PREFAZIONE
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Inquadramento e obiettivi del lavoro.
Nella valutazione e nell’analisi del sistema italiano delle Autonomie
Locali, modificato in modo radicale alla fine degli anni Novanta – cui hanno
contribuito, in prima istanza le riforme “Bassanini” e, successivamente, sul piano della forma di governo regionale, le Leggi Costituzionali n. 1 del 1999
(con l’introduzione dell’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a Statuto
ordinario e dell’autonomia statutaria), la n. 2 del 2001 (elezione diretta dei
Presidenti delle Regioni a statuto speciale) nonché, sotto un profilo molto più
generale, la legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha sostanzialmente riscritto
l’intero Titolo V della Costituzione (dal riparto di competenze al principio di sussidiarietà, dall’allocazione delle funzioni amministrative al principio
dell’autonomia finanziaria) – è opinione largamente diffusa in dottrina che il
processo di riforma in senso federalistico del sistema istituzionale italiano, sia
da considerarsi un’opera perlomeno incompiuta1.
1
In particolare: B. CARAVITA secondo cui: “a conferma del fatto che si tratta di un lavoro mai portato a termine plasticamente stanno, da un lato gli artt. 10 e 11 dell’ultima legge di revisione costituzionale dove si fa rinvio a leggi costituzionali di adeguamento degli statuti speciali e ad una futura ulteriore revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, quella cioè del Parlamento; dall’altra la posizione assunta dall’attuale maggioranza, che si richiama e rinvia ad un più saldo e forte federalismo, obiettivo a cui lavorare con nuove norme di revisione costituzionale” in La Costituzione dopo la riforma
del Titolo V – Torino, 2002 pag. 3. F. PIZZETTI, La ricerca del giusto equilibrio tra uniformità e differenza: il problematico rapporto tra il progetto originario della Costituzione del 1948 e il progetto ispiratore della riforma costituzionale del 2001 in Le
Incompiutezza che si qualifica, da una prima lettura delle opinioni e
delle riflessioni degli addetti ai lavori, come l’elemento comune, la costante, la cifra di lettura dell’intera riforma, la sintesi che caratterizza e accomuna tra
loro le pur numerose, differenti e per differenti motivi, posizioni critiche, in
generale, verso il nuovo e complessivo sistema delle Regioni e degli Enti
Locali del nostro Paese, in particolare nei confronti del nuovo Titolo V, la
principale, importante e complessa riforma costituzionale della storia
repubblicana.
Un sistema, quello nato dall’azione del legislatore costituzionale del
2001, erede della stagione riformistica di fine millennio la quale ha avuto la
propria formale consacrazione e legittimazione con l’approvazione del nuovo
testo costituzionale mediante il ricorso, per la prima volta nella storia della
Repubblica, al referendum costituzionale previsto dall’art. 1382.
Ed in realtà non manca chi, dell’impostazione del nuovo Titolo V, ne
evidenzia l’ambiguità per il fatto che essa ha sì rovesciato il modello originariamente presente, “ma non ha chiarito il criterio per ordinare il
Regioni n. 4/2003 pag. 612 per il quale “Il primo problema che questa riforma pone riguarda
innanzitutto il suo stesso completamento, inteso come completamento di un processo di revisione costituzionale da considerarsi ancora non esaurito”.
Ancora F. PIZZETTI, Evitare di mettere vino nuovo in otri vecchi: la XV legislatura e
l’attuazione del Titolo V in Le Regioni n. 5/2006, pag. 867, individua sia nella “dichiarata
volontà di procedere a una nuova e più ampia riforma costituzionale” sia nella “sostanzialmente non esercitata attività delegata contenuta nella L. n. 131 del 2003” (c.d. legge La Loggia) i motivi dell’inattuazione costituzionale.
2
Sul tema FERRI, L’ambivalenza del referendum sulla revisione del Titolo V in Quaderni
sistema”3, o chi ne pone in luce la scarsa funzionalità agli scopi prefissati individuando, ad esempio, nella mancata previsione di una Camera delle Regioni, in cui trovino sintesi i diversi interessi territoriali, un limite
fondamentale per il perseguimento di un federalismo “o anche solo di un
regionalismo avanzato4”, sottolineando, contestualmente, la necessità di
“attuare e correggere la riforma, attraverso un’opera di implementazione e
integrazione della stessa da prodursi con continuità”5.
Ancora, se ne sottolinea lo scarso respiro europeistico, ricordando criticamente come i pochi e confusi richiami al tema dei rapporti tra lo Stato,
le Regioni e l‘Unione europea non siano supportati da una “disposizione
generale sull’Europa”, facendo sì “che la pur recentissima disciplina non possa
che risultare quale una tappa verso una migliore definizione complessiva della
materia”6.
Si equipara la riforma ad una semplice legittimazione, ex post, di
fenomeni autonomisti peraltro già esistenti nella società7 (per quanto in effetti
3
MORRONE La Corte Costituzionale riscrive il Titolo V in Quaderni Costituzionali n. 4/2003 pagg. 818 ss. In proposito anche MERLONI, Il paradosso italiano: “federalismo”
ostentato e centralismo rafforzato in Le Regioni n. 4/2005 pag. 469 ss.
4
Così T. E. FROSINI, A proposito dell’indagine parlamentare sul Titolo V della
Costituzione in Rivista Giuridica del Mezzogiorno n. 4/2002 pag. 1458.
5
Ibidem.
6
CHITI Regioni e Unione europea dopo la riforma del Titolo V della Costituzione:
l’influenza della giurisprudenza costituzionale in Le Regioni n. 6/2002 pag. 1423.
7
F. PITRUZZELLA, Sul federalismo all’italiana nel progetto di revisione costituzionale in
Le Regioni n° 1/2000, pag. 9 secondo cui “la Costituzione non avvia il processo di
tale operazione non sembri apparire astrattamente del tutto fuori luogo o
completamente errata in ragione del susseguirsi e del nascere delle dinamiche e delle istanze sociali che a volte hanno l’effetto, se non anche il merito, di
anticipare o di dare l’indirizzo corretto alla futura previsione normativa),
rimproverando ad essa, contestualmente, la mancata creazione di un quadro
generale omogeneo8.
Se ne rimarca la paradossalità nel momento in cui attribuisce alle
regioni a Statuto ordinario un’ampia libertà e l’autonomia statutaria, mentre alle “regioni differenziate […] non è stata riconosciuta la potestà di darsi uno
statuto, cioè una loro legge fondamentale”9, seppure – con riferimento allo
politica e dell’economia, ma consacra formalmente le trasformazioni già avvenute, le stabilizza e le consolida, ne trae ulteriori conseguenze e implicazioni”.
8
In proposito A. D’ATENA, La Riforma dell’ordinamento regionale – Le modifiche al
Titolo V della parte seconda della Costituzione – Atti del Seminario di Roma del 29 settembre 2000 – Milano 2001 pag. 30 : “La prima impressione che la lettura di questo
progetto suscita è che esso non sia sostenuto da una chiara filosofia istituzionale […] potrebbe dirsi un progetto “senza volto”; sprovvisto, cioè, di una fisionomia che lo caratterizzi”. Così anche P. CARETTI, La faticosa marcia di avvicinamento ad un assetto
razionale del regionalismo italiano in Le Regioni n. 5/2000 pag. 796 che parla di una
riforma a luci e ombre, queste ultime dovute a nodi che “neppure in questa occasione si è riusciti a sciogliere in modo coerente in un disegno complessivo che pure […] avrebbe potuto facilitarne la soluzione”.
