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QUADRO COMPARATIVO TRA IL PERU’ E L’ITALIA CAPITOLO 5

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CAPITOLO 5

QUADRO COMPARATIVO TRA IL PERU’ E L’ITALIA

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Il lavoro minorile è un fenomeno che riguardo sia Pvs che Paesi Industrializzati, ma non risulta essere eterogeneo né tra i due gruppi, né all’interno di uno stesso paese, tanto che in molti casi si parla di lavori minorili piuttosto che di lavoro minorile.

Ha significati diversi a causa delle diverse situazioni economiche e sociali dell’Italia e del Perù, che in parte determinano varie motivazioni al lavoro dei minori. In aggiunta, è interessante notare il diverso significato del lavoro minorile dal punto di vista culturale, che in Perù nel corso del tempo ha portato alla formazione di movimenti di bambini lavoratori e alla valorizzazione critica del lavoro, mentre in Italia non si sono verificate esperienze di tale portata e la tendenza è l’eliminazione di qualsiasi forma del lavoro minorile.

Di seguito verranno analizzate alcune somiglianze e differenze del significato del lavoro minorile in Italia e in Perù, con una particolare attenzione alla suddetta differenza culturale

5.1. Situazione economica.

Dai dati indicati nelle tabelle di cui sotto, è chiara l’enorme differenza dal punto di vista economico dei due paesi presi in considerazione.

A riguardo del PIL, oltre alla differenza del livello di PIL totale tra i due paesi, sia in Italia che in Perù è cresciuto nel corso del periodo 2004-2007 e per il Perù si può notare una crescita consistente, con una media del 6.6% annua, indice di quella crescita economica positiva iniziata nell’anno 2004; mentre per l’Italia la crescita è più lenta e contenuta a una media di poco più dell’ 1% annuo.

Nonostante la forte crescita del PIL in Perù, i dati indicano che il PIL pro capite, calcolato in base alla PPA, è di gran lunga inferiore rispetto a quello dell’Italia, con una differenza di 24,169 unità di US $ a favore dell’Italia. Tale situazione potrebbe spiegare il lavoro dei minori in Perù dal punto di vista economico, come integrazione alle entrate delle famiglie, così da poter garantire la sopravvivenza della stessa. Per i minori italiani che lavorano la motivazione economica è marginale rispetto al Perù e, molto spesso, i minori lavorano anche per riuscire a soddisfare bisogni secondari o superflui.

A ciò bisogna aggiungere i dati relativi all’inflazione: anche se in Perù questa è andata diminuendo nel corso del periodo in considerazione, rimane, anche in comparazione con l’Italia, su livelli piuttosto elevati e di non molto differenti, infatti ad esempio, nel 2006 l’inflazione in Perù aveva un indice rispetto ai prezzi al consumo di 122,272 mentre in Italia di 115.336. Considerando, però il livello di PIL pro capite dei due paesi, una tale inflazione rende il costo della vita troppo caro per una gran fetta della popolazione peruviana dove, come già detto nel capitolo dedicato alla situazione del paese, il 48% della popolazione vive in situazione di povertà e per cui motiva la necessità del lavoro minorile per far fronte a tale situazione.

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QUADRO 1

ITALIA, INDICATORI ECONOMICI

INDICATORE 2004 2005 2006 2007

PIL, prezzi correnti (US $, mil.di) 1,728.863 1,772.769 1,852.585 2,067.680

PIL (% annua di variazione) 1.2 0.1 1.9 1.7

PIL pro capite, prezzi correnti (US $, unità) 30,097.541 30,524.593 31,790.631 35,385.926

PIL, deflazione (indice) 112.897 115.435 117.483 119.891

PIL basato sulla PPA (valutazione sul PIL paese, mil.di $)

1,666.514 1,721.880 1,809.486 1,888.492

PIL basato sulla PPA pro capite ($, unità) 29,012.116 29,648.354 31,051.047 32,319.323 Inflazione, media dei prezzi al consumo (indice) 110.400 112.835 115.336 117.486 Inflazione, media dei prezzi al consumo (% annua di

variazione)

2.3 2.2 2.2 1.9

Popolazione (milioni) 57.442 58.077 58.275 58.432

FONTE: World Economic Outlook Database, IMF, Ottobre 2007

QUADRO 2

PERU, INDICATORI ECONOMICI

INDICATORE 2004 2005 2006 2007

PIL, prezzi correnti (US $, mil.di) 69.735 79.485 93.045 101.504

PIL (% annua di variazione) 5.1 6.7 7.6 7.0

PIL pro capite, prezzi correnti (US $, unità) 2,601.681 2,920.213 3,366.312 3,616.309

PIL, deflazione (indice) 170.841 176.112 190.438 192.152

PIL basato sulla PPA (valutazione sul PIL paese, mil.di $)

154.983 170.782 189.487 207.985

PIL basato sulla PPA pro capite ($, unità) 5,782.151 6,274.385 6,855.527 7,409.958 Inflazione, media dei prezzi al consumo (indice) 108.308 110.066 112.272 113.995 Inflazione, media dei prezzi al consumo (% annua di

variazione)

3.7 1.6 2.0 1.5

Popolazione (milioni) 26.804 27.219 27.640 28.400

FONTE: World Economic Outlook Database, IMF, Ottobre 2007

5.2. Minori al lavoro1.

In Perù il 26,7% dei minori in età compresa tra i 6 ed i 17 anni lavora, vale a dire ogni 100 bambini, 27 di loro svolgono un’attività lavorativa e considerando che la popolazione di questo gruppo d’età è di circa 6.984.00, cioè i due terzi della popolazione minore di 18 anni, significa che il valore assoluto dei minori lavoratori è approssimativamente di 1.900.000.

In Italia, il numero di bambini stimato dalla ricerca svolta dalla CGIL è di circa 368.400; in entrambi i casi, i dati non sono precisi e molti spesso sottostimati in quanto la maggior parte del lavoro minorile è svolto, per entrambi i paesi, nella cosiddetta economia informale, per cui risulta di difficile rilevazione.

Per entrambi i paesi, in base al sesso, la quota di maschi o femmine non presenta notevoli differenze e anche considerando l’età, il gruppo più consistente è quello degli adolescenti lavoratori (dai 12 ai 17 anni).

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In Perù l’inserimento precoce nel mondo del lavoro avviene con maggior frequenza nell’area rurale, dove si svolgono attività del settore primario, che non richiedendo un livello di qualificazione della manodopera, facilitano l’ammissione di bambini e adolescenti al lavoro. In Italia, la maggioranza dei minori è impiegata nel settore terziario e dei servizi, favorito da bassi rischi di sanzioni dovuti al controllo e da vantaggi per il datore di lavoro nell’impiegare un minore. Il fenomeno è presente in maggioranza nel Sud del paese, ma anche al Centro Nord è un fenomeno consistente. La maggioranza dei minori in Italia lavora presso terzi, mentre in Perù è maggiore il numero di coloro che lavorano in famiglia. In questo ultimo paese, in generale, le ragioni per cui i minori si inseriscono in età precoce nel mondo del lavoro si ritrovano nella migrazione dall’area rurale a quella urbana, l’invecchiamento della popolazione nelle aree rurali, la disoccupazione e la perdite di potere d’acquisto delle entrate delle famiglie. A ciò si deve aggiungere il fatto che molti dei bambini lavoratori in Perù vivono in situazione di estrema povertà, per cui il loro lavoro risulta necessario per il sostentamento della famiglia.

