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Copyright Fabio Selvatico 2008 Festa 1996

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Academic year: 2022

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Un passo indietro nel tempo. Quasi vent'anni di stasi e di silenzi della coscienza. Poi una sera inizia tra mille incognite e mi trovo ad avventurarmi solo attraverso un buio tunnel tra gli alberi. Percorro il sentiero disseminato ai lati dai lumi che si pongono solitamente sulle tombe o nelle nicchie votive. Queste luci ammiccanti nell'umido della notte di una fine di Settembre, rigida come sentivo rigide e cariche di aspettative tutte le fini di Settembre di quand'ero ragazzo, mi guidano con le fiamme tutte oscillanti nella stessa direzione verso una festa che presagisco più che esserne a conoscenza, carica di domande sugli sviluppi possibili. Sono vigile nel buio. I sensi aperti e ricettivi per cogliere ogni possibile indizio di pericolo. Poi il tunnel di foglie si allarga su uno spiazzo chiaro e mi arrivano rumori di gente riunita, giro a sinistra e vedo fiamme riflesse dal basso su volti che si fronteggiano. Il primo gruppo è di più giovani, sotto ai vent'anni. Riconosco da lontano la loro musica, diversa ed involuta rispetto a quella mia di quando passavo per quella età. Passo oltre tenendomi sempre a distanza ed osservo un altro gruppo concentrato sui preparativi di una brace per cucinare, siedono per lo più tutti attorno ad un tavolone alto imbandito con la compostezza dei banchettanti di un pranzo di nozze di cui non si conoscono gli sposi. Non può essere qui; ciò che stasera mi è stato descritto con poche parole iniettate in messaggi registrati deve avere una configurazione maggiormente ampia, aperta eterogeneamente da ogni lato possibile. Nemmeno sotto la tettoia successiva vedo quello che sto cercando, cacciatore silenzioso di stimoli, raccoglitore avido di frutti e pronto a cogliere ogni impercettibile sfumatura di umore dei gruppi che osservo perforando coscienze inconsapevoli del mio indagare. Distaccata da tutte le altre, il doppio almeno più grande, maggiormente ariosa e rumorosa, vedo la struttura che cercavo. Non è ancora affollata da un numero sufficiente di persone perché io mi possa inserire inosservato. Ho già scelto rapidamente il nome che userò. Sarò Enrico perché mi è familiare e si adatta benissimo ad una storia di copertura in caso fossi portato a dare spiegazioni; infatti essere Enrico mi permette di deformare la realtà solo nei riferimenti di identità, il resto lo posso mantenere credibile perché attinto senza mezzi tentennamenti dal vero. Quindi torno sui miei passi accendendo una sigaretta ed immergendomi di nuovo nel buio del parco. È un buio lattiginoso dato dal cielo della città sbiancato dalle sue luci, qualche stella si vede ugualmente, tremolante nella notte greve di umido. Sento le musiche ed i brandelli di frasi che mi arrivano a fiotti da l'una o dall'altra riunione ed ora si stanno radunando attorno ad

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un fuoco, fuori e distaccati dai tetti dei cascinali antichi, ragazzi che non distinguo chiaramente che martellano in raffiche saltuarie tamburi e tamburelli tra un saluto di ben arrivato e l'altro, mentre prendono contatto trasmettendosi l'attesa del tempo da consumare insieme. Sono a distanza, qualcuno mi viene incontro e mi scambia per altri che attendono, persone ancora sciolte dai legami del gruppo al quale apparterrà per questa notte. Io sono un cane ancor più sciolto di tutti, solo al punto che potrei perdermi e sparire nel fitto nero di questi boschi stentorei divenendo una pianta, un ramo o un grumo organico indistinto. La mia assenza verrebbe notata solo a giorno fatto da una donna disattenta o possibilmente ostile alla nuova metamorfosi che mi sta accadendo nell'anima.

Il pensiero mi colpisce senza tristezza, già superata, lasciata indietro per fare posto ai venti di gioia e tempesta che mi percorrono ormai attraverso brecce che mi si stanno aprendo dentro a dismisura. Sto ritrovando la via abbandonata e so che questa si rivela inevitabilmente incompatibile ai ruoli di marito e padre che mi sono accollato con tanto spirito di conoscere pure questi aspetti. Chi vive con me non è persona libera, ma è un problema suo del cui peso non mi voglio caricare. Non voglio e non posso sostituirmi al tempo, unico fattore in grado di mutare le persone, di fare crescere le anime. Ora mi riavvio ed entro con passo deciso nel cerchio di luce, tangibile come un alone di pensieri indistinti e tutti dotati di un filo comune. La tettoia mi accoglie e distinguo già al limitare del cerchio di luce lo sguardo che mi sciabola dentro e che mi è familiare da tanti anni. Un lampo mi dice che mi ha sentito avvicinarmi prima di vedermi e di credere realmente alla mia presenza. Stava perforando il buio e le persone e manteneva una patina di indifferenza per mascherare sorpresa e soddisfazione: bene, sa dissimulare benissimo. Il suo spirito è grande come non mai. Bella di nero lucido. Apro al massimo i miei canali percettivi per cogliere il ritmo comune della massa in modo da mescolarmi completamente. Mi occorre l'immediato contatto con uno spirito rappresentativo, un mediatore tra me e la situazione già sviluppata che mi possa introdurre senza che io giunga a fare richieste palesi e sospette.

