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Mobilità: la riflessione di Enrico Sciarra "ROMA, per il bene comune"

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ROMA, per il bene comune

15 giugno 2016

Enrico Sciarra

“Povera Roma mia de travertino, t’hanno vestita tutta de cartone, pè fatte rimirà da n’imbianchino.”

Scriveva così Pasquino in occasione del viaggio di Hitler a Roma (1938), infatti gli scenografi di Cinecittà dovettero rivestire e coprire con cartone e legno tutto intorno alla Stazione Ostiense dove arrivò in treno, il dittatore tedesco. Primo esempio di camouflage di regime.

Cosa scriverebbe oggi Pasquino?

“Povera Roma mia de travertino, t’hanno sprofonnato in ogni direzione, t’hanno stuprata fino a perdizione, pè fa magnà n’esercito de sorci c’hanno risparmiato pure sur cartone”.

Mi chiedo, quale sarebbe stato il commento di Pasolini al film “La grande bellezza”. Credo che avrebbe detto “purtroppo avevo ragione”; infatti il genocidio culturale che aveva previsto proprio partendo da riflessioni sulle borgate romane si è totalmente e definitivamente consumato.

Il cinema può tutto. Con inquadrature, luci, nascondimenti, ciak, scenografie, storie, facce, montaggi, trucco e trucchi può trasformare il brutto e l’impuro in bellezza da aggettivare come grande.

E poi discussioni senza capo e coda, senza mai aver visto un androne di Tor Bella Monaca, un marciapiede del Pigneto o il sottopasso Cappellini di notte.

Roma si sta consumando sotto gli occhi ipocriti e dolosi dei complici del consumo.

L’omologazione pasoliniana, in nessun altro universo appare come a Roma definitiva e capitale.

Roma avrebbe bisogno di buona politica e non di buonismo, di scelte decisive e non di rinvii, di divisioni per riconquistare una unità di qualità superiore, progettuale e non strumentale o elettorale.

La città non è più la stessa, nessuna nostalgia, nessun passatismo.

Una volta, ai tempi dell’approvazione della legge sulla riconversione industriale, sull’asse est fatto dalle strade interne e parallele al GRA che andavano dalla Tiburtina, Prenestina, Casilina, fino alla Tuscolana gli autobus trasportavano operai delle fabbriche, dalla Coca Cola alla Pirelli e dalle piccole industrie del legname e dei profilati alla Fatme e all’industria del cinema a Cinecittà.

Oggi gli utenti dei servizi sono cambiati, su quello stesso asse non ci sono più fabbriche, sono rimaste poche eccellenze artigianali e ci sono più di una dozzina di centri commerciali o megastore.

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Ai tempi dell’Apollon occupata (1968-1969), quelle fabbriche diedero vita ad una grande iniziativa di solidarietà presso un cinema tra Centocelle e l’Alessandrino, tentarono di costruire una piattaforma che uscisse dalle fabbriche e affrontasse il tema della qualità della vita dei quartieri e delle borgate, forte era la richiesta di collegamenti dei “mezzi pubblici” e qualcuno si spinse fino alla richiesta della gratuità dei mezzi pubblici.

Allora l’immobilità, avvertita come esclusione, era dovuta a servizi limitati, viabilità inadeguata, incapacità di programmazione, oggi l’immobilità è dovuta a tutto quello che si è sedimentato, alla congestione e soprattutto all’allargamento della città, il più gigantesco sprawl urbano del Paese.

La mobilità è un precursore e fissatore dei diritti di cittadinanza. Senza mobilità efficiente vince l’esclusione.

La distanza dalla periferia al centro può essere riconsiderata solo con una mobilità efficiente. Una città fruibile è una città più serena, meno nevrotica.

Senza mobilità la periferia urbana diventa sempre di più periferia sociale.

Un tempo si partiva dalla periferia e si andava in centro, il venerdì e il sabato sera e il centro era vissuto, oggi il centro è consumato con cinismo e rabbia omologata, le risse a Trastevere, le bottiglie dei bivacchi a Monti ogni domenica mattina, i segni del consumo sono le tracce di passaggi senza rispetto.

Le notti di Roma le riuscì a trasformare in miracoli solo Nicolini.

