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INTRODUZIONE

1.1 L

A L U C E

1.1.1 Breve storia dell'ottica

Lo studio dei fenomeni luminosi affonda le sue radici nell'antichità1. Anche se nella gran

parte dei filosofi greci l'attenzione è concentrata sul meccanismo della visione, Euclide (III secolo a.C) nel suo Optica, Erone (I secolo a.C.) nel suo Catoptrica e Tolomeo (II d.C) parlano della propagazione in linea retta della luce e delle leggi della riflessione e rifrazione2. Per avere una raccolta più formale di esperienze e dimostrazioni dobbiamo però

aspettare il lavoro di Ibn-al-Haitham (X-XI d.C), noto anche come Alhazen, che tratta delle aberrazioni ottiche e di molti altri fenomeni (in gran parte fisiologici, legati alla percezione dei colori e della luce)3. La sua opera verrà ripresa nei secoli successivi, ad opera di

Ruggero Bacone4 e soprattutto di Witelo (XIII secolo), senza sostanziali variazioni anche

se, per gradi insensibili e senza una documentazione precisa, si verifica un'evoluzione lenta ma sostanziale che, nel XVI secolo, fornisce un insieme di nozioni e teorie più progredite. Ed è in questo contesto che l'invenzione delle lenti e il conseguente uso dei primi telescopi, e le opere di Leonardo da Vinci, Giovan Battista Della Porta e Keplero, per citarne alcuni, forniscono la base per la fondazione dell'ottica geometrica che fiorisce nel secolo successivo5. Il XVI e XVII secolo è in fatti l'epoca di Snellius, Cartesio, Grimaldi, Hooke,

Bartholinus, Galileo e Fermat che con un gran numero di osservazioni ed esperienze costituiscono il nucleo delle leggi dell'ottica geometrica e delle loro possibilità applicative sia in campo oculistico che nell'osservazione dei corpi celesti.

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Introduzione - La luce

In questo ambiente intellettuale si svolge l'attività di Newton e Huygens, ai quali è tradizionalmente attribuita la paternità delle basi dell'ottica fisica. Newton in Philosophiae

naturalis principia matematica e nell'Ottica propone il modello corpuscolare che, pur

risultando coerente con molti fenomeni (riflessione, rifrazione, colore), mostrava delle difficoltà teoriche nella spiegazione di alcune osservazioni sperimentali (diffrazione e interferenza). Huygens invece nel Traité de la Lumière propone un modello ondulatorio partendo dall'analogia con il suono e introducendo il problema del mezzo di propagazione della luce, che verrà risolto solo nel XX secolo. I due modelli incontrano consensi alterni, infatti il modello corpuscolare non trova immediatamente grande favore nella comunità scientifica e viene fortemente criticato (Huygens, Hooke, Leibniz, Eulero) per poi venire però rivalutato ampiamente nella seconda metà del XVIII secolo a scapito del modello ondulatorio6.

Nel XIX secolo però la teoria ondulatoria diventa una delle concezioni basilari della fisica; in particolare nell'ottica i contributi di Fresnel, Young e Fraunhofer consolidano questa teoria, ponendo le basi per lo studio del legame tra luce e campi elettromagnetici che culmina nella seconda metà del 1800 con la formulazione, ad opera di Maxwell, delle omonime equazioni, in cui la luce è trattata come un'onda elettromagnetica7.

Le leggi formulate da Maxwell non sono però in grado di dare spiegazione a tutti i

Incisione in rame di Francesco Curti, Virtù e arti esercitate in Bologna (1691). In mezzo, tra artigiani e commercianti, un occhialaio ambulante.

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Introduzione - La luce

fenomeni osservati ed è per questo che viene reintrodotto, nel 1900 ad opera di Planck (studio dell'emissione del corpo nero) e poi nel 1905 ad opera di Einstein (studio dell'effetto fotoelettrico), una forma modernizzata del modello corpuscolare. Si giunge così al dualismo onda-particella riaffermato e approfondito nella meccanica quantistica.

1.1.2 Formalizzazione

La luce è una radiazione elettromagnetica le cui componenti del campo elettrico E e magnetico B si possono scrivere come8:

E = Ex 0 , Ey 0 , Ez 0  eik⋅r−t  (1.1) B = Bx 0 , B0y, Bz0 eik⋅r−t (1.2)

in cui k è la direzione di propagazione e Ei

0

, Bi

0

con i=x , y , z sono definiti come grandezze complesse; occorrerà poi prendere la sola parte reale delle formule 1.1 e 1.2 quale valore del campo. Dall'applicazione delle leggi di Maxwell è facile mostrare che sia il campo elettrico che quello magnetico sono perpendicolari alla direzione di propagazione dell'onda (dalla sostituzione della 1.1 e della 1.2 in ∇⋅E=0 e ∇⋅B=0 valide per la propagazione nel vuoto) e che E e B sono tra loro perpendicolari (dalla sostituzione della 1.1 e della 1.2 in ∇×E=−1

c

∂ B ∂t ).