Devo cogliere uno che si sia dato delle responsabilità nel gruppo. Chi di solito lo fa si ritiene integrato ma rimane sufficientemente individualista per ritenersi di una misura superiore alla media, quindi si impegna in un incarico. Nella tribù umana tipica questi è il maestro del fuoco, colui che lo accende-alimenta e cura che la fiamma sia alta e vivida. Egli vede più di ogni altro a livello istintivo nella fiamma il centro della vitalità della riunione,

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lo spirito molteplice e guizzante che, frastagliato e mobile, rappresenta calore diffuso e trasmesso, contagiato e propagato da un individuo all'altro dal centro verso l'esterno. Mi avvicino al fuoco, un camino alto di cucina antica ed individuo il maestro della fiamma che getta pezzi di legno parlando ad alta voce con un altro. Appena colgo un calo nella conversazione mi spingo ad intercettarli, parlando a tutti e due e stendendo solo verso di lui un contatto tangibile, discreto ma potente. Non mi ero sbagliato: la risposta è immediata. Il maestro del fuoco mi accoglie, capisce subito che vengo dal nulla, portato al luogo da chissà quali correnti e qui per assorbire esperienze. Gli passo una menzogna debolissima, del tipo che sto aspettando un tale di cui conosco solo il nome. Il suo occhio mi legge, io apro la pagina che gli voglio rivelare e lascio intravedere solo alcune sfumature di ansia mezze nascoste per non apparire troppo bisognoso. Lui si coinvolge e mi indirizza, mi mette a mio agio con grande umiltà e larghezza. Quindi mi allontano di mezzo passo in direzione del lavatoio colmo di bottiglie di beveraggi che mi ha indicato, mi volto improvvisamente e, rientrando nel suo campo visivo che aveva preso ad allargare per abbracciare le fasi della festa, gli prendo la mano. Gli passo una scarica di familiarità- gratitudine-affetto improvviso e gratuito. L'ho scosso, arrossisce e mi stringe a sua volta la mano balzando all'indietro a piedi uniti, un segno involontario e incontrollabile di stima.

Centrato. Ho stabilito un contatto, un legame con una figura chiave. Ora sono nel gruppo e lo abbandono, leggero, impercettibile, lo sguardo che viaggia all'altezza dei menti delle persone solo a tratti si alza per coprire i visi e gli occhi, solo quando sento che fluisce da chi mi fronteggia un'aura di interesse simpatico. Prendo una birra dal mucchio sul fondo del lavatoio e fermo due tipi che hanno il mio stesso problema: come diavolo l'apriamo? Mi dicono di averlo visto fare con un accendino, ci provo ed apro anche le loro mentre sto stendendo i fili di guardia verso il tavolo che salto volutamente con lo sguardo per evitare di cogliere ancora quel lampo soppresso in lei. È un punto delicato, c'è molta, troppa luce irradiata da neon appesi ai travi della tettoia e la luce incrudisce le voci che si fanno più stridule nella consapevolezza di essere osservati troppo nettamente, troppo visibilmente allegri, o ubriachi, o fatti. Ritorno verso il fuoco e sorseggio la birra. Noto che stranamente mi va giiù senza resistenza, da tempo non bevo a canna, mi ha sempre messo in difficoltà la schiuma. Ma stasera sento che berrei a canna tutta la birra del lavatoio, sento che posso lasciarmi andare affidandomi a questi ignoti che paiono conoscersi tutti tra loro. Sono