9
F. CUOCOLO, La nuova potestà statutaria regionale in Quaderni Costituzionali n. 2/2003 pag. 296. Non attenuano il paradosso, secondo l’autore, neanche le disposizioni che la legge costituzionale 31.gennaio del 2001 n. 2 opera sugli statuti speciali “per adeguarle alle nuove discipline dettate per le regioni di diritto comune. Il che se, nel merito, avvicina notevolmente la normativa relativa ai due tipi di regioni, resta pur fermo, e ormai ingiustificato, che gli statuti speciali sono leggi dello Stato e non fonti di autonomia regionale”.
Sul tema dei rapporti tra regioni ordinarie e regioni a statuto speciale, che si affronterà in seguito più dettagliatamente T. E. FROSINI, La differenziazione regionale nel regionalismo
Statuto della Regione Sarda prima della modifica operata dalla dall'art. 3,
L.Cost. 31 gennaio 2001, n. 2. – al Consiglio Regionale della Sardegna o al popolo stesso, nella misura di ventimila elettori, spettasse in via principale
“l’iniziativa di modificazione” ai sensi dell’art 5410, (iniziativa che, a seguito della riforma, è diventata invece per la Regione in via residuale, operando
sostanzialmente il medesimo tipo di inversione funzionale di competenze
realizzato nell’art. 117 della Costituzione relativamente alle materie a potestà
esclusiva o concorrente)11.
Si sottolinea, infine, come essa si sia trovata a maturare fino al 2006
nella “ben strana contingenza istituzionale di dover essere attuata da una parte
politica che non l’ha voluta, mentre l’area politica che l’ha promossa si trova
all’opposizione”12.
CARETTI, La faticosa marcia di avvicinamento ad un assetto razionale del regionalismo
italiano op. cit. pag. 797 ss.
10
L’art. 54 comma 1 dello Statuto speciale per la Sardegna era così formulato “L’iniziativa di modificazione del presente Statuto può essere esercitata dal Consiglio regionale o da almeno ventimila elettori”.
11
L’attuale formulazione dell’art. 54 dello Statuto sardo recita ora: “Per le modificazioni del presente Statuto si applica il procedimento stabilito dalla Costituzione per le leggi costituzionali. L'iniziativa di modificazione può essere esercitata anche dal Consiglio regionale o da almeno ventimila elettori”.
12
B. CARAVITA, La Costituzione dopo la riforma del Titolo V op. cit. pag. 147 che sottolinea che l’opposizione si trova nella condizione di “non fasi legittimamente carico dei problemi di equilibrio istituzionale”. Ed in effetti la libertà di non condividere l’impostazione o le finalità di una qualsivoglia riforma modificandone i meccanismi o non attuando quelli già esistenti è pienamente, rimanendo beninteso nell’alveo delle norme, è pienamente legittima. In realtà a tale rilievo si potrebbe però concettualmente obiettare mutatis mutandis il ragionamento di PUFENDORF, De iure naturae e gentium, VIII, x, 8 secondo cui c’è comunque un momento nel quale “i discendenti sono obbligati dagli atti dei loro
Siffatte considerazioni lascerebbero supporre che l’allora “fortemente
auspicabile”13 approvazione del testo costituzionale da parte del Parlamento, (onde evitare un’ impasse che avrebbe comportato la vanificazione di tutti gli
sforzi di riforma), sia stata in realtà una pericolosa forzatura sul piano
metodologico, perché il sistema, nonostante la riforma, da un lato non è ancora
pienamente compiuto, dall’altro presenta numerosi margini di criticità.
Accanto, cioè, ad un’incompiutezza nel merito delle nuove disposizioni
costituzionali, si coglierebbe un percorso non lineare e chiaro per ciò che attiene il metodo utilizzato.
Ed invero vi è stato chi, come ricordato14, non si è limitato a criticare o anche ad approvare una particolare norma o disposizione piuttosto che
un’altra, ma ha messo in discussione, anche indirettamente, il processo stesso
attraverso il quale si è arrivati alla riforma, attribuendo ad essa un carattere
essenzialmente ratificatorio di mutamenti sociali e politici già avvenuti,15 che
predecessori […] nel caso in cui qualcuno abbia acquisito un diritto attraverso quest’atto”. Il problema a questo punto è capire se dalla riforma del Titolo V sia nati o meno diritti nei confronti dei diversi attori istituzionali.
13
Così PINELLI, La riforma dell’ordinamento regionale, op. cit. pag. 36.
14
Cfr retro nota 6.
15
Secondo F. PIZZETTI, Il sistema delle conferenze e la forma di governo italiana in Le
Regioni, n. 3 – 4 /2000 pag. 477: “la questione costituzionale oggi aperta nel nostro Paese
nasce non tanto (e comunque non più soprattutto) dalla necessità di modificare la Costituzione per dare una risposta al bisogno di innovazione e di modernizzazione del sistema politico, istituzionale e ordinamentale quanto piuttosto (e ormai soprattutto) dalla
nuova necessità di adeguare la Costituzione a mutamenti gia intervenuti […] non solo sul
piano politico ed istituzionale […] quanto a mutamenti intervenuti all’interno dell’ordinamento in modo massiccio, e spesso attraverso innovazioni e modificazioni delle fonti subcostituzionali disassate rispetto al quadro costituzionale formale”. Di parere analogo
– come ricordato e per le motivazioni espresse in precedenza (infra pag. 3-4)
non appare – accanto a chi, più esplicitamente, ha ritenuto (e ritiene tuttora) che una parte considerevole della legislazione costituzionale sia stata “dettata”
direttamente dall’opinione pubblica16. Si è sottolineata la gravità17 della modifica (affrettata) di ben 17 articoli della Costituzione con una maggioranza
risicata e, per di più, sul finire della legislatura e chi, infine, si è spinto
addirittura a parlare di “delegittimazione della Costituzione”18 per il fatto che la riforma della Carta Costituzionale non abbia preceduto ma seguito, le
nella stessa rivista VIOLINI, “Considerazioni sulla riforma regionale” pag. 630-631. Ancora F. PIZZETTI, Relazione ne Il processo riformatore della XIII legislatura in Le Autonomie
territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale – Atti del Convegno di Roma del 9 gennaio 2001 – Milano 2001, pag. 35 ritorna sul punto più dettagliatamente
criticando il testo della riforma del Titolo V dal cui confronto con il processo riformatore della Bicamerale “si può restare facilmente delusi e in qualche modo anche amareggiati”. Se nella Bicamerale si era dato avvio ad un “processo riformatore a tutto campo, collegando insieme la riforma dei rapporti tra Stato, regioni e autonomie locali con la riforma del sistema del governo e dell’amministrazione centrale, e queste due riforme con la riforma complessiva dell’amministrazione pubblica italiana” il testo approvato “tocca solo il rapporto tra stato e soggetti periferici” “perde di smalto e assume una opacità che la sua natura di testo di revisione costituzionale non basta a nascondere e che, anzi, caso mai esalta”. Pur non ritenendo inaccettabile tale risultato, in quanto già in premessa aveva rinunciato ad essere di “carattere progettuale”, l’autore dà ad esso un carattere “stabilizzatore e razionalizzante l’esistente già in atto”.
