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Diabete 171 milioni 366 milioni

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INTRODUZIONE

DEFINIZIONE DI CELLULA STAMINALE

Le cellule staminali sono cellule che godono di alcune caratteristiche peculiari: sono cellule indifferenziate, hanno la capacità di autorigenerarsi (self renewing) oltre che di differenziarsi in numerosi tipi cellulari (1). Specifiche caratteristiche geniche permettono loro di regolare il ciclo cellulare, mantenere l’integrità genomica e controllare fenomeni quali la senescenza e l’apoptosi, tipici di tutte le altre cellule dell’organismo.

Possono essere classificate in base all’espressione di markers di superficie (appartenenti al cluster dei CD), altrimenti detti antigeni di superficie panleucocitari, che fungono da indice di stipite o linea maturativa e ne identificano stato di maturazione ed attività funzionale.

Sono inoltre distinte in base al tipo di cellule differenziate cui possono dare origine: le cellule totipotenti creano un nuovo individuo completo; quelle pluripotenti formano i tre foglietti germinativi, ma non le strutture di sostegno; le cellule multipotenti differenziandosi danno origine a numerosi tipi cellulari dell’organo dal quale sono state isolate, infine le progenitrici sono staminali committed o precursor, cioè differenziate in un solo tipo cellulare.

Un’altra classificazione possibile è in base alla differente origine: le cellule staminali embrionali sono cellule totipotenti che provengono da feti abortiti o dalla fertilizzazione in vitro, e come tali di difficile utilizzo dal punto di vista clinico-sperimentale oltre che per problemi di eticità, nonostante le maggiori potenzialità; le cellule somatiche o dell’adulto, più facilmente reperibili, sono, secondo i capisaldi della scuola ematologica, “commissionate” a produrre cellule solo ed esclusivamente del tessuto di origine. In realtà recenti studi sperimentali ne hanno evidenziato una plasticità tale da rendere più vicina quella che fino a ieri era solo una remota ipotesi: la transdifferenziazione, la possibilità in altre parole di superare la barriera di linea e di formare tessuti differenti da quello d’origine (2).

Naturalmente tale argomento è fonte di grandi controversie, esistono in merito differenti linee di pensiero, alcune delle quali ne mettono in dubbio la veridicità (3,4).

Un altro criterio di classificazione è la loro localizzazione: mioblasti scheletrici (o cellule satellite) che risiedono nella membrana basale del tessuto muscolare; cellule staminali cardiache residenti (cardiac stem cell: CSCs e cardiomioblasti); cellule di derivazione midollare (bone marrow cells), cellule staminali ematopoietiche (hematopoietic stem cells:

HSCs), cellule mesenchimali (mesenchimal stem cells: MSCs), cellule progenitrici

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multipotenti (multipotent progenitor adult cells: MPACs) e cellule endoteliali progenitrici (endothelial progenitor cells: EPCs) (figura 1).

Figura 1. Origine e differenziazione delle differenti linee staminali post- natali.

CELLULE ENDOTELIALI PROGENITRICI (EPCs)

Le cellule progenitrici endoteliali sono state identificate nel 1997 come un sottogruppo di cellule mononucleate del sangue periferico in grado di differenziarsi in cellule endoteliali mature e di contribuire alla formazione di nuovi vasi sanguigni (5). Si ipotizza che la maggiore sorgente di EPCs sia rappresentata dal midollo osseo ematopoietico. Cosi come durante la vita embrionale, probabilmente anche nell’organismo adulto, tanto nei roditori quanto nell’uomo, le cellule staminali ematopoietiche e le EPCs riconoscono un precursore comune, chiamato emangioblasto.

In passato si riteneva che la neovasculogenesi, cioè la formazione di nuovi vasi sanguigni a partire da un tessuto avascolare, fosse limitata alle fasi di sviluppo dell’apparato cardiovascolare a opera del mesoderma extraembrionario del sacco vitellino. Attualmente si ritiene che questo processo possa avvenire anche nell’organismo adulto per opera delle EPCs che, migrate dal midollo osseo ai tessuti periferici, partecipano alla genesi di neovasi. Mentre fino agli anni ’90 la ricerca cardiovascolare si è focalizzata sopra ttutto sui meccanismi di

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danno vascolare, la scoperta delle EPCs ha aperto un nuovo filone di studio basato sull’analisi dei meccanismi di riparazione vascolare.

Le EPCs, infatti, svolgono due ruoli fondamentali nella fisiologia e fisiopatologia dell’apparato cardiovascolare: il mantenimento dell’omeostasi endoteliale e la neoangiogenesi.

L’endotelio è un organo anatomicamente e funzionalmente cruciale per la salute cardiovascolare, fornisce una barriera fisica alle cellule ematiche e al plasma e regola il tono vascolare, l’aggregazione piastrinica e l’adesione leucocitaria.

Le cellule endoteliali mature vanno incontro a un turnover molto lento, ma sono in grado, entro un certo limite, di rinnovarsi.

L’endotelio, per la sua tipica localizzazione anatomica è esposto a numerose noxae patogene veicolate dal sangue (per es. prodotti di ossidazione, acidi grassi, glucosio, colesterolo) ed è quindi bersaglio dei tipici fattori di rischio cardiovascolare che agiscono tramite meccanismi molecolari noti alterandone la funzione. La disfunzione endoteliale si manifesta come aumento del tono vascolare, dell’aggregabilità piastrinica e dell’adesività leucocitaria, tutti eventi che possono favorire la comparsa e progressione delle lesioni aterosclerotiche (9). Le cellule endoteliali danneggiate possono andare incontro ad apoptosi, distaccandosi dalla parete vascolare e predisponendo così a eventi trombotici. In riposta al danno, le EPCs circolanti, grazie a determinati segnali solubili (per es. chemochine quali SDF-1, stromal cell- derived factor 1), migrano selettivamente presso le sedi di lesione endoteliale e si differenziano in cellule endoteliali funzionalmente mature (10). Questi fenomeni sono stati dimostrati estesamente negli animali da laboratorio (conigli e roditori) ed esistono anche dati preliminari nell’uomo (11).

Caratte rizzazione funzionale e fenotipica

Sono stati identificati diversi fenotipi cellulari che possono differenziarsi in cellule endoteliali mature, creando non poca confusione nella nomenclatura e definizione del gruppo di interesse. Confusione accresciuta dal fatto che, in coltura, le condizioni di crescita possono determinare un rapido cambiamento del fenotipo cellulare; ad esempio la coltura con statine può aumentare il numero di cellule endoteliali isolate dalle colonie (12), la crescita continua può determinare la comparsa precoce di markers delle cellule endoteliali mature.

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Questo spiega, almeno in parte, come gruppi di ricerca differenti non abbiano osservato gli stessi markers fenotipici per cellule coltivate mediante procedure simili.

Non conoscendo il time-point della maturazione cellulare, è difficile identificare le EPCs sulla scorta di stretti parametri predefiniti, anche perché esse esprimono con differente intensità un’ampia varietà di markers tipici della linea endoteliale, a seconda della fase maturativa nella quale si trovano: precoce (EPC circolanti precoci) o tardiva (EPC circolanti tardive).

Comunque la letteratura internazionale si è trovata concorde nel definire EPC quelle cellule che presentano specifiche caratteristiche fenotipiche e funzionali.

I markers di superficie che individuano il fenotipo cellulare delle EPCs sono il CD34, condiviso da molte cellule midollari staminali, il recettore del fattore di crescita vascolare (VEGRF-2/flk-1/KDR), tipico marker delle cellule endoteliali mature e il CD133 (AC133, ckit), indice di immaturità cellulare (13) poiché compare sulla membrana cellulare molto precocemente per poi scomparire nel corso della maturazione (14). Inoltre, durante il processo maturativo vi è l’acquisizione di markers fenotipici caratteristici della linea endoteliale matura quali: CD31, PECAM-1, vWF (Von Willebran Factor), e-NOS sintetasi, caderina, E-selectina, vi è inoltre l’incorporazione di lipoproteine acetilate a basso peso molecolare

(ac-LDL).

Gli aspetti funzionali di tali cellule sono dovuti al fatto che presentano sia caratteristiche ematopoietiche, sono infatti in grado di formare colonie (eCFU) (15) se coltivate con particolari fattori di crescita, sia tipiche delle cellule endoteliali, come la capacità di formare nuovi capillari, produrre NO e dare origine a colonie tardive di crescita con caratteristici aspetti affusolato (spindle shaped) e “acciottolato” (cobblestone) simile all’endotelio (16).