In Italia la motivazione principale del lavoro minorile non è quella economica, in quanto lo stipendio percepito dai minori è medio-basso e non è determinante alla sussistenza della famiglia; le ragioni quindi sono imparare un mestiere, ottenere denaro, indipendenza e non andare a scuola. Le mansioni svolte dai minori lavoratori, sia per il Perù che per l’Italia, sono di carattere generico, vale a dire non specializzate e per le quali non è richiesta una particolare formazione: venditore ambulante, lustrascarpe, garzone, domestico.

Riguardo al contesto familiare, la maggioranza di coloro che lavorano vive con entrambi i genitori e il nucleo familiare è piuttosto numeroso, con più di due figli. In Perù, a differenza dell’Italia, però vi è il problema dell’elevata disoccupazione, quindi il capofamiglia non sempre ha un lavoro o non può garantire un’entrata stabile.

La situazione scolastica indica che in Perù la percentuale di minori che studia e lavora è piuttosto bassa, perché in molti casi la scuola è stata abbandonata per lavorare in maniera continuativa ed a tempo pieno. Le cause dell’abbandono sono diverse, dai problemi economici della famiglia, che non si può permettere di sostenere le spese scolastiche al basso livello dell’istruzione peruviana, che vede ancora una percentuale piuttosto elevata, in particolare nell’area rurale, di analfabetismo.

Anche in Italia vi è una parte di minori che ha abbandonato la scuola e lavora in modo continuativo, ma sono in maggioranza coloro che lavorano e studiano. I motivi dell’abbandono riguardano un rapporto negativo con la scuola che non è ritenuta all’altezza di insegnare un mestiere per cui è meglio apprenderlo facendo un esperienza diretta nel mondo del lavoro, e l’influenza familiare che ha un atteggiamento positivo verso il lavoro del figlio minorenne.

In entrambi paesi vi è una buona percentuale di ripetenti, sia nella scuola elementare che media.

5.3. La normativa

Dal punto di vista normativo emergono delle particolarità sia per il Perù che per l’Italia.

Innanzitutto, entrambi i paesi hanno ratificato la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e le Convenzioni OIL n.138 e n. 182, per cui il quadro legislativo dei due paesi ha visto rafforzarsi una chiara politica di prevenzione e sradicamento del lavoro minorile.

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Con riferimento della Convezione n. 182 che prevede l’eliminazione delle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile e che elenca tali forme, i movimenti di NATs, che in accordo con la Convenzione combattono i lavori che non garantiscono condizioni adeguate e degne, ribadiscono il fatto che essi non considerano tali peggiore forme come lavoro, ma piuttosto come violazioni dell’infanzia. A ciò si collega la questione della distinzione tra child labour e child work: le istituzioni internazionali quali l’OIL tendono a riferirsi solamente al child labour in relazione alla posizione abolizionista, mentre il MANTHOC e altri movimenti ribadiscono la differenziazione tra work e labour, in quanto non considerano come negativo o sfruttamento tutto il lavoro minorile.

In molti incontri nazionali e internazionali di NATs in America Latina, i bambini indicarono alcuni criteri che, se presenti, rendono il loro lavoro sfruttato:

• se il bambino lavora alle dipendenze di un datore, senza ricevere una remunerazione corrispondente al risultato del suo rendimento;

• se il lavoro del bambino è dichiarato come aiuto o apprendistato, al fine di sopprimere la sua remunerazione;

• se i genitori o il datore obbligano i bambino a lavorare in condizioni che egli non accetta, in situazioni pericoloso e senza protezione;

• se il datore o il cliente si approfittano della debolezza o mancanza di esperienza del bambino per ottenere un vantaggio economico;

• se il bambine è obbligato a lavorare senza avere la possibilità o tempo di studiare, di giocare o di coltivare altri interessi.

Nei suddetti criteri si accentua la questione della remunerazione e della posizione legale di bambini e, mentre l’OIL menziona solo la mancata o inappropriata remunerazione, le organizzazioni di NATs sottolineano che la remunerazione deve essere pagata agli stessi bambini. I minori vedono il problema, molto più che le organizzazioni internazionali, della mancanza di spazi liberi e di possibilità di decisioni; se l’OIL in generale indica come criterio di sfruttamento il non rispetto della dignità umana, i NATs considerano come forma concreta di sfruttamento la non possibilità di svolgere il lavoro che essi scelgono. In aggiunta i NATs includono tutti gli adulti, quindi anche i loro genitori, come possibili sfruttatori e non limitano il lavoro sfruttato al solo lavoro furori casa, come invece tende a fare l’OIL.

Una forma esplicita e controversa di considerare lo sfruttamento si ha in relazione al significato dell’età. L’OIL stabilisce che al di sotto dell’età minima stipulata ogni forma di lavoro è sfruttamento. Al contrario, le organizzazioni di bambini indicano che l’età non è decisiva, ma è la questione se il lavoro possa essere scelto liberamente dal minore o meno.

A riguardo del Perù, la normativa relativa al lavoro minorile è principalmente disciplinata nel Codice dei Bambini e degli Adolescenti, al Capitolo IV, Libro I dei Diritti e dei Doveri. La caratteristica che risalta è l’art. 22 che riconosce il diritto a lavorare dell’adolescente, sempre che non sia una situazione di sfruttamento, diritto che nella normativa italiana non viene sancito.

Tale articolo entra in contrasto con quanto sancito a livello internazionale, che nemmeno menziona tale diritto.

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A riguardo dell’età minima di ingresso nel mondo lavorativo, in Perù viene stabilita a 14 anni in base alla Convenzione n. 1382 che prevede tale limite per i Pvs , ma rimangono delle deroghe che prevedono età differenti per alcuni settori.

Un'altra caratteristica, in quanto il Codice sancisce il diritto dei NATs all’istruzione, è rappresentata dal fatto che lo Stato debba garantire modalità ed orari scolastici speciali per permettere ai minori lavoratori di assistere regolarmente ai loro centri di studio, e ciò a dimostrazione del riconoscimento dell’esistenza di un numero consistente di bambini e adolescenti che lavorano e che pertanto possono essere a rischio di abbandono della scuola. Dall’altro lato il Codice stabilisce che il datore di lavoro deve creare le condizioni per cui il minore impiegato possa frequentare la scuola. Infine viene sancito il diritto degli adolescenti lavoratori di raggrupparsi in sindacati e in loro organizzazioni che rappresentino i loro interessi.

In Italia, la disciplina del lavoro minorile è contenuta nella legge 977/1967 che fissa come condizioni di ingresso al lavoro l’età minima di 15 anni e l’adempimento dell’obbligo scolastico. Non vi sono deroghe all’età di 15 anni (in conformità alla Convenzione n. 138) e non vi è alcun riferimento al fatto che lo Stato debba adattare gli orari scolastici per facilitare la frequenza dei minori lavoratori o al loro diritto di associarsi.

Entrambe le normative disciplinano un orario di lavoro che non deve superare le 4 ore giornaliere per i bambini e le 7 giornaliere per gli adolescenti. Vietano il lavoro notturno ed i lavori pericolosi che possono ledere lo sviluppo psico-fisico del minore lavoratore. In entrambi i paesi è prevista la parità retributiva dei lavori minorenni, la tutela previdenziale e la necessità di un certificato medico che indichi l’idoneità del minore a svolgere il lavoro.

Entrambi i paesi, infine, hanno adottato programmi per la prevenzione e lo sradicamento del lavoro minorile, come il “Piano Nazionale per lo Sradicamento del Lavoro Minorile” in Perù e la “Carta degli impegni” in Italia.

