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LA CINA E SOCIALISTA? (2) di Mauro Pasquinelli

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LA CINA E’ SOCIALISTA? (2) di Mauro Pasquinelli

R iflessioni sulla natura sociale e politica della Cina alla luce delle categorie marxiste.

QUI la prima parte.

CAPITALE E LAVORO SALARIATO NELLA CINA DI XI JINPING

I filocinesi, per connotare la Cina odierna, ricorrono alle espressioni più bizzarre, tre in particolare mi hanno colpito:

“socialismo dalle caratteristiche cinesi”, “semi-socialismo”,

“socialismo di mercato”.

Sono tre formule magico-ideologiche che hanno la pretesa di rappresentare per il solo fatto di nominare. Ma hanno un vulnus grande come una montagna: scambiano il socialismo con lo statalismo. Come abbiamo visto nella prima parte, si basano su una evidente fraintendimento del concetto di Socialismo, e non sarebbe così difficile sostituirle con altri

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enunciati speculari e forse più appropriati del tipo:

“capitalismo dalle caratteristiche cinesi” , “semi- capitalismo” o, come ha scritto il filosofo Agamben, ricorrendo ad un eccentrico ossimoro: “capitalismo comunista”

(4). Branco Milanovic predilige il termine “capitalismo politico autoritario” (5). Per orientarci in questo guazzabuglio di definizioni e trovare la formula più adatta, occorre scovare la giusta chiave interpretativa, e in questo caso nessuno meglio di Marx può venirci incontro.

Questa chiave si chiama analisi dialettica della formazione sociale. Per comprenderne gli elementi costitutivi non ci vengono in aiuto i sociologi con la loro messe di dati empirici, gli economisti con le loro inutili curve di domanda e di offerta, o gli auto-incensamenti ideologici dei dominanti della Cina di oggi, cui fanno eco i loro tifosi nostrani. Ci occorre invece la fredda e lucida analisi scientifica della struttura socio-economica, mediante l’uso di categorie concettuali come modo di produzione, rapporti di produzione, forme giuridiche di proprietà.

Ogni formazione sociale è un insieme di differenti modi di produzione, e inquadrarne la natura, significa isolare astrattamente il suo modo di produzione dominante. Tra il modo di produzione dominante e la sovrastruttura statale può esserci anche non corrispondenza, come per esempio accadde nella Francia del 700. Ivi, fino al 1789 il modo di produzione dominante era capitalistico nonostante lo stato e le leggi avessero ancora un carattere di tipo feudale. Con la rivoluzione la corrispondenza fu ristabilita.

In Cina sono presenti almeno quattro modi di produzione: la piccola produzione mercantile, il sistema cooperativo, il sistema capitalistico privato e il sistema economico statale guidato dal partito Comunista. Con i filocinesi possiamo concordare sul fatto che il quarto, il sistema economico statale, rappresenti il modo di produzione dominante. Ma in cosa consiste la sua essenza storico-sociale? Per un marxista

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la risposta è chiara ed esplicita: essa risiede nei rapporti di produzione, che a loro volta sono influenzati dal livello di sviluppo delle forze produttive (“il mulino a vento ci da la società con il signore feudale, la macchina a vapore quella con il capitalista”), ma questo per ora non ci interessa.

“ è sempre nel rapporto diretto tra proprietari delle condizioni di produzione ed i produttori immediati che noi troviamo il segreto intimo, il fondamento nascosto di tutto l’edificio sociale e, per conseguenza anche la forma politica rivestita dal rapporto di sovranità e di dipendenza, in una parola di tutta la forma specifica dello Stato”. (6)

Segreto intimo, fondamento nascosto, rapporto di sovranità e dipendenza, forma specifica dello Stato! Parole chiare e inequivocabili. Chi può negare che oggi in Cina il rapporto tra chi gestisce le condizioni di produzione statali, — pur non essendo proprietario de iure ma de facto dei mezzi di produzione –, e i produttori immediati sia un rapporto di dominio piramidale tra una élite tecnocratica inamovibile e sovrana – al cui vertice c’è un presidente a vita — che concentra in sé tutte le prerogative del potere, e il proletariato dipendente e anonimo che non possiede altro che la propria forza-lavoro?

Qualcuno potrebbe osservare che tale nesso di sovranità- dipendenza era già vigente in epoca feudale e schiavistica, o nel modo di produzione asiatico, e quindi non ci dice nulla ancora sulla natura capitalistica del rapporto stesso. Vero, ma esclude già la natura socialista di esso, in quanto l’essenza del socialismo risiede nel controllo diretto dei produttori associati sui mezzi e le finalità della produzione.

In due parole nella democrazia reale, nella democrazia economica, nella sovranità popolare.

In quali forme si attua il rapporto di dipendenza tra proprietari de facto e produttori immediati in Cina? La mia risposta è chiara: nella forma capitalistica, più precisamente

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nella forma del capitalismo di Stato dalle caratteristiche cinesi, ove la classe dominante, rappresentata dalla tecnocrazia “comunista”, funge da capitalista collettivo ideale, con una mano tesa alla valorizzazione del capitale e all’accrescimento della potenza statuale e nazionale, e l’altra alla ricerca dei mezzi per garantire la stabilità sociale, l’armonia tra le classi e l’equilibrio dello sviluppo. E’ un caso che la leadership di Xi Jinping si richiami con sempre maggiore insistenza alle tradizioni confuciane della millenaria civiltà cinese? Assolutamente no.

Il confucianesimo, con il suo proverbiale richiamo al rispetto della autorità e gerarchia, torna assolutamente utile alla causa, che non e’ quella comunista, ma la tenuta complessiva del sistema.

La Cina è un paese capitalista di stato dove la borghesia è espropriata politicamente e il suo ruolo di classe dirigente è surrogato da una burocrazia “rossa”. Niente di strabiliante o di miracoloso: fu previsto dallo stesso Engels in una delle sue più brillanti profezie:

“la borghesia dimostra di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati”(7)

Se non ci fosse stata la rivoluzione maoista lo sviluppo autocentrato della Cina sarebbe andato a farsi benedire. La b o r g h e s i a c i n e s e e r a t r o p p o d e b o l e e c o r r o t t a dall’imperialismo per tenergli testa ed impedire che la Cina continuasse ad essere saccheggiata dagli occidentali, inglesi in testa. Probabilmente avrebbe assolto la classica funzione di borghesia compradora, –come nella maggior parte dei paesi latino-americani– con un ruolo di intermediazione e collaborazione rispetto al gioco imperialista, di svendita delle risorse nazionali, in cambio di privilegi e prebende.

Il termine borghesia compradora è di origine portoghese e venne utilizzato per la prima volta proprio in Cina per indicare gli intermediari dei monopolisti stranieri.

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La profezia di Engels è di inquietante attualità. Peccato che appaia solo in una nota a piè di pagina del suo libro e pochi marxisti — tranne James Bhurnam (8) — ci hanno ragionato sopra. Ma a me ha colpito moltissimo. Intanto perché annuncia un futuro in cui ci può essere proletariato senza borghesia ma non senza capitale, e in secondo luogo perché prefigura il passaggio ad una formazione sociale post-borghese, tecnocratica, manageriale e aggiungo scientocratica, dove il potere viene esercitato da un élite stipendiata di super- professionisti, il famoso general intellect, non al servizio del sogno socialista ma della più tetra delle distopie sociali, di cui vediamo già oggi, in piena pandemia, i prodromi, sia in Cina che in Occidente. Sarà tema di un’altra trattazione.

L’ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

Domenico Losurdo e Carlo Fomenti, nel tentativo di dare maggiore lustro alla loro tesi sul “socialismo di mercato”

cinese, ci ricordano che, dalle riforme di Deng Xiao Ping in poi, 400 milioni di contadini affamati hanno abbandonato la campagna per migrare nelle città, sfuggendo alla povertà più estrema. Un “miracolo” mai registrato nella storia del capitalismo in cosi breve tempo. Non si avvedono però che proprio questo imponente processo migratorio è una perfetta t e s t i m o n i a n z a s t o r i c a d i q u e l l a c h e M a r x c h i a m a v a

“accumulazione originaria del capitale”.

“Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte, e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della

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propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati”……….” Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse. Solo nell’Inghilterra, che perciò prendiamo come esempio, essa possiede forma classica (9)

Il rapporto capitale-lavoro può essere esaminato sia da lato della forza lavoro sia dal lato del capitale, o nella loro reciproca relazione. In termini hegeliani esso racchiude una unità di opposti, il che significa che un polo non può e s i s t e r e s e n z a l ’ a l t r o , e s a r e b b e s u f f i c i e n t e , concettualmente, specificare i caratteri dell’uno per dedurre

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immediatamente quelli dell’altro.

IL PROLETARIATO

Dal lato del lavoro, per esserci rapporto capitalistico, l’operaio deve possedere i seguenti requisiti: a) deve vendere la propria forza lavoro come merce in cambio di un salario di sussistenza b) deve essere libero di vendere la propria forza lavoro sul mercato, a questo o a quel capitalista c) non deve far parte dei mezzi di produzione come lo schiavo o il servo della gleba c) non deve essere proprietario dei mezzi di produzione come lo è il contadino coltivatore diretto. Questi quattro caratteri identificano i produttori immediati come proletari, differenziandoli dai loro lontani parenti pre- capitalistici (schiavi e servi della gleba)

Attenzione: laddove lo Stato obbliga il salariato, con l’uso della forza, a svolgere certe mansioni piuttosto che altre, a lavorare in determinati tipi di fabbriche statali, e non concede ad esso la libertà di spostarsi, di cambiare lavoro, di scioperare, li non abbiamo più l’ideal-tipo del lavoratore salariato ma un soggetto di tipo pre-capitalistico, più vicino alla servo della gleba che al proletario. Questa sottospecie produttiva era presente nella Russia di Stalin (per spostarsi da una città all’altra lui impose addirittura il passaporto, il lavoro era pressoché militarizzato), o nella Cina Maoista.

Il PC cinese, aprendo al mercato, si sta muovendo per la

“liberalizzazione” della forza lavoro, concedendo al salariato maggiore libertà nello scegliere il proprio padrone, o la città in cui lavorare. Ma si guarda bene dal fornire tutte quelle libertà sindacali e rivendicative che il movimento operaio ha ottenuto in Occidente, e che purtroppo anche qui, per un parallelo processo di cinesizzazione, stanno scomparendo.

Un’analisi attenta dei caratteri della forza lavoro cinese, sia quella attiva nel settore privato che in quello statale, ci indica che oggi essa possiede tutti i requisiti del

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salariato (soggetto merce, forma salariale della retribuzione, separazione dalla proprietà e dal controllo dei mezzi di produzione). Costituisce ne’ più né meno che la parte variabile del capitale. E’ lontana dall’essere classe dirigente di un fantomatico processo di transizione al socialismo. L’unico processo di transizione che io vedo in atto nella Cina di oggi è quello da una formazione

“collettivista burocratica”, presente all’epoca di Mao primo del 1978, ad una capitalista di Stato post-borghese, come vedremo nella terza parte di questo saggio.

Come accade in Occidente Il soggetto operaio che lavora nel settore pubblico vive lo stesso tipo di estraneazione di quello che lavora nel privato, e sfido gli apologeti del socialismo di mercato a trovare differenze di status tra le due soggettività produttive. E’ vero che Huawei, il gigante delle telecomunicazioni cinesi, appare come soggetto giuridico pubblico, non privatistico (10) ma in esso la volontà dei lavoratori conta, per dirla in gergo, come “il due di denari quando è briscola coppe”. Né più e né meno che nelle multinazionali Amazon o Apple. L’operaio che assembla cellulari in Huawei è li, zitto e buono per ottenere un salario di sopravvivenza, non per decidere come assemblare il prodotto, con quali tempi e ritmi, a chi e dove venderlo. La separatezza ne fa un proletario e dove esiste un proletario c’è sempre un capitalista che lo comanda. Il rapporto capitale-lavoro, permane nella sua unità di opposti, anche se difronte all’operaio si erge un capitalista buono che invece di bastonarlo e reprimerlo, gli concede diritti sindacali, scuole e ospedali gratuiti e magari un reddito di cittadinanza qualora lo licenzi.

Se vogliamo dirla tutta neanche le cooperative cinesi, controllate dallo Stato sfuggono a questa logica. Avendo come fine il profitto ed operando in un mercato, sono di fatto unita’ capitalistiche, e i cooperatori salariati di se stessi. Un po’ come le “coop rosse” italiane dove i livelli

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di sfruttamento e di alienazione sono identici, se non superiori a quelli vissuti dagli operai sotto il comando di un capitalista privato.

IL CAPITALE

Esaminiamo ora il rapporto capitale-lavoro in Cina dal lato del capitale. Non ci vuole un genio per capire che nel settore capitalistico cinese in mano ai grandi miliardari — se ne contano secondo stime recenti almeno 384 di contro ai 689 degli Usa, e ai 35 italiani(11) — il denaro operi come capitale, cioè venga impiegato nel processo produttivo per essere valorizzato, succhiando plusvalore alla forza lavoro subalterna. Che forse il ciclo del capitale, Denaro-Merce Plus-denaro (D-M-D’) subisce significative mutazioni nelle industrie strategiche controllate o partecipate dallo Stato, sotto il controllo del Partito comunista cinese? A me non pare. Lo stato cinese, come ogni stato sovrano capitalistico, crea denaro dal nulla o con la leva fiscale, poi lo investe nel processo produttivo per ottenere un surplus, che viene a sua volta reinvestito come capitale o redistribuito nella forma di servizi sociali e assistenziali. Opera la legge della riproduzione allargata del capitale in un contesto di tipo keynesiano, cioè il processo di accumulazione mediante il quale il plusprodotto serve ad estendere la base produttiva e ad oliare i dispositivi del dominio e del consenso.

Il fatto che il surplus della nazione cinese venga speso dall’elite’ del PC in modo più efficiente che in Occidente — va da se’ che se fosse completamente consumato saremmo difronte ad una nuova aristocrazia feudale — con piani quinquennali ed un’ottica di lungo periodo, maggiormente attenta alla piena occupazione e ad evitare squilibri che possano fare entrare in crisi l’intero sistema, non indica che la Cina sia Socialista ma solo che la sua classe dirigente è più accorta, previdente e lungimirante. Indica che il capitalismo cinese, rispetto a quello occidentale, ha tratto migliori lezioni dalle leggi del suo stesso funzionamento. La

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super-class occidentale, dedita oramai alla rendita parassitaria e alla speculazione finanziaria, bramosa solo di produrre denaro attraverso denaro senza passare per il ciclo produttivo, oggi possiede sicuramente uno spirito e una praxis meno capitalista della tecno-crazia che guida il gigante asiatico.

Riassumendo: i due grandi pilastri dell’accumulazione capitalistica nella Cina Post-maoista sono il serbatoio sconfinato di manodopera a basso costo proveniente dalle campagne e il ruolo dello Stato che, contrariamente a ciò che accade nell’occidente neoliberista, mantiene una funzione direttiva nei settori strategici, alloca risorse, distribuisce ricchezze, stimola la crescita del mercato interno, investe in ricerca, invia le migliori teste a studiare alla Silicon Valley offrendogli profumate borse di studio, crea infrastrutture con l’uso keynesiano della leva monetaria, e gode perciò di grande consenso sociale.

Il capitale cinese non ha bisogno di delocalizzare le produzioni all’estero perché possiede già al suo interno il maggiore esercito industriale di proletari a basso costo del mondo il quale, unitamente all’high-tech di cui ora i cinesi son all’avanguardia, garantisce i più alti tassi di plusvalore possibili sul mercato internazionale. Se delocalizza il capitale finanziario all’estero, acquisendo il controllo di grandi imprese, porti, aeroporti, debiti di altri S t a t i e t c . l o f a p e r c h é s o f f r e a s u a v o l t a d i sovraccumulazione del capitale e sovrapproduzione delle merci.