La “rigidità” di questa caratterizzazione rende però difficile l’individuazione di quelle

tipologie cellulari che derivano da processi di trans differenziazione perché presentano caratteristiche, soprattutto fenotipiche, lievemente differenti da quelle descritte sopra.

Vi sono, infatti, evidenze crescenti (11) che sottolineano come la linea mieloide/monocitica (CD14+/CD34-) possa differenziarsi (o transdifferenziarsi) nella linea endoteliale. Dimmler et al. dopo aver verificato che l’espansione in vitro di cellule CD14+, in determinate condizioni, favorisce la differenziazione in cellule endoteliali che possono, in vivo, migliorare la vascolarizzazione (17), hanno dimostrato come la popolazione CD14+ / CD34 low sia capace di evolversii in cellule endoteliale mature (18).

La capacità di differenziazione in cellule endoteliali mature (ECs) pare appartenga anche alla linea di derivazione mesenchimale (MSCs) (19) ed in particolare alle cellule progenitrici adulte multipotenti (MAPCs), a significare che, mediante transd ifferenziazione, tutte le cellule

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staminali derivanti dalla linea mesodermica e dal precursore comune, possono differenziarsi in ECs. Questa teoria è avvalorata da dati ancora più recenti secondo i quali anche le cellule staminali residenti potrebbero dare origine a ECs (20, 21).

Fasi di attivazione delle EPCs

Reclutamento

La fase iniziale di attivazione delle EPCs dipende dall’attività della metallo-proteinasi 9 (MMP-9) che favorisce la trasformazione del recettore di superficie (recettore di membrana Kit- mKitL) in recettore solubile (KitL). Topi con deficit di metallo proteinasi 9 (MMP9--/--) o trattati con inibitori di tale citochina hanno una ridotta mobilizzazione delle EPCs (22).

Il G-CSF è ampiamente utilizzato in ambito ematologico, assieme al fattore di crescita granulocitario (GM-CSF), per l’espansione e la raccolta di cellule ematopoietiche e nel trapianto di midollo osseo (23); recenti studi sperimentali su animali ne hanno dimostrato l'utilità nel miglioramento della funzione ventricolare sinistra (24, 25).

Un altro fattore di crescita essenziale è il VEGF (attivato anche da MMP-9): feti di ratti con deficit allelico di VEGF non hanno uno sviluppo corretto (26), mentre la somministrazione di VEGF produce un miglioramento della capacità funzionale ed un incremento del numero di EPCs (27). Esistono isoforme circolanti multiple, la più frequente è VEGF165, il cui effetto biologico è mediato dal suo legame con recettori tirosinchinasici di superficie (VEGFR1-2 detto anche Flk-1 o KDR) e dall’attivazione di MMP-9.

Molti altri fattori sono implicati nel processo di reclutamento, tutti attualmente utilizzati come agenti mobilizzatori di cellule staminali capaci di migliorare anche la funzionalità; i più importanti sono lo stromal derived factor-1 (SDF-1), protagonista anche nella mobilizzazione e ritenuto il fattore che protegge le EPCs dall’apoptosi (28); il fattore di crescita fibroblastico (FGF), il fattore di crescita placentare (PFG), che ha vari ruoli nella cascata di attivazione delle cellule staminali (29), tra cui l’up-regolation dell’attività delle MMP-9 e ancora, l’eritropoietina (30) e la sintetasi costitutiva endoteliale dell’ossido nitrico (eNOS), la cui assenza, nei topi, produce un deficit funzionale e numerico di cellule staminali (31).

Il rilascio in circolo di questi fattori, soprattutto il VEGF, è indotto da svariati stimoli, ma sicuramente il più potente è l'ischemia tissutale (8,9) (figura 2).

Mobilizzazione

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Anche questo meccanismo è caratterizzato dalla perfetta integrazione dell’attività di più agenti; in primo luogo le integrine, in particolare le B2 (CD18-11) e le A4/B1, che permettono l’interazione cellula-cellula, essenziale nei processi di neovascolarizzazione. Il deficit delle prime riduce la capacità migratoria delle cellule staminali su piastra, mentre la deplezione delle seconde riduce specificatamente l’homing cellulare cardiaco, a evidenziare come le molecole d’adesione siano tessuto-specifiche (32). La riendotelizzazione, invece, avviene per mezzo delle vitronectine e rispettivi recettori (aVB3 e aVB5) che mediano l’adesione delle EPCs al vaso danneggiato; studi in vivo hanno dimostrato che la loro inibizione blocca il processo di riendotelizzazione.

Oltre ai fattori già decritti per il reclutamento, sono coinvolti nella mobilizzazione delle EPCs anche gli inibitori dell’HMG-CoA che aumentano la capacità funzionale delle EPCs sia in vitro che in vivo (33), agendo sull’ mRNA dell’eNOS attraverso una via di traduzione comune a vari fattori di crescita, tra cui il VEGF, FGF ed estrogeni (34).

Alcuni studi hanno evidenziato una riduzione delle EPCs indotta dalla proteina C reattiva; si suppone che ciò dipenda dall’inibizione di e-NOS. Studi sperimentali, infatti, hanno mostrato che topi eNOS--/-- avevano presentano un ridotto numero di EPCs (35), ad evidenza del ruolo essenziale di eNOS nella fase di mobilizzazione. L’attivazione del trasduttore transmenbrana della sintasi di NO è implicato anche nei meccanismi che fanno dell'eritropoietina e degli estrogeni potenti stimoli di mobilizzazione delle EPCs e di formazione di nuove colonie (CFU).

Homing

Considerando il numero esiguo di EPCs, il fenomeno di chemiotassi è fondamentale per richiamare un numero adeguato di cellule nel tessuto interessato. L’SDF-1, il più importante fattore chemiotattico conosciuto. Esso interagisce con le EPCs mediante il legame col recettore di superficie CXCR-4 (36) e prende parte anche al processo di differenziazione.

Queste ultime due fasi del processo di mobilizzazione ed homing sono essenziali no n solo perché determinano il numero di EPCs circolanti e presenti nel sito di danno, ma anche perché le rendono funzionalmente attive.

Differenziazione

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La cascata genetica che regola la maturazione delle EPC a cellule endoteliali pronte per essere integrate nell’endotelio (37), è in gran parte sconosciuta. Non è ben chiaro quando un’EPCs diventi cellula endoteliale matura; si suppone con ragionevolezza che la perdita di CD133/CD14 e l’espressione di markers specifici come il fattore di Von Willebrand, indicatori di maturità cellulare, avvengano durante la migrazione dalla periferia al monostrato endoteliale. Studi in vitro hanno individuato l’apoptosi come stimolo alla maturazione delle EPCs, ma sono dati ancora da interpretare (38). Non è nemmeno nota la vita media di una cellula staminale né il suo destino se non incorporata nell’endotelio. Rimane rilevante comunque il ruolo di fattori di crescita già descritti in precedenza (39).

Figura 2. Meccanismi che coinvolgono la regolazione delle EPCs in caso di danno vascolare Negli ultimi anni, invece, l’attenzione si è concentrata sul ruolo delle EPCs in ambito cardiovascolare, in particolare del ruolo dell’endotelio nella biologia cardiovascolare. Invero, l’insulto endoteliale è implicato nella genesi dell’aterosclerosi, nella trombosi e nell’ipertensione; inoltre, l’equilibrio tra danno e riparazione endoteliale è di preminente importanza per ridurre gli eventi cardiovascolari (40). Le cellule endoteliali mature possiedono limitate capacità rigenerative (41); questo limite spiega l’interesse crescente nelle EPC, specialmente, nel loro presunto coinvolgimento nel mantenimento dell’integrità endoteliale, della funzione endoteliale e della neovascolarizzazione postnatale.

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Un crescente numero di studi si sta indirizzando alla valutazione del possibile utilizzo delle EPC nel contesto clinico. D’altro canto, un’evidenza scientifica rapidamente crescente segnala la ridotta disponibilità e il deterioramento della funzione delle EPC in presenza di fattori di rischio cardiovascolare o di malattia cardiovascolare in atto.

SDF-1 ed EPCs

Nei processi sopra descritti delle EPCs, l’SDF-1 gioca un ruolo cruciale. Nell’animale da esperimento, l’inattivazione del gene di SDF-1 induce la morte dell’embrione a seguito di alterazioni della vascolarizzazione gastrointestinale e cerebellare ed inibizione dello sviluppo del sistema ematopoietico (42). Inoltre, è stato osservato che il numero di cellule staminali ematopoietiche (HCSs) o delle EPCs aumenta dopo trasfezione adeno virus- indotta del gene SDF-1 (56).