5.4. Il significato culturale

Una grande differenza risulta dal fatto che in Italia il lavoro minorile non così visibile, vi è la tendenza a nasconderlo e non vi è stata esperienza di minori lavoratori che si sono organizzati in maniera autonoma o grazie all’aiuto di educatori o associazioni. Non esiste tra i minori una coscienza o identità di lavoratori, che porta a voler essere riconosciuti come tali ed a rivendicare protezione e condizioni adeguate e degne di lavoro. Ciò può essere spiegato dal fatto che il loro lavoro nella maggioranza dei casi, anche se è valutato come un’esperienza positiva, non è necessario, ed è dettato più da un bisogno di indipendenza economica e dal voler soddisfare il bisogno di certi beni superflui, e resta un’occupazione temporanea, da cambiare nel futuro. Tale situazione può essere spiegata anche dall’atteggiamento “abolizionista” della società italiana, che considera il fenomeno del lavoro minorile come una piaga e come sfruttamento del minore in ogni situazione, perché prevale la tendenza protezionista nei confronti dell’infanzia, per cui i bambini sono considerato solo come soggetto debole che ha bisogno di protezione, dimenticando la loro parte di soggetto attivo.

In Perù vi sono varie esperienze di movimenti sociali e la più rilevante risulta essere quella del MANTHOC, creato sulla scia del contesto storico-politico del paese alla fine degli anni 70. Tale

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esperienza è nata anche dal fatto che il lavoro dei minori non è motivato tanto da ragioni di indipendenza economica, ma da necessità, per cui i NATs hanno preso coscienza delle loro responsabilità, del loro ruolo e rivendicano riconoscimento e rispetto dalla società in quanto attori sociali in grado di agire per la trasformazione. La rivendicazione più importante del MANTHOC, e di altre organizzazioni di NATS, è il diritto a lavorare in condizione degne e adeguate.

Tale situazione è strettamente correlata con la cultura della valorizzazione critica del lavoro, del protagonismo e della partecipazione infantile che si è venuta a creare nel contesto peruviano e che si trova in contrappostone con la normativa e le azioni sia del Governo che dell’OIL, il cui obiettivo è il porre fine al lavoro dei NATs.

Anche nei confronti dell’OIL e delle Convenzioni n. 138 e n. 182 i NATs, che ormai hanno raggiunto un coordinamento internazionale insieme con altre organizzazioni di minori lavoratori dell’Asia e dell’Africa, chiedono che le loro organizzazioni siano riconosciute e che siano coinvolte nelle discussioni che li riguardano in maniera diretta come parte che può portare aiuto e non come problema e causa della povertà del paese.

La rivendicazione del diritto al lavoro.

In Italia e nei paesi dell’Europa Occidentale, l’obiettivo è l’abolizione del lavoro minorile; in Perù, nonostante la normativa sia in senso abolizionista, il MANTHOC e altri movimenti rivendicano il diritto a lavorare.

Questa rivendicazione è portata avanti a partire dagli anni 80, soprattutto nei Pvs quale è il Perù, da bambini, che nonostante esista la proibizione del loro lavoro, agiscono economicamente e si uniscono in propri movimenti di sociali e organizzazioni.

Per comprendere perché i NATs rivendicano il diritto a lavorare, bisogna, innanzitutto, intendere questa domanda come reazione al comportamento della società ufficiale, vale a dire delle istituzioni e dei loro rappresentanti ufficiali, di fronte alla realtà del lavoro e con gli stessi bambini lavoratori. Questi ultimi, si sentono disprezzati e non valorizzati a causa della loro occupazione e sentono che la proibizione del loro lavoro li pregiudica più che favorirli, che contribuisce a che siano più discriminati ed emarginati invece di permettere loro di difendersi contro pratiche ingiuste e di sfruttamento.

In secondo luogo, sembra che questa rivendicazione nella legislazione infantile sia sorta con la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, approvata dalle Nazioni Unite nel 19893, in seguito al dibattito degli anni 70 sui diritti dei bambini e che riguardò anche i NATs. Questo dibattito li sensibilizzò sull’importanza dei loro diritti, ma d’altro canto venne posto con chiarezza che non si valorizzavano i loro interessi specifici di bambini lavoratori. La Convenzione, nonostante stipuli che tutti i bambini abbiano il diritto ad essere protetti da qualsiasi tipo di sfruttamento economico, non contiene nessuna disposizione positiva sulla relazione tra bambino e lavoro.

La rivendicazione del diritto dei bambini a lavorare, da quando fu formulata, è stata male interpretata in molte occasioni.

Non viene rivendicato, come in molte occasioni si interpreta con indignazione in varie organizzazioni di protezione dell’infanzia, il “diritto al lavoro infantile” che possa legittimare

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qualsiasi persona a utilizzare la forza di lavoro dei bambini a proprio piacere. Si tratta, bensì, di un diritto proprio del bambino, di decidere liberamente se vuole lavorare, scegliendo quale lavoro svolgere e quale no. Questo vale a dire che al centro dell’attenzione c’è il bambino, la sua libera volontà e la sua capacità di decidere e non qualsiasi persona che benefici o sfrutti la sua forza lavoro.

Il “diritto a lavorare” si differenzia anche dal “diritto al lavoro”, rivendicato in Europa dalla rivoluzione borghese e dal movimento operaio e che è incluso nella Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948. Con il “diritto al lavoro” si vuole assicurare l’esistenza dei lavoratori salariati (adulti) che, in conseguenza della dinamica di produzione capitalista perdono il loro lavoro, rimanendo disoccupati. Si tratta di una rivendicazione che si dirige verso lo Stato, dal quale ci si aspetta che garantisca o metta a disposizione un lavoro per assicurare l’esistenza o un entrata attraverso il lavoro.

Il “diritto a lavorare”, come formulato dai movimenti di NATs, si riferisce invece, al diritto del bambino di poter decidere relativamente alla sua integrazione nel processo lavorativo, che è più vicino alla rivendicazione di poter scegliere la professione o di poter esercitare liberamente la propria professione. È un diritto che amplia l’ambito di libertà e la competenza di decisione di un gruppo della popolazione, che a causa del fatto di non aver raggiunto una determinata età, lo si esclude dall’ambito del lavoro. Non ha l’obiettivo di porre fine alla disoccupazione attraverso misure statali, bensì che il lavoro realizzato sia riconosciuto socialmente come parte dell’autodefinizione dei bambini, che in tal modo giustificano la loro domanda di indipendenza e partecipazione sociale.

All’incontro a Lima del 1997, nel quale si riunirono rappresentanti di bambini lavoratori dell’America Latina, Asia e Africa, i NATs ribadirono il loro “diritto a lavorare in condizioni degne ed a essere riconosciuti come persone che forniscono un apporto economico, sociale e culturale alla società”. Si possono, quindi, i seguenti motivi per spiegare l’importanza del diritto a lavorare:

1. Il diritto a lavorare reclama che sia riconosciuto socialmente il lavoro dei bambini. Secondo alcuni studi, i NATs sono convinti che senza il loro lavoro la miseria della famiglia e la povertà nel loro paese sarebbe ancora maggiore, che la delinquenza e la violenza crescerebbero più rapidamente e si perderebbe la coesione delle famiglie.

Il fatto che il loro lavoro sia necessario, trasmette loro orgoglio e il sentimento di giocare un ruolo importante nella vita.

2. I bambini reclamano il diritto a lavorare perché vedono nel lavoro una parte integrale dell’esistenza umana. Essere esclusi dal lavoro per motivi d’età, rappresenta per i bambini il non essere riconosciuti come essere umani ed essere ridotti a una vita di dipendenza. I minori non vedono il lavoro solo sotto l’aspetto economico, ma sono importanti anche gli aspetti sociali e fisici, che permettono loro di sperimentarsi come soggetti attivi e socialmente utili.