Non trovando sufficiente collocazione nel mercato interno, in crescita ma saturo, i capitali cinesi spiccano il volo e si avventurano alla conquista dei mercati esteri, sottraendo ai concorrenti occidentali quote di produzione e domanda globale.

Solo nel Debito pubblico americano la Cina ha investito 1,3 trilioni di dollari, una cifra pari a più della metà del debito pubblico italiano, o del nostro PIL. Non dimentichiamo inoltre che 4 delle maggiori banche mondiali sono cinesi.

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A smentire la prosopopea dei paladini del “socialismo cinese”

vi è pertanto anche la partecipazione della Cina al grande banchetto mondiale della speculazione finanziaria, ove il capitale prende la scorciatoia parassitaria della valorizzazione, nella forma D-D’ (denaro-plus-denaro) senza la mediazione di M, cioè del lavoro. E’ un caso che all’ultimo incontro di Davos dei potenti del pianeta, la Cina si è eretta a guardiano della globalizzazione e del libero scambio mondiale dei capitali? E non è forse il Trumpismo, con la sua politica protezionistica, il ruggito del leone ferito, l’inevitabile reazione di una grande potenza imperialista, che si vede sfilare sotto il naso, dal piu’ scaltro dei concorrenti, potere e denaro, insieme alla leadership planetaria?

[continua]

NOTE

( 4 ) G i o r g i o A g a m b e n ,

www.quodlibet.it/giorgio-agamben-capitalismo-comunista (5) Branco Milanovic, capitalismo contro capitalismo, editori Laterza 2020

(6) K. Marx il capitale vol 1, tratto da Bruno Rizzi il collettivismo burocratico, Sugarco edizioni pag 69

(7) F. Engels, opere complete, vol 25, pag 274, antidhuring.

Editori riuniti 1974.

(8) K. Marx, il Capitale, Einaudi 1975 volume 1 pag 880-881 (9) James Burnham, la rivoluzione dei tecnici, Mondadori 1947 (10) Gennaro San Giuliano, il nuovo Mao, Xi Jinping e l’ascesa al potere nella Cina di oggi, mondadori 2019, pag 254

(11) Michelangelo Cocco, Una Cina “perfetta”, la nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale.

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LA CINA È SOCIALISTA? (1) di Mauro Pasquinelli

Riflessioni sulla natura sociale e politica della Cina alla luce delle categorie marxiste.

[ Prima Parte ] PREMESSA

La questione cinese ha sempre diviso il movimento comunista, sin dagli anni venti del novecento. Ricordo l’infuriata polemica tra Trotsky e Stalin già nel 1927 sul sostegno alla insurrezione di Shangai e al Kuomintang, che finì con l’espulsione di Trotsky dal PC russo e di Chen Duxiu (per simpatie trotskyste) dal Partito Comunista cinese, di cui fu

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primo segretario e fondatore. Rammento le infuocate discussioni in seno alla Quarta Internazionale sul contestato ruolo dei contadini, come avanguardia della rivoluzione proletaria. Stalin non riconobbe mai Mao come leader del PC cinese e quest’ultimo seguì un percorso di “guerra popolare prolungata” a carattere contadino, mai approvato dalla Terza Internazionale, né contemplato dalla teoria marxista. E ancora, possiamo mensionare i rapporti conflittuali, negli anni sessanta, tra il governo russo e quello cinese, esplosi con l’avvento al potere di Krusciov, accusato dai maoisti di essere un revisionista, per la sua politica della coesistenza pacifica con l’imperialismo americano. Per finire con lo scontro militare tra Urss e Cina nel 1969 su una questione di confine, lungo il fiume Ussuri, che ha prodotto centinaia di morti (2). In questo frangente si palesò al mondo come l’internazionalismo proletario fosse al capolinea, proprio nel campo delle rivoluzioni proletarie che avrebbero dovuto unificare, come fratelli, tutti i paesi “socialisti”.

L’Albania di Enver Oxa rappresentò un’altra piccola ma significativa testimonianza, negli anni 60 e 70, di questa divisione all’interno del blocco “comunista”: dopo aver rotto con Tito (già pecora nera per i Russi) e Krusciov, strinse un alleanza strategica con Mao, che interruppe negli anni 70, precipitando il piccolo paese in un esperimento di folle autarchia pauperistica.

Oggi la Cina è diventata di nuovo divisiva ma questa volta, per fortuna, solo nel campo della teoria politica. Il fronte, almeno qui in Italia, si divide tra filocinesi, come lo stalinista Marco Rizzo o i compianti Domenico Losurdo e Hosea Jaffe, per non tacere degli scrittori Carlo Formenti e Vladimiro Giacchè, apertamente sostenitori dell’idea che la Cina sia socialista, e i sinofobi, per lo più presenti nel campo leghista e della sinistra sinistrata (non mancano sinofobi anche nel versante sovranista vedi Gianluigi Paragone), che accusano il Dragone asiatico di totalitarismo, repressione di diritti civili e democratici, nuovo

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imperialismo, fascismo etc. Tra gli appassionati del

“socialismo dalle caratteristiche cinesi” segnalo anche alcuni intellettuali appartenenti alla galassia della destra radicale, di ispirazione euroasiatista (Dughin, Mutti, De Benoist etc). Mai confusione fu tanta sotto il cielo.

E’ giunto pertanto il momento di formulare un bilancio critico dell’esperienza storica della Cina e della sua natura politico sociale.

A tale scopo voglio prima ricorrere ad un suggerimento del Cinese più rappresentativo, Confucio. Un discepolo gli chiese quale sarebbe stato il suo primo provvedimento se fosse diventato capo di Stato. Con grande sorpresa Confucio rispose: “la rettifica dei nomi”. Ben detto. In questa epoca ne abbiamo urgente bisogno. Mai come oggi il nome delle cose perde significato e si trasforma in simulacro vuoto privo di senso e decontestualizzato. Mai come oggi nomen non coincide più con res. E la querelle sul Socialismo in Cina, che data da quella oramai memorabile sulla natura dell’Urss che impegnò fior di Marxisti (da Bordiga e Mandel passando per Trotsky, Bruno Rizzi e P. Chaulieu) , ci ricorda proprio che il significante Socialismo ha subito lo stesso destino di altri termini (come cristianesimo, capitalismo, comunismo, fascismo etc.) interpretati nelle maniere più diverse, e piegati per far valere principi talvolta contrastanti.

L’epiteto di fascista oggi viene rivolto allegramente a Konte come ai burocrati di Bruxelles, a Orban come a Salvini. Urge pertanto una rettifica confuciana dei nomi, che riporti al centro il significante e ne dia una definizione chiara, completa, vera, imparziale, scientifica e scevra da ideologismi, strumentalismi, sentimentalismi e tifoserie di partito.

Che cosa è il socialismo?

E allora gettiamoci in medias res, definiamo subito cosa indichi, dal punto di vista strettamente teorico, il concetto

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bistrattato di Socialismo.

Premetto che di questo termine Marx non fece molto uso, preferendo ad esso nel Manifesto la dizione “dittatura del proletariato” o la più tarda espressione “fase di passaggio al comunismo”, ma con Engels prima e Lenin poi, la letteratura ne specificò meglio il significato, come prima fase del passaggio al comunismo, o suo stadio inferiore.

Pertanto riassumendo, le fasi di passaggio al comunismo, nella visione marxista, sono sostanzialmente tre: la prima fase è quella che va sotto il nome di dittatura del proletariato, o governo dei lavoratori, essa si instaura con la presa del potere da parte della classe operaia (nei Grundrisse si preferisce il termine general intellect) e la statalizzazione d i t u t t i i p r i n c i p a l i m e z z i d i p r o d u z i o n e , o nazionalizzazione. In essa persiste ancora la lotta di classe che termina con la completa eliminazione della borghesia e del proletariato in quanto classi sociali separate ed antagoniste.

La fase della dittatura proletaria può anche compiersi in un solo paese, avere cioè una dimensione prettamente nazionale.