Coerentemente, la sovraespressione di SDF-1, nei tessuti ischemici, induce un aumento del reclutamento delle EPCs da sangue periferico e la formazione di nuovi vasi sanguigni (43, 44). Inoltre, da recenti studi emerge come l’SDF-1α svolga un ruolo cruciale anche nella differenziazione delle EPCs (45). Xiao ed altri collaboratori hanno dosato i livelli plasmatici di SDF-1 α e di altre citochine angiogeniche dimostrando che i livelli plasmatici di SDF-1 α, contrariamente ad altri fattori considerati importanti nelle fasi di attivazione delle EPCs (VEGF o G-CSF), associano con i livelli di EPCs circolanti, suggerendo un ruolo chiave del fattore di crescita stromale nel modulare la biodisponibilità delle EPCs (46). In particolare, l’associazione inversa tra numero di EPCs e livelli di SDF-1 suggerisce un ruolo fondamentale di tale fattore nell’homing delle EPCs verso i tessuti in cui è necessaria un’attività di “riparazione”. Questo è in accordo con la riduzione del pool circola nte di EPCs nei soggetti con livelli più alti di SDF-1 α, riduzione confermata da una successiva analisi dello studio di Brunico (47) (figura 3).

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Figura 3. Popolazione dello Studio di Brunico: pannello A: correlazione inversa tra livelli plasmatici di SDF-1a e EPCs; pannello B: numero di EPCs in relazione ai terzili di SDF1-alfa (T1 <2409; T2 2409-2753 e T3 >2753).

A

B

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Il gene che codifica SDF-1 presenta una variante allelica G801A (rs 2297630 SNP) nella regione 3’ non tradotta (10q11.1). Tale variante è stata recentemente associata a livelli circolanti di marcatori cellulari quali CD34+/CD133+ nel diabete di tipo 2. Evidenze su popolazione indicano che tale variante del gene di SDF-1 possa influenzare i livelli plasmatici di SDF-1α, ma anche la concentrazione delle EPCs circolanti (figura 4 e figura 5).

Figura 4. Associazione tra SNP rs2297630 di SDF-1α e numero di EPCs (espresso come mediana e range interquartili) nello studio di Brunico.

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Figura 5. Associazione tra SNP rs2297630 di SDF-1α e livelli plasmatici di SDF1-α (media aritmetica e DS) nello studio di Brunico.

EPCs in condizioni fisio-patologiche

A causa della rarità delle EPC e della difficoltà nella loro identificazione, disponiamo di informazioni limitate circa il range di normalità del numero delle EPCs circolanti e le caratteristiche funzionali dei differenti tipi di tali cellule nella specie umana. I dati presenti in letteratura suggeriscono che l’età può incidere sulla disponibilità e sulla funzione delle EPCs.

L’invecchiamento è associato ad una riduzione di EPCs circolanti nei pazienti con malattia coronarica. In alcuni studi è stata riscontrata una depressione correlata con l’età nelle cellule circolanti CD34+/KDR+ in un gruppo misto di persone sane e d i coronaropatici (49). Scheubel e al. (48) hanno descritto una perdita dipendente dall’età delle EPCs circolanti in corso di angina stabile. Inoltre, il numero di EPC mobilizzate a seguito di bypass aorto-coronarico è risultato significativamente ridotto nei pazienti più anziani.

Un’evidenza crescente suggerisce che i fattori di rischio cardiovascolare influiscono sul numero e le proprietà delle EPC. In individui sani e in pazienti coronaropatici è stata rilevata

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una correlazione inversa tra numero ed attività funzionale delle EPC e fattori di rischio cardiovascolare (50).

Il diabete mellito rappresenta una condizione clinica caratterizzata da un aumento di 2-4 volte del rischio di malattia cardiovascolare.

Differenti gradi di alterazione glucidica

L’insulino-resistenza (IR) ha un impatto negativo sul bilancio tra riparazione e danno endoteliale in quanto lo spettro di anomalie biochimiche associate all’IR interferisce negativamente con la riparazione vascolare EPC mediata.

Nell’uomo, il numero di EPCs circolanti è risultato essere ridotto nei soggetti con sindrome metabolica (51) , inoltre il numero di cellule CD34+ risulta inversamente correlato al numero di fattori che compongono la sindrome, suggerendo che il loro combinarsi sia in grado di influenzare negativamente la riparazione endoteliale.

Una correlazione inversa tra numero di EPCs circolanti e grado di disfunzione endoteliale è stata riscontrata recentemente in uno studio condotto su due popolazioni di soggetti sani ma insulino-resistenti: la primapoplazione era rappresentata da soggetti di origine caucasica, l’altra composta da individui provenienti dal Sud‐Est Asiatico (52). Questo studio ha rivelato come i soggetti provenienti dal Sud ‐ Est Asiatico presentino un maggior grado di insulino- resistenza rispetto ai soggetti caucasici ed ha dimostrato che rispetto ai caucasici questi soggetti presentavano un maggior grado di disfunzione endoteliale e un minor numero di EPCs circolanti. Questi risultati spiegano il maggior rischio CV delle popolazioni provenienti dal Sud ‐ Est Asiatico rispetto a quelle di origine caucasica. Rimane tuttavia da chiarire se in soggetti sani di origine caucasica vi sia una correlazione significativa tra IR e riduzione del numero di EPCs circolanti.

La resistenza all’insulina sembra agire a vari livelli nel ridurre il numero di cellule progenitrici endoteliali circolanti in quanto è in grado di ridurre la mobilizzazione di EPCs dal midollo osseo, il loro homing a livello dell’endotelio vascolare danneggiato e la risposta delle EPCs a chemochine a potenziale vasculogenetico. La ridotta mobilizzazione delle EPCs dal midollo osseo è stata dimostrata in un modello animale di ischemia ‐ riperfusione: il midollo osseo di ratti diabetici è risultato totalmente incapace di mobilizzare le EPCs, a differenza dei ratti di controllo che mostrano una normale curva di mobilizzazione (53). In questo studio il difettoso rilascio di EPCs da parte del midollo è associato a ridotti livelli di SDF‐1α e di VEGF e all’incapacità di “up-regolare” i livelli di HIF‐1α (hypoxia‐inducible factor‐1α).

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Inoltre è stato dimostrato che l’IR, attraverso la “down-regolazione” della via di segnalazione PI3K/Akt (54), causa una diminuita produzione di NO. L’NO è importante per l’espressione di proteine del citoscheletro che regolano la motilità cellulare (55). Una diminuzione dei livelli di MMP‐9 rappresenta, come abbiamo visto precedentemente, il primum movens della mobilizzazione delle cellule staminali dal midollo osseo.

Dopo mobilizzazione, le EPCs devono raggiungere la sede della lesione, ancorarvisi, integrarsi con il letto endoteliale preesistente, proliferare e differenziarsi. La migrazione, la sopravvivenza e le potenzialità neoangiogenetiche delle EPCs sono risultate deficitarie in soggetti diabetici insulinoresistenti (56). La spiegazione di questo dato è stata ricercata nell’iperinsulinemia compensatoria che attiva la cascata delle MAPK178 favorendo la produzione di specie reattive dell’ossigeno (57) e di citochine proinfiammatorie come il TNF‐α (58) che inibiscono la mobilizzazione, la proliferazione e la sopravvivenza delle EPCs.

L’effetto negativo dell’IR è suffragato dal fatto che i parametri di funzionalità delle EPCs migliorano, indipendentemente dal controllo glicemico, in seguito al trattamento con rosiglitazone, un farmaco che migliora l’insulino-resistenza (59).

Pertanto si può concludere che in condizioni di IR esiste una ridotta immissione di EPCs in circolo ed una loro diminuita capacità funzionale: ciò potrebbe spiegare, almeno in parte, la ridotta capacità rigenerativa dei vasi e l’aumentata propensione alla formazione di lesioni aterosclerotiche.

La storia naturale del diabete tipo 2 è un percorso più o meno lentamente progressivo caratterizzato da alterazioni metaboliche che precedono la comparsa di iperglicemia

“conclamata”. La fase in cui sono già presenti alterazioni dell’omeostasi glucidica, ma i livelli glicemici rimangono sotto ai cut-off stabiliti per la diagnosi di diabete, viene definita pre- diabete (60).

I criteri diagnostici degli stati pre-diabetici e del diabete mellito conclamato sono stati formulati nel 1997 ad opera di una commissione di esperti dell’American Diabetes Association (ADA). Tali criteri sono stati aggiornati nel 2003 (61) , (62).