3. Il diritto a lavorare dà ai bambini la presupposizione di potersi difendere meglio nell’ambito lavorativo, contro un comportamento ingiusto o contro la pratica dello sfruttamento. Senza tale diritto l’occupazione dei NATs resterebbe in una zona incontrollata e illegale e sarebbero esposti ad arbitrarietà. Le regolazioni in materia lavorativa sono valide solo per coloro che hanno raggiunto l’età minima stabilita per legge, restando esclusi i più giovani e i più vulnerabili in quanto il lavoro è proibito.

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4. Il diritto a lavorare è, infine, il punto di partenza per gli altri diritti dell’infanzia. Solamente quando potranno legalmente agire economicamente e disporre di entrate proprie, i bambini, allora saranno in grado di ottenere l’indipendenza e il peso sociale necessario che permetta loro di ottenere i loro diritti nella società.

Attualmente, i bambini rivendicano il loro diritto a lavorare solo nei Pvs e ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che su di loro ricada una pressione più grande e che il loro lavoro non ha, come per i bambini nei paesi industrializzati, in primo luogo un significato “sperimentale”, bensì “esistenziale”. Per questo i primi comprendono il diritto a lavorare non solo come una necessità per assicurare la loro esistenza, ma in relazione con una immaginazione di un lavoro migliore e di una un’infanzia differente e migliore.

Solo a prima vista sembra sconcertante che, precisamente da società che sono povere e che non offrono ai bambini una “infanzia” (intesa ne significato occidentale), che non hanno raggiunto la scolarizzazione obbligatoria e che non hanno eliminato il lavoro minorile, provengano impulsi e che esplicitamente non comprendono l’infanzia e il lavoro come contraddizioni escludenti. E questo per tre motivi:

1. Nelle società peruviana, si mantengono ancora tradizioni culturali, vive o nella memoria, nelle quali il lavoro dei bambini era integrato nella vita quotidiana. Per questo, risulta normale che bambini di sei o sette anni vadano gradualmente assumendo compiti importanti per la famiglia o la comunità. Il lavoro diventa un modo per lavorare e apprendere, senza essere separato dalle attività ludiche.

Nelle zone rurali questa tradizione è ancora molto in vita rispetto alla città. Sotto il peso dell’estrema povertà, esiste il rischio che tali tradizioni siano interpretate nel senso di sfruttare i bambini, ma in sé formano una fonte spirituale di resistenza contro la strumentalizzazione dei bambini.

2. L’esperienza lavorativa permette ai bambini di riconoscere, oltre ai rischi ed agli sforzi, gli aspetti positivi del lavoro. È chiaro che questo non è valido per tutti i lavori che i bambini sono obbligati a svolgere, ma in molti casi i NATs dicono che la loro occupazione permette di ottenere libertà, indipendenza ed essere rispettati e presi in considerazione dagli adulti. In aggiunta, trovano soddisfacente il fatto di giocare un ruolo attivo nella famiglia o imparare a essere “qualcuno nella vita”. I bambini percepiscono che il lavoro trasmette loro un peso sociale maggiore di quello che normalmente si concede ai bambini e non vi voglio rinunciare.

In molte occasioni non è il lavoro in sé, bensì l’opportunità che con quello viene offerta ai bambini di fare nuove esperienze con altre persone. Il lavoro in luoghi pubblici sembra aprire ai bambini spazi sociali che non trovano in altri luoghi specifici, come la famiglia o la scuola. In tali spazi il lavoro non è completamente separato dal gioco e da altre attività, e ciò da motivo ai bambini di interpretare il loro lavoro come qualcosa di dinamico e attrattivo. Per molti bambini il lavoro offre il motivo o l’opportunità di unirsi in gruppi, per aiutarsi mutuamente o per difendere i loro interessi e diritti.

I NATs del Perù, e in particolare quelli del MANTHOC, sanno che hanno delle responsabilità, perché danno un sostegno alla famiglia e perché attraverso il loro lavoro acquisiscono una certa indipendenza. Inoltre, poiché la loro occupazione ha

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esclusivamente una finalità di necessità di vita, per i bambini essa rappresenta qualcosa di estremamente serio.

L’indipendenza che ottengono con il lavoro non deve essere intesa solo come il fatto che i bambini dispongono di entrate proprie, ma piuttosto che diventano più abili e sanno affrontare meglio le situazioni più difficili.

Solo una parte minima del lavoro minorile è lavoro salariato nel senso classico. In molti casi i bambini non hanno un “capo” che controlla il loro lavoro, bensì il beneficio del loro lavoro dipende in gran misura dalla loro propria iniziativa. Tuttavia, non si può nemmeno dire che il lavoro permette ai bambini di svolgere una vita indipendente. La maggioranza, non solo dipende dal capitale di impresa di terzi o di membri adulti della famiglia, anzi la loro situazione sociale continua ad essere segnata da subordinazione. Le esperienze quotidiane dei NATs, sono accompagnate da maltrattamenti, abusi sessuali, disprezzo e da altre forme di violenza. Il lavoro dei bambini non forma un “mondo alternativo”, ma in alcune circostanze mette a disposizione elementi che stimolano la coscienza dei bambini stessi e l’esigenza di dignità e rispetto.

L’apporto dei bambini alla sopravvivenza, e l’esperienza attraverso il lavoro che gli dimostra di avere capacità, aiutano a rompere la subordinazione paternalista che esiste nei confronti della loro età. I bambini che lavorano, non sono più liberi di quelli che non lo fanno, ma in loro si crea prima il seme per una relazione di uguaglianza di diritti.

3. Non sono solo le esperienze di lavoro e le tradizioni culturali che fanno pensare ai NATs del Perù e di altri Pvs che il lavoro possa dare alle loro vite una qualità migliore e che li possa liberare dalla loro posizione marginale e di dipendenza nella società.

Un contributo essenziale a questo pensiero, viene dato dalla pratica pedagogica che permette ai bambini di fare l’esperienza di essere soggetti capaci con interessi e diritti legittimi e di lottare per i propri diritti. Tale pratica pedagogica, che deriva dalla Educazione popolare, è stata formulata in America Latina a partire dagli anni ‘70 ed ha creato per una parte dei bambini lavoratori nuovi spazi sociali, dove possano prendere coscienza del valore del loro lavoro e della loro persona. Molti bambini che si erano vergognati del loro lavoro, a causa della pressione dell’ideologia dominante dell’infanzia, sono stati messi in grado di essere orgogliosi delle loro forme di vita e di vedere il loro lavoro sotto punti di vista positivi.

L’educazione popolare, di cui un esponente molto importante è stato Paulo Freire4, è stata una concezione e una pratica rivoluzionaria dell’educazione, al fine di contribuire alla liberazione degli oppressi e degli sfruttati.

Questa pratica vuole far sì che le persone che si trovano in situazione di povertà ed emarginazione, prendano coscienza relativamente alle cause della loro miseria e apprendano gli strumenti per lottare in maniera autorganizzata, al fine di migliorare le loro condizioni di vita ed ottenere a una società più giusta. È strettamente collegata con i movimenti sociali, sorge da questi e ne favorisce lo sviluppo.

Per l’Educazione Popolare il sapere e la cultura popolare sono fattori essenziali5, quindi cerca di portare alla luce il sapere che deriva dall’esperienza, così da rafforzare

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l’autocoscienza e la volontà liberatoria degli oppressi affinché questa ultima si trasformi in forza di mobilitazione.

