa- zione è riconducibile, almeno nella maggior parte dei casi, alla condizione di insulino-resistenza, genetica e/o acquisita, e al conseguente iperinsulinismo, del quale l’obesità, e l’obesità addominale in particolare, è uno dei fattori causali.

Lo studio di Framhingam ha calcolato che la preva- lenza della sindrome da insulino-resistenza nella popolazione generale potrebbe essere di 22% nel sesso maschile e di 27% in quello femminile. Inoltre, nei soggetti ipertesi, solo il 14% degli eventi corona- rici nell’uomo e il 5% nelle donne si verificano in assenza di fattori di rischio addizionali, mentre il 40%

degli eventi nei maschi e il 68% nelle donne possono essere attribuiti alla presenza di due o più fattori di rischio addizionali (1).

È quindi evidente che diventa importante, in partico- lare nei soggetti diabetici, procedere a una stratifica- zione del rischio cardiovascolare e individuare quali possano essere i fattori di rischio aggiuntivi; in altre parole di quanto aumenti il rischio cardiovascolare nel soggetto iperteso per il fatto che egli sia o diventi diabetico e quali altri fattori di rischio si associno nel diabetico all’iperglicemia, che comunque definisce e caratterizza il diabete mellito.

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Diabete e ipertensione

L’iperglicemia è nota essere di per sé un fattore di rischio cardiovascolare. L’incidenza della malattia coronarica è 50% più elevata nei maschi diabetici e 200% nelle donne diabetiche rispetto ai soggetti non diabetici; nelle donne diabetiche viene inoltre a man- care la protezione da eventi cardiovascolari rappre- sentata dal sesso. L’impatto dell’iperglicemia sulle sequele cardiovascolari è maggiore in termini di rischio relativo (RR) sull’arteriopatia periferica e sullo scompenso cardiaco, ma la malattia coronarica è in termini assoluti la più importante e l’unica in cui viene quasi annullata la differenza tra i sessi.

Quando al diabete si associano l’ipertensione, l’iper- colesterolemia e il fumo di sigaretta, la mortalità car- diovascolare rispetto a soggetti non diabetici, ma con gli stessi fattori di rischio, aumenta in maniera quasi esponenziale: il MRFIT ha calcolato che il RR di un soggetto diabetico per morte da cardiopatia ischemi- ca è 2,3-3,2 rispetto alla popolazione non diabetica, aggiustato per PA, colesterolo totale e numero di sigarette fumato. Quando poi la mortalità cardiova- scolare (CV), corretta per l’età, veniva calcolata in ter- mini assoluti in base alla presenza di 1, 2 o 3 fattori di rischio aggiuntivi, la mortalità per 10.000 in un fol- low-up di 12 anni raddoppiava per ogni fattore di rischio nei diabetici (30, 58, 90 e 128 decessi per 10.000 diabetici rispettivamente) (2).

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Il rischio di malattia cardiovascolare in 10 anni raddop- pia, in assenza di altri fattori di rischio, sia in un maschio sia in una donna sessantenni (da 5-10% a 10-20%) per la sola presenza del diabete. L’associazione di iperten- sione sistolica raddoppia ulteriormente sia nei maschi che nelle femmine il rischio da 10-20% a 20-40%. Se inoltre al diabete e all’ipertensione si associa microalbu- minuria, il rischio raggiunge il 40-60% (3).

Yudkin recentemente ha proposto coefficienti di rischio coronarico per decadi di età per maschi e fem- mine in base alla presenza o meno di diabete, iper- tensione sistolica, rapporto colesterolo totale/HDL, presenza o meno di microalbuminuria.

Fig. 1. Mortalità CV, corretta per l’età, per presenza di fattori di rischio (fumo di sigaretta, colesterolo totale, PA sistolica) nei sog- getti maschi sottoposti a screening per il MRFIT, con e senza dia- gnosi di diabete mellito alla base-line.

Fig. 2. Stratificazione del rischio CV a 10 anni in rapporto alla pre- senza di diabete mellito, alla PA sistolica, al rapporto colesterolo totale/HDL e alla presenza di microalbuminuria in soggetti di 60 anni (modificato da Yudkin, ref. 3).