Il pre-diabete, definito come alterata omeostasi del glucosio (Impaired Glucose Regulation - IGR) è condizione ad elevato rischio di evoluzione verso il diabete di tipo 2, ma anche fattore di rischio per patologie cardiovascolari. Comprende due condizioni distinte: l'IFG (Impaired Fasting Glucose), alterata glicemia a digiuno e l'IGT (Impaired Glucose Tolerance), alterata tolleranza al glucosio. Tali condizioni possono anche coesistere nello stesso individuo.

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Confrontando la prevalenza di IFG e IGT l’epidemiologia dimostra che tali categorie definiscono due differenti popolazioni, solo parzialmente sovrapposte, poiché rispecchiano due condizioni distinte da un punto di vista metabolico. I determinanti metabolici dei livelli glicemici del digiuno e della fase post-prandiale sono infatti profondamente diversi.

Entrambe le condizioni sono caratterizzate dall’insulino-resistenza, ma tendono a distinguersi tra loro per la sede ove si esprime preva lentemente la ridotta azione biologica dell’insulina.

Infatti, mentre i soggetti con IFG presentano insulino-resistenza prevalentemente epatica, associata ad una normale sensibilità a livello muscolare, gli individui con IGT mostrano una insulino-sensibilità solo lievemente ridotta a livello epatico, ma marcatamente ridotta a livello del tessuto muscolare. I soggetti che presentano entrambe le condizioni, sono invece caratterizzati da entrambe le forme di insulino-resistenza (63). Anche il pattern di secrezione insulinica differisce nei due gruppi. I pazienti con IFG presentano una riduzione della prima fase della secrezione insulinica sia dopo infusione endovenosa di glucosio (IVGTT) che dopo somministrazione orale di glucosio (OGTT). La seconda fase di risposta all’OGTT è pressochè normale nei soggetti con IFG, mentre i soggetti con IGT hanno un grave deficit sia della fase precoce che di quella tardiva della secrezione dell’insulina ad entrambi i test di stimolo (IVGTT e OGTT) (64). Differenti alterazioni metaboliche consentono quindi di spiegare l’eterogeneità del profilo glicemico dopo OGTT e le diverse categorie di alterazione dell’omeostasi glucidica. La prima fase di secrezione insulinica gioca un ruolo importante sulla soppressione della produzione epatica di glucosio dopo OGTT o dopo un pasto (65). Il difetto nella secrezione precoce dell’insulina rende inefficace la soppressione della produzione epatica di glucosio, contribuendo all’innalzamento della glicemia nei primi 60 minuti dopo il carico orale di glucosio. Nei soggetti con IGT, il concomitante deterioramento della fase tardiva della secrezione insulinica, associata all’insulino-resistenza a livello muscolare, determinerà una minore utilizzazione di glucosio durante l’OGTT a cui consegue un persistente aumento della glicemia dopo 2 ore dal carico orale di glucosio.

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Figura 6.

Definizio

ne e

significat o prognosti co degli stati di prediabet e.

I sogget ti con IFG presentano livelli glicemici a digiuno più elevati (a causa dell’insulino-resistenza epatica), raggiungono concentrazioni plasmatiche di glucosio solo lievemente più elevate dei soggetti normo-tolleranti a 30-60 minuti dal carico orale di glucosio, per ritornare a valori pressochè normali dopo 2 ore. Questo profilo esprime una una normale sensibilità insulinica a livello muscolare ed una inalterata seconda fase di secrezione beta-cellulare che consentono di contenere l’elevazione della glicemia in risposta al carico orale di glucosio (66).

I soggetti che esprimono entrambe le condizioni presentano elevati livelli di glicemia a digiuno che aumentano durante l’OGTT a causa dell’insulino-resistenza epatica e muscolare, associata ad un’alterata secrezione di insulina.

La diagnosi di IGT può essere formulata solo con il carico orale di glucosio (75g di glucosio disciolti in acqua e assunti per os) qualora si rilevano valori di glicemia compresi fra 140 e 200 mg/dl a 2 ore dall’assunzione del carico orale di glucosio.

L’alterata glicemia a digiuno (IFG) è caratterizzata da una glicemia basale >100 mg/dl, ma

<126 mg/dl, con valori glicemici post-carico nei limiti della norma (<140 mg/dl).

Entrambe le condizioni di pre-diabete, spesso rilevate occasionalmente, in quanto asintomatiche, si associano frequentemente alla “sindrome metabolica”, caratterizzata dalla coesistenza di insulino-resistenza, iperinsulinemia compensatoria, ipertrigliceridemia, ridotti livelli di colesterolemia HDL ed ipertensione arteriosa.

> 200 mg/dl

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Le condizioni di pre-diabete, ma anche la sindrome metabolica e l’insulino-resistenza rappresentano altrettanti fattori di rischio per lo sviluppo futuro del diabete, ma anche per la patologia aterosclerotica e, in particolare, per la cardiopatia ischemica (figura 7).

Figura 7. Integrazione tra ridotta sensibilità insulinica, alterata funzione della beta-cellula e aumento del rischio cardiovascolare.

Il diabete mellito di tipo 2 rappresenta più del 90-95% di tutti i casi di diabete dell’adulto. Il fenotipo può essere caratterizzato da una prevalente riduzione della secrezione insulinica con modesta insulino-resistenza o da una prevalente insulino-resistenza con modesto deficit di secrezione insulinica.

L’insulino-resistenza è presente all’esordio del diabete, contribuisce alla sua progressione e all’aggregarsi di altri fattori di rischio cardiovascolari, quali l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia, la disfunzione endoteliale e la diatesi trombofilica, che concorrono all’aumentata incidenza di complicanze aterotrombotiche.

La maggior parte dei pazienti con diabete di tipo 2 è affetta da obesità, che rappresenta la causa principale dell’insulino-resistenza (67). I soggetti con diabete tipo 2 che non sono obesi tendono comunque ad avere un’aumentata distribuzione di grasso corporeo in regione addominale (68). Fino agli anni ’90 la diagnosi di diabete mellito era formulata per valori di glicemia a digiuno superiori o uguali a 140 mg/dl, o per valori di glicemia alla seconda ora dell’OGTT superiori o uguali a 200 mg/dl. Dal 1997 i criteri diagnostici sono stati modificati riducendo il valore diagnostico della glicemia a digiuno a 126 mg/dl. Sono state proposte inoltre tre modalità per porre diagnosi di diabete mellito, ciascuna delle quali può essere successivamente confermata dalle altre (69) , (70). Così, se il sospetto diagnostico è stato

Sensibilit ˆ allÕinsulina

Funzione della

§-cellula

Patologia cardiovascolare Diabete

Tipo 2

Al terata regol azi one Al terata regol azi one

Gl uci di ca**

Gl uci di ca**

Alterato metabolismo glicidico

Normale metabolismo glicidico

30% 50% +++

50%* 70-100 % ++

70%* 150% +

100% 100%

Diagnosi clinica Diagnosi clinica

* insulino-resistenza/sindrome metabolica

** IFG/IGT

** IFG/IGT

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avanzato per la presenza di sintomi clinici suggestivi e per il rilievo occasionale di una glicemia ≥200 mg/dl, sarà necessario rilevare, in un’altra occasione, una glicemia a digiuno

≥126 mg/dl o documentare un valore glicemico ≥200 mg/dl dopo test da carico orale di glucosio, oppure anche confermare il reperto iniziale una seconda volta (71). La diagnosi di diabete può quindi essere posta in maniera relativamente semplice in base a due rilevazioni distinte di una glicemia a digiuno ≥126 mg/dl senza necessariamente ricorrere al test da carico di glucosio. La glicemia a digiuno è infatti altamente predittiva di quella postcarico, e il suo impiego preferenziale interpreta l’intenzione dell’American Diabetes Association (ADA) e di altre Società Scientifiche quali la Società Italiana di Diabetologia (SID) di assegnare valore diagnostico a test che siano di facile esecuzione, a basso costo ed accettati dal paziente (72) ; (73).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), pur riconoscendo il nuovo valore diagnostico della glicemia a digiuno (≥ 126 mg/dl), suggerisce di eseguire un carico orale di glucosio ad individui con alterata glicemia a digiuno per escludere la presenza di diabete non diagnosticato (74). La posizione dell’OMS interpreta numerose osservazioni epidemiologiche che dimostrano un’elevata incidenza, nei paesi occidentali, di diabete mellito di tipo 2 misconosciuto (fino al 50% della popolazione adulta) e un elevato rischio di complicanze micro- e macrovascolari anche nei soggetti non diagnosticati e quindi non sottoposti a provvedimenti terapeutici appropriati e tempestivi. È inoltre noto che la ridotta tolleranza glucidica, ancor più dell’iperglicemia a digiuno, si associa ad un rischio di morbilità e di mortalità, mentre non è segnalato in questa cond izione un incremento del rischio di microangiopatia (75). La selezione della popolazione da sottoporre a test diagnostici è definita in base all’evidenza clinica di un progressivo incremento di incidenza del pre-diabete e del diabete mellito a partire dai 45 anni di età. In questa popolazione la cadenza temporale dei test di screening, triennale se il primo accertamento risulta negativo, si basa sull’evidenza di una bassa probabilità di sviluppo in questo stesso arco di tempo di complicanze cardiovascolari in presenza di iperglicemia. Per la popolazione ad alto rischio di sviluppare diabete mellito (stati pre-diabetici, familiarità per diabete mellito tipo 2, sindrome metabolica) le indagini di screening dovrebbero essere pianificate più precocemente ed esse re eseguite con una frequenza almeno annuale (76). La prevalenza e l’incidenza del diabete mellito e soprattutto del diabete tipo 2 è aumentata drammaticamente negli ultimi decenni e si stima che il numero di soggetti affetti da questa patologia continuerà ad aumentare nel futuro prossimo (77). Le stime globali riferite al 2003 indicano una prevalenza di 194 milioni di diabetici noti, più un 50% di soggetti che, pur essendo affetti dalla malattia, non ne sono a conoscenza.