Tale pratica pedagogica parte dall’esperienza e dallo studio della propria realtà e si basa su una metodologia partecipativa e di dialogo, per cui coloro che partecipano al processo educativo devono svolgere un ruolo attivo in ogni tappa del proprio percorso.

Ha aperto il cammino a quelle pratiche pedagogiche che assegnano ai bambini ed agli adolescenti un ruolo attivo ed indipendente nei processi educativi, rompendo con il pensiero paternalista e individualista nei confronti dell’infanzia.

Accanto alla pratica dell’Educazione Popolare, molto importante è stata anche la pedagogia della ternura6, che in Perù si è diffusa durante gli anni del terrorismo di Sendero Luminoso7, a partire dal 1984. Durante questo periodo il MANTHOC si diffonde in molte città della Sierra (come ad Ayacucho a partire da 1986), e tra i partecipanti vi erano NATs che avevano perso familiari e il movimento fu uno strumento di prevenzione e possibilità di formazione. Il ruolo degli educatori, di ascolto e comprensione dei NAts e delle loro famiglie in tale circostante è stato importante ed ha dato avvio alla pedagogia della ternura ,che recupara il ruolo di soggetto attivo dei NATs.

Questi processi di nuova valorizzazione della propria esistenza, furono sostenuti e accelerati grazie al fatto che, in alcuni paesi come il Perù, si crearono movimenti e organizzazioni proprie dei bambini lavoratori, come il MANTHOC. Queste ultime trasmettono ai NATs un’esperienza completamente nuova, che permette loro di decidere della propria vita e di disporre di facoltà e qualità, che solitamente sono loro negate nella vita quotidiana e lavorativa.

Per l’Italia e gli altri Paesi Industrializzati sembra assurdo il diritto a lavorare rivendicato dai NATs, anche perché in questi paesi il lavoro dei minori non è necessario per la sussistenza. In aggiunta, tra i bambini che lavorano in Italia, difficilmente si troverà qualcuno che si percepisce esplicitamente come bambino lavoratore, nel senso che dà al suo lavoro un’importanza centrale per la sua identità, e quindi non rivendicano il diritto a lavorare. D’altro canto, però, anche i minori che lavorano in paesi industrializzati vedono nel loro lavoro un’opportunità per conseguire più libertà e riconoscimento sociale. Attribuiscono al lavoro un significato positivo per la loro vita, nel senso che vedono il lavoro non come un’attività riservata ai soli adulti o proibita ai bambini.

Il lavoro da loro una possibilità di liberarsi dalla situazione di marginalità e di dipendenza, di mettere le relazioni con gli adulti su una nuova base di uguaglianza di diritti e di ottenere per lo meno la medesima influenza nella società che gli adulti possiedono.

5Per l’educazione Popolare non vi è contraddizione tra progresso e tradizione, come invece accade nella prospettiva

della modernizzazione di stampo occidentale, per cui la cultura tradizionale è un ostacolo allo sviluppo.

6 la pedagogia della pelle in Brasile, teorizzata da P.Julio Lancellotti negli anni ‘80

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Sendero Luminoso (nome ufficiale completo Partido Comunista del Perú - Sendero Luminoso, PCP-SL) è un'organizzazione rivoluzionaria peruviana di ispirazione maoista fondata fra il 1969 e il 1970 da Abimael Guzmán Reynoso a seguito di una scissione dal Partido Comunista del Perú - Bandera Roja (PCP-BR). Sendero Luminoso si proponeva di sovvertire il sistema politico peruviano e di instaurare il socialismo attraverso la lotta armata. Le prime azioni ebbero luogo nel 1980 in alcuni villaggi periferici dei dintorni di Ayacucho. Gli attacchi di Sendero Luminoso causarono una forte reazione di repressione delle forze armate e di polizia peruviane; iniziò uno dei periodi più sanguinosi della storia del Perù. La guerra popolare iniziata e sostenuta da Sendero Luminoso, ebbe due picchi di violenza, il primo dei quali si verificò intorno agli anni 1983 - 1984, quando si registrò il maggior numero di morti. Il secondo periodo coincise con l'anno 1989, quando la guerriglia si estese ad interessare gran parte del territorio peruviano.

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I minori lavoratori di paesi quali l’Italia, considerano seriamente il loro lavoro perché serve per soddisfare certe necessità e inoltre lavorare non esclude il poter giocare o studiare.

In Perù, quindi, il lavoro permette ai bambini di sperimentarsi come membri responsabili della società, in grado di prendere autonomamente le proprie decisioni. In tal senso si deve comprendere la rivendicazione del diritto a lavorare che da loro riconoscimento come soggetti sociali in grado di influenzare la società. Dall’altro lato, i bambini lavoratori in Italia non richiedono che sia fatto legge il loro diritto a lavorare e nemmeno vi sono movimenti di bambini e adolescenti che rivendicano i loro diritti o permettano ai minori di prendere coscienza della loro situazione di lavoratore. Non bisogna però negare che anche in questo ultimo paese, i bambini attribuiscano un significato positivo al loro lavoro e non solo dal punto di vista economico.

Il protagonismo infantile.

Con il sorgere dei movimenti di bambini e adolescenti lavoratori in Perù, e in generale in America Latina, assunse maggior vigore il discorso sul protagonismo infantile. Non esiste un concetto comune di protagonismo infantile, ma è una visione che contraddice l’idea di una infanzia obbediente ed esclusa, in favore di un concetto che considera i bambini come soggetti sociali con la capacità di agire e di trasformare la società.

L’infanzia è una costruzione culturale e sociale e non un fatto biologico o antropologico, per cui il bambino ha un’infanzia specifica e differente a seconda dell’epoca, della cultura e della classe sociale. In ogni società o cultura domina un certo concetto di infanzia o gioventù e ciò influisce sul modo in cui si trattano o si valorizzano i bambini, gli adolescenti o i giovani.

Il protagonismo infantile è qualcosa di nuovo e porta con sé un nuova visione dell’infanzia e ha le sue radici nella società contemporanea. Quando si parla di bambino come soggetto, si fa riferimento alla categoria filosofica che sorse, con la Rivoluzione Francese, in opposizione al sistema sociale chiamato feudalismo, che trattava gli essere umani come oggetto del potere, senza dignità e diritti individuali. In seguito alla Rivoluzione, sorse la rivendicazione dei diritti umani per ogni cittadino, dell’autodeterminazione, della libertà, uguaglianza e fratellanza; in tal modo si creò la visione dell’essere umano come soggetto sociale. La categoria di soggetto sociale però non fu applicata ai più piccoli, per i quali sempre si mantennero le norme del sistema feudale, protezione in cambio di obbedienza assoluta, separando così il mondo dei bambini da quello degli adulti, creando un mondo infantile privato ed escluso da qualsiasi forma di partecipazione e influenza sociale.

È certo che attualmente i bambini vivono nuovi rischi, ma la prospettiva di ottenere una vita degna, autodeterminata ed un ruolo più importante e influente nella società è una realtà che sta nascendo e che è già visibile.

Il protagonismo infantile, o la nuova infanzia, porta con sé un elemento importante: la partecipazione, che non è prevista nel modello ancora dominante di infanzia.

In un certo senso, i bambini sono sempre stati coinvolti nella produzione e riproduzione della vita e si sono formati assumendo responsabilità all’interno della famiglia.

Come in precedenza descritto, nelle cultura Inca i bambini realizzavano lavori in relazione alle loro capacità fisiche e psichiche ed erano valorizzati e rispettati come gli adulti. Ancora oggi si

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mantiene nella coscienza popolare una visione del bambino che condivide con gli adulti le responsabilità ed i lavori necessari.