La polarizzazione è definita dalla relazione di fase che sussiste tra le ampiezza di due componenti del campo elettrico perpendicolari tra loro e alla direzione di propagazione. In altre parole, per un'onda che si propaga lungo z, scelti

Ex0=E0 x Ey

0

=E0 y e

i(1.3)

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Introduzione - La luce

Se δ = 0 o δ = π la radiazione si dice linearmente polarizzata, infatti le componenti dell'ampiezza del campo sono reali e in fase sui due assi.

Se δ = ± π/2 la radiazione ha polarizzazione ellittica che ruota con velocità angolare ω in senso orario per δ = -π/2 e in senso antiorario per δ = π/2. Per una radiazione polarizzata ellitticamente per cui valga anche la relazione E0 x=E0 y la luce si dice polarizzata

circolarmente.

1.1.3 Polarizzatori lineari

Principalmente a causa della sempre maggior diffusione di dispositivi a cristalli liquidi (LCD, Liquid Cristal Display), grande attenzione è stata rivolta ai polarizzatori ottici lineari, in quanto svolgono una parte essenziale nel funzionamento delle celle TN (Twisted Nematic) e STN (Super Twisted Nematic)9. In queste celle, che costituiscono i pixel degli

schermi LCD, la luce, polarizzata linearmente in ingresso e in uscita, viene bloccata o fatta passare in base alla disposizione, controllata elettricamente, di un materiale liquido cristallino in forma nematica (Fig. 1.1). E' proprio per questo che la bontà del dispositivo è legata all'efficienza dei polarizzatori impiegati.

Fig. 1.1 Esempio di funzionamento di una cella TN.

Esistono diversi metodi per ottenere luce polarizzata linearmente ma essenzialmente si possono dividere in quattro categorie10.

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Introduzione - La luce

P

OLARIZZAZIONEPERSCATTERING

Lo scattering di Rayleigh della luce su aggregati di piccole dimensioni (grandi fino a circa un decimo della lunghezza d'onda della radiazione incidente) produce luce la cui polarizzazione giace sul piano perpendicolare alla direzione di propagazione del raggio. Il fenomeno si può meglio comprendere immaginando che le cariche degli aggregati oscillino su una linea, diventando quindi delle “antenne” che emettono solo perpendicolarmente alla linea di oscillazione.

Questo tipo di polarizzazione è ovviamente legato all'intensità dello scattering di Rayleigh (proporzionale a λ-4) e quindi estremamente più intenso per le radiazioni vicine

all'ultravioletto che non quelle vicine all'infrarosso (lo scattering a 400 nm è circa 9,4 volte più intenso di quello a 700 nm). Questo è il motivo per cui la luce solare diffusa dalle particelle presenti nell'atmosfera è parzialmente polarizzata.

P

OLARIZZAZIONEPERBIRIFRANGENZA

La birifrangenza è un fenomeno, scoperto per la prima volta da Bartholinus a metà del 1600 nello spato di Islanda (calcite), per cui irraggiando un cristallo avente indice di rifrazione diverso su differenti piani cristallini, si ottengono due raggi emergenti. Si possono distinguere tre diversi tipi di birifrangenza in base ai fenomeni che la causano (prismi di Nicol, Wollaston e Glan-Foucault), ma la caratteristica che li accomuna è la completa polarizzazione dei raggi emergenti, sfruttata per ottener luce polarizzata linearmente.

P

OLARIZZAZIONEPERRIFLESSIONE

Un raggio di luce che giunga all'interfaccia tra due mezzi aventi indice di rifrazione diversi verrà, in generale, parzialmente riflesso e parzialmente rifratto. Il raggio riflesso risulterà parzialmente o totalmente polarizzato in funzione delle condizioni della riflessione (angolo di incidenza e indice di rifrazione dei mezzi), come mostrato in Fig. 1.2. L'angolo per cui la luce riflessa risulta completamente polarizzata è detto angolo di Brewster.

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Introduzione - La luce

Fig. 1.2 Intensità delle componenti parallela e perpendicolare della luce riflessa in funzione dell'angolo di

incidenza (α) e dell'angolo di rifrazione (β).

P

OLARIZZAZIONEPERDICROISMO

Alcuni materiali (ad esempio la tormalina) mostrano un assorbimento che varia in funzione della direzione di oscillazione del campo elettrico e della frequenza della radiazione che li attraversa. Questo assorbimento selettivo (detto dicroismo) può essere sfruttato per produrre luce polarizzata linearmente in quanto idealmente l'interazione con il mezzo annulla tutte le componenti del campo elettrico tranne una.

La polarizzazione per assorbimento dicroico è in generale il meccanismo più usato nei moderni polarizzatori lineari in quanto permette di produrre dispositivi poco ingombranti e molto versatili a basso costo. Gli altri meccanismi sono infatti fortemente limitati o dai costi e dalle difficoltà di lavorazione dei materiali o intrinsecamente dal metodo (limitazione a piccoli angoli, necessità di grossi cristalli, ecc.). In realtà, fino al primo quarto del XX secolo, anche l'impiego di materiali dicroici per ottenere luce polarizzata linearmente era notevolmente limitato dalla necessità di un cammino ottico nel mezzo molto lungo.