16
Cfr. DOGLIANI, La legislazione costituzionale in Rivista trimestrale di diritto pubblico n. 4/2001 pag. 1040. La responsabilità, secondo l’autore, è da rinvenirsi anche nella scienza giuridica, ed in quella costituzionale in particolare, che “considera unico soggetto degno di studio la giurisprudenza, mentre la legislazione è considerata affare contingente”.
17
Così CHIAPPETTI, Un passo indietro sulla via del regionalismo in Quaderni
Costituzionali n. 2/2001 pag. 343. Ma a contrario sulla stessa rivista R. BIN, Riforme costituzionali a colpi di maggioranza: perché no?, pag. 341.
18
PANUNZIO, intervento ne il processo riformatore della XIII legislatura in Le Autonomie
territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale – Atti del Convegno..
disposizioni normative delle leggi del 1997, appiattendosi sostanzialmente su
di esse.
Al contrario, non sono mancate le posizioni di chi ha applaudito o, per
lo meno, assolto la metodologia seguita dal legislatore costituzionale ed
ordinario nella XIII legislatura.
Un esempio in tal senso, è la considerazione di chi pensa che lo
sviluppo di una concreta cultura autonomistica, nonché la trasformazione e
costruzione di un sistema statuale anch’esso fortemente autonomistico, non possano che essere il risultato di “acquisizioni in progress, anche a livello
costituzionale, piuttosto che di un unico intervento (taumaturgico) in sé
esaustivo e risolutivo”19.
Unitamente a tale riflessione si accompagna, generalmente, una
valutazione positiva su un altro effetto che la riforma del Titolo V ha
indubbiamente determinato: la stabilizzazione e la legittimazione
costituzionale di norme ed orientamenti esistenti, che vengono viste allora come necessarie20 nel momento in cui danno copertura costituzionale alle
19
Così. G. DE MARTIN, Quali autonomie e quale unità della Repubblica in Le Autonomie
territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale – Atti del Convegno..
op. cit. pag. 20.
20
Cfr. F. SCUDIERO, intervento ne Il processo riformatore della XIII legislatura in Le
Autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale – Atti del Convegno..op. cit. pag. 52. In verità lo stesso F. PIZZETTI, La Riforma dell’ordinamento regionale – Le modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione – Atti del Convegno op. cit. pagg. 42 ss. “ pur ribadendo l’ambiguità del testo del nuovo Titolo V che
si presta ad essere considerato contemporaneamente sia“una ripresa di un metodo orientato a procedere per riforme organiche e dotate di intrinseca coerenza” sia “come la continuazione del metodo delle riforme settoriali e parziali, ma di alto valore sistemico” non nega l’importanza della funzione stabilizzatrice della riforma che, con l’instaurazione di un
riforme amministrative Bassanini del 1997 le quali, pur essendo riuscite ad
essere sostanzialmente conformi alle disposizioni della costituzione vigente, lasciavano “più di un dubbio sulla esatta corrispondenza, a tali disposizioni,
dei contenuti della legge 59 e degli atti di legislazione conseguenti”21.
L’impressione che può trarsi da una così vasta varietà di posizioni, fa
capire quanto, realmente, il processo riformatore in senso autonomistico e
federalistico del nostro Paese, sia stato per nulla agevole.
Tra la ridda di posizioni ed interpretazioni, quella che appare più convincente e che pare emergere con maggior convinzione sia dalle
considerazioni e dalle perplessità dei tanti critici, sia dal plauso – in realtà mai
entusiastico – dei sostenitori della riforma, anche con l’intento di fugare dubbi
sulla strumentalità delle riforme22, appare allora quella secondo cui il corretto
rapporto più diretto tra le regioni, le autonomie e il Parlamento “sicuramente aiuta ad avvicinarci all’obiettivo di un’organizzazione costituzionale più coerente con un rafforzamento del ruolo delle regioni e dei governi locali”.
21
Ancora F. SCUDIERO, intervento ne Il processo riformatore.. op. cit. pag. 52
22
Un’autorevole ricostruzione delle vicende attuative e riformatrici della Costituzione in relazione al contesto storico e alle esigenze degli allora attori dei processi politici è operata da A. PIZZORUSSO, L’uso politico della Costituzione nella storia italiana in La
Costituzione ferita, Roma – Bari 1999 pag. 3 ss. Vi è un’ampia letteratura sul tema
dell’opportunità (e ormai sulla prassi) di compiere le riforme anche senza il consenso dell’opposizione. Si segnalano tra gli altri A. BARBERA (intervista con) in Sull’attualità
della Costituzione – Roma 2004, pag. 89 ss: “E’ necessario invece che si superi la ricorrente
tentazione di utilizzare la revisione della Costituzione come strumento di lotta politica” . Ancora G. ZAGREBELSKY, Il futuro della Costituzione – Torino 1996, pag. 296 considera una “improbabile provocazione” il ricorso alle maggioranze ex art. 138 Cost. ritenendolo comunque “un punto di equilibrio intermedio tra la maggioranza unilaterale e la logica del compromesso”. In particolare secondo V. ONIDA, Il mito delle riforme costituzionali in Il
Mulino n° 1/2004, pag. 18 ss. la riforma del Titolo V varata alla fine della XIII legislatura
passaggio da un sistema di “autonomie locali” (quale quello disegnato dalla
Costituzione del 1948 che, seppure abbia “finito con l’accogliere il principio autonomistico, dandogli con maggiore o minore consapevolezza, la più ampia
estensione”23 si fonda comunque sempre sul riconoscimento e sulla
promozione delle stesse autonomie da parte della Repubblica e sull’attuazione del più ampio decentramento amministrativo per l’erogazione dei servizi che
dipendono dallo Stato ai sensi dell’art. 5 della Costituzione), ad un nuovo
sistema “autonomistico” (quando non addirittura ad una vera e propria forma di stato di tipo federalistico), debba avvenire inevitabilmente tramite un
intervento normativo, sia di natura costituzionale che di natura legislativa e
regolamentare, di ampio respiro, omogeneo e sistematico. Sorvolando sul
dibattito, invero mai sopito in dottrina24, se nel nostro ordinamento una
stessa legislatura da un consenso più ampio” non costituisce “un bel precedente” anche in considerazione dell’approvazione da parte di un referendum “scarsamente sentito dagli elettori”.
23
G. BERTI, Art. 5 in Commentario della Costituzione, Bologna, 1975 pag. 285. Secondo l’autore ciò che più rileva è che la Repubblica “si impegna a informare la propria legislazione, e quindi la sua presenza più qualificante, ai principi e ai metodi dell’autonomia”.