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Impressionanti sono le proiezioni al 2030 (78) (figura 8), quando si stima che il numero di diabetici nel mondo sarà pari a 366 milioni con prevalenza del 4.4% contro il 2.2% relativo al 2000 (79).

Le ragioni di questa “pandemia” sono molteplici. L’invecchiamento della popolazione può fornire una spiegazione solo parziale, mentre un ruolo importante è giocato dai processi di globalizzazione dello stile di vita. L’occidentalizzazione dei Paesi in via di sviluppo si associa a crescente urbanizzazione, riduzione dell’attività fisica, eccessivo introito calorico e conseguente sviluppo di sovrappeso e obesità (80). In Cina e in India, ad esempio, si è registrato un rapido incremento di incidenza di diabete in relazione allo spostamento della popolazione dalle campagne alla città: infatti, mentre nelle campagne cinesi l’incidenza di diabete tipo 2 è 0,1 - 2% nelle città raggiunge il 5%.

Figura 8. Pandemia di diabete: dati al 2000 e proiezioni al 2030 (78).

Anche nei Paesi industrializzati, Italia inclusa, si registra un incremento di nuovi casi d i diabete. Nel nostro paese si calcola che 2 milioni di persone hanno il diabete mellito, con

2000 2030

Diabete 171 milioni 366 milioni

Ipertensione 1 miliardo 1.56 miliardi

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un’incidenza annua di 150 mila nuovi casi, e che un altro milione non sa di averlo (81). La prevalenza di diabete è aumentata progressivamente dal 2,8% nel 1988 a l 3,9% nel 2000 (82).

Inoltre, si stima che nei prossimi 10 anni si assisterà ad un incremento netto di un milione di casi di diabete (83). L’incremento è tuttavia particolarmente evidente negli anziani, che rappresentano attualmente i 2/3 della popolazione diabetica. Inoltre, sulle stime e le proiezioni di prevalenza del diabete nei paesi occidentali incide il fenomeno sempre più diffuso dell’obesità e dell’obesità infantile. Il numero di persone affette da diabete aumenta con l’età della popolazione, con un’incidenza variabile da 1.5%, negli individui tra i 20 e i 39 anni, al 20%, negli individui di età superiore a 75 anni. L’incidenza del diabete aumenta nelle diverse fasce di età sia negli uomini che nelle donne ma è superiore negli uomini. Analogamente al diabete, anche la prevalenza del pre-diabete è in forte espansione. IFG e IGT differiscono nella prevalenza e nella distribuzione all’interno della popolazione, anche perché rispecchiano, come descritto in precedenza, condizioni metabolicamente differenti. Circa la metà delle persone con IFG hanno anche IGT, ma solo il 20-30% in quelli con IGT mostra anche IFG. Quindi, la concordanza delle due condizioni è parziale. Inoltre, in molte popolazioni la prevalenza di IGT è maggiore di quella di IFG (tabella 1).

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Tabella 1 - Prevalenza di IGT e IFG in differenti popolazioni di adulti.

Popolazione Età IGT (%) IFG (%) IGT/IFG

(%)

Mauritius 25 – 74 13.9 4.2 3.3

Pima 15 10.7 1.9 2.5

Svezia 55 – 57 20.3 9.7 7.6

NHANES III 40 – 74 11.0 4.4 3.9

Australia 25 8.0 5.7 2.6

Hong Kong 18 – 66 6.1 0.9 1.1

DECODE 30 8.8 6.9 3.1

Oltre alla differenza nella prevalenza fra IGT ed IFG, occorre metter in luce anche una diversità tra le due classi a livello del fenotipo. Dati provenienti dal DECODE (Diabetes Epidemiology: Collaborative analysis Of Diagnostic criteria in Europe) e dal DECODA (Diabetes Epidemiology: Collaborative analysis Of Diagnostic criteria in Asia) (Consequences of the new diagnostic criteria for diabetes in older men and women. DECODE Study (84), dimostrano che IGT e IFG si distribuiscono in maniera diversa in uomini e donne.

L’IFG è più comune negli uomini in tutte le fasce d’età. L’IFG è da 1,5 a 3 volte più frequente negli uomini rispetto alle donne, e fino a 7-8 volte più frequente nei maschi europei tra i 50 e 70 anni di età. Al contrario, la prevalenza dell’IGT è superiore nelle donne rispetto agli uomini di qualsiasi età eccetto che nella popolazione asiatica dopo i 60 anni di età e in quella europea sopra gli 80 anni. Inoltre la prevalenza de ll’IGT tende ad aumentare con l’età mentre l’IFG tende a raggiungere un plateau nei soggetti di età tra i 40 e i 50 anni e, in particolare, negli uomini europei subisce una riduzione nei soggetti più anziani.

(22)

Diabete Mellito e EPCs

Il diabete mellito (DM) è caratterizzato da alterazioni nella neovascolarizzazione indotta da ischemia. Il numero di EPCs circolanti è ridotto sia nel DM di tipo 1 (82) e nel DM di tipo 2 (83). In entrambe le forme di diabete le EPCs presentano anche alterazioni funzionali con difetti della proliferazione, adesione e proprietà angiogenetiche, suggerendo un loro ruolo nelle complicanze macroangiopatiche deela malattia. EPCs in coltura provenienti da soggetti con DM di tipo 1 non solo mostrano minori capacità angiogenetiche rispe tto a quelle prelevate da soggetti sani, ma, in vitro, secernono un inibitore alla formazione vascolare (82).

Per quanto riguarda il DM di tipo 2, è stato osservato come le EPCs prelevate da questi pazienti mostrano ridotta capacità di adesione all’endotelio vascolare. È stata inoltre riscontrata un’associazione tra elevati livelli di emoglobina glicata (HbA1c) e peggioramento della funzionalità delle EPCs (83).

L’effetto negativo dell’iperglicemia sulle EPCs è stato ulteriormente confermato in uno studio su cellule mononucleate ottenute da sangue periferico provenienti da donatori sani. Queste cellule, coltivate in condizioni di iperglicemia, hanno mostrato una significativa riduzione non solo del numero e della funzionalità, ma anche della produzione di NO e dell’attività della MMP‐9 (845). Il numero di EPCs circolanti è risultato correlato negativamente alla durata della malattia diabetica e al cattivo controllo glicometabolico, ma anche alla presenza di complicanze macroangiopatiche. Questa osservazione è stata confermata da un recente studio che ha messo in luce come pazienti diabetici con complicanze vascolari periferiche, mostrino livelli di EPCs inferiori rispetto sia a pazienti diabetici senza complicanze vascolari sia a pazienti non diabetici affetti da aterosclerosi (86). Nello stesso studio i pazienti affetti da ischemia degli arti inferiori con lesioni trofiche su base ischemica presentavano in assoluto i valori più bassi di EPCs circolanti, indice di una scarsa capacità neoangiogenetica. Uno studio successivo ha confermato che la riduzione delle EPCs è proporzionale alla gravità dell’aterosclerosi periferica (87). Tuttavia, in pazienti affetti da DM possono coesistere complicanze di tipo microangiopatico, in particolare la retinopatia diabetica pro liferante, caratterizzate da un’esaltata capacità neoangiogenetica. Questo fenomeno è definito

“paradosso diabetico” (88). È dimostrato che EPCs prelevate da pazienti con retinopatia diabetica proliferante sopravvivano più a lungo in coltura e possiedano una maggiore capacità proliferativa e differenziativa rispetto a quelle prelevate da soggetti con aterosclerosi periferica (89). Secondo alcuni autori l’ischemia retinica favorirebbe la produzione di VEGF da parte della retina, che a sua volta richiamerebbe le EPCs dal sangue periferico (90).