Non bisogna dimenticare e nascondere che molti minori sono sottomessi allo sfruttamento e all’abuso e che sono costretti a lavorare in condizioni inadeguate per la loro età e contro la loro dignità di essere umano; solamente si vuole richiamare l’attenzione al fatto che da sempre sono stati elementi della vita quotidiana dei popoli che facilitarono la partecipazione dei bambini.

Poiché la partecipazione è un elemento essenziale del protagonismo infantile, si deve anche considerare la categoria di soggetto sociale, per cui la partecipazione non solo significa assumere un ruolo economico o delle responsabilità, ma fare tutto ciò un base a una libera decisione ed in condizioni che permettano di sviluppare una vita degna e autodeterminata.

Il protagonismo infantile si può dire sia composto da quattro elementi fondamentali. Il primo è di carattere antropologico, secondo il quale il bambino è scopritore del mondo sin dalla sua nascita: manifesta desideri, si articola come essere umano con delle necessità. Le qualità possedute dal bambino, però, vengono considerate come espressioni di immaturità che si devono superare ed è esposto a un processo continuo di negazione della sua soggettività, nel quale la creatività del bambino si va estinguendo. In tal modo si riducono le possibilità che si sviluppi come soggetto che si afferma in maniera propria. Nonostante ciò, le qualità del soggetto non spariscono del tutto, tornano ad emergere sotto diverse forme di espressione, stimolate da esperienze sociali. Appare, allora, il secondo elemento base del protagonismo: i bambini rispondo spontaneamente all’esclusione e negazione della soggettività e della dignità associandosi con altri bambini. L’istituzionalizzazione dell’infanzia, l’agglomerazione dei bambini in istituzioni specializzate con il fine di educarli, come per esempio la scuola, promuovono i processi di identificazione come gruppo d’età con interessi comuni. Molto spesso, però gli adulti, in famiglia ed in altri luoghi, pretendono che la loro autorità si imponga in modo assoluto, per cui i minori sono costretti a cercare alternative furi dalle istituzioni educative e dalla famiglia. È nelle città, principalmente in strada, che si formano gruppi spontanei nei quali si stabiliscono amicizie ed alleanze, per proteggersi in caso di pericolo o per conseguire la loro sussistenza giornaliera. Tentano di costruire all’interno del gruppo un ordine più giusto e un ambiente che permetta loro di sviluppare la loro soggettività e avere una vita più degna e sicura; ed è al ricerca di tutto ciò che li porta al protagonismo.

Il terzo elemento del protagonismo infantile consiste nell’erosione del ruolo dell’adulto che sorge dalla crisi del funzionamento e dell’autorità delle istituzioni tradizionali dedicate all’educazione e al controllo sociale dei bambini, in particolare della famiglia e della scuola. Nelle società contemporanee i bambini si trovano in precoce età all’interno di questo mondo e devono affrontare gli stessi problemi e rischi, ma hanno maggiori possibilità di ottenere informazioni e conoscenze che erano precedentemente un privilegio dei soli adulti.

Per ultimo, il quarto elemento del protagonismo si trova nell’esperienza lavorativa e nel fatto che ogni giorno sempre più bambini lavorino. Tutti i NATs sanno che su di loro pesano certe responsabilità e, anche per questo, molti di loro sviluppano una determinata serietà. L’esperienza del lavoro dà loro un’indipendenza più precoce non solo nel senso di disporre di denaro, ma di essere in grado di far fronte a situazioni difficili. In tal modo contribuiscono a dissolvere le subordinazioni di carattere paternalista, basate esclusivamente sull’età. Nei NATs sorge più

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facilmente la richiesta di essere rispettati, per giocare un ruolo più importante nella società e per ottenere relazioni di uguaglianza con gli adulti e le altre autorità tradizionali.

Il protagonismo infantile non è un risultato automatico di detti fattori e affinché si manifesti necessita di altri elementi, quali la presenza di spazi sociali dove il bambino possa comunicare ed esprimersi liberamente o il fatto che gli adulti che si impegnano a lavorare in questa realtà contribuendo a creare spazi e iniziative proprie dei bambini e degli adolescenti.

Il protagonismo infantile è qualcosa che è in continuo sviluppo e che può raggiungere livelli sempre maggiori. Esistono alcuni criteri per identificare i differenti livelli del protagonismo infantile:

Partecipazione: i bambini sono ascoltati e ciò che pensano viene preso in considerazione e hanno l’opportunità di influire sulla presa di decisioni e assumere responsabilità

Rappresentanza: le organizzazioni di NATs riuniscono veramente i bambini e si rivolgono a tutta la massa di minori lavoratori e vi è uguaglianza tra maschi e femmine.

Proiezione: i movimenti infantili sanno quali sono i loro obiettivi e come raggiungerli e hanno la capacità di elaborare proposte e alternative.

Solidarietà: tra i bambini esistono relazioni di mutuo rispetto ed esiste una cultura della convivenza.

Identità: i NATs si identificano come persone con propri interessi e diritti e si identificano come soggetti economici e sociali che contribuiscono allo sviluppo delle loro comunità e del loro paese.

Autonomia: i bambini possono pensare e associarsi liberamente senza intervento restrittivo o manipolativo degli adulti o delle istituzioni. Le organizzazioni infantili hanno delle proprie strutture e non dipendono da partiti o istituzioni. La questione dell’autonomia infantile è molto controversa e provoca molte polemiche da parte degli adulti perché determina un cambiamento fondamentale nel concetto dell’infanzia ed esige una trasformazione profonda nelle relazioni tra bambini e adulti.

Continuità: i bambini organizzandosi riescono a superare il limite che deriva dalle caratteristiche dell’infanzia come tappa limitata ad alcuni anni e il movimento crea pratiche, strutture e regolamenti che ne garantiscono la permanenza.

Con la presenza di questi criteri, non si vogliono stabilire regole che definiscono quando si ha protagonismo infantile o meno. Questo ultimo esiste sempre, ma si esplicita in base al contesto, agli atteggiamenti degli adulti nei confronti dei bambini ed a molte altre condizioni.

Il dibattito sul protagonismo infantile

Il dibattito in Perù sul protagonismo infantile, come già detto sorge alla fine degli anni 70, ed è relazionato alla nascita di movimenti sociali di NATs. Il concetto del protagonismo infantile è preso dal concetto di protagonismo popolare, il movimento che ha avuto un ruolo attivo nella lotta per la liberazione e per migliori condizioni di vita dei gruppi di popolazioni marginati e sfruttati (campesini senza terra, minoranze di indigeni, etc.). il pensiero unito a questa teoria è considerato come critica e alternativa ai concetti paternalisti e “sviluppisti” (in base alla cosiddetta “teoria della modernizzazione”), concetti che vedono i poveri e le minoranze come persone arretrare, poco civilizzate e culturalmente sottosviluppate. Come il protagonismo popolare esalta la l’importanza di

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queste classi arretrate, così il protagonismo infantile accentua le capacità e le esigenze dei bambini e degli adolescenti di svolgere un ruolo indipendente e influente nella società.

Il discorso sul protagonismo infantile in Perù è abbastanza esteso e sembra avere l’ampiezza del dibattito sui diritti dei bambini e questi ultimi contribuiscono in maniera diretta. Si possono differenziare due forme di protagonismo infantile: quello spontaneo e quello organizzato. Il primo appare nella quotidianità dei bambini e può essere individuale o di forma collettiva e si manifesta soprattutto nelle strategie di sopravvivenza messe in atto dai NATs. Il caso più comune sono i bambini che vivono per la strada e che devono mantenersi per proprio conto. A ciò si aggiunge la situazione in cui i bambini si ribellano contro trattamenti ingiusti in casa, esigono di essere presi sul serio e rispettati e il caso in cui devono occuparsi delle faccende di casa e devono lavorare per aiutare la famiglia.