24
Esplicitamente per la tesi dell’impossibilità di una modifica radicale della Costituzione tramite l’art. 138 ad esempio: P. BARILE, Tra Costituzione e Riforme – scritti e interviste, Firenze 2001, pag. 52: “ l’art. 138 della Costituzione […] non legittima in alcun modo un mutamento totale della Costituzione”; con ancor più dettaglio P. BARILE – U. DE SIERVO, voce Revisione della Costituzione in Novissimo Digesto Italiano pag. 778, secondo i quali il potere di revisione della Costituzione è un “potere di ordine superiore a quello normativo ordinario ma limitato per sua natura rispetto a quello costituente: è inammissibile concepire, ammessa la Costituzione come formula che tende a stabilizzare nel tempo un certo regime, che quest’ultimo possa mutare per un atto dello stesso ordinamento senza che ciò sia in realtà non tanto un’espressione del potere di revisione quanto una nuova manifestazione del potere costituente”; A. PACE, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi,
qualsiasi riforma Costituzionale debba rispettare, oltre che la necessaria
procedura prevista dall’art. 138, anche l’ulteriore condizione, che andrebbe a configurarsi come un vero e proprio vincolo giuridico, di essere puntuale e
limitata, (di andare cioè a modificare esclusivamente singole disposizioni normative) o se sia possibile, al contrario, uno actu modificare organicamente
una materia e, conseguentemente, l’intero impianto costituzionale ad essa
collegato, appare del tutto evidente che un così vasto e incisivo intervento di
chirurgia costituzionale non possa avere il successo sperato qualora si proponga di essere esclusivamente il risultato dell’iniziativa legislativa,
benché legittima, della maggioranza parlamentare di turno che la promuova in
funzione delle proprie finalità politiche ed elettorali25; di una maggioranza, cioè, che compisse le proprie scelte, e procedesse alla modifica di delicati
meccanismi costituzionali, senza porsi ab origine l’obiettivo di trovare un
Padova 1997 pag. 126: “il procedimento speciale di revisione[…] non costituendo il fondamento della rigidità costituzionale, ha invece […]lo scopo di garantire la durata, nel tempo, della costituzione stessa”. Di parere contrario PANUNZIO, Il metodo e i limiti della
riforma costituzionale in G. AZZARITI (a cura di) , Quale riforma della Costituzione?, pag.
339: “l’impedimento a riforme organiche uno actu non discende da un limite logico o comunque coessenziale ed implicito del potere di revisione: è un limite che se c’è è stabilito dal diritto positivo”. Prende invece atto dell’impossibilità di una rifondazione costituzionale F. PITRUZZELLA, Modelli istituzionali e riforma della Costituzione perché “manca un soggetto che abbia la forza politica necessaria ad esercitare con la sua volontà un vero potere costituente” e pertanto “l’unico spazio politicamente disponibile è quello degli aggiustamenti, delle integrazioni, delle modifiche di parti circoscritte del testo costituzionale”.
25
In questo senso anche V. ONIDA, La Costituzione – Bologna 2004, pag. 124 ss. Che evidenzia come “la scomparsa o la trasformazione dei partiti storici e la nascita di nuove formazioni su basi spesso interamente nuove, ha aperto la strada ad esperienze politiche i cui sviluppi e i cui esiti sembrano indicare più i pericoli che i vantaggi delle vagheggiate riforme costituzionali”.
ampio consenso nel Paese (o per lo meno tra la generalità delle forze politiche)
sulle modifiche da introdurre, coltivando, contemporaneamente, l’ambizione di farle durare nel tempo e di essere funzionali e coerenti, anche in fase di
attuazione, con il sistema costituzionale vigente.
Tale affermazione è ancor più vera se si riflette su due aspetti non
secondari della nostra storia politica e costituzionale.
Il primo è che, nel nostro Paese, il progressivo passaggio da un sistema
politico sostanzialmente bloccato26, quale era fino al 1992, a quello fondato sul principio della “democrazia dell’alternanza”, complici anche l’improvvisa
scomparsa dei grandi partiti di massa organizzati e l’introduzione, non
indolore, di una legge elettorale di tipo maggioritario, ha dato vita alla nascita
di blocchi politici contrapposti e ad un sistema bipolare fortemente rigido, nel
quale, l’alternarsi per davvero delle maggioranze con sistematica, ed in parte
prevedibile, regolarità, non permette alle forze politiche di durare al governo,
nel migliore dei casi, per più di una legislatura.
Il secondo aspetto è che, essendo il nostro un impianto costituzionale
complesso, frutto di un processo di mediazione e di un vero e proprio
compromesso costituzionale tra le forze politiche della Costituente, sono
innumerevoli i meccanismi, le funzioni, le regole e i procedimenti
amministrativi e giurisdizionali sui quali andrebbe inevitabilmente, ed
invasivamente, ad incidere una riforma costituzionale da attuarsi, per di più, ad
26
FERRAIOLI, Democrazia e Costituzione in Il futuro della Costituzione, op.cit. pag. 315 ss, il quale parla della transizione italiana dalla prima alla seconda Repubblica come di un vero e proprio “caso italiano”.
opera di una maggioranza politica che, nel frattempo, è cambiata per effetto
dell’alternanza e che, come nel caso della modifica del Titolo V, tale riforma costituzionale, come ricordato27, non ha voluto e della quale non ha condiviso lo spirito.
Se a ciò si unisce la pigra e lenta attuazione costituzionale con la quale,
sia la stessa Carta del 1948 che le sue successive riforme, sono andate
storicamente a scontrarsi28, unitamente ad una progressiva perdita di
27
Infra, nota 10
28
L’attuazione delle disposizioni costituzionali è da sempre un problema ed un limite del sistema italiano. Dura ma emblematica è l’accusa mossa al primo Parlamento repubblicano, per l’inattività sul piano dell’attuazione della neonata costituzione da parte di P. CALAMANDREI, che si rinviene in “L’inadempimento costituzionale” contenuto da La
Costituzione e le leggi per attuarla – I discorsi dell’avvocatura a cura del Consiglio
Nazionale Forense – Milano 2000 pag. 25: “il periodo legislativo che va dal 18 aprile 1948 al 7 giugno 1953 passerà alla storia come il quinquennio dell’inadempimento costituzionale: e, a voler meglio specificare i caratteri di questo inadempimento, si dovrà concludere (come si vedrà) che si è trattato in gran parte di inadempimento voluto, cioè, si direbbe nel linguaggio civilistico, doloso”. Autorevole dottrina, per tutti G. BERTI, Interpretazione
costituzionale, Padova 2001 pagg. 20 ss, ritiene che le ragioni di tale fenomeno si ritrovino
anche e soprattutto nel fatto che i costituenti, seppur chiamati ad essere interpreti del nuovo spirito repubblicano, a causa della loro formazione culturale tipicamente ottocentesca che li portava ad avere una visione della Costituzione come di una carta regolatrice della potestà statale, abbiano però nutrito diffidenze e repulsioni verso le disposizioni più innovatrici della Costituzione stessa, consegnando al legislatore, e ai partiti politici in particolare, non esclusivamente disposizioni di immediata efficacia ma anche vere e proprie norme programmatiche tali che “l’attuazione costituzionale fu così assai lenta, piena di rimandi e contrassegnata da indici di poca affezione verso i principi innovatori, quasi che questi non fossero il contenuto più profondo del rapporto tra la società e la gestione politica”.
Sul tema è netta la posizione di A. PIZZORUSSO, Sistema istituzionale del diritto pubblico
italiano, Napoli 1992, pag. 100 ss, che pone il problema di come in realtà l’inattuazione
costituzionale sia fortemente in relazione al fatto che”che i poteri normativi del governo si sono assestati su linee non molto lontane da quelle stabilite dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100, nonostante che questa fosse stata una di quelle che avevano maggiormente caratterizzato in senso autoritario il regime anteriore […] e le norme di principio contenute nella prima parte d’altronde, avrebbero dovuto comportare un generale ripensamento della
autorevolezza normativa da parte di un Parlamento affetto, quasi da sempre,
dal preoccupante fenomeno conosciuto come “crisi della legislazione”29 – il fenomeno cioè di un’azione normativa finalizzata, con sempre maggiore e
poco virtuosa propensione, a legiferare per il quotidiano30 e con troppo particolarismo31 piuttosto che per l’esecuzione di quel ruolo di rappresentante e di “depositario delle grandi scelte politiche32” – non può che condividersi la conclusione per cui la modifica di un’intera materia (ed il sistema complessivo
legislazione anteriore, la quale restava per il momento in vigore, dato che la Costituzione si ispirava ad orientamenti diversi da quelli propri di questa se non addirittura opposti”.