La seconda fase, quella socialista, è quella del passaggio al primo stadio del comunismo, in cui le classi non ci sono più e lo Stato inizia ad estinguersi. Per sua natura la fase socialista deve avere una dimensione plurinazionale, interessare almeno una parte dei paesi più avanzati, perchè non si può eliminare la lotta di classe e lo stato in un paese proletario accerchiato, ove continua a persistere una borghesia che dall’esterno organizza la resistenza contro di esso.

Per semplificare all’estremo voglio suddividere in 17 punti quelle che sono le caratteristiche della fase due, quella socialista.

1) La proprietà privata dei mezzi di produzione cede il passo alla proprietà comune. Nulla può diventare proprietà del singolo se non i mezzi di consumo individuali (casa, alimenti,

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libri, vestiario etc.) .

2) La produzione non è finalizzata all’accumulo di valori di scambio, ma alla realizzazione di bisogni sociali, ossia al valore d’uso sociale.

3) I produttori associati gestiscono collettivamente la produzione. Questo punto è di vitale importanza teorico- pratica, perchè non essendosi mai realizzato, ci obbliga a definire i defunti paesi a “socialismo reale” come formazioni sociali non socialiste, meglio sarebbe definirle collettiviste burocratiche, alla maniera di Bruno Rizzi. La proprietà giuridico-formale dei mezzi di produzione può essere collettiva ma se a gestirla è un gruppo sociale separato, una nomenklatura burocratica, è nuova formazione sociale classista, non è socialismo.

4) Non esistono più classi sociali antagoniste in lotta tra loro.

5) Le nazionalizzazioni della fase di transizione al socialismo (dittatura del proletariato) cedono il passo alle socializzazioni. La proprietà nazionalizzata dei mezzi di produzione non è una misura di per sè socialista, ne abbiamo viste in Germania ai tempi di Bismark e Hitler, come in Italia con Mussolini e il centro sinistra degli anni 60. Socialista è il passaggio della gestione dei mezzi di produzione statalizzati dagli amministratori di professione ai consigli di fabbrica, (in Russia i Soviet) in cui tutti sono eleggibili e revocabili.

6) Esiste una effettiva democrazia politico-economica, l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi e non di apparati che si elevano sopra di essi. Non si libera il proletariato dall’alto, per procura o per semplice decreto.

7) Le cariche dirigenti nel campo dell’amministrazione pubblica si assumono per delega e sono revocabili dalle stesse

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assemblee o consigli popolari. K. Marx in questo fu esplicito elogiando la Comune di Parigi, come la prima forma, finalmente disvelata, di una società di transizione al comunismo.

8) Lo stato è in via di estinzione.

9) il Piano realizzato dagli individui associati, e non da una élite burocratica, regola la produzione sociale secondo i bisogni collettivi.

10) Le categorie mercantili in via di estinzione sopravvivono in settori limitati, non strategici della produzione, e nello scambio con altri stati non socialisti.

11) Il lavoro è ancora remunerato in base al contributo di ciascuno alla produzione sociale, sono in vigore gli incentivi materiali. Un ingegnere percepisce più ricchezza in termini di valori d’uso, di un manuale, ma non può accumularla per sfruttare il lavoro di altri uomini o per vivere di rendita.

Merce e denaro non sono ancora scomparsi e la moneta assolve solo una funzione contabile (non si può usare né come riserva di valore, né prestarla, né accumularla).

12) Scompaiono le categorie di capitale, lavoro salariato e lavoro alienato. Il produttore, nel socialismo, non è posto difronte alle forze produttive come a una potenza estranea, ma le usa come prolungamento delle proprie capacità produttive. Riportando le forze produttive sotto il controllo sociale, la forza-lavoro viva perde la natura di merce remunerabile attraverso un salario, e i mezzi di produzione la funzione di capitale.

13) Il tempo di lavoro necessario è ridotto ad un minimo, e la vera misura della ricchezza sociale non è più il tempo di lavoro, come spiega Marx nei Grundrisse, ma il tempo liberato dal lavoro, il tempo in cui l’individuo si libera dalla schiavitù della specializzazione e può realizzare tutte le sue potenzialità umane, una volta dipingendo e l’altra curando il proprio corpo, una volta assistendo i malati e l’altra

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organizzando viaggi etc . Il lavoro si trasforma in libera attività creatrice.

14) La divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale tende ad un minimo e non ci saranno più uomini che tutta la loro vita lavorano in miniera o nella terra, mentre altri li sorvegliano in giacca e cravatta.

15) Tutti gli uomini e le donne, tranne ovviamente bambini, giovani studenti, anziani e invalidi dedicano un minimo del loro tempo di vita all’attività produttiva: il famoso lavoro necessario diventato finalmente lavoro utile, razionalizzato, non sfruttato, socializzato, e aggiungo sostenibile ecologicamente.

16) Il socialismo è la società dove si compie finalmente il motto della rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité. E’ la società dove gli uomini sono fratelli, liberi ed eguali. Ma a differenza che nella società moderna partorita dalla rivoluzione dell ’89, l’uguaglianza non è solo formale, — uguaglianza difronte alla legge — è uguaglianza reale, uguaglianza di opportunità, uguaglianza difronte alle condizioni tecniche e naturali che consentono la produzione di ricchezza sociale. Tutti gli uomini devono avere p a r i d i r i t t i d i a c c e s s o , n o n s o l o a l l ’ i s t r u z i o n e , ma all’acqua, alle risorse naturali, ai mezzi sociali di produzione. E pari diritti di controllo sulle fonti della ricchezza sociale. La fraternità non è solo pronunciata e declamata ma effettiva. L’individualismo e i laissez faire sono superati in favore di una comunità umana nella quale ci si sente amati e fratelli, come in una grande famiglia. La libertà, non è più solo libertà formale di espressione, di stampa, o libertà negativa (sentirsi liberi da vincoli esterni, dittature, violenza etc.), come nella praxis liberale, ma libertaà attiva e positiva, libertà di poter realizzare tutte le facoltà umane inespresse. Per dirla con Aristotele non è più solo potenza ma è anche atto.

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17) Possiamo aggiungere, per completare la definizione del socialismo, i due grandi imperativi morali di Kant, che fanno al nostro caso:

«agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo» …. «agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura». Si può volere -ad esempio_ che l’atto di rubare diventi legge universale? No perchè sarebbe a sua volta derubato chi questa massima propugna. Si può diventare tutti capitalisti? No perchè non si può essere capitalisti senza avere alle dipendenze lavoratori salariati. Ma fare del bene al prossimo, agire virtuosamente, diffondere cultura, si che può diventare legge universale di cui beneficerebbero tutti.

Una attenta analisi della Cina di oggi, come vedremo, ci obbliga a concludere che non è socialista su nessuno di questi 17 fronti.

Domenico Losurdo e il socialismo cinese

Prima di inoltrarci nell’indagine delle caratteristiche economiche della Cina dobbiamo ancora soffermarci su un aspetto esegetico, che attiene ancora alla definizione teorica di Socialismo, e che si ricollega alle tesi esposte da K. Marx nella critica al programma di Gotha del 1875 (3). E qui incontriamo il capostipite italiano dei cinofili, il compianto filosofo Domenico Losurdo, il quale in più occasioni ci rammenta che la Cina post-maoista è socialista per almeno tre ragioni: a) ha fatto uscire centinaia di milioni di persone dalla fame e dal sottosviluppo. b) In essa il potere è esercitato da un partito che si dichiara comunista. c) Nella Cina è in vigore la massima del Socialismo “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo lavoro”, che presuppone ancora, quella che Marx, nel citato testo, chiama limite borghese della remunerazione del lavoro nella fase di transizione, cioè non una uguaglianza nei diritti di ognuno al

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giusto reddito da lavoro, ma ancora, “un diritto diseguale per lavoro diseguale” (un operaio è più produttivo e riceve più di un altro meno produttivo, un operaio ha 5 figli e deve sfamare più componenti della famiglia di un altro che non ha figli etc.).