La soluzione arriva nel 1928 quando Land (per conto della Polaroid Corporation)11 realizza

il primo polarizzatore su strato sottile, ovvero un film polimerico contenete una sostanza a basso peso molecolare che conferisce al film proprietà polarizzanti. Le molecole, disperse e immobilizzate nella matrice polimerica, una volta orientate per deformazione meccanica del polimero, fanno passare selettivamente una sola componente della luce.

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Introduzione - La luce

Questo modello è stato perfezionato e ha portato ai nostri giorni alla commercializzazione di polarizzatori lineari che impiegano come matrice il polivinilalcol (PVA), tra cui

• polarizzatori H, contenenti iodio elementare12; • polarizzatori L, contenenti coloranti organici13;

• polarizzatori K, in cui per disidratazione del polimero si formano catene di polivinilene14

1.1.4 Parametri di efficienza dei polarizzatori lineari

Per misurare l'efficienza dei polarizzatori lineari sono stati introdotti essenzialmente due parametri: l'efficienza di polarizzazione (PE) e la trasmittanza a singolo pezzo (Tsp) (Tab.

1.1)15. I parametri sono definiti, per una data lunghezza d'onda, in funzione della

trasmittanza registrata facendo incidere luce polarizzata linearmente lungo la direzione di massimo assorbimento (T//, trasmittanza parallela) e perpendicolarmente a questa (T┴,

trasmittanza perpendicolare). Il valore T0 si riferisce invece al valore di trasmittanza

misurato in assenza di campione e di conseguenza è di norma considerato pari a 1. L'efficienza di polarizzazione grossolanamente può essere considerata legata al massimo contrasto ottenibile, mentre la trasmittanza a singolo pezzo dà un idea dell'efficienza energetica del dispositivo. E' interessante notare che per un polarizzatore lineare ideale l'efficienza energetica è pari a 0,5 in quanto metà della radiazione viene assorbita e poi dissipata per via termica.

Nome Sigla Definizione Dominio idealeLimite(a)

Efficienza di polarizzazione PE PE = T┴−T// TT// −1 ≤ PE ≤1 PE 1 Trasmittanza a singolo pezzo Tsp Tsp = T┴T// 2T0 0≤Tsp≤1 Tsp 1 2

Tab. 1.1 Parametri di efficienza dei polarizzatori.

(a) Consideriamo un polarizzatore lineare ideale quello per cui T// = 0 e T┴ = 1

Per i polarizzatori host-guest, ovvero matrici polimeriche contenenti molecole orientate a basso peso molecolare, si è soliti definire altri due parametri: il rapporto dicroico (R) e il parametro d'ordine (S) (Tab. 1.2).

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Introduzione - La luce

Questi sono espressi in funzione dell'assorbanza parallela e perpendicolare che sono definite dalle relazioni

T┴=10

−A┴ (1.4)

T//=10−A// (1.5)

Nome Sigla Definizione(a) Dominio Limite

ideale(a) Rapporto dicroico R R = A// A┴ R≥ 0 R ∞ Parametro d'ordine S S = R−1 R 2 − 1 2≤ S 1 S 1

Tab. 1.2 Parametri di efficienza dei polarizzatori.

(a) Consideriamo un polarizzatore lineare ideale quello per cui A// = 1 e A┴ = 0

Questi due parametri vengono introdotti perché sono più strettamente correlabili all'orientazione delle molecole nella matrice. Infatti se immaginiamo che l'anisotropia di assorbimento di una molecola possa essere rappresentata da un ellissoide rotazionale caratterizzato da un'assorbanza parallela e un'assorbanza perpendicolare all'asse di rotazione, rispettivamente a0// e a0, avremo che

S = a// 0 −a┴ 0 a0//2 a┴ 0 ff (1.6)

in cui f e f sono due funzioni di orientazione definite da

f = 3 cos 2 −1 2 e f = 3 cos2 −1 2 (1.7)

dove θ è l'angolo tra un asse del sistema di riferimento della matrice e un asse del sistema di riferimento della molecola (X1) e α è l'angolo tra X1 e l'asse di rotazione dell'ellissoide di

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Introduzione - I sistemi host-guest

1.2 I

S I S T E M I H O S T

-

G U E S T

1.2.1 Caratteristiche generali

Abbiamo già accennato (§1.1.3) al fatto che i polarizzatori lineari oggi in commercio sono basati sul polivinilalcol. Questa matrice presenta però dei limiti legati alla presenza dei gruppi ossidrilici e di legami a idrogeno intercatena: assorbimento d'acqua, degradazione alle alte temperature e limitata possibilità di allungamento16,17. In particolare il massimo

rapporto di stiro (DR), definito come il rapporto tra lunghezza dopo stiro e lunghezza

iniziale, è circa 6; questo limita l’orientabilità delle molecole in esso contenute (guest) e riduce le prestazioni del polarizzatore.