29
Sul tema MIGNONE (a cura di), La crisi della legislazione – studiosi e politici a
confronto, Padova 1997. Di particolare interesse l’intervento di G. AMATO, pag. 5 secondo
il quale “la crisi della legislazione” nasce dalla “crisi della legge” che a sua volta è figlia, principalmente ma non esclusivamente, del fenomeno della perdita progressiva di quelle caratteristiche di generalità e di astrattezza (secondo la teoria tradizionale) che la dovrebbe contraddistinguere. Infatti, continua l’autore, se esiste il problema della crisi della legge “non è di per sé nella legge-compromesso, non è di per sé nella legge differenziata, non è di per sé nella pluralità delle fonti legislative, ma può facilmente scaturirne se ed in quanto, […] le diversità di cui la legge è destinata a farsi portatrice nella società pluralista non sono riconducibili ad un terreno comune a tutti, a un terreno accettato da tutti”.
30
Pertinente, in proposito, appare l’osservazione fatta da V. ONIDA, La Costituzione op.cit., pag. 124: “nei periodi, infatti, in cui i programmi politici concreti procedono verso la loro attuazione, l’attenzione al tema delle riforme costituzionali in genere diminuisce”.
31
Si riporta il giudizio di DE LISO, La delegificazione: problemi e prospettive in
Democrazia e diritto, 1986, pag. 7 già citato da COCOZZA, La delegificazione. Modello legislativo – Attuazione, Napoli 1998 pag. 67: “E’ largamente condivisa la convinzione che il
Parlamento fa troppe leggi, spesso tecnicamente carenti, comunque troppo dettagliate, invasive in tal modo degli ambiti propri dell’amministrazione centrale e locale delle varie autonomie. Conseguenze negative di questa ormai radicata tendenza risulterebbero: sovraccarico di lavoro ed ingolfamento del Parlamento; scarsa flessibilità normativa; incentivo alla decretazione d’urgenza; accentuata penetrazione di microinteressi in Parlamento; degrado del sistema delle autonomie; deresponsabilizzazione dell’amministrazione”.
32
dei rapporti tra lo Stato centrale e le Autonomie locali lo è senza dubbio)
dovrebbe dunque configurarsi, se non come la manifestazione normativa di un potere costituente ordinario o straordinario del Parlamento (funzione sulla
quale la dottrina non è concorde33), per lo meno come il risultato di un ordinato, organico, coerente e logico processo riformatore che presupponga un
altrettanto necessario progetto preliminare di riforma costituzionale.
Condizione, quest’ultima, assolutamente necessaria ma non sufficiente
e che non porrebbe la riforma, comunque, al riparo da situazioni, anche forti, di criticità se si concorda, ed è difficile non farlo, con chi ritiene che ogni
norma costituzionale “è in realtà un’esperienza complessa, costituita al tempo
stesso di elementi formali e materiali […] che manifestano la loro capacità
ordinante nel tempo attraverso il filtro dell’elaborazione giurisprudenziale e
dell’attuazione legislativa”34. 33
A. PIZZORUSSO, Art. 138 in Commentario della Costituzione, Bologna 1981, pag. 138 parla specificamente di Parlamento come depositario di un potere costituente ordinario. Si veda anche POMBENI, Potere costituente e riforme costituzionali, Bologna 1992 pag. 104 che, nell’interpretazione del pensiero di La Pira durante l’Assemblea Costituente individua nella carta fondamentale un “atto di fondazione di una sorta di potere costituente prolungato nel consegnare alla tradizione futura delle politica un compito permanente sull’evoluzione sociale”. Di parere contrario G. ZAGREBELSKY, La revisione della Costituzione in NEPPI MODONA (a cura di) Stato della Costituzione, Milano 1995 pag. 465 secondo cui il potere di revisione ed integrazione della Costituzione “non è un prolungamento o una riproduzione del potere costituente, ma soltanto un potere costituito”, e che “il potere costituente è un potere straordinario e irripetibile, che soltanto in condizioni storiche particolari riesce a fondare uno actu l’unità politica e l’ordinamento giuridico”. Prosegue l’autore fino ad affermare che “la stessa Assemblea Costituente si è sciolta per dare luogo all’ordinaria vita costituzionale delle assemblee legislative e , almeno secondo la Costituzione vigente, non esiste alcuna possibilità di richiamarla in vita e di riconvocare una nuova assemblea costituente”.
34
Così D’ALOIA, Regioni e ordinamento della giurisdizione nel nuovo disegno
Ciò nondimeno, gli interventi normativi sul Titolo V e sul sistema dei
rapporti centro – periferia, ad un’analisi più attenta, sono stati compiuti e, pur nella loro episodicità, paiono comunque convergere e rispondere ad un
disegno, non si sa quanto voluto, chiaro e nel suo complesso sostanzialmente
coordinato e coerente.
Appare suggestiva, in proposito, la ricostruzione operata da Vandelli, il
quale, condividendo le opportunità della costruzione di un percorso
federalistico a tappe35, vede nell’elezione diretta del Presidente della Regione, unitamente all’autonomia statutaria (1999), nella differenziazione per
competenze e per assetti (2001), e nel futuro Senato federale insieme alla
nuova Corte Costituzionale, le tre fasi di quell’auspicato percorso che
comunque, già ora, avrebbe una propria omogeneità funzionale.
Ci troveremmo pertanto, secondo questa ricostruzione, a metà
dell’opera, in un momento nel quale se da un lato si può dare per acquisita e
sostanzialmente condivisa la prima fase, quella dell’elezione diretta del Presidente (anche se non sono mancati e non mancano tuttora, per certi aspetti,
dubbi e polemiche sull’eccessivo potere in capo ai c.d. governatori), dall’altro
non può dirsi ancora risolto e perfettamente chiarito il secondo passaggio, la
Italiano – Primo incontro di studio “Gianfranco Mor” sul Diritto Regionale, Milano 2005
pagg. 45-46.
35
L. VANDELLI, La Riforma dell’ordinamento regionale – Le modifiche al Titolo V della
parte seconda della Costituzione – Atti, op. cit. pag. 9: “Quel metodo, quella prima
esperienza, hanno dato il segno di quanto possa essere utile anche nel nostro Paese un percorso federalistico senza immaginare un momento, una palingenesi, una sorta di globale trasformazione di tutto il nostro sistema, ma costruendo, cercando di produrre delle innovazioni e dei progressi che costituiscono, a loro volta, la base per ulteriori avanzamenti”.
ripartizione delle competenze tra i diversi livelli di governo, la quale appare
ancora lontana dalla sua “entrata a regime”, dovendo ancora fare i conti con diversi nodi che sembrano del tutto irrisolti.
L’aumento esponenziale dei ricorsi alla Consulta per conflitti di
attribuzione36, la necessità di un riassetto interno e definitivo delle Regioni
sotto il profilo dell’ordinamento statutario e dell’organizzazione
amministrativa (in particolare per ciò che attiene alla struttura burocratica e
alle risorse umane), il problema del reperimento e della corretta allocazione delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle nuove funzioni
(unitamente alla contemporanea necessità di rispettare comunque i parametri
36
“Sin dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V la Consulta è stata dunque impegnata a cogliere le istanze unitarie espresse dal nostro ordinamento e a definire gli strumenti di soddisfazione delle stesse […] e l’impegno da questa rivolto a sciogliere i principali nodi interpretativi posti dalla riforma del titolo V della costituzione ha indotto i più a parlare di
supplenza della Corte di fronte all’inerzia dei protagonisti istituzionali”. Così ANTONELLI, Per un’unità della Repubblica costruita dal basso in Giurisprudenza Costituzionale n.