I l p u n t o a e b d e l p e n s i e r o d i L o s u r d o è facilmente decostruibile: anche il Giappone capitalista ha fatto uscire il proprio paese da dipendenza, fame e sottosviluppo e non per questo è socialista. Potremmo aggiungere il caso Indiano, sud coreano, brasiliano e sud- africano. Inoltre come non possiamo giudicare un uomo da ciò che pensa di se stesso, così non possiamo giudicare lo Stato cinese da ciò che il partito comunista dichiara, in falsa coscienza necessitata o per ideologia, di essere. Vale qui l ’ h e g e l i a n a e t e r o g e n e s i d e i f i n i , o l ’ e n g e l s i a n o parallelogramma delle forze storiche: si attuano nella storia umana condizioni diverse, financo opposte da quelle che le forze vincenti dichiarano di voler attuare. Il bolscevico Lenin profetizzava, ad un mese dalla rivoluzione d’Ottobre, uno Stato socialista in cui anche la cuoca amministra gli affari sociali e si è ritrovato a fronteggiare la più potente burocrazia del pianeta, inneggiante, dopo la sua morte, al culto della personalità dell’uomo solo al comando.

Più complesso e capzioso è il pensiero di Losurdo sintetizzato n e l p u n t o c . Q u i i l f i l o s o f o U r b i n a t e c a d e i n u n a interpretazione economicista della fase socialista e del p e n s i e r o d i M a r x , c o m e s e l ’ e l e m e n t o c e n t r a l e e caratterizzante di essa fosse la retribuzione del lavoro, quindi l’aspetto distributivo, e non invece i rapporti di produzione socializzati, non l’effettivo controllo dei produttori associati sui mezzi di produzione. Rimanendo ai miei 17 punti, Losurdo ne estrae uno e lo fa diventare la cartina al tornasole per l’analisi della formazione sociale cinese. Un’operazione unilaterale che ahimé non regge neanche alla prova dei fatti, visti i crescenti livelli di

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disuguaglianza sociale in Cina, i miliardari che affiorano a centinaia e le decine di milioni di proletari costretti a lavorare per paghe da fame ed orari più lunghi che nel super- capitalistico Occidente.

[Continua]

Note

(1) Chen Duxiu Anqing, 8 ottobre 1879 – Sichuan, 27 maggio 1942) è stato un politico cinese, uno dei primi leader comunisti della storia cinese. Dopo aver studiato in Francia e in Giappone, iniziò la sua attività culturale fondando nel 1915 la rivista radicale Xin Qingnian (Gioventù nuova); fu una figura di spicco della rivoluzione Xinhai e del Movimento del 4 maggio 1919 per la Scienza e la democrazia. Insieme a Li Dazhao, Chen è stato cofondatore del Partito Comunista Cinese nel 1921, divenendone anche primo presidente e Segretario Generale (1921-1927). Chen è stato anche un filosofo educatore e politico nonché professore universitario: dalla sua cattedra teorizzò che la Cina si sarebbe potuta ammodernare solo se avesse abbandonato l’antica ideologia confuciana, ormai inadatta ad interpretare la società contemporanea. Espulso dal PCC nel 1929 con l’accusa di “trotzkismo”, proseguì il suo impegno progressista e venne per questo imprigionato dal 1932 al 1937 su ordine dei vertici del Kuomintang. La sua casa ancestrale era ad Anqing (安庆), Anhui, dove ha fondato l’influente periodico cinese vernacolare Gioventù nuova. I suoi figli Yannian e Qiaonian, anche loro politici comunisti, furono assassinati dal Kuomintang rispettivamente nel 1927 e nel 1928.

(2) Uno scontro di confine per un piccolo isolotto sul fiume Ussuri portò, nel 1969, a un conflitto di due mesi tra i colossi socialisti. Entrambi erano dotati di armi nucleari e quindi il mondo rischiò grosso. Tutto iniziò all’alba del 2 marzo 1969: 300 soldati cinesi, che il giorno prima erano avanzati sul ghiaccio del fiume Ussuri congelato, attaccarono

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55 guardie di frontiera sovietiche sull’isola Damanskij.

“Spararono alla maggior parte dei nostri uomini a bruciapelo”, ricorda Jurij Babanskij, tenente generale in congedo ed Eroe dell’Unione Sovietica, che quel giorno sopravvisse, a differenza di molte guardie di frontiera, colte alla sprovvista. L’isola Damanskij era un piccolo pezzo di terra disabitata (0,74 kmq) sul fiume Ussuri che fungeva da confine tra l’Unione Sovietica e la Cina. Più vicina alla riva cinese, l’isola divenne oggetto di una disputa di confine negli anni Sessanta. Secondo la legge internazionale, il confine avrebbe dovuto correre al centro del bacino idrico principale dell’Ussuri, ma Mosca continuò a ritenere valido l’accordo del 1860, che aveva stabilito il confine sulla riva cinese.

(3) K. Marx, Critica del programma di gotha, Savelli 1975, pag 42-43

MARX E LA LIBERTÀ di David

Harvey

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La destra si erge a difesa delle libertà individuali. Ma essere liberi veramente significa sottrarre le nostre vite ai vincoli rigidi del capitalismo. Un’anticipazione dal nuovo libro di David Harvey

Il tema della libertà è stato sollevato mentre tenevo alcune lezioni in Perù. Gli studenti erano molto interessati alla domanda: «Il socialismo comporta che la libertà individuale debba essere sacrificata?». La destra è riuscita ad appropriarsi del concetto di libertà come proprio e a usarlo come arma nella lotta di classe contro i socialisti. Bisogna evitare la sottomissione dell’individuo al controllo statale imposto dal socialismo o dal comunismo a tutti i costi, sostengono.

Ho risposto che nell’ambito di un progetto socialista di emancipazione non bisogna rinunciare al concetto di libertà individuale. Il raggiungimento delle libertà individuali è, ho s o s t e n u t o , u n o s c o p o c e n t r a l e d i t a l i p r o g e t t i d i emancipazione. Ma questo risultato richiede la costruzione

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collettiva di una società in cui ognuno di noi abbia adeguate possibilità di vita e possibilità per realizzare ciascuna delle proprie potenzialità.

Marx e la libertà

Marx diceva cose interessanti su questo argomento. Una di queste è che «il regno della libertà inizia quando il regno della necessità viene lasciato indietro». La libertà non significa nulla se non hai abbastanza da mangiare, se ti viene negato l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, alloggio, trasporti, istruzione e simili. Il socialismo deve soddisfare le necessità di base in modo che le persone siano libere di fare ciò che vogliono.

Il punto finale di una transizione socialista è un mondo in cui le capacità e i poteri individuali sono completamente liberati da desideri, bisogni e altri vincoli politici e sociali.

Piuttosto che ammettere che la destra ha il monopolio sulla nozione di libertà individuale, dobbiamo rivendicare l’idea di libertà per il socialismo.

Tuttavia, Marx ha sottolineato anche che la libertà è un’arma a doppio taglio. I lavoratori in una società capitalista, dice, sono liberi in un doppio senso. Possono offrire liberamente la loro forza lavoro a chi vogliono nel mercato del lavoro. Possono offrirlo a qualunque condizione contrattuale riescano a negoziare liberamente. Ma sono allo stesso tempo non sono libere, in quanto «liberate» da ogni controllo o accesso ai mezzi di produzione. Devono quindi cedere la loro forza lavoro al capitalista per vivere.

Ciò costituisce l’ambivalenza della libertà. Per Marx questa è la contraddizione centrale della libertà sotto il capitalismo.

Nel capitolo sulla giornata lavorativa nel Capitale, la mette in questo modo: il capitalista è libero di dire al lavoratore

«Voglio assumerti con il salario più basso possibile per il

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maggior numero di ore possibili facendo esattamente il lavoro che ho specificato. Questo è quello che ti chiedo quando ti assumo». E il capitalista è libero di farlo in una società di mercato perché, come sappiamo, la società di mercato consiste nel fare offerte su questo e su quello. D’altra parte, il lavoratore è anche libero di dire: «Non hai il diritto di farmi lavorare quattordici ore al giorno. Non hai il diritto di fare tutto quello che ti pare con la mia forza lavoro, in particolare se accorcia la mia vita e mette in pericolo la mia salute e il mio benessere. Sono disposto soltanto a una giornata di lavoro equa con un salario equo».