La stratificazione del rischio assume particolare importanza per valutare il peso relativo dei vari fatto- ri di rischio conosciuti e il NNT (Number Needed to Treat) per evitare un evento cardiovascolare in asso-

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luto. Infatti, supponendo in base ai maggiori trial di intervento che la riduzione dei fattori di rischio porti a una diminuzione di 25% degli eventi, si può pru- denzialmente calcolare che, se il rischio a 10 anni è 60%, la riduzione del 25% lo porterà a 45%, con risparmio di 15 eventi ogni 10 anni per 100 soggetti a rischio della stessa categoria. Ne deriva che è suffi- ciente trattare 6,7 (100:15) soggetti con questi livelli di rischio (NNT) per evitare in 10 anni 1 evento car- diovascolare.

Per valutare l’impatto del diabete quale fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo nel soggetto iper- teso è importante considerare gli studi di intervento.

L’UKPDS (4) è stato il primo studio controllato a lungo termine a dimostrare l’effetto di una riduzione dei valori glicemici e dell’HbA1c sugli eventi cardiova- scolari (infarto del miocardio, ictus, vasculopatia peri- ferica, morti correlate al diabete). La riduzione dell’HbA1c dell’11% (esposizione media nel corso di 11 anni) riduce del 16% il rischio di infarto del mio- cardio (p=0,052), mentre non si sono rilevate diffe- renze significative per il rischio di ictus ischemico cerebrale. Nel sottogruppo di pazienti diabetici obesi il trattamento con metformina, a parità di effetto sulla glicemia e sulla HbA1c, riduceva significativamente (- 39%) il rischio di infarto del miocardio.

Il diabete quindi rappresenta un fattore di rischio car- diovascolare indipendente e significativo, e la riduzio- ne dei valori di HbA1c è probabilmente efficace nel ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari nel diabeti- co, anche se sembrerebbe che altri fattori incidano sulle complicanze macrovascolari del diabetico in misura ancora maggiore dell’iperglicemia: infatti a una riduzione delle complicanze microvascolari di 25% dei soggetti in trattamento intensivo corrispondevano una riduzione di 16% di infarto e nessuna riduzione signifi- cativa di ictus e arteriopatia periferica. L’analisi epide- miologica dei risultati dell’UKPDS dimostra infatti che ipertensione e iperglicemia concorrono ad amplificare il rischio CV: i pazienti con valori pressori sistolici >150 mmHg e HbA1c> 8% presentano un rischio di eventi macrovascolari 6 volte superiore rispetto ai soggetti con PAS < 130 mmHg e HbA1c< 6%, a dimostrazione che più che il singolo fattore di rischio è importante l’aggregazione dei fattori.

Nel braccio di intervento HDS (Hypertension in Diabetes Study) dell’UKPDS i diabetici posti in tratta- mento ipotensivo “ottimale” (media PA 144/82 mmHg), sia con ACE-inibitori sia con beta-bloccanti, presentavano una riduzione del rischio di malattia macrovascolare del 34% (21% infarto, 44% ictus) rispetto al gruppo in trattamento “non ottimale”

(media PA 154/87 mmHg) e significativamente supe-

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riore a quello ottenuto con il solo migliore controllo metabolico (5).

Anche lo studio di intervento Sys-Eur Trial conferma l’impatto del diabete sulla mortalità CV e sugli eventi CV: Il trattamento intensivo dell’ipertensione sistolica (obiettivo < 150 mmHg) riduce in una popolazione di ipertesi gli end point CV del 26%, ma nel sottogrup- po di 492 soggetti ipertesi e diabetici la riduzione della mortalità CV è stata del 55% (da 45 a 26 even- ti/1000 pazienti/anno) e quella di ogni evento CV del 69%, significativamente superiore a quella dei non diabetici (6).

Analoghi risultati sono riportati dallo studio SHEP (Systolic Hypertension in the Eldery Programme): il trattamento attivo (diuretico+beta-bloccante o reser- pina) riduceva in 5 anni il rischio di eventi CV mag- giori nei diabetici di 34%, valore doppio rispetto ai non diabetici.

Fig. 3. Incidenza di eventi CV maggiori in 5 anni (%) nello studio SHEP. Gli eventi includono infarto del miocardio, morte cardiaca improvvisa, angioplastica, by-pass aorto-coronarici, aneurismi, endoarteriectomia carotidea.