3/2006, pagg. 2615 ss. Sul tema del rapporto tra Corte Costituzionale e revisione della Costituzione è forte il giudizio di ZANON, La Corte nella revisione costituzionale: più
ombre che luci in Quaderni Costituzionali n. 2/2006, pag. 330. In particolare l’autore parla
di una Corte che, “chiamata sciogliere di continuo nodi e incertezze derivanti dalla infelice formulazione del riparto di competenze legislative tra Stato e regioni” si presenta più come “Corte dei conflitti e sempre meno come Corte dei diritti”.
Vi è da aggiungere a quanto detto che la Corte, soprattutto agli inizi di questa nuova fase, immediatamente cioè all’approvazione del nuovo Titolo V e relativamente ai conflitti di competenza tra lo Stato e gli altri Enti autonomi, si è trovata a dover compiere una doverosa distinzione tra leggi impugnate prima della riforma e quelle successivamente ad essa. Ove vi fosse infatti un contenzioso pendente precedente alle modifiche costituzionali, la Corte, in armonia con il principio di continuità dell’ordinamento, ha emanato il proprio sindacato di costituzionalità esclusivamente con riguardo al quadro costituzionale precedentemente in vigore, ribadendo in tal modo che le leggi preesistenti non vengono espunte dall’ordinamento solo per il fatto di essere incompatibili con le nuove disposizioni costituzionali, ma che occorra l’effettivo esercizio delle nuove competenze da parte dei nuovi soggetti legittimati per modificare tali normative preesistenti. In proposito A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V della
economici e finanziari imposti dalla legislazione nazionale e comunitaria), la
competizione tra le Regioni e, all’interno di queste, tra le Province (anch’esse in fase di progressiva prolificazione) e i Comuni, dipingono, comunque, un
quadro ancora troppo confuso per poter ipotizzare una rapida e risolutiva
definizione sia del sistema delle competenze che, più in generale, della vera e
definitiva attuazione della Riforma del Titolo V, anche se con l’inizio della
XV legislatura il processo di attuazione sembra aver ripreso nuovo slancio37. Ma per quale motivo, nonostante le materie siano una volta per tutte tassativamente e puntualmente elencate ed enunciate, è nato un contenzioso
così ampio che interessa e riguarda la capacità, per le Regioni e per lo Stato, di
delineare con sufficiente ed oggettiva chiarezza i confini e i limiti delle
competenze di rispettivo interesse?
La risposta a siffatto quesito, a ben guardare – ma è soltanto un’ipotesi
utile, per lo più, alla discussione in termini generali – potrebbe probabilmente
trovarsi proprio nell’eccessiva rigidità che il legislatore costituzionale ha inteso dare alle materie stesse così come elencate nel testo, quando non in
quella che la stessa giurisprudenza attribuisce loro, apparendo invece con tutta
evidenza che alcune competenze necessariamente travalicano gli stretti confini
formali e letterali, ponendosi come materie necessariamente “multilivello”
37
In proposito R. BIN, Il Codice delle Autonomie e i nodi irrisolti, in Le Regioni n. 6/2002, pag. 1051 ss. secondo cui “non sembra affatto una scelta di poco conto l’aver abbandonato l’orizzonte delle (ulteriori) riforme costituzionali per avviare una stagione di ben più agevoli e urgenti leggi ordinarie che diano sostanza alle innovazioni introdotte dalla legge costituzionale 3/2001”.
che, intersecandosi funzionalmente, pongono all’attenzione del legislatore,
attuali ed urgenti problemi di equilibrio e di definizione.
Un processo che deve ancora fare i conti con i nodi più controversi e
problematici dell’intera riforma, primo fra tutti il tema del c.d. federalismo
fiscale, per l’attuazione del quale, il 3 Agosto 2007, il Consiglio dei Ministri ha approvato un apposito disegno di legge delega, anche alla luce dei risultati
e delle indicazioni dell’Osservatorio sul federalismo fiscale.
In tale contesto giuridico, politico e amministrativo in fieri, dinamico, per nulla compiuto ma che, anzi, pare promettere cambiamenti ancora più
radicali, si colloca la previsione, di cui al nuovo art. 119 della Costituzione,
dell’istituto giuridico dell’Autonomia Finanziaria delle Regioni e degli Enti
Locali, che sarà l’oggetto principale di studio e approfondimento di questo
lavoro.
Autonomia Finanziaria che, successivamente ad una ricostruzione delle
vicende storiche, politiche ed economiche del Regionalismo Italiano nei suoi aspetti più rilevanti (operata nel primo capitolo della presente tesi), si cercherà
di analizzare e definire teoricamente nelle sue caratteristiche fondamentali alla
luce delle disposizioni costituzionali, andando a soffermare, successivamente,
l’attenzione sul particolarissimo caso della Regione Sardegna la quale,
particolarmente nella legislatura terminata nel Gennaio del 2009, ha inteso
dare, anche attraverso provvedimenti normativi discussi e giuridicamente
controversi, una brusca accelerata al tema dell’autonomismo e del rilancio della specialità regionale, cominciando proprio dalla prerogativa costituzionale
della Regione stessa di far fronte, con mezzi autonomi (o cercando comunque
di limitare drasticamente l’an e il quantum dei trasferimenti di risorse da parte dello Stato), alle funzioni e alle competenze ad essa attribuite, comprese quelli
afferenti le varie articolazioni di governo locale.
L’attribuzione, di per sé rilevante, in particolare, della titolarità delle
funzioni amministrative direttamente in capo ai Comuni38, (salvo il loro conferimento, ai sensi dell’art. 118 Cost., agli organismi territoriali via via
superiori, in virtù dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e per ragioni di esercizio unitario delle stesse) nonché, sul piano più in generale,
l’affermazione del principio secondo cui le risorse elencate nell’art. 119 Cost.
consentono il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite ai
Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni, ha di fatto imposto al
legislatore costituzionale l’esigenza di fornire ai suddetti Enti (comprese le
stesse Regioni la cui autonomia finanziaria nella precedente formulazione
dell’art. 119 era sì concessa ma “nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della
38
“L’attribuzione di poteri amministrativi diretti ai Comuni, come sembrerebbe fare il nuovo art. 118 Cost., non elimina il problema dell’unità differenziata della Pubblica Amministrazione, se non si vuole ipotizzare delle amministrazioni legisbus solutae che contrasterebbero con altri articoli della Costituzione”. Così MERUSI, I sentieri interrotti
della legalità in Quaderni costituzionali n. 2/2006, pag. 277.
Tale interpretazione parrebbe supportata anche alla luce della considerazione di FALCON,
Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione in Le Regioni n. 2-3/2005, pag. 383 ss. che, in virtù del principio di equiordinazione degli elementi
costitutivi la Repubblica di cui all’art. 114 Cost., esclude “l’immagine di una Costituzione che attribuisce solo ai Comuni funzioni amministrative proprie, confinando gli altri enti in una situazione di quasi precario ed eccezionale esercizio di funzioni altrui”. Sul tema cfr., anche DE LUCIA, Le funzioni di province e comuni nella Costituzione in Rivista trimestrale
Repubblica39”) una solenne copertura giuridica, quale quella della proclamazione dell’esistenza di una generale autonomia finanziaria di entrata e di spesa che ha ribaltato, almeno per ciò che attiene ai principi, il sistema della finanza locale preesistente40.