Lucio Dalla cantava che bisognava “stare un poco attenti” ma nulla al confronto di oggi.

Si muoveva la città ed una idea di città che fu copiata ed emulata in ogni dove.

Il cinema nei siti archeologici, i balli sull’innamoramento e l’amore a Villa Ada o in riva al fiume e contemporaneamente più di cento centri anziani aperti nelle periferie, la fine dei borghetti e l’attenzione agli ultimi, quello che Rosa Park rappresentò per la coscienza degli USA, Modesta Valenti, la barbona morta a Termini il 31 gennaio 1983 perché chi intervenne si rifiutò di prestarle le cure perché era “sporca”, fu per la coscienza di Roma.

Le strade, la luce e l’acqua nelle borgate, altro che “modello Roma”, quelle scelte amministrative e quelle esperienze rimangono le uniche cose associabili al nome di Roma. Il “modello Roma”, lo ha impietosamente dimostrato il tempo, è stato una sovrastruttura effimera e fuorviante fatta di scelte politiciste e opportuniste e come in molti hanno detto e scritto ha iniziato a disfarsi a partire dal 2000; e sopravvive solo la retorica del “modello”.

Nel libro “Del governo della città” scrive Paolo Ciofi: “…il giudizio definitivo sugli effetti del “modello Roma”

lo ha dato proprio Rutelli in un momento di lucidità nel 2008, quando si ricandidò senza fortuna per

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succedere a Veltroni in un nuovo passaggio di mano tra i due vessilliferi del “modello”: “una città devastata e ridotta allo stremo”.

Roma è un bene comune, comune non solo per i cittadini romani, comune per gli italiani e comune per i cittadini del mondo.

In molti parlano di Roma. Lo fanno per attaccarla, deriderla, denigrarla e in qualche caso oltraggiarla.

Quelli che parlano di Roma tendono a parlarne come se fosse una non parte del paese , e invece Roma è il Paese, ne rappresenta la sintesi del bene e del male, rappresenta le derive e il conflitto ma anche la bontà e l’impegno.

L’11 dicembre 1955 l’Espresso titolava in copertina “capitale corrotta = nazione infetta”. Oggi un titolo che volesse fare sintesi dovrebbe trascurare la cronaca giudiziaria e basarsi su quanto, meglio di ogni altra cosa, rappresenta lo stato e la forma urbana della città. Prendo a prestito il titolo di un bel libro di De Lucia e Erbani “Roma disfatta”; il titolo potrebbe essere “Roma disfatta = Italia sconfitta”. Questo a significare che quello che ha portato Roma alla disfatta, sta portando il paese alla sconfitta.

Questo “instant book” è una specie di lettera aperta, anzi di “libro aperto” indirizzato al nuovo Sindaco di Roma.

Tratta di quanto si può fare nella mobilità e per la mobilità con una politica coraggiosa e fuori dalle vecchie logiche e dagli interessi consolidati dei diversi grumi di potere.

Non è un catalogo, si tratta di contributi ad un piano di lavoro con una prospettiva di medio lungo periodo.

Roma non è da copertina: un caso o il caso più disumano, raccapricciante e aberrante non la possono rappresentare. Nessun dolore, felicità, gioia, tristezza o sgomento può racchiudere il senso di questa città.

Ma Roma è ancora una città? O meglio, cosa deve fare Roma per essere una città?

In tutto il mondo la città supera la campagna per residenti, PIL, qualità della vita, occasioni, relazioni, scambi, processi di mobilità sociale e fenomeni di esclusione ed inclusione.

Nel 2030 la popolazione che vivrà nelle città del mondo supererà il 60%, cioè su una popolazione stimata di 8,1 miliardi, 5 miliardi abiteranno nelle città. Il fenomeno di urbanizzazione conosciuto in Italia negli anni

’50 e ’60 non è nulla rispetto a quello che sta accadendo nei paesi in via di sviluppo o del BRIC.

A Roma chi ricorda il “borghetto dell’Acquedotto Felice”? Quando si entrava in quel luogo si provava un senso di indignazione e dolore, ma si respirava la conoscenza del giusto e dell’ingiusto, nulla di paragonabile alle sterminate baraccopoli che cingono le città del sud del mondo.