Lo studio HOT ha inoltre valutato i benefici della ridu- zione della PAD a vari livelli in soggetti ipertesi. Mentre nei soggetti non diabetici nei quali la PAS veniva ridot- ta a circa 140 mmHg la riduzione della PAD da 90 a 85 a 80 mmHg non modificava significativamente il rischio di eventi coronarici maggiori (10/1000 paz/anno) e di mortalità CV, nei 1501 pazienti diabe- tici il numero di eventi CV maggiori si riduceva signifi- cativamente da 24/1000 paz/anno (PAD < 90 mmHg) a 18/1000 paz/anno (PAD <85 mmHg), a 12/1000 paz/anno (PAD < 80 mmHg) e la mortalità CV dimi- nuiva da 11 eventi/1000 paz/anno a 4 eventi/1000 paz/anno se la PAD veniva mantenuta < 80 mmHg.

I dati dello studio HOT dimostrano come il diabete sia un rischio CV aggiuntivo e la mortalità CV e gli even-

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ti CV siano più che raddoppiati nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici con valori di PAD in un range considerato “normale” (8).

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positiva tra glicemia a digiuno, 1 ora e 2 ore dopo carico orale di glucosio ed eventi CV senza che si sia dimostrata una soglia di rischio: il rischio relativo di una glicemia a digiuno di 110 mg/dL è pari a 1,33 rispetto a una glicemia a digiuno di 76 mg/dL e una glicemia dopo carico di 140 mg/dL rappresenta un rischio relativo di 1,56 (10). Sembra quindi che i valo- ri di glucosio rappresentino un fattore di rischio car- diovascolare continuo, anche in un range inferiore ai valori patologici, analogamente a quanto dimostrato per il colesterolo totale e la PA. Ciò non sorprende quando si pensi che l’iperglicemia si sviluppa quando le cellule beta pancreatiche non riescono più a com- pensare il difetto di azione insulinica periferica, o resi- stenza insulinica, responsabile di molti casi di diabete tipo 2 e che il diabete mellito viene dignosticato dopo anni di livelli glicemici post-prandiali più o meno ele- vati e di iperinsulinemia “compensatoria”.

Almeno 3 studi prospettici hanno infatti posto in relazione l’iperinsulinemia con la malattia CV.

Lo studio di Helsinki (11) ha dimostrato una correla- zione positiva tra insulinemia 1 e 2 ore dopo carico orale di glucosio e malattia coronarica anche dopo correzione per BMI, glicemia, trigliceridemia, coleste- rolo totale, attività fisica, fumo e PA sistolica.

Lo studio PARIS ha dimostrato una maggiore inciden- za di coronaropatia in soggetti con elevata insuline- mia a digiuno, indipendente dalla tolleranza al gluco- sio e dalla PA (12).

Lo studio di Busselton ha dimostrato una correlazione tra insulinemia e incidenza di coronaropatia e mortalità cardiovascolare in soggetti di sesso maschile nella 6ª decade di vita. La mortalità per ogni causa era correlata positivamente all’insulinemia negli uomini nella 4ª e 5ª decade di vita (13).

Infine, il San Antonio Heart Study ha dimostrato che nella popolazione ispano-americana, che presenta una prevalenza di diabete tipo 2 da 3 a 5 volte mag- giore della popolazione bianca, l’insulinemia a digiu- no e la risposta insulinemica al carico orale di glucosio sono più elevate e si associano a un aumentato rischio CV. In questi soggetti prevalgono inoltre l’obesità e la distribuzione di tipo centrale dell’adipe, che si accom- pagna a maggiore insulino-resistenza.

Nello stesso studio sono stati esaminati a 7 anni dal- l’arruolamento i soggetti che nel corso dello studio ave- vano manifestato un diabete tipo 2: quelli che all’inizio dello studio presentavano una predominante insulino- resistenza (metodo HOMA) presentavano al controllo una PA più elevata, un colesterolo HDL più basso e una trigliceridemia più elevata, a dimostrazione che l’insuli- no-resistenza di per sé è un clustering di fattori di rischio CV e rischio CV essa stessa (14).

Fig. 4. Eventi cardiovascolari maggiori (infarto del miocardio, ictus, morte cardiovascolare) per 1000 pazienti/anno nello studio HOT in rapporto all’obiettivo di PA diastolica. Il gruppo dei diabetici miglio- ra significativamente gli esiti con livelli di PA diastolica inferiori.