Per questo motivo in questo lavoro di tesi è stata impiegata come fase ospitante (host) di tali molecole (host), una matrice poliolefinica lineare, l'Ultra-High Molecular Weight Polyethylene (UHMWPE), in quanto le lunghe catene, la cristallinità e l'apolarità conferiscono a questo polimero elevate possibilità di stiro (D R > 100), resistenza all'umidità

e al degrado termico18. L'apolarità costituisce però anche un limite in quanto vincola la

scelta dei guest a sostanze che siano (o vengano rese) compatibili con la matrice. Nel caso di sostanze incompatibili si avrebbe infatti una segregazione del guest sotto forma di aggregati cristallini difficilmente orientabili.

Oltre a questa caratteristica il guest ideale deve avere una forma allungata o ad asta tale per cui sia possibile trasferire l'orientazione dalle catene macromolecolari alla molecola, in caso contrario la molecola risulterebbe disposta isotropicamente, anche dopo deformazione meccanica. Infine è ovviamente necessario che la molecola dispersa abbia un alto coefficiente di estinzione molare per garantire al dispositivo ottico finale migliori prestazioni ed efficienza19.

1.2.2 Orientazione

Il significato implicito della formula 1.6 e della formula 1.7 è che l'efficienza ottica del polarizzatore è legata all'orientazione delle molecole e dei loro dipoli di transizione. Se da un lato la scelta della molecola definisce l'orientazione dei momenti di dipolo di transizioni

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Introduzione - I sistemi host-guest

rispetto alla struttura della specie in questione, dall'altro è necessario orientare le molecole all'interno della matrice17.

Esistono diversi modi per ottenere sistemi host-guest orientati anche se i più comuni sono quelli meccanici; in particolare, per mantenere la massima libertà nella preparazione dei sistemi host-guest, sono preferibili trattamenti post-dispersione, quale è ad esempio la deformazione uniassiale ottenuta per stiro del sistema polimerico ad alta temperatura. I polimeri semicristallini hanno strutture cristalline diverse in funzione delle condizioni di preparazione. Ad esempio per il polietilene lineare ottenuto da soluzione diluita (< 1 % in peso), gli elementi caratterizzanti sono i monocristalli lamellari20, mentre quando è ottenuto

da fuso, la morfologia è legata agli sferuliti, ovvero entità complesse costitute da aggregati tridimensionali di unità cristalline (lamelle) disposte radialmente21.

La morfologia dei monocristalli lamellari a strato singolo è stata ampiamente studiata nel caso del polietilene lineare; conviene fare riferimento ai risultati ottenuti con questo polimero tenendo presente che essi possono, nella sostanza, essere generalizzati.

I monocristalli lamellari sono costituite da macromolecole ripiegate più volte su se stesse; si avrà quindi una zona centrale ordinata, in cui i segmenti delle macromolecole sono impacchettati con regolarità tridimensionale e due zone esterne disordinate, nelle quali sono contenuti i tratti di catena che consentono alle stesse di ripiegarsi (Fig. 1.3).

Fig. 1.3 Rappresentazione schematica della struttura della lamella.

A conferma della generalità di questo modello c'è il fatto che anche macromolecole che non cristallizzano nella conformazione semplice zig-zag planare, ma hanno conformazione ad elica (come il polipropilene o il DNA), mostrano ripiegamento della catena.

Il processo di orientamento delle macromolecole sottoposte a trazione monodirezionale può essere visto in due modi differenti.

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Introduzione - I sistemi host-guest

delle catene macromolecolari del film lungo la direzione di allungamento a seguito della rotture delle deboli interazioni intercatena o della deformazione delle lamelle come schematizzato in Fig. 1.422.

Fig. 1.4 Rappresentazione schematica dei fenomeni che avvengono in una lamella sottoposta a stiro.

Il limite di questo modello è che non esiste una correlazione tra la cristallinità e il massimo rapporto di stiro (DR), definito come il rapporto tra lunghezza finale e lunghezza iniziale del

provino polimerico sottoposto a stiro.

Fig. 1.5 Rappresentazione schematica dei fenomeni che avvengono nel film polimerico sottoposto a stiro.

Un approccio differente consiste nell'immaginare che il polimero si deformi come una rete di catene vincolate solo da legami topologici, ignorando le sovrastrutture molecolari. In pratica si può immaginare che il polimero sia composto da una rete non-rigida di macromolecole parzialmente concatenate che interagiscono tra loro solo attraverso deboli legami Van der Waals23,24. Durante la deformazione questi legami si rompono permettendo

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Introduzione - I sistemi host-guest

limitato dal numero di concatenamenti presenti.

Questo semplice modello permette di correlare il massimo rapporto di stiro (DR) sia con il

tipo di processo impiegato per ottenere il polimero (da miscelazione nel fuso o per casting da soluzioni a diversa concentrazione; Fig. 1.6) che con il suo peso molecolare medio.

Fig. 1.6 Schema dei concatenamenti al variare delle condizioni di cristallizzazione.