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rilassati, persone di ogni età e ceto che si stringono a farsi compagnia, a trasmettersi una gioia di stare insieme matura, senza ipocrisie o bisogni pressanti. I corpi si scontrano, si sfregano nella calca vicino al camino, ma nessuno fa caso alla violazione dello spazio personale, anzi percepisco la voglia comune di sentire gli altri fisicamente, nel loro sudore ascellare, negli aliti birrosi o vinosi corretti dall'aroma di canna presente in alcuni. Mi appoggio al camino sentendo il calore che mi arroventa mezza figura, mi giro e me la vedo accanto, fitta in una conversazione con un fattone che si regge a stento in piedi, le palpebre mezze chiuse e tumefatte dalla sconvoltura. Sembra che lui la stia tacchinando, poi mi accorgo che si conoscono già. Mara mi guarda e la vedo distinta e contrastata sullo sfondo dei colori stemperati degli altri. Sorrido e le lancio una parola appena che non comprende, me ne esco con un ma noi ci conosciamo già che avevo preparato da tempo. La frase più banale, più rozza, l'approccio più palesemente scoperto, fatto apposta perché solo lei possa capire che mi sto travestendo sotto altre spoglie. Mi presento come Enrico e lei mi presenta il fattone Luigi cogliendo immediatamente il gioco e facendolo partire alla sua velocità, con il suo ritmo di tempo scollato e disuguale, dove i secondi non si distanziano tra loro con cadenze identiche, ma corrono o rallentano a suo piacimento e consumo. Sto scoprendo questa donna straordinaria quando il tempo ha prodotto in me ed in lei i mutamenti necessari perché fossimo in reale sintonia, con gli stessi metri scoperti casualmente l'uno nell'altro. Inseriti in storie che ci appartengono ma che quando siamo insieme sono lontane anni luce dalla nostra comunione. In passato l'ho avuta accanto e mi infastidiva quasi il suo capire immediato la mia anima e le mie stanchezze, l'adeguarsi quasi supino alle mie debolezze, al mio dibattermi dentro di lei in amplessi improvvisati in strade buie, in letti che ci tenevo non dividessimo nel sonno per tenerla distante. La prendevo come capitava, di sorpresa ed a volte all'impiedi per togliere ogni possibile dubbio che ci potesse essere una relazione vera, composta da cose profonde ed amore. Non volevo intraprendere la vita con nessuno, meno che meno con lei che in tutte le sue esternazioni dimostrava un interesse scostante ed incomprensibile nei miei confronti rendendomi pan per focaccia in bidoni assurdi e senza la minima ragione. Ed ora eccola qui di fronte a me e non sento nulla nel rumore delle voci altrui se non il suo respiro ed il battito del suo cuore. La vedo nuova e bellissima dentro e fuori, il dentro che contagia il fuori. Sono solo e lei mi stende il tappeto in questo suo mondo di persone così differenti dall'ambiente in cui vivo da anni.

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Ambiente di figli medio borghesi che si introducono nella vita completamente di traverso, senza mai affrontare lotte o crisi profonde di petto o di schiena. Uomini della mia età ma vissuti a mezzo in rituali tenuti in vita per non soccombere di fronte a veri drammi, a dolori autentici. Mara mi prende per mano e mi introduce forzandomi con delicatezza ed io mi abbandono in una fiducia illimitata, senza freni o le inibizioni che mi sono solite. Mi presenta a Luigi che mi accoglie come se mi conoscesse da sempre, con quella rassegnata indifferenza, quell'aplomb caratteristico dei drogati che hanno un baluginio di interesse vero solo per ciò che li possa stonare definitivamente, che li porti fuori senza un possibile ritorno. Lei, lui, io che sto accanto al fuoco e non so se muovermi ed abbracciarla e dire che sono felice come una bestia di essere qui a percepire, a succhiare la linfa vitale da queste anime che vivono inconsapevolmente. Lei sa guardarmi e mimetizzare ciò che mi trasmette con occhiate laterali tra il complice ed il distaccato. Deve un poco recitare, non vi è abituata ma ci riesce benissimo. Poi il fattone sparisce inghiottito dalla calca e ci ritroviamo soli nel silenzio che riusciamo a creare in certi momenti. Ha la voce bassa come sempre e mi chiede cosa ne penso. Dico che è magnifico e che ci tornerò ancora. Si avvicina il maestro del fuoco che mi ha osservato muovermi per circa cinque minuti e mi chiede: allora, come ti trovi, hai trovato il tuo amico? ne ho trovati tanti, tutti quelli che ci sono qui e gli rispondo pure che domani sera torno ancora sperando di trovare tutti ancora qui bere ed a fare casino. Ride ed è sinceramente contento che mi sia inserito, avevo visto giusto quando avevo capito che si riteneva responsabile, si preoccupa che io mi diverta e guarda Mara come per valutare la mia caccia. Siamo prontissimi a trasmettergli entrambe sguardi neutri, come se si ci fossimo realmente presentati, ma fossimo ancora due estranei decisi a rimanere tali. Ci spostiamo lateralmente ed appare Sonia. Mara me la presenta urlandole che mi chiamo Enrico, come per farle bene stampare in mente di non chiamarmi distrattamente col mio vero nome che conosce. Sonia fluttua, ha una faccia brutta e singolare, un sorriso talmente sincero da togliere ogni tipo di dubbio. È la sua amica, sento che con lei posso cessare quella patina di finzione che mi infastidisce un poco ma che mi intriga. Tutto qui è comunque mobile , quasi liquido. Rapidamente il gruppo ci si fa intorno come molecole che prendano contatto per una reazione chimica e mi scopro attento all'ascolto di uno che ne dimostra più di cinquanta e che racconta con il linguaggio colorito e la bocca impastata di birra di quando ha fatto per qualche tempo il