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Ma Roma è una città o una sommatoria di siti non città?

Come si può rigenerare una città, non solo dal punto di vista urbanistico ma anche umano e sociale?

Roma ha resistito ad incendi, ad invasioni dei barbari, a varie ruberie della cosiddetta nobiltà che trasformò il Colosseo in una cava per l’estrazione di marmi e fregi, ai piemontesi che costruivano quartieri alla torinese a Roma che aveva già superato la pianta a castro romano, al fascismo con i viali imperiali e con le deportazioni di popolo nelle periferie (Quarticciolo). Roma città aperta ha resistito anche alle bombe e alla guerra, mantenendo una storia e un confine collettivo. I confini della città erano (e sono ancora riconoscibili) gli anelli di manovra della rete tranviaria, le case del dazio, le stazioni di scambio dove cambiava il prezzo e il colore del biglietto, i conventi/collegi sulle prime colline all’orizzonte, le “marane” e le mura che avevano ancora un senso con le porte delle mura ad anticipare i punti cardinali e il “fuori porta” che aveva un senso.

Tutte le strade portano a Roma, e negli anni ’50 e ’60 a Roma si arrivava appunto per le consolari, perfino gli insediamenti rispecchiavano la consolare di collegamento tra il territorio di origine e Roma, così gli abruzzesi sulla Tiburtina, i napoletani sull’Appia e Casilina, i marchigiani ed emiliani sulla Salaria.

La cosiddetta autoproduzione per necessità ha costruito agglomerati da 2-3 piani a blocchetti e con i ferri liberi sul solaio per agganciare un’ultimo piano a mansarda. Un tempo si diceva: “ se fai il tetto nessuno ti può più fermare” e poi sul tetto si issava il tricolore, poi “fai che ci sarà un prossimo condono” e non venivano usate le bandiere.

Borgate nate intorno ad un luogo originario dal quale prendevano il nome una specie di centro fisico e toponomastico della borgata, e poi dal piccolo luogo: una torre, una strada, un bivio, ecc., espansione continua dal nucleo della borgata e quindi dal centro della città, con una densità abitativa rarefatta da deserto e non da città.

Basta ricordare quello che è accaduto in 30 anni al vecchio nucleo della Borgata Fogaccia divenuta oggi Montespaccato. I lotti venduti come piazzole di un campeggio e tutto cresceva con meno ordine di un qualsiasi campeggio.

Nessun valore architettonico, costruzioni da esperienza di cantiere, quando c’erano i progetti erano cloni dell’unico disegno del Signor Geometra con le case solo ruotate rispetto ai punti cardinali per fare un po’ di differenza, del resto niente di diverso da certi archistar che con il computer ripetono lo stesso tema e trama sia che si tratti di un palazzo dello sport, di un ponte o di un museo.

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In “Roma non si piange su una città coloniale” Tocci scrive : “Le filiere di proprietari, costruttori, tecnici e notabili hanno preso il comando in un deserto di partecipazione dei cittadini” e questo processo ha origini lontane nel tempo.

Roma, per quasi mezzo secolo, si è allargata come una macchia d’olio sull’agro.

Sono allargamenti realizzati in fasi storiche diverse ma il processo non è interrotto né a Roma, né nel Paese.

Nel libro “Le città fallite” Paolo Berdini scrive: “E una stagione dell’oro sembrava davvero aprirsi per le città.

Grazie alla disarticolazione della legislazione di tutela e alla cancellazione dell’urbanistica si è prodotta la più grande espansione edilizia dal periodo dell’immediato dopoguerra. Nel 2013 l’Ispra, Istituto superiore di studi per l’ambiente, ha confermato quanto una parte degli urbanisti e delle associazioni aveva denunciato in quegli anni, ossia che, a fronte di un consumo di suolo medio europeo del 3,2% sul totale della superficie, in Italia tale valore è pari a 7,3%, poco più del doppio. A parità di popolazione insediata e di luoghi per la produzione industriale o terziaria, in Italia abbiamo cementificato il doppio dei paesi che hanno invece mantenuto il controllo del territorio.”