Le previsioni di questo modello sono in buon accordo con le evidenze sperimentali secondo cui il massimo rapporto di stiro è proporzionale all'inverso della radice della concentrazione iniziale di polietilene (C)25, ovvero:

DR ∝ 1

C (1.8)

Ne segue che si hanno migliori rapporti di stiro ottenendo il polimero per cristallizzazione da soluzioni diluite. Partendo da questa considerazione abbiamo preparato i sistemi host-guest per evaporazione lenta di soluzioni poco concentrate (< 1 % in peso) di polimero in cui era stata disciolta anche la molecola guest.

La necessità di un alto rapporto di stiro è legata al fatto che le misure sperimentali hanno mostrato, che l'orientazione delle molecole disperse è in perfetto accordo con il modello pseudoaffine proposto da Ward26-29. In questo modello, ai fini dell'orientazione, le catene

polimeriche sono considerate come strutture rigide e quindi le variazioni nell'orientazione delle macromolecole sono uguali a quelle subite dal campione a livello macroscopico. Una volta preparati film polimerici contenenti molecole a basso peso molecolare è necessario determinare quale sia il grado di dispersione ottenuto. Se infatti viene

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Introduzione - I sistemi host-guest

confermata l'assenza di aggregati di guest troppo grandi, i quali si orientano difficilmente con le catene polimeriche, le misure di dicroismo lineare sono sufficienti per valutare il grado di orientazione delle molecole disperse.

Molte sono le tecniche che si possono impiegare a tale scopo, con vantaggi e svantaggi che vanno valutati di caso in caso. Le tecniche di più semplice interpretazione sono quelle legate alla microscopia (microscopia elettronica a scansione, SEM, o a trasmissione, TEM, ecc) ma non risultano sempre applicabili, oltre ad avere costi e tempi di analisi abbastanza elevati30. Molto più rapide possono risultare le analisi calorimetriche, ad esempio la

calorimetria a scansione differenziale (DSC), anche se l'interpretazione dei risultati forniti da queste può essere complicato da una vasta gamma di fenomeni.

In particolare l'analisi della dispersione tramite calorimetria parte dalla considerazione che la temperatura e l'endoterma di fusione sono strettamente legate alla struttura dello stato solido delle sostanze. E' quindi possibile in linea teorica, attraverso un confronto con le misure fatte sulle sostanze pure, rilevare le eventuali variazioni di fase di composti in miscela o dispersi in matrice polimerica.

Nel caso particolare delle dispersioni polimeriche, la presenza di aggregati di guest di grosse dimensioni dovrebbe essere rilevabile da un confronto del termogramma della dispersione con quello della molecola a basso peso molecolare pura.

L'interpretazione dei termogrammi non è però immediata31,32. Infatti, durante la scansione

termica, i cristalli polimerici possono essere soggetti a fenomeni complessi e di vario tipo, anche in assenza di altre molecole. Questi fenomeni sono legati sia ad aspetti termodinamici (dovuti, ad esempio, alla ramificazione e alla dispersione della lunghezza delle catene) che ad aspetti cinetici (causati, ad esempio, dalla storia termica e dalle modalità della scansione).

Innanzitutto, la fusione di un polimero semicristallino avviene in un intervallo di temperatura abbastanza esteso nel quale può ricadere la temperatura di fusione del guest, che risulta quindi coperto dal segnale associato al polimero.

Inoltre l'intensità relativa dell'endoterma di fusione è proporzionale alla quantità di sostanza che passa allo stato liquido. Quindi per basse concentrazioni di guest, a meno che questi non abbiano un'elevata entalpia di fusione, il segnale sarà poco intenso.

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Introduzione - I sistemi host-guest

preparazione della dispersione da soluzione e da fuso: è sufficiente confrontare il termogramma registrato per la dispersione ottenuta dopo fusione e ricristallizzazione con quello misurato per la dispersione ottenuta da soluzione.

Anche in questo caso bisogna però prestare attenzione nell'interpretazione delle curve ottenute. Innanzitutto il processo di cristallizzazione da soluzione diluita e dal fuso danno strutture morfologiche diverse, sia per il guest che per il polimero (come abbiamo visto sopra) e quindi i risultati non sono immediatamente confrontabili. Infatti, anche supposto che le specie in questione abbiano modo di ricristallizzare completamente, solidi con morfologie diverse fonderanno a temperature diverse e con entalpie differenti. Come sempre, può essere di aiuto il confronto con i termogrammi relativi al riscaldamento delle sostanze pure ottenute per cristallizzazione da fuso.

Bisogna poi anche tenere in considerazione i problemi legati alla cinetica della ricristallizzazione della miscela fusa. Infatti, a causa dell'alta viscosità del polimero allo stato fuso, in mancanza di tempi sufficientemente lunghi, si può avere una ricristallizzazione incompleta sia della matrice che del guest.

Tuttavia, tenendo adeguatamente conto di questi effetti, è comunque possibile ottenere informazioni utili sulla dispersione nei sistemi host-guest di molecole a basso peso molecolare e delle loro interazioni con la matrice.

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Introduzione - Nanoparticelle metalliche

1.3 N

A N O PA R T I C E L L E M E TA L L I C H E

1.3.1 Introduzione storica

L'uso delle nanoparticelle metalliche, per quanto inconsapevole, è assai antico. Già i Romani utilizzavano quelle d'oro per la colorazione dei vetri: ottenevano infatti con il loro impiego, vetri di colorazione rossa e di buona trasparenza, ovvero con un ridottissimo scattering33.