Vista la natura di una società di mercato, sia il capitalista che il lavoratore formulano richieste corrette. Quindi, dice Marx, entrambi hanno ugualmente ragione per la legge degli scambi che dominano nel mercato. Tra uguali diritti, dice poi, decide la forza. La lotta di classe tra capitale e lavoro dirime la questione. Il risultato si basa sul rapporto di potere tra capitale e lavoro, che a un certo punto può diventare coercitivo e violento.

Un’arma a doppio taglio

Questa idea di libertà come arma a doppio taglio è molto importante da esaminare in modo più dettagliato. Una delle migliori elaborazioni sull’argomento è un saggio di Karl Polanyi. Nel suo libro La Grande trasformazione, Polanyi afferma che esistono buone forme di libertà e cattive forme di libertà. Tra le cattive forme di libertà elenca le libertà di sfruttare i propri simili senza limiti; la libertà di fare guadagni eccessivi senza un servizio adeguato alla comunità;

la libertà di impedire che le invenzioni tecnologiche vengano utilizzate per il pubblico beneficio; la libertà di trarre profitto da calamità pubbliche o calamità naturali indotte, alcune delle quali sono segretamente progettate per il vantaggio privato.

Ma, continua Polanyi, l’economia di mercato in cui queste

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libertà si sono sviluppate ha prodotto anche libertà che apprezziamo molto: libertà di coscienza, libertà di parola, libertà di riunione, libertà di associazione, libertà di scegliere il proprio lavoro.

Sebbene possiamo apprezzare queste libertà, esse sono, in larga misura, sottoprodotti della stessa economia che è anche responsabile delle libertà cattive. La risposta di Polanyi a questa dualità è una lettura molto strana, data l’attuale egemonia del pensiero neoliberista e il modo in cui la libertà ci viene presentata dal potere politico esistente. La scrive in questo modo: «Il passaggio dell’economia di mercato – cioè il superamento dell’economia di mercato – può diventare l’inizio di un’era di libertà senza precedenti». Questa è un’affermazione piuttosto scioccante: la vera libertà inizia dopo che ci siamo lasciati alle spalle l’economia di mercato.

Continua:

Le libertà giuridiche ed effettive possono essere rese più ampie e più generali di quanto siano mai state; la regolamentazione e il controllo possono servire a garantire la libertà non solo a pochi, ma a tutti. La libertà non come elemento accessorio del privilegio, contaminato alla fonte, ma come un diritto prescrittivo che si estende ben oltre gli stretti limiti del1a sfera politica, nell’organizzazione interna della società stessa. Così le antiche libertà e i diritti civili si aggiungerebbero alla riserva delle nuove libertà generate dal tempo libero e dalla sicurezza che la società industriale offre a tutti. Una simile società potrebbe permettersi di essere tanto giusta quanto libera.

Libertà senza giustizia

Questa idea di una società basata su giustizia e libertà, giustizia e autonomia, mi sembra essere stata l’agenda politica del movimento studentesco degli anni Sessanta e della cosiddetta generazione del ’68. C’era una richiesta diffusa sia di giustizia che di libertà: libertà dalla coercizione

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dello Stato, libertà dalla coercizione imposta dal capitale aziendale, libertà dalle coercizioni del mercato temperata dalla richiesta di giustizia sociale.

La risposta politica capitalista a questo negli anni Settanta è stata interessante. Ha comportato l’elaborazione di queste richieste e, in effetti, il dire: «Ci arrendiamo alle libertà (anche se con alcuni avvertimenti) ma dimenticatevi la giustizia». La libertà concessa era circoscritta. Significava per la maggior parte libertà di scelta nel mercato. Il libero mercato e la libertà dalla regolamentazione statale erano le risposte alla questione della libertà. Ma la giustizia veniva messa da parte. Ciò sarebbe stata garantita dalla concorrenza di mercato, che si supponeva fosse organizzata in modo tale da dare a tutti secondo i loro meriti. L’effetto, tuttavia, è stato quello di liberare molte delle libertà nefaste (ad esempio lo sfruttamento degli altri) in nome delle libertà virtuose.

Polanyi riconobbe nitidamente questa svolta. Il passaggio al futuro che immaginava è bloccato da un ostacolo morale, osservava, e l’ostacolo morale era qualcosa che chiamava

«utopismo liberale». Penso che dobbiamo ancora affrontare i problemi posti da questo utopismo liberale. È un’ideologia pervasiva nei media e nei discorsi politici. L’utopismo liberale del Partito democratico è una delle cose che ostacola il raggiungimento della vera libertà. «Pianificazione e controllo – ha scritto Polanyi – vengono attaccati come una negazione della libertà. La libera impresa e la proprietà privata sono dichiarate elementi essenziali della libertà».

Questo è ciò che hanno avanzato i principali ideologi del neoliberismo.

Oltre il mercato

Credo che questo è uno dei temi chiave del nostro tempo.

Andremo oltre le libertà limitate del mercato e la regolazione della nostra vita mediante le leggi della domanda e

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dell’offerta o accetteremo, come ha affermato Margaret Thatcher, che non ci sono alternative? Diventeremo liberi dal controllo statale ma schiavi del mercato. A questo non c’è alternativa, al di là di questo non c’è libertà. Questo è ciò che predica la destra, ed è ciò che molte persone sono arrivate a credere.

Questo è il paradosso della situazione attuale: in nome della libertà, abbiamo adottato un’ideologia utopistica liberale che è una barriera al raggiungimento della libertà reale. Non credo che trionfi la libertà quando chi vuole ricevere un’istruzione deve pagare moltissimo e contrarre un debito studentesco che si proietta nel futuro.

In Gran Bretagna, negli anni Sessanta, gran parte della disponibilità di alloggi era nel settore pubblico, era l’edilizia sociale. Quando ero piccolo, quell’edilizia sociale era la soddisfazione di un bisogno di base a un costo ragionevolmente basso. Poi Margaret Thatcher è arrivata e ha privatizzato tutto, e ha detto, in pratica: «Sarai molto più libero se possiedi la tua proprietà e potrai effettivamente diventare parte di una democrazia proprietaria».

E così, invece di avere 60% delle abitazioni pubbliche, improvvisamente siamo passati a una situazione in cui lo è solo il 20% circa, forse anche meno. La casa diventa una merce e diventa quindi una parte dell’attività speculativa. Nella misura in cui diventa un veicolo di speculazione, il prezzo della proprietà sale e si ottiene un aumento del costo degli alloggi senza alcun aumento effettivo della fornitura diretta.

Stiamo costruendo città, costruendo alloggi, in un modo che fornisce un’enorme libertà alle classi dominanti e allo stesso tempo produce in realtà mancanza di libertà per il resto della popolazione. Questo è ciò che penso intendesse Marx quando fece il famoso commento: il regno della necessità deve effettivamente essere superato affinché il regno della libertà possa essere raggiunto.

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Il regno della libertà

Questo è il modo in cui le libertà di mercato limitano le possibilità e, da questo punto di vista, penso che la prospettiva socialista debba fare come suggerisce Polanyi:

collettivizziamo la questione dell’accesso alla libertà, dell’accesso alla casa. Invece di essere qualcosa che è semplicemente sul mercato diventa di pubblico dominio. La casa di pubblico dominio è il nostro slogan. Questa è una delle idee di base del socialismo oggi: far sì che le cose siano di pubblico dominio.

Si dice spesso che per raggiungere il socialismo, dobbiamo arrenderci alla nostra individualità e dobbiamo rinunciare a qualcosa. Bene, in una certa misura potrebbe essere vero; ma c’è, come ha insistito Polanyi, un livello più alto di libertà da raggiungere quando andiamo oltre le crudeli realtà delle libertà di mercato individualizzate.