La forma organizzata di protagonismo si ha quando i minori stabiliscono una relazione solidale per far valere i propri interessi e diritti. Un esempio sono i movimenti di bambini, creati e diretti dagli stessi, come il caso del MANTHOC. Il massimo livello di protagonismo organizzato si ha quando i movimenti hanno raggiunto un peso qualitativo e quantitativo nella società e possono influenzare le decisioni sociali e politiche riguardanti i minori.

Un’ulteriore discussione riguarda le precondizioni che favorirebbero il protagonismo. Secondo alcuni, il protagonismo infantile sarebbe il risultato di un intervento pedagogico, attraverso degli educatori adulti. I bambini sono considerati come esseri umani che ancora non dispongono delle necessarie capacità per confrontarsi con la loro realtà i modo adeguato e non possono risolvere i loro problemi senza l’aiuto degli adulti. Tali capacità verranno attribuite in parte in base all’età, in parte in base alle condizioni di vita dei bambini che non permettono loro di emanciparsi dall’influenza che li circonda. Gli elementi di formazione e la coscienza di se stessi possono essere trasmessi, secondo tale visione, solo attraverso persone capaci, vale a dire adulte, attraverso un processo educativo. Una variante di questa posizione sostiene che bisogna intendere il protagonismo infantile come un metodo di lavoro educativo, di conseguenza lo si riduce a una sorta di offerta ai bambini di assumere passo a passo, nell’ambito del processo educativo, responsabilità e iniziativa. In tal caso il concetto di protagonismo è frainteso e diventa una sorta di motivazione stimolante che proviene dagli adulti.

Secondo altri, invece, i presupposti del protagonismo sono dati dagli stessi bambini, in base alla loro realtà di vita quotidiana, anche se è necessario un quadro di condizioni culturali e sociali. Nella società peruviana, e in più in generale in quella latinoamericana, vi sono le precondizioni per il protagonismo infantile, soprattutto nel caso dei bambini lavoratori. Si considera che il protagonismo dei NATs sia dovuto a una combinazione di esclusione e di integrazione, che per i bambini può trasformarsi in una sfida per agire.

In generale, i bambini esigono delle relazioni più egualitarie con gli adulti e rivendicano più rispetto e più influenza nella società. Non lasciano che il protagonismo sorga in maniera automatica, ma offrono alla pratica pedagogica orientata al soggetto ed ai diritti dei bambini di stabilire relazioni e di rafforzarsi in maniera positiva.

Negli anni ‘70, anche in Europa Occidentale sono sorti alcuni discorsi che possono essere associati al tema del protagonismo infantile e che consideravano i bambini come un potenziale dato dalla natura per una società più umana. Gli aspetti centrali di tali discorsi mostrano dei punti in comune con il dibattito sorto in America Latina:

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• Entrambi mettono in questione la relazione gerarchica tra i differenti gruppi d’età, secondo la quale l’adulto sta sempre davanti al bambino.

• Affermano che il bambino possiede la qualità di soggetto “impegnato” con una capacità di agire.

• Sono d’accordo sul fatto che il bambino merita gli stessi diritti dell’adulto, vale a dire, il minore non deve essere privato dei diritti umani fondamentali a causa della sua minore età;

• Il bambino deve avere la possibilità di potere influenzare gli adulti e la società.

• Ritengono che l’infanzia abbia uno “status sociale”, che è condizionato dalla struttura sociale, politica, culturale e legale e che nella sua realizzazione, i bambini come gruppo sociale devono poter svolgere un ruolo sociale.

Tuttavia, il dibattito sulla “nuova infanzia” e il protagonismo infantile, mostra anche importanti differenze:

• In Perù si unisce la questione del protagonismo con la specifica maniera esistenziale del bambino. Nella maggioranza dei casi si presenta una relazione molto stretta tra il ruolo del bambino come “soggetto economico” e la formazione del suo protagonismo, soprattutto per i bambini lavoratori. In cambio, nei dibattiti sull’infanzia in Italia e nell’Europa Occidentale la questione del lavoro minorile non è rilevante e viene considerato essenzialmente come un problema da eliminare;

• In Perù si discute della questione del protagonismo prestando maggiore attenzione alle azioni reali dei bambini, differenziando tra protagonismo individuale o collettivo, spontaneo e organizzato. Al contrario in Italia quando si considerano i bambini come attori, si parla si essi come soggetti di una cultura infantile nella cui prassi si accentua soprattutto il livello non convenzionale e creativo.

• In Perù si unisce il protagonismo del bambino con i processi di cambiamento sociale diretti a superare le strutture autoritarie e paternaliste e le relazioni di sfruttamento. In Italia, la possibile influenza dei bambini è vista più nel senso di un “arricchimento culturale” degli adulti che apprendono dai bambini. Questi ultimi appaiono solamente in senso astratto come possibili “ribelli” e “innovatori” di condizioni sociali rigide.

In conclusione, il protagonismo infantile è qualcosa di più che l’oggetto di un interessante dibattito. In Perù è viva realtà che, oltre le numerose resistenze e difficoltà, si trova a uno stato avanzato, mentre in Italia e nell’Europa Occidentale è rimasto solo un dibattito senza particolari riscontri nella realtà.

Cultura dell’artificiosità e cultura della valorizzazione critica.

Il Perù e l’Italia hanno diverse culture del lavoro infantile, vale a dire diverse attitudini della società nei confronti del bambino che si responsabilizza ed agisce per la sua sopravvivenza e lo sviluppo economico-materiale della sua comunità di appartenenza.

Innanzitutto è da sottolineare che persiste il pericolo che il tema del lavoro minorile sia assunto da una prospettiva naturalizzante o da un’ottica di universalismo etico.

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Prospettiva naturalizzante significa che la relazione tra l’infanzia e il lavoro sarebbe sottoposta a leggi naturali, biologiche e immutabili. Di conseguenza si dimentica il carattere in gran parte storico e sociale della costruzione della categoria di infanzia.

Per universalismo etico, si intende l’attitudine di coloro che si presentano armati di un decalogo morale la cui validità è assoluta e non può relativizzarsi in base ai diversi contesti culturali. Il lavoro minorile, rappresenterebbe quindi, un fenomeno inaccettabile e tutta l’umanità a penserebbe in questo modo.

Questo universalismo sembra diffondersi nei paesi industrializzati quali l’Italia e nelle istituzioni internazionali, il cui obiettivo è l’eliminazione di qualsiasi forma di lavoro minorile.

Nel passato sia in Italia, (nel medioevo i minori che lavoravano nei laboratori artigianali) che in Perù (nella cultura Inka), sono esistiti contesti sociali che hanno assunto il lavoro minorile come un fenomeno non problematico e il lavoro dei minori nella attività che garantivano la sopravvivenza e la riproduzione non era percepito come una contraddizione con l’insieme delle condizioni ambientali. Si trattava di una cultura ecologica8 del lavoro minorile, che incorporava il lavoro dei bambini e degli adolescenti e viene percepito come un’espressione di un determinato sistema produttivo, di socializzazione, di valori e di relazioni sociali. Esistevano comunque situazioni di sfruttamento, maltrattamenti e violenza contro i bambini lavoratori.

Con lo sviluppo industriale ed i cambiamenti sociali, in Italia questa cultura ecologia è venuta meno, e il lavoro dei minori è diventato socialmente inaccettabile anche se il fenomeno del lavoro minorile continua ad essere presente e sembra aumentare continuamente.