39
In proposito S. CASSESE, Il finanziamento delle Regioni. Aspetti Costituzionali, in Rivista
Trimestrale di Diritto Pubblico, 1963, pagg. 324 e336 ss. secondo cui i commi 2 e 3 dell’art.
119 non rappresentavano in realtà una manifestazione dell’autonomia finanziaria della Regione, ma erano in realtà dei limiti all’attività legislativa dello Stato dovendosi assumere come “ un vincolo dell’attività statale, atto ad assicurare la copertura dei fabbisogni essenziali e di quelli di sviluppo economico della Regione”, e creando il paradosso che sarebbe lo Stato a valutare i bisogni delle Regioni.
Contro tale impostazione E. DE MITA, Autonomia Finanziaria e potestà tributaria delle
Regioni a Statuto normale, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, Milano
1963, pagg. 512 ss. suggerisce invece una visione unitaria dell’art. 119 che contemperi sia l’esigenza di un esercizio libero e pieno della funzioni normale che “è funzione autonoma intesa alla soddisfazione dei bisogni propri della Regione che essa scopre e risolve, di volta in volta, secondo proprie valutazioni politiche” , sia la presenza di limiti statali comunque necessari.
40
Tale ribaltamento pare evidente se si considera che da un lato, come ricordato, che l’autonomia finanziaria di cui alla precedente formulazione dell’art. 119 si rivolgeva esclusivamente alle Regioni e non anche ai livelli di governo sottostanti, la cui finanza, unitamente a quella dello Stato, era in semplice coordinamento con l’autonomia finanziaria regionale; dall’altro se si riflette sulla vicenda storica della finanza locale del nostro Paese inesorabilmente segnata, nel suo evolversi normativo, dal retaggio tipico degli Stati a regime autoritario, quale quello italiano dal 1922 al 1943, che ha sempre visto con diffidenza il decentramento di funzioni, tendendo ad un accentramento di poteri sempre maggiore. In particolare, come ricorda MORELLI, voce Finanza locale in Enciclopedia del Diritto, Milano 1968 pag. 577 il problema dell’autonomia “è problema di natura anzitutto politica e costituzionale in quanto dipende proprio dai principi politici e costituzionali cui si ispira l’ordinamento giuridico, nel quale gli enti locali sono inseriti, se l’autonomia di questi ultimi viene vista e riconosciuta esclusivamente in funzione dei compiti ausiliari dello Stato che gli enti locali sono chiamati a svolgere, ovvero essa ha, al pari di quella degli individui, un fondamento naturale ancora prima che giuridico, ed è oggetto di un vero e proprio diritto dell’ente locale, da annoverare fra i diritti pubblici di personalità”. A tale quesito pare indirettamente rispondere ALLEGRETTI, Art. 119 in Commentario della Costituzione, Bologna – Roma 1985, pag. 338, nel momento in cui, commentando la difficile strada della finanza locale nel processo di normazione costituzionale repubblicana ritiene che vi sia stata, da parte del legislatore, una maggiore attenzione al sistema finanziario nazionale che a quello locale, in quanto appare chiaro secondo l’autore che “alla consapevolezza della
L’art. 119 della Costituzione fornisce, inoltre, più di uno spunto
interpretativo, andandosi a collocare in posizione assolutamente centrale nel quadro dell’intera riforma del Titolo V, in quanto da un lato il primo comma
stabilendo formalmente, apertis verbis e senza ulteriori considerazioni o
condizioni, l’esistenza di un’autonomia di entrata e di spesa in capo alle altre
istituzioni che, insieme allo Stato, costituiscono la Repubblica, va ad ergersi
quale presupposto necessario e imprescindibile per l’esercizio concreto dei
compiti e delle funzioni elencate negli art. 117 e 118 della Costituzione, oltre all’effetto implicito di rafforzare il principio di equiordinazione41 e del costituzionalismo “multilivello42” (che non esprime gerarchie ma funzioni) sancito dal nuovo art. 114.
Dall’altro lato, i commi successivi dell’art. 119, con l’auspicio che le
norme di attuazione riescano a trovare compimento in tempi necessariamente
contenuti per il funzionamento dell’intero sistema, immettono nel circuito
necessità di un’autonomia finanziaria, per l’esistenza di un’effettiva autonomia locale, si contrappose perennemente, sotto la preoccupazione per il turbamento della unità del sistema
delle finanze, ma in realtà per le necessità, sentite come inderogabili e assolutamente
preminenti della finanza statale, l’inadeguatezza del pensiero politico e de scientifico e dell’opera del legislatore nell’assicurare l’autonomia finanziaria – anche solo nella forma dell’autosufficienza – dei due livelli di amministrazione locale ammessi dall’ordinamento.”
41
Contraria all’idea di un’equiordinazione tra gli elementi costitutivi la Repubblica, in un dibattito molto acceso in merito è tra tutti ANZON, I poteri delle Regioni dopo la riforma
costituzionale – Il nuovo regime e il modello originario a confronto, Torino 2002 p. 212 ss.
che ricorda l’impossibilità di definire “alla pari” le posizioni delle varie componenti della Repubblica anche perché non tutte ad esempio hanno competenza legislativa o la possibilità di impugnazione e di ricorso alla Corte Costituzionale.
42
Sul Costituzionalismo multilevel cfr. ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle
normativo di Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni, tutta una serie
di nuovi istituti, poteri e garanzie (quali l’autonomia nelle risorse – con la conseguente previsione di una parallela autonomia impositiva – la
compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al territorio di
competenza, la creazione di un fondo di perequazione tra territori con ridotta
capacità fiscale, la destinazione, da parte dello Stato, di particolari risorse
aggiuntive in favore di determinati enti per ragioni di sviluppo economico,
coesione e solidarietà sociale) che vanno a completare e a chiudere il quadro normativo all’interno del quale si deve poi collocare la disciplina di dettaglio
dell’intera finanza locale, e che hanno anche l’effetto di delineare ed
individuare, unitamente agli articoli 81 e 117 Cost. II e III comma (mutuando
un’espressione piuttosto diffusa in dottrina quale quella di “Costituzione
Economica”),43 quasi una sorta di “Costituzione finanziaria” dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali.
43
In realtà a tale espressione si attribuiscono, nella storia e nell’interpretazione costituzionale, come ricorda LUCIANI, voce Economia del diritto costituzionale in Digesto
delle discipline pubblicistiche, Torino 1990, pag 374 ss., almeno due significati. Il primo è
quello di una formula generale riassuntiva che indica sinteticamente l’insieme delle norme
costituzionali in materia economica. Il secondo, molto pericoloso a giudizio dell’autore,
quello di un complesso normativo autonomo rispetto all’insieme della Costituzione. “Parlare – a giudizio dell’autore – della disciplina costituzionale dell’economia, dunque, si può solo se non si perde di vista l’impianto unitario della nostra Costituzione; se non si postula un’autonomia di questo settore nei confronti degli altri oggetti delle norme costituzionali; se non si dimentica che le interconnessioni fra la disciplina sociale nel suo complesso sono così profonde, che la prima può essere isolata solo per comodità di analisi e – comunque – non altro che in prima approssimazione”.