(23)

Tuttavia l’eziopatogenesi del paradosso diabetico non è tuttora chiara e saranno necessari ulteriori studi per definire l’origine ed il significato.

Figura 9. Fattori di rischio e EPCs: effetti dei fattori di rischio sul processo di aterogenesi e ruolo riparativo delle EPCs

Danno endoteliale, fattori di crescita ed EPCs

La riduzione della mobilizzazione dal midollo alla periferia, l’aumento dell’apoptosi delle cellule in circolo, il consumo delle cellule presso tessuti sede di danno vascolare sono i possibili meccanismi che determinano una riduzione delle EPCs circolanti nei pazienti con diabete.

Il fenomeno del consumo, come causa di un basso livello di EPC circolanti (91), non è supportato dai dati sperimentali. Utilizzando un modello di topo chimerico con midollo marcato GFP (Green Fluorescent Protein), è stato dimostrato che il reclutamento delle EPCs a livello delle ulcere cutanee è ridotto nei topi diabetici rispetto ai controlli (92). Pertanto, pur alla presenza di un alterato sviluppo del tessuto di granulazione e di un danno vascolare maggiore, i topi diabetici non mostrano un eccessivo consumo di EPCs. Una ridotta sopravvivenza di EPCs ottenute dal sangue di pazienti diabetici è stata dimostrata in vitro.

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Sono stati proposti diversi meccanismi molecolari, tra cui un aumento dello stress ossidativo (93) e un’iperattività della proteina MAP chinasi p38 (94). Tuttavia, non esiste tuutora evidenza che le EPCs diabetiche abbiano una ridotta sopravvivenza in circo lo dal momento che le osservazioni in vitro non sono state confermate in vivo.

A fronte di un basso livello totale di cellule progenitrici circolanti (95) anche l’apoptosi delle cellule progenitrici CD34+ circolanti non è significativamente aumentata nel d iabete. E’

improbabile perciò una correlazione tra l’aumento della morte per apoptosi e bassi livelli di EPCs nel diabete.

Appare molto più consistente l’ipotesi che la riduzione di EPCs circolanti nel diabete sia attribuibile a un difetto di mobilizzazione dal midollo osseo. In ratti diabetici sottoposti

a ischemia/riperfusione del muscolo scheletrico abbiamo in passato dimostrato che la mobilizzazione post-ischemica delle EPCs e inibita rispetto ai ratti non diabetici di controllo (96).

Tale blocco della mobilizzazione si associa a un’incapacità del tessuto ischemico di attivare i sistemi sensibili all’ipossia/ischemia (quali HIF-1 α) e rilasciare fattori di crescita (VEGF) e chemochine (SDF-1α) che inducono il rilascio delle EPCs a livello midollare. Come risultato del blocco della mobilizzazione, l’angiogenesi post-ischemica nei muscoli degli animali diabetici risultava compromessa rispetto ai non diabetici. Successivamente è stato dimostrato che l’alterata regolazione di HIF-1 nel diabete dipende dalla glicazione non enzimatica di un cofattore di HIF-1, chiamato ARNT-1 (aryl hydrocarbon receptor nuclear translocator) (97).

Pertanto, appare come il difetto nella mobilizzazione sembra dipendere, almeno in parte, da un’alterazione dei sistemi di risposta all’ischemia nei tessuti bersaglio. Tuttavia, il difetto non sembra essere limitato ai tessuti periferici, giacché, quando il midollo era stimolato mediante fattori di crescita esogeni, il rilascio di EPCs era significativamente ridotto negli animali diabetici rispetto ai non diabetici (95). Questa prima evidenza a favore di un possibile difetto primitivo del midollo osseo nel diabete è stata recentemente confermata da alcuni studi istopatologici condotti su modelli murini di diabete mellito di tipo 1 e tipo 2.

Oikawa e coll. (98), utilizzando topi resi diabetici mediante iniezione di streptozotocina, hanno dimostrato che, a lungo termine, il diabete induce lo sviluppo di una forma di microangiopatia, a livello midollare, molto simile a quella osservata in altr i organi nel contesto del diabete, con rarefazione capillare e disfunzione endoteliale. L’interessamento istopatologico delle nicchie di cellule staminali all’interno del microambiente midollare spiegherebbe quindi il difetto di mobilizzazione delle EPCs associato al diabete. Busik e coll.

(99), utilizzando ratti che presentano una forma di diabete simile al diabete di tipo 2 umano,

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hanno dimostrato che anche a livello midollare esiste una specifica forma di neuropatia autonomica, caratterizzata da depauperamento delle fibre nervose ortosimpatiche. Poiché l’innervazione simpatica del midollo osseo è di fondamentale importanza per la regolazione dell’immissione in circolo di cellule ematiche, anche questa alterazione potrebbe contribuire al difetto di EPCs nel diabete.

Nell’uomo, la scarsa disponibilità di materiale per lo studio del midollo osseo rende difficile confermare i dati ottenuti nell’animale da esperimento. Esistono tuttavia osservazioni preliminari che suggeriscono una deplezione di cellule progenitrici CD34+ tanto nel midollo quanto nel circolo periferico nel diabete di tipo 2 (92). La possibile esistenza di un primitivo difetto midollare nel diabete mellito pone quindi il midollo osseo al centro di un modello fisiopatologico per lo sviluppo di altre complicanze della malattia.

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Figura 10. Fisiologia, fisiopatologia e bersagli terapeutici delle EPCs nel diabete mellito: link alle complicanze croniche della malattia.

Nel complesso equilibrio che esiste tra danno endoteliale e processo riparativo trovano un ruolo di spicco citochine e fattori di crescita che mediano i molteplici aspetti di questo processo. In particolare l’ossido nitrico (NO) di derivazione endoteliale contribuisce alla

“salute” dell’endotelio attenuando l’infiammazione e inibendo la proliferazione e migrazione delle cellule muscolari lisce (SMC) (100). Anche il vascular endothelial growth factor (VEGF), come già accennato in precedenza, svolge un ruolo rilevante nell’ambito della rigenerazione endoteliale e della neoangiogenesi (101). Esso è considerato il più potente regolatore endogeno dell’integrità endoteliale perché agisce sia nella fase di riparazione del danno endoteliale che in quella di prevenzione dell’eventuale progressione dello stesso (102).

In questa fine regolazione giocano un ruolo importante anche i recettori solubili del VEGF (103), che hanno la capacità di inibirne l’attività (104). E’ stato sperimentalmente dimostrato che i livelli di VEGF e dei suoi recettori solubili sono aumentati in sede di processo aterosclerotico e maggiori o uguali a livello delle lesioni stenotiche (102). L’inibizione del VEGF da parte dei suoi recettori sembra ridurre la formazione neointimale (105).

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Nell’ipotesi che le cellule staminali progenitrici possano effettivamente essere markers/predittori di danno vascolare e che quest’ultimo funga da trigger per la mobilizzazione e l’homing delle EPCs nella zona di endotelio disfunzionale promuovendone la riendotelizzazione, sono stati intrapresi numerosi studi sperimentali su animali e successivamente sull’uomo che hanno, nella maggior parte dei casi, rafforzato tale ipotesi.

Tutti i fattori di rischio per malattie cardiovascolari determinano, prima di indurre la lesione aterosclerotica vera e propria, una disfunzione endoteliale, termine ques to adottato per indicare, in primis, una ridotta capacità da parte delle cellule endoteliali di produrre sostanze vasodilatatrici. L’endotelio produce una ragguardevole quantità di mediatori che regolano l’aggregazione piastrinica, la coagulazione, la fibrinolisi e il tono vascolare1. Le cellule endoteliali secernono sostanze che possono indurre sia vasocostrizione come l’endotelina-1 e il trombossano A2, sia vasodilatazione come il nitrossido (NO), la prostaciclina e il fattore iperpolarizzante endoteliale (EDHF). L’NO è il più potente vasodilatatore e contribuisce alla vasodilatazione endotelio-dipendente nelle arterie di conduttanza; al contrario la vasodilatazione mediata da EDHF predomina nelle piccole arterie di resistenza. L-arginina, il precursore fisiologico di NO, e trasferita all’interno delle cellule mediante trasporto facilitato utilizzando il trasportatore cationico y+2.