Nel periodo che va dalla metà del XVI secolo alla metà del XVII, si trovano ad opera di diversi autori (A. Cassius, J. Knuckel, A. Libavius, A. Neri, per citarne alcuni) numerosi accenni alle metodologie di preparazione di soluzioni colloidali d'oro, utilizzate per conferire a vetri, smalti e indumenti diversi colori, quali la porpora (Porpora di Cassio)34, il

violetto, il marrone o il nero. La concorrenza tra i vari artigiani, che li spingeva alla segretezza e alla trasmissione orale delle tecniche di lavorazione, ci costringe ad aspettare il 1765 per avere una dettagliata descrizione scritta della tecnica di preparazione delle nanoparticelle d'oro in soluzione: questa prevedeva il discioglimento dell'oro con acqua regia, e la riduzione dell' Au(III) formatosi, con Sn(II).

Parallelamente al loro impiego nell'artigianato, le nanoparticelle furono argomento di ricerca della chimica già dalle sue origini. Paracelso, nel 1570, descrive la preparazione del

aurum potabile, ovvero nanoparticelle d'oro disperse in soluzione, anche se bisognerà

attendere il 1774 (con Macquer)35 affinché venga ipotizzato che l'aurum potabile contenga

effettivamente piccolissime particelle d'oro.

E' con il 1802, grazie al lavoro di Richter36, che abbiamo la prima dimostrazione del fatto

che il color porpora (di vetri e in soluzione) dipende dall'oro e dalle sue dimensioni. Sulla spinta dei dubbi e delle polemiche suscitate all'epoca da questo lavoro, Faraday (1831) e Fischer (1866) mostrano come sia proprio la forma elementare dell'oro, non un suo ossido, ad essere responsabile delle varie colorazioni in soluzione e allo stato solido. Faraday inoltre scopre che il colore delle soluzioni è modificabile variando le dimensioni delle particelle d'oro, preparando soluzioni sia rosse che blu (nanoparticelle sferiche di diametro, rispettivamente, di circa 6 e 12 nm).

All'inizio del XX secolo, grazie all'impiego dell'ultramicroscopia (Siedentopf e Zsigmondy) e dei raggi X, si ottengono finalmente conferme dirette alle ipotesi formulate. La ricerca in

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Introduzione - Nanoparticelle metalliche

questo campo però non progredisce notevolmente, se non negli ultimi decenni, a causa della mancanza di metodi di caratterizzazione e analisi per sistemi di queste dimensioni.

L'introduzione dei computer, i miglioramenti nell'elettronica e la scoperta di nuove proprietà (come, ad esempio, la superconduttività utilizzata nella magnetometria SQUID) hanno portato a metodi di indagine che permettono di “vedere” i singoli atomi. A titolo di esempio, con l' HRTEM (High Resolution Transmission Electron Microscopy) si arriva a risoluzioni di circa 0,1 nm mentre con l' STM (Scanning Tunneling Microscopy, a volte chiamata SPM, Scanning Probe Microscopy) si arriva a risoluzione atomica37.

Questi progressi hanno dato una nuova spinta in questo campo portando alla scoperta di nuove vie sintetiche e proprietà, connesse alle nanoparticelle, che sono spesso a metà tra quelle dei singoli atomi e quelle di particelle macroscopiche. La possibilità di analizzare con grande precisione questi sistemi ha inoltre sottolineato i limiti delle interpretazioni teoriche date in passato, spingendo lo sviluppo di modelli sempre più completi e sofisticati che rendessero conto delle proprietà osservate38.

La grande attenzione che hanno ricevuto le nanoparticelle è principalmente legata alle loro inusuali proprietà ottiche, magnetiche, elettriche e catalitiche. La possibilità inoltre di produrre materiali in cui la dispersione di nanosistemi migliora o conferisce proprietà completamente nuove al prodotto finale, fa di questo campo di studi un soggetto estremamente promettente per gli sviluppi applicativi39,40.

1.3.2 Metodi di sintesi

In generale esistono due diversi approcci concettuali nella sintesi di particelle di dimensioni nanometriche (compresa cioè tra 2 e 100 nm): i metodi “top-down” e i metodi “bottom-up”. I metodi “top-down” partono da particelle macroscopiche e cercano di ridurle di dimensione fino a ottenere la grandezza voluta. Non sono metodi molto usati sia per la difficoltà di ottenere particelle molto piccole che per l'impossibilità di ottenere forme specifiche o distribuzioni uniformi nelle dimensioni, ragion per cui non verrano ulteriormente approfonditi.41

I metodi “bottom-up” sono concettualmente l'opposto: l'idea è quella di partire dagli atomi, in fase gassosa o in soluzione, e di cercare di ottenere cluster di dimensioni (e forme, anche

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Introduzione - Nanoparticelle metalliche

se è molto più difficile) definite.