Recentemente Haffner ha riportato i dati dell’inciden- za di infarto del miocardio in una popolazione di maschi finlandesi non diabetici e diabetici con e senza precedente infarto del miocardio. Nei non dia- betici l’incidenza di infarto del miocardio in 7 anni è stata di 3,5% nei soggetti senza pregresso infarto e 18,8% nei soggetti con pregresso infarto. Nei diabe- tici l’incidenza è stata rispettivamente di 20,2% e 45% nei gruppi senza e con pregresso infarto. Quindi la sola presenza di diabete mellito tipo 2 rende il rischio di infarto uguale a quello di un soggetto non diabetico già infartuato, e la mortalità nel diabetico infartuato risulta quasi 3 volte superiore a quella del- l’infartuato non diabetico. Dato che nei soggetti con pregresso infarto la mortalità CV è di 3-7 volte supe- riore alla mortalità della popolazione non infartuata, si può calcolare che il diabete tipo 2 aumenta per un fattore di 3-7 la mortalità CV rispetto alla popolazio- ne non diabetica (9).

Iperinsulinemia, obesità, insulino-resistenza

Il rischio cardiovascolare nei soggetti con ipertriglice- ridemia o intolleranza ai carboidrati, quindi per defi- nizione con glicemia a digiuno “normale”, è circa doppio rispetto alla popolazione generale. Una recente metanalisi che ha preso in considerazione 95.000 soggetti ha dimostrato una correlazione

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In conclusione, si può affermare che esiste evidenza che, anche in assenza di iperglicemia o a livelli di gli- cemia ancora in un range considerato “normale”, l’iperinsulinemia conseguente a insulino-resistenza rappresenta un fattore di rischio indipendente di malattia CV e che con il passare del tempo il mani- festarsi dell’iperglicemia aumenta il rischio CV sia direttamente sia per l’associazione di altri fattori di rischio (obesità, ipertrigliceridemia, ipertensione) a essa correlati.

Microalbuminuria

La microalbuminuria (MA) è un forte predittore di nefropatia diabetica ma anche di malattia CV sia nei diabetici tipo 1 che tipo 2. Però solo circa il 3% dei diabetici tipo 2 va incontro a uremia mentre l’80%

muore per malattia CV.

La microalbuminuria ha una prevalenza almeno tripla nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici (30% vs 5-10%) e in questi ultimi è soprattutto in relazione all’ipertensione. Nei diabetici è correlata all’iperten- sione arteriosa ma anche ad altri fattori quali l’obesi- tà addominale, l’iperuricemia, la glicemia a digiuno e la HbA1c. Sia il DCCT sia l’UKPDS hanno dimostrato che il buon controllo metabolico rallenta la comparsa della microalbuminuria (MA) e la progressione verso la macroalbuminuria nei soggetti diabetici, confer- mando la relazione tra MA e controllo metabolico.

Diversi studi hanno confermato che anche nei diabe- tici la macroalbuminuria è un fattore fortemente pre- dittivo di mortalità CV, con un rischio doppio rispetto ai diabetici senza microalbuminuria (15).

Il Risk Factor Intervention Study ha dimostrato che in un gruppo di diabetici ipertesi la mortalità è maggio- re nei soggetti microalbuminurici rispetto ai non microalbuminurici (p=0,035) e che la MA rappresen- ta un fattore di rischio indipendente (16).

Anche se la multifattorialità della patogenesi della MA pone qualche problema di interpretazione dei dati sull’effetto protettivo della riduzione della MA nei confronti della malattia CV nei diabetici tipo 2, l’opi- nione prevalente è che sia il controllo metabolico sia il controllo della PA debbano essere iniziati precoce- mente, che l’obiettivo pragmatico debba essere una PA di 130/80 mmHg e che sia più importante la ridu- zione dei valori pressori che il mezzo utilizzato. Lo stu- dio micro-HOPE ha recentemente dimostrato tutta- via una significativa riduzione del rischio CV (infarto del miocardio, ictus, mortalità CV e mortalità totale) in diabetici trattati con ACE-inibitori oltre alla terapia ipotensiva usuale (17).

È da notare tuttavia che il gruppo in trattamento con ACE-inibitori presentava sia a 1 mese sia a 2 anni una riduzione maggiore dei valori di PA sia sistolica che diastolica rispetto al gruppo di controllo e che è noto come anche piccole riduzioni della PA siano in grado di produrre significative riduzioni del rischio CV.