All’interno della cellula endoteliale l’arginina è soggetta a compartimentalizzazione e solo una frazione di questo aminoacido si rende disponibile alla produzione di NO. Questa reazione è catalizzata da una famiglia di enzimi chiamate sintasi dell’ossido nitrico o NOS. Le NOS sono rappresentate da tre isoforme identificate come endoteliale NOS (eNOS o NOS3), neuronale NOS (nNOS) e inducibile (iNOS). L’attivita di NOS è regolata dai livelli di Ca++intracellulare e dalla sua fosforilazione. NO stimola la produzione di guanosin monofosfato ciclico (cGMP) attivando la guanilato ciclasi solubile (sGC). cGMP media la maggior parte degli effetti intracellulari di NO. L’integrita del segnale NO/cGMP e cruciale in termini di vasodilatazione e di inibizione dell’aggregazione piastrinica.

L’invecchiamento e l’esposizione ai fattori di rischio inducono danno endoteliale e apoptosi.

Quest’ultima è un evento precoce che può essere indotto sia dallo stress infiammatorio sia dalla lesione di tipo meccanico quella quale che si osserva dopo rivascolarizzazione.

Il rilascio di TNF-α e la conseguente produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) hanno un ruolo chiave nell’indurre apoptosi a livello endoteliale attraverso l’attivazione di caspasi-3.

L’apoptosi stessa contribuisce in modo sostanziale alla disfunzione endoteliale (106). La perdita dell’integrita endoteliale e uno stimolo potente per la trombosi e per la proliferazione delle cellule muscolari lisce.

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Per molti anni si e ritenuto che la rigenerazione endoteliale procedesse solamente grazie a meccanismi di riparazione endogena attraverso proliferazione e migrazione delle cellule endoteliali non lesionate adiacenti. Nel 1997 Asahara et al. hanno dimostrato che le EPCs sono in grado di differenziarsi in cellule endoteliali mature e partecipare alla neovasculogenesi. Le EPCs mobilizzate si localizzano nei siti di ischemia, dove contribuiscono alla neovasculogenesi incorporandosi in strutture vascolari e interagendo con le cellule endoteliali residenti.

Si ritiene che le EPCs vengano mobilizzate nel sangue periferico in risposta a diversi stimoli quali l’ischemia tissutale, l’esercizio fisico, citochine e fattori di crescita. Stimoli alla mobilizzazione delle EPCs dal midollo osseo comprendono l’ischemia tessutale, fattori di crescita, chemochine (EPO, VEGF, FGF, SDF-1α) e farmaci (statine, agonisti PPAR-γ, estrogeni, ACE-inibitori) (84). Una volta in circolo, le EPC avrebbero ruoli diversi, tra cui:

1. rimpiazzare l’endotelio danneggiato, contribuendo cosi all’omeostasi endoteliale;

2. partecipare alla genesi di nuovi vasi sanguigni guidata dal gradiente di ossigeno e di mediatori pro-angiogenetici (tra i quali lo stesso VEGF e il fattore di crescita delle cellule stromali, SFD-1α) a livello dei tessuti ischemici.

In tal modo il rilascio delle EPC rappresenterebbe un meccanismo fisiologico omeostatico di regolazione a feedback negativo della vascolarizzazione dei tessuti e dell’integrita vascolare.

Numerosissimi dati in vitro e in vivo hanno confermato tale modello. La somministrazione di EPC e stata in grado di incrementare l’angiogenesi e di migliorare la perfusione tissutale in diversi modelli animali di ischemia miocardica e periferica (107). Studi clinici descrittivi hanno messo in luce che la riduzione del pool di EPC circolanti si associa alla presenza dei classici fattori di rischio cardiovascolare, quali età avanzata, fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia e diabete mellito.

Nel sangue periferico le EPCs circolanti sembrano svolgere un ruolo importante nell’omeostasi della parete vascolare, giacché costituiscono un pool di cellule capaci di riparare il danno endoteliale.

Le EPCs circolanti potrebbero quindi servire come un reservoir cellulare in grado di rimpiazzare un endotelio disfunzionante, con un ruolo protettivo anche nelle fasi piu precoci del processo aterogenetico (108). Una riduzione delle EPCs circolanti potrebbe contribuendo, di conseguenza, alla disfunzione endoteliale. Molti modelli animali sperimentali e qualche dato preliminare sull’uomo confermano il ruolo delle EPCs in eventi quali la riendotelizzazione presso siti di danno o denudamento vascolare e la neoangiogenesi in presenza di ischemia tessutale (109). La correlazione negativa tra rischio cardiovascolare

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globale e numero di EPCs circolanti viene inoltre rafforzata da ll’osservazione che l’esposizione ad alcuni farmaci, in grado di modificare favorevolmente il rischio cardiovascolare, determina una modulazione positiva del numero e della funzione delle EPC s.

Tali evidenze hanno stimolato l’ideazione di alcuni protocolli di neovasculogenesi terapeutica mediante l’utilizzo di cellule progenitrici, che hanno dato buoni risultati per quanto riguarda l’ischemia miocardica e degli arti inferiori.

Stress ossidativo, senescenza e telomeri

Lo stress ossidativo promuove un’aterosclerosi polidistrettuale accelerata, più frequentemente a livello coronarico, correlabile alla presenza di uno stato infiammatorio sistemico cronico che si traduce in un aumento di citochine pro- infiammatorie primarie (TNF-α, IL-1, IL-2 ed IL-6).

Le concentrazioni plasmatiche di quest’ultime sono infatti più alte in soggetti diabetici rispetto a soggetti sani e possono essere incrementate in soggetti non diabetici mediante somministrazioni di alti livelli di glucosio (110).

Come detto, l’iperglicemia, unita ad altri fattori di rischio come la mancanza di attività fisica, l’età e il fumo, stimola la produzione di queste citochine che accelerando i processi aterosclerotici, trombotici, apoptotici, infiammatori e di rimodellamento vascolare, che promuovono la disfunzione endoteliale e quindi l’insorgenza di scompensi vascolari.

Zhang e collaboratori (111) hanno descritto il ruolo svolto dal Tumor Necrosis Factor (TNF- α) nella disfunzione vascolare (Figura11).

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Figura 11. Ruolo del TNF-α nella disfunzione endoteliale

Il TNF-α riduce la disponibilità di NO sia inibendo l’attività di eNOS, sia aumentandone la rimozione attraverso una maggiore produzione, da parte della NADPH ossidasi, di ROS, il cui livello basale è significativamente elevato nei soggetti diabetici e svolge un ruolo chiave nell’indurre apoptosi a livello endoteliale attraverso l’attivazione di caspasi-3. L’apoptosi stessa contribuisce in modo sostanziale alla perdita dell’integrità endoteliale che rappresenta un potente stimolo per la trombosi e per la proliferazione delle cellule muscolari lisce.

Discordanti sono i dati che riguardano una potenziale implicazione del TNF-α nell’impedimento della vasodilatazione mediata dall’EDHF (Endothelium-Dependent Hyperpolarizing Factor) in soggetti diabetici (112, 113). Il TNF-α induce inoltre la sintesi di citochine infiammatorie chemiotattiche che regolano la migrazione, la degranulazione e la risposta allo stress ossidativo dei neutrofili come MCP-1 (Monocyte Chemoattractant Protein- 1), che promuove l’accumulo di monociti nel sito di infiammazione. La stimolazione con TNF-α di cellule endoteliali in coltura induce un’attività pro-coagulante e determina una riorganizzazione strutturale dell’endotelio che porta ad un’eccessiva permeabilità vascolare a causa della capacità di TNF-α di stimolare la produzione di VEGF, noto anche con il nome di fattore di permeabilità vascolare. Il TNF-α incrementa l’espressione delle molecole di adesione intracellulari ICAM-1, VCAM-1, capaci di legare neutrofili, monociti ma anche EPCs (114).

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L’IL-1 media la risposta infiammatoria durante l’aterogenesi attivando i monociti e l’endotelio vascolare, aumentando l’espressione delle molecole di adesione sulla superficie delle cellule endoteliali, inducendo la secrezione di altre citochine, chemochine e fattori di crescita e stimolando la proliferazione delle cellule muscolari lisce oltre ad indurre coagulazione. L’IL-1 svolge un ruolo fondamentale nella patogenesi del CAD. Sono stati riscontrati, infatti, aumenti della sintesi di IL-1 nelle placche arteriose umane ed elevate concentrazioni dell’isoforma circolante, IL-1β, anche in pazienti affetti da lievi disfunzioni cardiovascolari. Inoltre l’IL-1β causa effetti deleteri sulle isole pancreatiche ed inibisce la funzione delle cellule β che secernono insulina.