Le sintesi in fase gassosa prevede in generale l'evaporazione per via termica o per irraggiamento del metallo che viene quindi trasportato da un flusso di gas inerte (tipicamente He); le particelle così formate vengono separate in funzione della massa e raccolte. Un limite di questo tipo di preparazione è però la scarsa stabilità dei nanosistemi prodotti che tendono ad aggregarsi in una polvere policristallina a causa dell'assenza di molecole stabilizzanti. Benché si possano trovare soluzioni a questo problema (deposizione su supporti o interazioni con molecole stabilizzanti allo stato liquido), questo tipo di preparazione risulta poco applicata, principalmente a causa della maggiore facilità di sintesi in soluzione42.

La sintesi in soluzione si basa sulla riduzione di atomi metallici positivi, presenti come ioni o come complessi; i solventi variano dall'acqua agli idrocarburi in funzione della natura del sale o del complesso usato. L'ambiente di reazione condiziona anche la scelta dell'agente riducente (idrogeno gassoso, idruri, alcoli, ecc.) e delle molecole protettive da impiegare. Infatti, benché le nanoparticelle metalliche siano stabili a basse concentrazioni a causa della repulsione elettrostatica del doppio strato elettrico, con l'aumentare della concentrazione e con la diminuzione della polarità del solvente tendono ad aggregare e a precipitare. Per questo motivo si impiegano vari tipi di molecole stabilizzanti che, legandosi alla superficie del metallo, lo stabilizzano e lo rendono eventualmente compatibile con solventi apolari. Per le nanoparticelle d'oro il metodo più comune, usato anche da Faraday, prevede la riduzione del tetracloroaurato(III), AuCl4¯, tramite citrato di sodio43 e la successiva

stabilizzazione delle nanoparticelle attraverso l'aggiunta di 3-mercaptopropionato44 o di

PVA45 (in quest'ultimo caso si può ottenere il film polimerico per semplice evaporazione

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Introduzione - Nanoparticelle metalliche

Fig. 1.7 Rappresentazione schematica della preparazione di nanoparticelle attraverso il metodo di Faraday.

La preparazione in soluzione da noi adottata è strutturata in modo tale che la riduzione del AuCl4¯ avvenga, in un sistema a due fasi, acqua-toluene, ad opera del sodioboroidruro,

NaBH4, in presenza di tetraottadecilammonio bromuro, N+(C8H17)4 Br¯ (TBAB), che funge

da trasferitore di fase, e di dodecantiolo, C12H25SH, che funge da stabilizzante46.

(19)

Introduzione - Nanoparticelle metalliche

1.3.3 Proprietà ottiche

Tutti i metalli sono “argentei” quando presentano una superficie liscia, con l'eccezione dell'oro e del rame che sono colorati, mentre tutti (senza eccezioni) sono marroni o neri nel caso in cui si trovino sotto forma di polvere fine. Queste due caratteristiche non si possono definire colori in senso classico, in quanto nel primo caso abbiamo riflessione totale e, nel secondo, assorbimento totale della luce. Classicamente invece si è soliti definire il colore come la parte complementare dello spettro visibile assorbito dagli elettroni nella materia. Per superfici metalliche lisce, dalle quali la luce viene completamente riflessa dall'alta densità elettronica, non avremo quindi un colore definito ma piuttosto l'aspetto di uno specchio, mentre per le polveri fini il colore scuro è legato ad una trasformazione quantitativa dell'energia luminosa in energia termica, causata della grande superficie e delle ripetute riflessioni, che permettono un assorbimento completo della radiazione.

Quando tuttavia le particelle diventano abbastanza piccole (dimensioni nanometriche) il loro comportamento ottico cambia e diventa possibile in alcuni casi osservare una colorazione, causata da un assorbimento nel visibile (banda di plasmone), che dipende non solo dal metallo, ma anche dalle dimensioni dell'aggregato. Va notato però che non tutti i metalli mostrano risonanza di plasmone prevalentemente a causa dell'esistenza di altri canali di decadimento che riducono enormemente il tempo di vita dello stato eccitato (tra questi platino, palladio e ferro).

Molti di questi fenomeni possono essere spiegati anche con una teoria non molto raffinata come quella di Drude-Lorenz-Sommerfeld (Appendice B)47.

Essenzialmente immaginiamo che nei metalli gli atomi siano isolati e le caratteristiche ottiche ed elettroniche si possono in prima approssimazione considerare come conseguenza esclusivamente delle proprietà degli elettroni di conduzione di cui si studia l'equazione del moto, da cui si ricava la funzione dielettrica e da questa le altre grandezze legate all'ottica. Questa teoria ha molti limiti, ad esempio quelli legati al fatto che non siano previste transizioni elettroniche tra bande. Se per alcuni metalli, principalmente quelli alcalini, la risposta alle onde elettromagnetiche è in effetti legata a transizioni degli elettroni all'interno della banda di conduzione (cioè le bande parzialmente occupate) più che a transizioni tra bande, per i metalli nobili sono presenti ed importanti entrambi gli effetti.