Vi sono alcune dimostrazioni che il trattamento ipo- tensivo debba essere iniziato anche in soggetti diabe- tici microalbuminurici non ipertesi o in diabetici tipo 1, ancor prima della comparsa di MA. Studi di inter- vento sono in corso per valutare i vantaggi di tale approccio.

Lipidi

L’alterazione dei lipidi plasmatici tipica del diabetico tipo 2 è caratterizzata da un aumento dei trigliceridi plasmatici e da bassi livelli di colesterolo HDL, mentre la prevalenza di ipercolesterolemia totale non è nei diabetici sostanzialmente diversa da quella della popolazione generale. Come nella popolazione ge- nerale fattori genetici possono essere causa nei dia- betici di ipertrigliceridemia o di iperlipemia combina- ta, così anche fattori acquisiti (alcool, estrogeni, far- maci ecc.) possono amplificare il disordine lipidico tipico del diabetico.

La fisiopatologia della iperlipemia del diabetico è caratterizzata da un’aumentata produzione di VLDL, prevalente nelle fasi iniziali della malattia, e da un ral- lentato catabolismo delle stesse. Nelle forme più severe l’attività lipoproteinlipasica è diminuita e il controllo dell’iperglicemia con insulina o ipoglicemiz- zanti orali può riportarla a valori normali nell’arco di settimane o mesi. Sia la resistenza all’insulina che un deficit di insulina possono essere causa di diminuzio- ne dell’attività lipoproteinlipasica.

Nei diabetici, inoltre, sono presenti alterazioni della composizione delle VLDL, più ricche di trigliceridi, e un aumento delle IDL, con maggiore effetto ateroge- netico per aumentata captazione delle particelle da parte delle cellule della parete arteriosa.

I bassi livelli di colesterolo HDL possono essere dovu- ti sia a ridotta produzione sia ad aumentato cataboli- smo. La diminuita produzione sarebbe dovuta a un diminuito catabolismo delle VLDL e alla diminuita attività della lipasi lipoproteica. L’aumentato catabo- lismo è conseguente a un’aumentata attività della lipasi epatica. Inoltre nei diabetici tipo 2 le particelle HDL sono più ricche di trigliceridi e più povere di colesterolo, con aumento del rapporto apo-A1/ apo- A2. La glicazione delle HDL, a differenza di quanto avviene per le LDL, ne aumenta il catabolismo.

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La concentrazione assoluta di LDL nei diabetici è simi- le a quella dei non diabetici, ma sono state descritte modificazioni metaboliche e di composizione delle particelle che le rendono più piccole, più dense, gli- cate e ossidate, tutte modificazioni in senso ateroge- netico. La glicazione delle LDL, ma anche l’associata ipertrigliceridemia e l’insulinopenia, possono ridurre il catabolismo delle stesse e causare un aumento anche dei loro valori assoluti.

È evidente che tutte queste modificazioni metaboli- che e strutturali espongono il diabetico a un rischio CV aggiuntivo rispetto sia all’iperglicemia sia all’iper- tensione; tuttavia non sempre è possibile valutare quale sia il peso reale di fattori di rischio “indipen- denti” e quello di fattori fortemente associati al rischio di base. Questi fattori associati, come l’ipertri- gliceridemia del diabetico, potrebbero rappresentare più marker di rischio maggiore che fattori di rischio aggiuntivi.

Per queste ragioni è importante considerare i risultati degli studi di intervento disponibili, oltre agli studi prospettici; infatti un fattore di rischio potrebbe esse- re un marker di malattia CV più forte in quanto espressione di un clustering di fattori di rischio asso- ciati (ad esempio ipertrigliceridemia associata a resi- stenza all’insulina, obesità, ipertensione). Gli studi di intervento ci permettono spesso di determinare il

“peso” del fattore di rischio indipendente e quello dei fattori di rischio associati. Va tenuto presente tuttavia che molti dei dati di intervento su soggetti diabetici derivano da analisi post-hoc, cioè da dati raccolti in una popolazione generale, dai quali solo successiva- mente sono stati isolati quelli riguardanti i soggetti diabetici, e questo potrebbe creare problemi nella omogeneità della selezione iniziale dei soggetti in studio e quindi nella confrontabilità dei gruppi.

Studi di prevenzione primaria nel diabetico

Non vi sono ancora sufficienti dati da studi di in- tervento di prevenzione primaria della malattia CV in soggetti diabetici con terapia ipolipemizzante.