Roma è passata da 150.000 abitanti a metà dell’ottocento ai 3.000.000 di abitanti di oggi.

Con questa dimensione si devono fare i conti.

Si dice “insediamenti satelliti”, vero perché sono distanti e irraggiungibili come i satelliti.

L’impianto della mobilità di Roma è rimasto quello del secolo scorso, con lo stesso centro storico e una sterminata serie di città intorno, e lo stesso impianto radiocentrico.

Ci sono meno tram degli anni ’30, ci sono più o meno le stesse linee ferroviarie, ci sono meno filobus, ci sono un po’ più di chilometri di metro e più linee di superficie.

Ma tutto quello che è in servizio serve a supportare l’assetto attuale della città? La risposta è sotto gli occhi di tutti: no.

Per affrontare la mobilità si deve partire dal sistema città, dai poteri che ha o dovrebbe avere la città per rigenerarsi e rinascere.

Roma deve diventare l’Ile d’Italy, cioè una Regione con i poteri della Regione in un quadro di assetto regionale profondamente cambiato.

Che ci siano Regioni con meno abitanti di un quartiere o municipio di Roma, il Paese non può più permetterselo.

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La vera riforma istituzionale necessaria è questa, cambiare l’assetto delle Regioni, la modernizzazione dello stato passa obbligatoriamente per questa scelta.

Gianfranco Miglio, nell’Asino di Buridano sviluppò il suo pensiero “federale e confederale”, basandosi sulla ricerca condotta dal Prof. Innocenzo Gasparini propose tre macro Regioni: Padania, Italia Centrale e quella Meridionale “aggiungendo alle tre grandi, unità particolari di cui ho parlato, le isole, le altre Regioni a statuto speciale e un “territorio federale” intorno a Roma (anche per risolvere il problema difficile della

“città capitale” e del suo Statuto). Oltre gli eccessi di “Roma Ladrona”, il problema Roma era affrontato ed era trattato contestualmente ad un riordino dell’organizzazione delle Regioni. L’idea che il federalismo si potesse realizzare trasferendo alle Regioni attuali i poteri non ha funzionato ed oggi, oltre alla nuova centralizzazione di poteri e competenze è ben presente la necessità di ridurre e razionalizzare il numero delle Regioni e di ribilanciare le loro competenze.

La proposta di Legge Costituzionale N° 3090 presentata il 30 aprile 2015, primo firmatario Morassut, affronta la riorganizzazione delle Regioni con la riduzione a 12 e tra queste 12 è prevista la Regione di Roma Capitale “comprendente l’ex Provincia di Roma”.

Roma Regione è cosa diversa e più strutturata rispetto a quello che Miglio chiamava “un territorio federale intorno a Roma” e rappresenta quanto necessario.

A questo punto si pone la questione di come articolare i comuni della “Regione Roma Capitale”, si sta parlando di 4.321.244 abitanti su una superficie di 5.363 Kmq e una densità di 806, dei quali Roma Capitale con 2.863.322 abitanti 1.287 Kmq e una densità di 2.224.

Da anni tra Roma e la Regione c’è uno stato mutevole del rapporto che assume di volta in volta i caratteri di concorrenza, conflitto, competizione, incomprensione e questo indipendentemente dagli orientamenti politici delle Giunte. Nessuno ha provato a quantificare quale mancata utilizzazione di risorse provoca questa asintonia e asimmetria tra le Istituzioni.

Non serve solo un numero ridotto di Regioni, Roma dovrebbe superare gli attuali municipi e diventare Roma Capitale nella Regione Roma Capitale. Superare i municipi perché una vera amministrazione di prossimità non è data solo dalla grandezza della Istituzione ma dal modello organizzativo dell’amministrazione, dalla mobilità, dalle tecnologie.

Roma come una nuova città del sole non con sette cinta di mura, ma sette colli e sette comuni costituenti.

In Germania c’è stato un processo di accorpamento dei comuni, in Italia si può fare altrettanto con gli ottomila comuni, avere un comune di 64 abitanti, molto meno degli abitanti di un condominio di Roma, non ha senso e snatura il significato stesso di comune.

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Oltre l’assetto istituzionale, si devono fare scelte. Le contraddizioni di Roma, sono gravi e hanno un segno tutto locale.