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gigolo da strada. Mi interessa e mi colpisce e gli pongo domande che lo fanno decollare in descrizioni di incontri con sconosciute affamate che si fanno sempre più minuziose; Sonia pure gli dà corda ed ascoltiamo le imprese di questo tardo freak che si fermava agli angoli di piazze ben identificate per farsi caricare da tardone o da mogli di dirigenti pronte a cedere qualche lira in cambio della stretta di mani forti che le ghermissero in scopate sottratte a pomeriggi tristi e noiosi. Le persone si muovono intorno a noi ed il cerchio si allarga, alcuni ci osservano perché ridiamo alle battute di vecchio freak che tenta di assumere un tono discreto, ma si vede che si trattiene a stento e che passerebbe volentieri la serata snocciolando i dettagli delle sue imprese a questa platea interessata e stimolante.

Mi sento rilassare in questa compagine di sconosciuti, eterogenea riunione per la maggior parte di più giovani di me e con una vitalità ed una forza, una libertà da vincoli e confini che mi fa invidia, mi fa riflettere su quanto io possa assorbire in momenti come questi da più persone senza che nessuna di loro consapevolmente si accorga di trasmettermi cose di valore. Sono immerso tra queste facce che si fanno sempre più somiglianti tra loro, man mano che la serata sale di tono nei fiumi di birra e vino. C'è un tavolo fisso, alcuni non prendono parte al tutto girovagando e preferendo mantenere compatto il nucleo di fedelissimi ed affiatati. Somiglia al gruppo storico della mia compagnia di attuali scoppiati, quando avevamo una sorta di orgoglio di appartenenza. Una coesione e complicità fanciullesche da banda di quartiere. Poi ognuno di noi ha intrapreso strade con tappe uguali ma che divergono tutte. Lei fa parte di quel tavolo, ma se ne allontana in giri vaghi per intercettare casualmente le mie traiettorie tra la calca. Allora abbiamo scambi di complicità e di affetto nascosti. L'abbiamo combinata grossa incontrandoci sotto al naso di un lui presente a tratti ossessivamente. Gardiano-tutore di un'anima che risplende e spicca facilmente tra le altre. Converso per via dell'alcool con chi mi capita ed i toni, le definizioni dei confini personali di questa gente, si smussano e stemperano in deja-vu tutti miei che da decine d'anni non vivevo. Incontro un tale che mi riassume il sommo della sfortuna della sua vita recente. Mi insegna, mentre mi paragono alla sua storia, che sono ancora ben lontano dal perdere tutto e al tempo stesso ho la consapevolezza di essere perduto. Sto perdendo i legami, i riferimenti che mi sono costruito più o meno falsamente per fronteggiare gli anni della maturità. Mi sono circondato di cose, di etichette di cose, di titoli di argomenti che hanno contenuto e vita solo se si condividono pienamente e ad ogni

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istante nel miracolo dell'amore reciproco e della comprensione. Della conduzione e della costruzione costante di momenti concatenati, di conferme di libertà individuali da spendere in reti di relazioni affettive. Sono solo e triste e qualcuno mi tende una mano per salvarmi, per darmi quella sicurezza che mi è peculiare e che ho perduto nella incertezza di essere amato e stimato, di ricevere conforto ed amicizia, di condurre i rapporti affettivi sempre dalla parte di chi traina, di chi spinge gli eventi affinché possano accadere ed essere vissuti. La folla si sta rarefacendo ed i rimasti sono duri a mollare. È il momento in cui emergono le ciucche tristi e le disperazioni, il segmento di tempo di queste riunioni in cui chi ha un barlume di lucidità focalizza chi gli sta di fianco o di fronte e cerca di squadrarlo con gli occhi del domani, del dopo sbronza. È una situazione che voglio evitare. Mi voglio allontanare carico di quello che ho assorbito senza dovere entrare nel merito di delucidazioni su me stesso: ero anonimo sullo sfondo della festa e devo rimanerlo perché non mi si possa classificare in incontri futuri. Anonimo ed elettrizzato ripercorro il tunnel negli alberi, i tacchi che rimbalzano a colpi sul selciato, passi di gambe intirizzite dal freddo e frettolosi, quasi come se cercassi di raggiungere una velocità di fuga verso la mia orbita di parcheggio attorno a questo mondo vario e lussureggiante che mi ha ospitato.

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