L’IL-2 è coinvolta nell’attivazione, nella crescita e nella differenziazione di una grande varietà di cellule comprendenti linfociti e monociti. I livelli plasmatici dell’IL-2 solubile e del suo recettore sono risultati elevati in soggetti affetti da angina stabile ma non in quelli affetti da angina non-stabile a dimostrazione che il reale effetto di questa citochina sul CAD deve ancora essere indagato. Certamente l’IL-2 è collegata al diabete infatti topi diabetici non obesi tendono a sviluppare un diabete autoimmune caratterizzato da insulite seguita da una selettiva distruzione delle cellule β nelle isole pancreatiche, attraverso un meccanismo parzialmente mediato dall’IL-2 (115).

L’IL-6 è una delle altre citochine pro-infiammatorie maggiormente prodotte nella fase acuta della risposta immune da macrofagi, cellule T e B ma anche da altre cellule quali le EC.

Sebbene inizialmente l’IL-6 fosse ritenuta una citochina anti-infiammatoria, recenti studi clinici hanno messo in evidenza il suo potenziale ruo lo come centro regolatore dell’infiammazione e della differenziazione dei macrofagi. A seguito del legame con il suo recettore, infatti, l’IL-6 stimola una serie di effetti che includono l’ematopoiesi, la produzione di anticorpi, la trombocitopoiesi, la sintesi di prote ine di fase acuta, la secrezione di MCP-1 e anche la regolazione dell’espressione di molecole di adesione e di altre citochine come IL-1 e il TNF-α. Sono stati riscontrati incrementi significativi nei livelli dell’IL-6 nei tessuti cardiaci di pazienti con CAD suggerendo il fondamentale ruolo che l’IL-6 svolge nella patofisiologia di questi disordini (116). In uno studio del 2008, dopo aver appurato l’effettiva presenza del recettore dell’IL-6 sulle progenitrici endoteliali, è stato dimostrato che questa citochina è in grado di stimolare la proliferazione e la migrazione delle EPC nonchè favorire la formazione di strutture tubulari su matrigel in vitro (117).

Non tutte le interleuchine, però, favoriscono lo sviluppo e la progressione dei processi aterotrombotici, ad esempio, l’IL-4 è una citochina pleiotropica prodotta dalle cellule T attivate e dalle mast cellule, che oltre a stimolare la produzione di anticorpi, permette di

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contrastare l’azione infiammatoria del TNF-α e dell’IL-1, sopprimendone la produzione (114).

In conclusione tutte queste molecole non soltanto aumentano lo stato infiammatorio ma potrebbero svolgere un effetto negativo sul numero di EPC mobilizzate in seguito ad una disfunzione endoteliale e anche sui meccanismi che permettono alle progenitrici di

essere attivate.

Oltre al numero di EPCs circolanti, un’altro marker di danno endoteliale è rappresentato dalla Lunghezza Telomerica Leucocitaria (LTL) che in presenza di fattori di rischio e patologie CV risulta ridotta. I telomeri sono complessi specializzati DNA‐proteina localizzati ad entrambe le estremità dei cromosomi eucaristici. Si tratta di sequenze altamente ripetute di DNA a doppia elica con una sequenza terminale di circa 100 ‐ 400 nucleotidi a singolo filamento protrudente al 3’. Le dimensioni e la sequenza specifica dei telomeri variano da specie a specie; nell’uomo raggiungono le 20 Kb di lunghezza con sequenza (TTAGGG)n ripetuta in tandem. La porzione a singolo filamento presente all’estremità telomerica, si ripiega in una struttura tridimensionale altamente protettiva chiamata T‐loop (118). Poco si conosce della dinamica di formazione del T‐loop, ma, è chiaro come questo processo avvenga grazie alla presenza di proteine telomeriche. I telomeri sono associati a molteplici proteine a formare il cosiddetto Shelterin Complex. Ad oggi sono conosciute sei proteine telomeriche. Tra le più note e oggetto di studio vi sono le Telomere Repeat binding Factors 1 e 2 (TRF1 e TRF2) che sono in grado di legare direttamente le regioni di DNA telomerico e indispensabili per la formazione del T‐loop (Figura 12).

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Figura 12. .Raffigurazione del ripiegamento a T- loop dell’estremitò telomerica. I telomeri sono costituiti da specifiche sequenze nucleotidiche (TTAGGG e AATCCC) poste ad entrambe le estremità dei cromosomi. (118).

Altre proteine telomeriche sono: la Protection of Telomere 1 (POT1), Raf‐associated protein 1 (Rap 1), la tripeptidilpeptidasi 1 e la proteina nucleare 2 (che interagisce con TRF1 e TRF2) (119,120).

Il T‐loop agisce come un cappuccio protettivo nel prevenire la perdita di materiale genetico sottraendo i cromosomi dal riconoscimento, da parte dei meccanismi di riparazione del DNA, di rotture del DNA a doppio filamento. Il “cappuccio” telomerico protegge i cromosomi anche dalla fusione delle estremità (end‐to‐end fusion) e dalla degradazione dei cromosomi che portano la cellula alla senescenza e apoptosi.

Il meccanismo protettivo dei telomeri è generalmente attribuito alla struttura del T‐loop, che cela l’estremità aperta del DNA nei singoli cromosomi. Se i telomeri diventano disfunzionanti o eccessivamente corti perdono le loro capacità protettive attivando i meccanismi di risposta cellulare al danno del DNA. Nei mammiferi, le rotture del DNA causano la fosforilazione dell’istone H2AX da parte della chinasi ATM (Ataxia‐Telangiectasia Mutated) e ATR (Ataxia‐Telangiectasia‐ e Rad3‐Related). ATM e ATR a loro volta attivano le chinasi di checkpoint del DNA: Chk1 e Chk2 (che hanno un ruolo importante nel controllo del ciclo cellulare) le quali, nella cascata di trasduzione del segnale, attivano la proteina anti‐apoptotica p53 (121) generando così l’espressione di p21 proteina legata alla senescenza cellulare.

L’attivazione delle chinasi di “checkpoint” porta alla senescenza cellulare anche attraverso una via alternativa mediata dall’inibizione di Cdc25 (Cell division cycle 25). In seguito all’

induzione della senescenza da parte di p21, p53 può indurre il pathway di apoptosi (122).

La disfunzione telomerica può indurre la senescenza anche mediante un meccanismo, tuttora non completamente noto, basato sull’induzione di p16, la quale blocca CDK4 e CDK6 (chinasi ciclina dipendenti) con conseguente iper‐fosforilazione di RB (proteina del retinoblastoma) che rimane così attivata bloccando la progressione del ciclo cellulare (Figura 13) (123, 124).

(34)

Figura 13. Rappresentazione schematica di alcuni pathways cellulari di trasduzione del segnale in risposta alla disfunzione telomerica (125).

Nel lievito, la esonucleasi 1 (EXO1) è coinvolta nella risposta al danno cellulare associata ai telomeri, intervenendo in caso di eccessivo accorciamento telomerico. Recentemente il ruolo di EXO1 in queste risposte al danno è stato confermato anche nel topo (126). La risposta al danno cellulare generata dal signalling telomerico può coinvolgere anche i sistemi di riparazione del DNA. In presenza di un accorciamento eccessivo dei telomeri o di alterazioni a livello del “shelterin complex”, le estremità telomeriche vengono riconosciute come rotture del DNA, innescando l’intervento di due meccanismi di riparazione del DNA: la ricombinazione omologa (HR) e la giunzione non‐omologa delle estremità (NHEJ).

L’attivazione di entrambi questi meccanismi di riparazione del DNA porta la cellula verso l’instabilità genomica e inevitabilmente all’apoptosi. Ad ogni ciclo cellulare i telomeri perdono una certa quota di nucleotidi. Questo fenomeno è altresì noto con il nome di “end replication problem”. Durante la replicazione del DNA, infatti, il filamento leader (o veloce) è sintetizzato dalla DNA polimerasi come una molecola continua che può replicare dall’inizio alla fine di uno stampo lineare. Il filamento ritardato (o lento) è sintetizzato invece sotto forma di un set discontinuo di corti frammenti di Okazaki (ciascuno dei quali richiede un nuovo primer) che devono essere poi uniti per ottenere un filamento continuo. Il filamento lento non può replicare dall’inizio alla fine del cromosoma lineare, poichè non c’è DNA oltre la fine per il primer (l’innesco) necessario per sintetizzare l’intervallo tra l’ultimo frammento di Okazaki e l’estremità (Figura 14) (125).

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