Ho letto che Marx diceva che bisogna massimizzare il regno della libertà individuale, ma ciò può accadere solo quando ci si prende cura del regno della necessità. Il compito di una società socialista non è regolare tutto ciò che accade nella società. Affatto. Il compito di una società socialista è assicurarsi che tutte le necessità di base siano soddisfatte – fornite gratuitamente – in modo che le persone possano fare esattamente ciò che vogliono quando vogliono.

Se chiedi a tutti in questo momento: «Quanto tempo hai a disposizione?» la tipica risposta è «Non ho quasi tempo libero. È tutto occupato da questo, da quello e da tutto il resto». Se la vera libertà appartiene a un mondo in cui abbiamo tempo libero per fare ciò che vogliamo, allora il progetto socialista di emancipazione mette questa rivendicazione al centro della sua missione politica. Per questo obiettivo possiamo e dobbiamo lavorare tutti.

Fonte: jacobinitalia.it

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MARX VS LACLAU O MARX PIÙ LACLAU? di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti

Melegari e Capoccetti avevano espresso ficcanti considerazioni teoriche sulla situazione sociale e politica italiana — I «bottegai», l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e

subalternità — considerate “eretiche” da Alessando Visalli — Delle contraddizioni in seno al popolo: stato e potere. Si è quindi inserito nel confronto Moreno Pasquinelli con due

interventi – Nuova Direzione (prima parte) — e Nuova Direzione (seconda parte). Visalli ha quindi risposto alle osservazioni critiche di Pasquinelli –Blocco sociale, egemonia e

rivoluzione -.

Di seguito la replica di Melegari e Capoccetti.

* * *

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Il popolo in seno alle contraddizioni. Una risposta ad alcune critiche

di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti

A partire dalla pubblicazione dell’articolo scritto per la fionda I «bottegai», l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità, diverse sono state le reazioni e le letture che hanno dato luogo a un proficuo dibattito, che ci auguriamo possa proseguire e continuare ad avvalersi degli importanti spunti analitici mossi da più parti. Due sono i fronti della critica su cui ci concentreremo, non potendo ritenere validi i rilievi secondo i quali indicheremmo nella piccola borghesia una “nuova classe rivoluzionaria”[i], essendo piuttosto evidente che una tale intenzione non emerge in alcun punto del nostro contributo. Da una parte, abbiamo il fronte costituito da chi ravvisa nella nostra analisi una lettura della fase che non prenderebbe in sufficiente considerazione i rischi insiti nella costruzione di un’alleanza con la piccola e media borghesia, la quale nella futura e imminente gestione della crisi (Recovery fund, Mes, etc.) sarà ancora una volta portata ad ascoltare il “richiamo della foresta” di arricchirsi e distinguersi dai proletari, dal momento che uscire dalla condizione di immiserimento è sempre stata, resta e sarà la sua sola parola d’ordine. Per semplificare e rendere più chiara la nostra esposizione, chiameremo questo fronte il “fronte A”[ii]. Dall’altra, c’è chi osserva nel nostro punto di vista un certo indeterminismo, insito nell’uso della teoria di Ernesto Laclau, che finirebbe per «gettare nel cesso» il materialismo storico e, che pur nella giusta decisione di puntare sulla piccola e media borghesia per la costruzione di un «blocco storico nazional- popolare», vedrebbe nella nostra rivendicazione della sovranità nazionale contro l’UE, non tanto un secondo momento (la teoria dei due tempi), quanto piuttosto un momento secondario rispetto alla centralità assunta dalla conquista socialista dello stato. Chiameremo questo fronte, il “fronte B”[iii].

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Prima questione

Partiamo dal primo fronte (il fronte A), nel quale, tra le non poche questioni sollevate, figura la seguente: la tesi da noi espressa nell’articolo sarebbe che la piccola borghesia e i ceti dei lavoratori dipendenti, i proletari, non sarebbero più analiticamente e operativamente distinguibili, o comunque non più identificabili come opposti. Ci sembra che una tale riformulazione, forse proprio perché presuppone a livello strutturale la contrapposizione tra agenti sociali che vuole dimostrare anche nella congiuntura attuale, non colga come nel n o s t r o p e z z o n o n s i s o s t e n e s s e t a n t o l a l o r o indistinguibilità, quanto lo scompaginamento di entrambi, tanto sul piano economico quanto su quello simbolico, a seguito di quarant’anni di trasformazioni neoliberali[iv]. A nostro giudizio, il mescolamento sul piano materiale e antropologico-simbolico del proletariato e della piccola borghesia non dà luogo a un tutto indistinto, quanto piuttosto a una serie di posizioni differenziali di cui occorre tracciare la mappa, uno spettro di figure in cui quelli che Riccardo Bellofiore ha chiamato il «lavoratore traumatizzato», il «risparmiatore maniacale-depressivo» e il «consumatore indebitato» si articolano l’un l’altro in proporzioni variabili[v]. Certo, si tratta di individuare differenze anche nella nebulosa dei ceti medi (l’articolo, ad esempio, faceva fugace cenno al problema posto dalle piccole e medie imprese i n t e g r a t e n e l l e c a t e n e d e l v a l o r e n o r d e u r o p e e ) e , politicamente, si tratta di disarticolarne la configurazione attuale, in particolare di spezzare le alleanze con i gruppi effettivamente dominanti (ma per farlo occorre rapportarsi a questa galassia composita, sapendo di dovere fare i conti anche con codici culturali – ad esempio la diffidenza per il pubblico – in parte trasversali a gruppi fortemente differenziati per il solo interesse materiale). Trattandosi sostanzialmente di un intervento di teoria politica, l’articolo effettivamente difettava di analisi sociologica dettagliata dei gruppi sociali evocati, ma non per questo è

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lecito sostenere che in esso si proponesse di sostituire un soggetto puro con un altro, mentre ciò che si suggeriva era, appunto, di tenere conto di tutti gli intrecci possibili tra le molteplici figure interne tanto al corpo proletario frantumato quanto alle classi medie alle prese con una crisi che non è solo economica ma anche di percezione di sé[vi].

Tuttavia, si dice, nel nostro articolo il lavoro «buono e continuo, se pur povero», viene descritto «sorprendentemente come più sensibile all’imprenditorializzazione». In breve, l’errore che ci viene rimproverato è quello di non considerare come gli operai e i lavoratori salariati siano, sì, toccati dalla soggettivazione imprenditoriale, ma mai quanto la piccola e media borghesia. Riteniamo che una critica di questo tipo muova non tanto dall’analisi del dato concreto, quanto piuttosto da una certa caratterizzazione a priori positiva del lavoro operaio e salariato – apostrofato non a caso come

« b u o n o » – p e r c h é s f r u t t a t o e n o n f i n a l i z z a t o all’arricchimento. Nella ricostruzione fornita dalla critica i ceti medi sembrano, invece, soggettivamente condannati a muoversi esclusivamente «per riaffermare le gerarchie ed il sistema neoliberale», con la conseguenza che, mentre un’azione pedagogica è consentita – anzi sembra quasi ontologicamente richiesta – per i lavoratori subordinati, per i piccolo- borghesi l’unica strada per un’articolazione scevra da sospetti appare essere la loro negazione oggettiva in quanto gruppo sociale, ovvero la proletarizzazione (processo che, d’altra parte, non ha mai alluso a un dato esclusivamente economico). Tuttavia, come ebbe modo di scrivere Bourdieu, «la classe sociale non si definisce affatto mediante una proprietà (nemmeno quella più determinante, come le dimensioni e la struttura del capitale), né mediante una somma di proprietà […], e neppure mediante serie di proprietà subordinate ad una proprietà fondamentale (la posizione nei rapporti di produzione) in un rapporto di causa ed effetto, di condizionante e condizionato; bensì mediante la struttura dei rapporti tra tutte le proprietà pertinenti, che conferisce a

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ciascuna di esse, ed agli effetti che questa esercita sulle pratiche, il suo valore peculiare»[vii]. A partire da una tale ridefinizione è possibile reimpostare il tema del conflitto sociale, ancorandolo «non solo alle determinazioni oggettive, ma anche a tutti gli scarti differenziali di natura simbolica»[viii]. Per evitare che dai modelli utili a spiegare e cambiare la realtà si passi alla celebrazione della presunta realtà di modelli che possono diventare, invece, essi stessi degli ostacoli alle effettive possibilità di cambiamento, ci chiediamo se non sia piuttosto il caso di guardare alla

«classe reale», che – come osservava lo stesso Bourdieu – «non è mai altro che la classe realizzata, ossia mobilitata, punto di arrivo della lotta delle classificazioni come lotta propriamente simbolica (e politica)»[ix]. In altri termini, non è possibile dedurre dai rapporti di produzione un dato antropologico costante che, per di più, sembra farsi elemento in grado di condizionare le stesse scelte strategiche. D’altra parte, la logica laclausiana che ci è stata imputata e sulla quale torneremo non nega il conflitto, semmai lo conferma: la lotta di classe non è però la “classe in lotta”, bensì la lotta che può portare gli interessi di classe allo scontro.