L’Helsinki Heart Study ha dimostrato una riduzione di eventi coronarici in soggetti senza pregressa malattia coronarica con gemfibrozil, in particolare in soggetti con ipertrigliceridemia e basso colesterolo HDL. Nello studio fu arruolato un piccolo numero di diabetici (n=135) e l’analisi post hoc ha dimostrato una ridu- zione del 60% del rischio relativo di eventi coronarici, ma il valore non risultò significativo per la scarsa numerosità del campione (18).

Lo studio WOSCOP ha dimostrato che la riduzione delle LDL con pravastatina riduce gli eventi coronari- ci nella popolazione generale, ma il sottogruppo dei diabetici era troppo esiguo (1% del campione) per permettere un’analisi dei dati (19).

In attesa della conclusione degli studi in corso di pre- venzione primaria nei diabetici rimangono valide le indicazioni del National Cholesterol Education Pro- gram (NCEP), che consiglia una riduzione dei livelli di colesterolo LDL < 100 mg/dL nei soggetti con pre- gressa coronaropatia, < 130 mg/dL per i soggetti a rischio, < 160 mg/dL per i soggetti a basso rischio.

L’alto rischio è definito come presenza di due o più fattori di rischio CV: il diabete conta per un fattore di rischio e il sesso maschile rappresenta un altro fattore di rischio. Il panel tuttavia considera le donne diabe- tiche a uguale rischio degli uomini, per cui tutti i dia- betici, maschi e femmine, dovrebbero avere un tar- get di LDL < 130 mg/dL. Non solo, ma in base ai dati di Haffner già citati, cioè della uguale incidenza di eventi cardiovascolari nei diabetici senza pregresso infarto e nei non diabetici con pregresso infarto, alcu- ni autori ritengono giustificato spostare il target di prevenzione primaria per il soggetto diabetico a valo- ri di LDL ≤ a 100 mg/dL.

Studi di prevenzione secondaria nel diabetico

Lo studio 4S (Scandinavian Survival Simvastatin Study) ha dimostrato che in soggetti con pregresso infarto del miocardio e con trigliceridi “relativamen- te” normali (<220 mg/dL) la riduzione del colestero- lo totale con simvastatina a livelli inferiori a 200 mg/dL porta a una riduzione di un terzo degli eventi CV. In un sottogruppo di diabetici (n=202) la riduzio- ne risultò ancora maggiore (-55%) e anche la mortali- tà fu minore nei diabetici trattati, anche se non a livel- li di significatività statistica. Nel gruppo in trattamen- to con placebo l’incidenza di eventi cardiovascolari fu di 2,5 volte maggiore nei diabetici, a dimostrazione che il diabete aumenta ulteriormente il rischio CV, già elevato nei soggetti infartuati (20).

Lo studio CARE ha rilevato che la riduzione del cole- sterolo LDL in soggetti con precedente coronaropatia riduce gli eventi cardiovascolari anche in soggetti con valori di colesterolo LDL “normali” (139 mg/dL alla base-line) e che la riduzione è simile nei diabetici e nei non diabetici (25% vs 23%) (21).

Recentemente sono stati pubblicati i risultati dell’ef- fetto del trattamento con gemfibrozil in prevenzione secondaria in soggetti con bassi livelli di colesterolo

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HDL e colesterolo LDL “normale” (HDL < 40 mg/dL, LDL < 140 mg/dL). L’aumento del colesterolo HDL del 6% e la diminuzione dei trigliceridi del 31% riduceva in 5 anni il RR del 22% nei non diabetici e del 24% nei dia- betici (22).

Dai dati disponibili si può concludere che la dislipide- mia, sia primitiva (ipercolesterolemia isolata) sia secondaria (ipertrigliceridemia e basso HDL), rappre- senta un ulteriore fattore di rischio CV nel soggetto diabetico, non riducibile con il solo buon controllo metabolico. La dimostrazione che la correzione delle anomalie lipidiche nel diabetico ha un effetto ancora superiore a quello che si ottiene nei soggetti non dia- betici conferma la particolare aterogenicità delle par- ticelle lipoproteiche alterate qualitativamente, oltre che quantitativamente, nel diabetico.

Ipertrigliceridemia

Per quanto riguarda l’ipertrigliceridemia isolata nel diabetico non vi sono prove certe che rappresenti un fattore di rischio indipendente, come invece è dimo- strato per il colesterolo LDL.