La cultura dell’artificialità.

In Italia, come più in generale nella cultura occidentale, sembra prevale la cultura dell’artificialità, secondo la quale in queste società sembra esistere una contraddizione: mentre rifiutano come qualcosa di scandaloso e di eticamente inaccettabile il lavoro minorile, allo stesso tempo lo valorizzano in ambito pedagogico. All’interno della scuola (con i percorsi professionali, l’apprendistato ed i tirocini), il lavoro recupera tutto il suo significato positivo e diventa un importante strumento di costruzione della personalità e un momento di apprendimento teorico e pratico.

Si tratta, però di una contraddizione più apparente che reale; in effetti, si tratta di un lavoro artificializzato, non connesso con gli aspetti economico-produttivi e si tratta di una sorta di gioco pedagogico, di allenamento in un ambiente che non è quello lavorativo reale.

L’articolazione del discorso culturale implicito in questa cultura parte da una fondamentale non valorizzazione del lavoro minorile, considerato come un fenomeno sociale perturbante e negativo, ma allo stesso tempo, poiché nel futuro i bambini saranno adulti e dovranno lavorare, deve recuperare l’esperienza del lavoro, estraendola dal suo contesto sociale, pulendola da tutte le componenti che non siano compatibili con l’idea dominante di infanzia, subordinandola a una logica non economica bensì educativa e didattica e, infine, posticipando al futuro il confronto con l’esperienza del lavoro reale.

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Ecologia è una parola greca composta dal termine greco “eco” che significa ambiente e dal termine “logos” che significa logica, nel senso di razionalità, coerenza, funzionalità ed integrazione articolata e sistemica dei componenti di un discorso o di una pratica.

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In questo tipo di cultura vi è coscienza della contraddizione tra la non valorizzazione del lavoro minorile in relazione all’età infantile e la sua successiva valorizzazione con relazione all’età adulta. Vi è un nodo che non si può sciogliere, in quanto, non è possibile che solo il passare degli anni operi tale metamorfosi qualitativa in relazione al lavoro.

La cultura della valorizzazione critica.

In Perù, nonostante l’impegno del Governo di agire per l’eliminazione del lavoro minorile e la parte di società che considera il lavoro minorile come un problema, esiste una cultura della valorizzazione critica, data l’esistenza di un numero consistente di NATs, di cui molti si sono organizzati, hanno creato dei movimenti che rivendicano un diritto a lavorare e hanno adottato come principio fondamentale la valorizzazione critica del lavoro minorile.

Valorizzazione critica del lavoro infantile, per lo meno quelle manifestazioni che non ostacolano lo sviluppo psico-fisico del minore, significa valorizzare gli elementi positivi di un’esperienza lavorativa che forma parte integrante del processo di socializzazione di gran parte dell’infanzia peruviana. Essa rappresenta uno dei pilastri fondamentali del MANTHOC, insieme alla partecipazione dei bambini in qualità di soggetti attivi.

Si pone l’interrogativo se il lavoro minorile non possa giocare un ruolo funzionale non tanto solo nel garantire la sopravvivenza fisica, ma anche in un processo di rielaborazione e consolidazione di un’identità coesa, positiva, nel recupero di soddisfacenti livelli di autostima, nell’affermazione di un ruolo sociale che non sia tanto quello di una vittima più o meno protetta e posta sotto tutela.

La cultura della valorizzazione critica assume una posizione dialettica nei confronti del lavoro minorile, accettando la problematicità del fenomeno e confrontandosi con la tensione, mai risolta, tra due opposte polarizzazioni: da un lato l’elemento della coercizione, della violenza, dello sfruttamento; dall’altro lato, l’elemento della reazione individuale e collettiva contro la povertà e l’esclusione, l’elemento di una riattivazione dinamica che è stata definita come “risposta silenziosa” dei soggetti popolari e infine un orizzonte di esperienza e di socializzazione in cui si radicano identità, rivendicazioni, esperienze e progetti.

Ed è qui che la cultura della valorizzazione critica incontra i suo strumenti teorico-pratici più significativi. Sottolineare l’identità del bambino lavoratore, valorizzarla, trasformarla in un elemento di autostima, di conoscenza e riconoscimento personale e collettivo, elemento di inserimento sociale, di educazione e perfino di didattica; per ultimo, l’elemento di soggettività sociale, di organizzazione, di azione trasformatrice e di potere politico: tutto ciò apre orizzonti capaci di rompere gli schemi dell’assistenzialismo salvatore e del pietismo etico.

Valorizzare criticamente il lavoro minorile non significa, quindi, accettare lo sfruttamento ma, in primo luogo, valorizzare i bambini lavoratori in quanto potenziali attori di una critica ai meccanismi di ingiustizia, la loro emergenza storica, il loro diritto a essere riconosciuti come gruppo sociale. Un gruppo sociale il cui agire punta al cambiamento sociale e si fa premessa di un progetto politico innovatore.

Tale cultura, concludendo, assume il lavoro minorile come il luogo di una tensione dal quale nasce un progetto di ricostruzione alternativa della società e delle relazioni umane, progetto che gli stessi NATs costruiscono e che riconoscono come proprio a partire dalla scoperta di un ruolo, di una funzione economica e sociale, di una visibilità che il lavoro stesso garantisce loro.

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In conclusione, si deduce che il lavoro minorile non è relazionato semplicemente alla situazione economica e politica del paese, ma è fortemente radicato nella cultura e nelle tradizioni del passato. Di conseguenza non è possibile definire in maniera univoca il lavoro minorile come se fosse un fenomeno omogeneo, ma è necessario considerare la realtà di riferimento. Come si è visto le motivazioni ed i bisogni che conducono i minori a lavorare sono varie e differenti, in base quindi all’ambiente dove i bambini vivono la loro quotidianità.

Il discorso e la pratica della valorizzazione critica e del protagonismo infantile, rappresentano un cambiamento culturale avvenuto in Perù e in tutta l’America Latina, che ha preso forma dai vari movimenti creati alla fine degli anni ‘70 e che, con tutta probabilità, hanno costituito la base per dare inizio a questo cambiamento nel modo di intendere i rapporti con i bambini e gli adolescenti da parte degli adulti, nel cercare di dar maggior spazio d’azione ai minori e alle loro organizzazioni, proprio come lo hanno cercato e cercano i vari movimenti portati avanti dagli adulti, in quanto anche i primi, come fascia emarginata della società cercano di produrre un cambiamento che migliori la loro posizione. Essendo un cambiamento culturale, questo richiederà un lungo lasso di tempo, perché il tema del protagonismo ha iniziato a svilupparsi, ma è ancora poco diffuso.

In Italia, il periodo del movimento operaio e dei quelli giovanili della fine degli anni ‘60 non ha fornito la base per la nascita di organizzazioni di minori, anche se il loro lavoro era già un fenomeno manifestatosi da tempo, e forse perché la visione borghese dell’infanzia9, nata in Europa Occidentale e per cui l’infanzia è qualcosa di separato dal mondo adulto e significa solo protezione di un soggetto debole e indifeso, è fortemente radicata nella cultura e nel modo di pensare. Ciò non esclude il mettersi in moto di un cambiamento culturale nel senso di quello dell’America Latina, che possa dar vita a un maggiore coinvolgimento dell’infanzia nelle decisioni in ambito privato e pubblico; forse tale cambiamento inizierà, come nel caso del Perù, dall’ambito minori lavoratori o può darsi che prenda avvio in altri settori che lavorano o sono correlati con l’infanzia e l’adolescenza.

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