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Introduzione - Nanoparticelle metalliche

Esiste un gran numero di teorie più raffinate che riescono a rendere conto in maniera meno approssimata dei fenomeni ottici ed elettronici, risultano tuttavia troppo complicate per essere riassunte e la loro descrizione esula dagli scopi di questa tesi.

Fino ad ora ci siamo riferiti alle proprietà ottiche di sistemi isolati; nella pratica però le particelle non possono essere indipendenti le une dalle altre. In particolare aggregati con differente topologia di cluster nanometrici, per il resto identici, hanno proprietà ottiche molto diverse.

L'esposizione della teoria necessaria per dare una spiegazione a questi fenomeni risulta però troppo complessa per essere qui brevemente esposta. Utilizzeremo quindi solo alcune considerazioni qualitative derivate da essa che mostrano quanto la topologia di un insieme di cluster influenzi le proprietà ottiche.

In generale l'interazione tra cluster induce uno split del massimo di assorbimento in diversi picchi (di solito due), tanto più pronunciata quanto meno la topologia è compatta e isometrica. Quest'effetto è correlato all'interazione anisotropa con la radiazione.

Considerando i due casi limite abbiamo che, per aggregati a topologia sferica, praticamente lo split non si verifica, anzi si misura uno spettro molto simile a quello di un singolo cluster delle dimensioni dell'aggregato. Se invece consideriamo una catena lineare di aggregati, la separazione dei due picchi sarà massima e potremo associare, in prima approssimazione, il picco a minore energia ad un'eccitazione longitudinale, e quello a energia maggiore ad un'eccitazione trasversale, come illustrato schematicamente in Fig. 1.9

Irraggiando quindi un campione contenente aggregati lineari immobilizzati con luce polarizzata dovremmo osservare uno shift nell'assorbimento che varia con l'angolo formato dalla catena con la direzione di propagazione.

Fig. 1.9 Modi vibrazionali principali di una aggregato lineare ideale di

cluster metallici. (a) modi trasversali, (b) modi longitudinali.

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N M O R O N R M = Ni Cu R = n-C6H13 n-C18H37

Introduzione - Scopo della tesi

1.4 S

C O P O D E L L A T E S I

Scopo di questo lavoro di tesi è stato lo studio di nuovi sistemi host-guest di natura polimerica per applicazioni nel campo dei dispositivi ottici. A tale scopo è stata affrontata la preparazione di sistemi contenenti diversi tipi di guest: complessi organo metallici di rame e nichel derivati dalla salicilimmina e nanoparticelle d'oro ottenute sia per riduzione in soluzione che per via fotochimica.

In particolare lo studio è stato concentrato nel determinare il grado di dispersione di questa classe di composti in matrice poliolefinica, per valutare la possibilità di un impiego per la preparazione di dispositivi ottici innovativi sensibili alla deformazione meccanica uniassiale del polimero.

E' stata messa a punto una preparazione di quattro complessi organometallici, due del rame, cioè Cu(II)-bis(saliciliden-N-(n-esil)immina) e Cu(II)-bis(saliciliden-N-(n-ottadecil) immina), e due del nichel, cioè Ni(II)-bis(saliciliden-N-(n-esil)immina) e Ni(II)-bis (saliciliden-N-(n-ottadecil)immina), successivamente impiegati per ottenere dispersioni in UHMWPE (Ultra-High Molecular Weight Polyethylene). Variando la lunghezza delle catene alchiliche e il tipo di metallo del complesso si è cercato di valutare l'influenza che questi fattori hanno sull'aggregazione nella matrice polietilenica.

Formula di struttura dei complessi organometllici sintetizzati.

La scelta di utilizzare come matrice polietilene ad altissimo peso molecolare è stata fatta in funzione dell'elevatissimo rapporto di stiro ottenibile per questo polimero.

La preparazione di nanoparticelle d'oro è stata affrontata utilizzando due diversi approcci. Il primo prevede la riduzione in soluzione di un sale di Au(III) a Au0 in presenza di tioli e

tioeteri aromatici e alifatici impiegati come stabilizzanti in modo da poter poi disperdere i nanosistemi ottenuti in UHMWPE.

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Introduzione - Scopo della tesi

Il secondo metodo prevede la preparazione di nanoparticelle di oro nella matrice polimerica, in modo che queste siano direttamente stabilizzate dal polimero, per fotoriduzione. A tale scopo è stato deciso di utilizzare il poli(etilene-co-vinilalcol (EVAl), i cui gruppi idrossilici possono stabilizzare le particelle d'oro, in cui fosse disperso un sale dell'Au(III) e glicole etilenico.

Tutti i sistemi, dopo gli studi di dispersione (effettuati con tecniche calorimetriche, spettroscopiche, microscopiche e di diffrazione), sono stati analizzati tramite spettroscopia UV-Vis in luce polarizzata, per determinare l'efficienza dei dispositivi ottici preparati.

Figura

Fig. 1.1 Esempio di funzionamento di una cella TN.
Fig. 1.2 Intensità delle componenti  parallela e perpendicolare della luce riflessa in funzione dell'angolo di
Tab. 1.1 Parametri di efficienza dei polarizzatori.
Tab. 1.2 Parametri di efficienza dei polarizzatori.
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