Il Paris Prospective Study ha dimostrato una correla- zione tra ipertrigliceridemia e mortalità CV in un sot- togruppo di soggetti con diabete mellito tipo 2 o intolleranza ai carboidrati; inoltre è stata dimostrata una correlazione positiva tra malattia coronarica e VLDL e una correlazione negativa con i livelli di cole- sterolo HDL. Tuttavia all’analisi multivariata solo un basso valore di colesterolo HDL era correlato alla malattia coronarica.

Se vi sono sufficienti evidenze per considerare l’i- pertrigliceridemia come un fattore di rischio CV indipendente nel soggetto non diabetico (23), è più difficile stabilire quanto nel diabetico essa sia più l’espressione di un difetto metabolico di base (insulino-resistenza) che un fattore aggiunto. Sem- brerebbe che l’ipertrigliceridemia, e il basso valore di HDL, siano dei potenti marker di rischio cardio- vascolare nel diabetico, ma facciano parte di un clustering di elementi metabolici (insulina, gluco- sio, lipidi, indice ponderale, obesità addominale) che rappresentano un unico fattore di rischio prin- cipale.

Questa ipotesi ha la sua importanza concettuale e pratica nel fatto che, se essa dovesse essere confer- mata, darebbe una giustificazione al fatto che non è sufficiente la correzione di un unico fattore di rischio (o di un marker di malattia cardiovascolare) per una efficace prevenzione primaria e secondaria della malattia cardiovascolare nel diabetico.

Conclusioni

Negli ultimi anni si sono accumulate evidenze che altri fattori di rischio CV presenti nel soggetto diabe- tico contribuiscono in varia misura all’aumentata inci- denza di malattia, eventi e mortalità CV in questi pazienti. L’iperfibrinogenemia, lo stato trombofilico da aumentata adesività piastrinica, gli alti livelli di PAI 1, lo stress ossidativo e la disfunzione endoteliale sono alcuni degli elementi specifici della malattia dia- betica.

La riduzione dei livelli di glucosio plasmatico è sicura- mente efficace nel ridurre le complicanze microva- scolari del diabete, ma la relazione non è così lineare per le complicanze macroangiopatiche, anche se i risultati degli studi prospettici di intervento possono sottovalutare la responsabilità dell’iperglicemia in quanto la riduzione dei livelli di glucosio ottenuti sono ben lungi da rappresentare una normalizzazio- ne della glicemia.

Nei diabetici sono presenti quindi fattori di rischio aggiuntivi non solo rispetto al rischio rappresentato dall’ipertensione nella popolazione generale, ma anche al rischio rappresentato dall’iperglicemia di per sé.

Allo stato attuale dell’arte vi sono evidenze che solo l’azione su tutti i fattori di rischio, e non solo sui mar- ker di malattia, può ridurre l’incidenza di malattia e mortalità CV nei diabetici, sfida questa che si apre con il nuovo millennio.

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QUALI SONO I CRITERI

DIAGNOSTICI E QUALI I VALORI SOGLIA DI PRESSIONE PER LINTERVENTO TERAPEUTICO?

A. TIENGO, R. TREVISAN

Divisione Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Me- dicina Clinica e Sperimentale, Università di Padova

La definizione di ipertensione arteriosa nel diabete mellito non differisce da quanto stabilito nella popo- lazione generale.

D’altra parte i più recenti risultati di numerosi studi prospettici sulla relazione tra livelli di pressione arte- riosa e rischio di eventi vascolari hanno indotto la comunità scientifica a fare il punto su tale problema e a formulare nuovi e più attuali criteri di classificazione.

Le nuove linee guida hanno impostato le nuove clas- sificazioni, partendo dal presupposto che l’ipertensio- ne arteriosa non deve essere considerata isolatamen- te ma nell’ambito del rischio globale aterogeno a cui è sottoposto il singolo paziente. Altro presupposto della nuova classificazione dell’ipertensione è il rilievo che i livelli di pressione arteriosa sono correlati al rischio di patologia cardiovascolare in modo conti- nuo senza una evidente soglia patologica e ogni defi- nizione di ipertensione sarebbe perciò arbitraria.

In pazienti con ipertensione lieve il rischio di malattia cardiovascolare è infatti determinato non solo dai livelli di pressione arteriosa ma anche dalla presenza e dall’entità di altri fattori di rischio. Le differenze di rischio cardiovascolare assoluto tra pazienti con iper- tensione sono determinate più dalla coesistenza di

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