Scontro che non è mai definito e definitivo, non è mai garantito. Il conflitto è sempre presente perché, come vedremo, è un dato ontologico dell’essere sociale. Non è invece ontologicamente garantita la lotta di classe, che deve essere attivata politicamente, deve essere riconosciuta quale strumento di (ri)costruzione del sociale stesso.

Seconda questione

Quanto detto implica di studiare la logica del modo di produzione nel suo intreccio con configurazioni giuridico- istituzionali che sono direttamente o indirettamente funzionali a determinate modalità/volontà di dirigere politicamente il conflitto. Nel nostro articolo abbiamo più volte qualificato, sulla scorta di Poulantzas, lo Stato stesso come un campo della lotta sociale tra classi (e frammenti di

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classi) [x]. Eppure, per noi piuttosto sorprendentemente, ci è stato rimproverato di fare coincidere potere e Stato, inteso come una macchina di cui si tratterebbe semplicemente di prendere il controllo tramite maggioranze elettorali. In realtà nel nostro articolo le elezioni venivano nominate esclusivamente per parlare del posizionamento di classe del lavoro dipendente come una delle cause dell’ascesa del M5S, argomento che in alcuni commenti è stato utilizzato per rimproverarci di non comprendere che, per così dire, “anche i lavoratori si incazzano” e che noi, invece, avanzavamo proprio per mostrare il rapporto spurio tra collocazione di classe ed espressione politica. Tra l’altro, Visalli cita proprio la composizione sociale trasversale del voto a M5S e Lega come controprova empirica dell’infondatezza della nostra argomentazione, il che a nostro avviso rende invece ancora più urgente interrogarsi con una certa radicalità sul perché il malumore del lavoro dipendente non sia sfociato nell’agognata rivolta sociale né abbia premiato nessuna delle forze anticapitaliste, con più precisa connotazione “di classe”, disponibili sulla scena politica, mentre, al contrario, all’epoca era piuttosto diffusa tra queste ultime la pratica di derivare da alcuni effettivi caratteri “neoliberali” del M5S il suo ruolo di “tappo” od “usurpatore” dell’autentica protesta. Vero è, invece, che riteniamo che lo Stato come campo travalichi i confini dello Stato come “cosa”, ma anche dei rapporti di classe in esso inscritti. Nella misura in cui si riesce a calcare questo terreno (anche senza conquistarlo del tutto), è possibile provare a ridefinirne e orientarne il capitale “simbolico”, a “polarizzare” il campo, acquisendone

“legittimazione”, “potenza” e “potere” (in parte anche nei rapporti di produzione, rispetto ai quali, come mostra lo stesso Poulantzas, la funzione statale non è del tutto esterna). Il riferimento alla nazione è, tra le altre cose, questione fondamentale – declinabile secondo diversi orientamenti – sulla quale fare leva per disporre del potere simbolico dello Stato[xi]. In ogni caso è un bene non distogliere lo sguardo dalla guerra per la supremazia tra

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dominanti – che si gioca tanto attraverso il potere statuale quanto nella competizione economica e che può sacrificare a sé la stessa massimizzazione del profitto[xii] – e, soprattutto, dai settori di altri gruppi sociali che vengono coinvolti in essa, interrogandosi senza moralismi sulla stabilità e la trasformabilità di queste alleanze. Tanto l’attendismo quanto il purismo economicista contribuiscono, invece, non poco a dare ossigeno, tempo e denaro a quei gruppi, che hanno così vita facile a ricollocarsi in modo da giocare una “lotta di classe” dall’alto, che si continua a perdere, da un lato perché ci è stato tolto il terreno di gioco da sotto i piedi, dall’altro perché non si è disposti a giocare sul terreno rimasto.

Terza questione

Occorre, infine, affrontare una questione più intricata, non a caso condivisa dai fronti opposti A e B, riguardante la differenza ed, eventualmente, la complementarietà tra una lente marxista centrata sui rapporti sociali di produzione e la teoria delle «catene equivalenziali» egemoniche di cui parla Ernesto Laclau. Semplificando una costruzione teorica molto più complessa, possiamo dire con sufficiente sicurezza che per il filosofo argentino, il «discorso», anche se sicuramente ritagliato sull’aspetto linguistico o retorico e con tutte le sovrapposizioni “postmoderne” che tale scelta indubbiamente comporta, non riguarda semplicemente la narrazione o il “comunicazionismo” a tratti attribuitoci, ma è un modo per concettualizzare il rapporto attraverso il quale si danno elementi e relazioni come coappartenenti ad una totalità mai saturata, intimamente scissa, continuamente s o g g e t t a a r i d e f i n i z i o n e i d e n t i t a r i a p e r v i a d i un’inestinguibile opacità dovuta al conflitto. Il sociale è sempre tutto da fare e riconfigurare (politicamente), e assumerà determinate sembianze piuttosto che altre, a seconda di quali «significanti vuoti» saranno in grado di costruire ed esprimere simbolicamente le catene equivalenziali più forti.

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L’egemonia, in quanto operazione di riarticolazione interna ad una formazione sociale e discorsiva diventa, allora, costitutiva anche delle classi sociali in quanto soggetti politici. I rapporti di produzione non cessano di esistere, né di essere presi in considerazione (potendo essere, tra le altre cose, posta in gioco del conflitto), ma certo non determinano perimetro e mobilità del campo politico, non più riconducibile a mera rappresentazione di interessi.

A questo punto non è possibile esimersi dal rispondere già qui all’obiezione mossa nel secondo fronte della critica (il fronte B), cioè quella per cui affidarsi al dato congiunturale laclausiano vorrebbe dire semplicemente abbandonare la concezione materialistica della storia. È corretto affermare, invece, che, seguendo Laclau, non si assegna alcun primato al sociale, ma non per questo si approda alla visione altrettanto riduzionista per cui la politica plasma volontaristicamente un sociale ad essa subordinato: bisogna piuttosto intendere come per Laclau la politica sia «ontologia del sociale», costruzione egemonica di alleanze sociali che continuamente le risignifica. Non neghiamo che esistano effettivamente pericoli nella teorizzazione di Laclau[xiii]. Tuttavia, riteniamo che pensare il politico come ontologia del sociale, come l’essere stesso dei rapporti sociali colti sotto l’angolo prospettico della congiuntura (su questo ritorneremo), ci consente non solo di considerarlo come elemento interno all’economico stesso, ma anche di immaginare nuove vie per ripoliticizzare un esistente la cui carica antagonistica e conflittuale è s t a t a n e u t r a l i z z a t a d a d e c e n n i d i t r a s f o r m a z i o n i neoliberiste. In quest’ottica, infatti, il populismo non è solo un momento – che per molti oggi sarebbe finito, senza essersi, in effetti, mai veramente dato se non in un altrove idealizzato, sia esso latinoamericano o francese – ma anche un campo, che proprio per questo consente di (ri-)attivare momenti populisti, non orientati da alcuna visione progressiva o per stadi, perché coincidenti con le dislocazioni egemoniche e contro-egemoniche di una frontiera interna allo spazio

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