Lo studioso e architetto Joseph Rykwcrt sostiene che: “Da tempo le nostre città non hanno più cuore. E’

questo che le distingue dalle città del passato” e ancora “la città non è mai solo un luogo fisico. E’

soprattutto una forma simbolica, che rispecchia la visione del mondo dei suoi abitanti. Era vero per le città antiche, è vero per le metropoli moderne. La differenza è che quelle contemporanee sono ormai l’immagine spaziale della speculazione immobiliare la finanza tradotta in edilizia”.

Non è vero che “la società non esiste, esiste l’individuo”.

Proprio nelle città è necessario includere le differenze, creare convivenza, sviluppare luoghi comuni, contrastare lo sviluppo verso l’alto e lo sprawl.

Si deve ricreare un legame tra gli uomini e l’ambiente, tra gli uomini e i tempi della vita e del lavoro.

Italo Insolera, oltre cinque anni fa, in occasione dell’aggiornamento di “Roma Moderna”, a cinquanta anni dall’uscita, in una intervista a Francesco Erbani dopo aver spiegato perché Roma non è moderna sosteneva

“Può diventarlo se smette di crescere”.

Nell’intervista Insolera spiegava come la città abbia passato decenni a spendere energie e risorse per “ riagganciare questi nuclei alla città” . Parlava sia dei nuclei abusivi che dei quartieri sorti legalmente ma con intenti speculatori “dove si è pensato ai palazzi e non alle strade”.

Questo “riaggancio” non è riuscito, dopo otto anni si può dire che a questo non è servito il Piano Regolatore Generale delle Centralità.

Il problema non va inteso come crescita o decrescita, a Roma la scelta deve essere della a-crescita, non più dilatazione degli spazi ed espansione materiale, ma un processo di riorganizzazione e una nuova evoluzione urbana, senza consumo di suolo e anche con ricostruzioni.

Si deve ridurre la distanza, fisica e sociale tra i luoghi di vita e i luoghi di lavoro, chi aveva pensato che la distanza potesse essere colmata dalla telematica e dall’informatica, comincia a capire che non tutta la distanza si colma con la immaterialità delle reti perché la materialità urbana priva di qualità, l’assenza di funzioni e l’assenza di servizi di trasporto metropolitani e ferroviari ipotecano la sorte di interi settori della città e la vita dei cittadini.

Riagganciare le parti della città, qualcuno dice riammagliare o ricucire.

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Per farlo ci vuole un sarto che sappia far valere gli interessi generali contro quelli della rendita e della speculazione, non ci sono più palazzinari rozzi e unti tipo Fabrizi in “C’eravamo tanto amati”, ma l’istinto anche nei più moderni, eleganti e tecnologici è lo stesso.

Il sarto deve superare i “diritti edificatori” e le “compensazioni urbanistiche”, la cosiddetta “moneta urbanistica” conio dell’urbanistica contrattata e motore del “pianificar facendo” non serve ci vuole una legge sul suolo con la priorità pubblica, semplicemente guardando alle migliori esperienze europee.

La dilatazione incontrollabile di Roma ha prodotto una perdita di storia e di identità.

Non si può non ripartire dal territorio inteso come bene comune.

La scelta della a-crescita non è contraddittoria con l’obiettivo di fare in modo che le città siano resilienti.

Si deve garantire l’uguaglianza delle condizioni e delle opportunità.

Elisabetta Demartis citando Enrique Peñalosa, cittadino colombiano e sindaco di Bogotà, ha evidenziato il nesso tra mobilità e uguaglianza democratica: “uguaglianza democratica, dove un bus con 80 persone ha il diritto di uno spazio di 80 volte superiore di quello utilizzato da una macchina con un solo passeggero.

Siamo così abituati a vivere nella disuguaglianza e nell’ingiustizia sociale, che vedere un bus con 80 passeggeri bloccato nel traffico ci sembra un fatto normalissimo”.

Per questo la mobilità non è solo un precursore e fissatore dei diritti di cittadinanza ma anche un indicatore di equità e uguaglianza democratica.

Per questo la mobilità è la vera priorità della città e del lavoro del Sindaco di Roma.

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