A contrario BOGNETTI, La Costituzione Economica italiana, Milano 1995 pag. X della
prefazione, il quale ritiene “che la sua importanza travalichi quella degli organi e delle fonti e che un popolo, se non riesce a stringersi, in armonia di pensieri e sentimenti, attorno a un concetto sufficientemente preciso di ‘Costituzione Economica’, è un popolo privo quasi di
Se tale risultato sia stato una precisa scelta del legislatore costituzionale
il quale abbia volutamente inteso operare una ricostruzione di sistema o, più semplicemente, dare maggiore ordine all’insieme delle norme costituzionali
che regolano l’assetto finanziario della Repubblica, non è chiaro.
Permane indubbiamente, a seguito della riforma, il risultato
dell’innegabile utilità di un quadro normativo maggiormente comprensibile e
definito rispetto che al passato per ciò che attiene agli aspetti economici e
finanziari, più facilmente intelleggibile, specie in funzione della effettiva e successiva attuazione delle norme, anche se, a ben guardare, l’opportunità
giuridica di operare un raggruppamento per temi affini è ancora tutta da
dimostrare.
Anzi, ciò appare ancor più vero se si tiene conto del fatto che, come
richiamato sopra (cfr. nota 41) può risultare rischiosa, se non configurarsi
come una vera e propria forzatura storica, la creazione virtuale all’interno
della Carta Costituzionale, di una serie di blocchi tematici omogenei, seppure a volte riconosciuti dalla stessa Corte44, apparentemente indipendenti che possano far cadere il legislatore costituzionale nell’equivoco, abbastanza
frequente un po’ in tutti i progetti di riforma costituzionale degli anni ‘90, che
sia sempre possibile una modifica della Costituzione per aggregazioni
una vera ‘Costituzione’, sotto tutti gli aspetti. O per lo meno quegli altri aspetti della sua ‘Costituzione’ non potrebbero risultare se non fragili e facilmente peribili”.
44
In particolare su questo tema la sentenza n. 103 del 17.04.1985 parla di “sistema” per quanto riguarda gli artt. 41-47, anche se tale sistema non è chiuso e non isolabile dal complesso della Costituzione.
settoriali senza che questo comporti conseguenze di qualsiasi natura su altre
parti o principi del testo costituzionale45.
Tralasciando la disputa sul tema, è del tutto evidente che la riforma
dell’art. 119 ha comunque cercato di dare anche una risposta sia al problema
della crisi di un sistema tributario inefficiente, sia a quella dell’esigenza, ormai
veemente nella società, di rilanciare tramite l’aspetto finanziario le autonomie
locali paralizzate “da deresponsabilizzazione, inefficienze, sprechi e da vincoli
imposti dai poteri sovraordinati46”.
L’obiettivo che ci si prefigge con il presente lavoro è allora duplice.
Da un lato, certamente, quello di operare una ricostruzione storica,
normativa e di prospettiva concreta dell’istituto dell’autonomia finanziaria,
così come essa appare dalla lettura del testo costituzionale, dalle norme di
attuazione della riforma fin qui operate e dai progetti di attuazione ancora in
campo; autonomia finanziaria quindi, quale strumento cardine, premessa
45
In proposito si sottolinea la posizione di R. BIN, Che cos’è la Costituzione? in Quaderni
costituzionali n. 1/2007, pag. 45 ss, che partendo dal presupposto del “conflitto sociale”
quale chiave di lettura della Costituzione del 1948 riflette sul fatto che essa suggerisca di guardare “la prima e la seconda parte del testo costituzionale come un tutt’uno, legato dal comune intento negativo di porre le garanzie dei principi e dei diritti in stretta connessione con le garanzie di mantenimento di un disegno istituzionale minimale ma aperto”.
Il venir meno del conflitto sociale quale presupposto che conferisce senso al conflitto politico ha determinato, secondo l’autore un atteggiamento del legislatore improntato all’elaborazione di progetti di riforma costituzionale che partono ormai dal dichiarato principio “che i due sottoinsieme possano essere separati e che, pertanto, la disciplina dell’assetto istituzionale possa svilupparsi senza incidere sull’assetto dei principi e dei diritti senza subirne i condizionamenti”.
46
L’espressione, forte e decisa, richiamata da M.C. FREGNI, Costituzione: Titolo V e
federalismo fiscale in Rassegna Tributaria 3/2005 pag. 685 è di F. GALLO, Per un progetto di federalismo fiscale nella stessa Rassegna 11/2005, pag. 1837.
imprescindibile ed irrinunciabile, in realtà, del ben più generale problema del
federalismo fiscale e dell’ancor più vasto tema delle forme e della configurazione dell’assetto federale della Repubblica.
Dall’altro, e qui sta la vera sfida, si cercherà di capire se, una volta
inquadrata e definita nei termini sopra indicati l’autonomia finanziaria, sia
ipotizzabile – alla luce dell’evidenza normativa delle disposizioni del testo
costituzionale, delle loro interpretazioni da parte della Corte e del quotidiano
agire degli attori istituzionali ai vari livelli – immaginare, accanto alla tanto enfatica quanto, almeno allo stato attuale, del tutto improduttiva
proclamazione di un’autonomia finanziaria delle Regioni e degli Enti locali (la
quale sembra non possa in alcun modo prescindere dall’emanazione da parte
del Parlamento delle norme attuative dell’istituto), immaginare, si diceva, se
non una sorta di vera e propria sovranità finanziaria, almeno la sussistenza, in
capo agli altri elementi costitutivi della Repubblica di cui all’art. 114,
un’insieme di poteri “finanziari” (impositivi, tributari, di spesa) di tipo quasi sovrano, intesi nel senso che, seppur ottriati, tali poteri superiorem non reconognoscent.
Se, cioè, il legislatore costituzionale del 2001, pur nella prospettiva di
mantenere saldamente nelle mani dello Stato la barra del timone della
Repubblica, non abbia in realtà, con la Riforma del Titolo V, concesso più
potere alle Regioni e agli altri Enti locali, di quanto avesse realmente in animo
di concedere, creando un continuo e logorante conflitto tra le diverse norme costituzionali; un conflitto dagli effetti presumibilmente devastanti e che solo
la Corte Costituzionale, nel suo più volte esercitato ruolo di supplenza47e di arbitro tra i soggetti in campo, ha cercato pazientemente di ridimensionare o, per lo meno, di non rendere troppo dirompente all’interno dell’intero sistema
dei rapporti tra lo Stato e gli enti locali territoriali, pur se nelle recenti fase
della produzione giurisprudenziale ha comunque cercato di smarcarsi da tale
ruolo affermando che compete allo Stato non essere inerte ed andare a
legiferare con norme di coordinamento48.
Sussiste allora – ed è questo il fondamentale, quanto suggestivo, problema – specialmente in capo alle Regioni e (in misura naturalmente
inferiore ma in ragione dei medesimi principi) agli Enti Territoriali, già da
adesso e legibus sic stantibus la possibilità di un esercizio diretto e pratico di
sovranità o – meglio – è possibile affermare l’effettiva esistenza di poteri e
funzioni tipicamente sovrani, pur in assenza di uno status giuridico di
sovranità degli Enti non Stato?
Unitamente a ciò, si pone un ulteriore quesito. Esiste, in riferimento a tale argomento, una qualche differenza oramai tra le Regioni a statuto speciale
e quelle ordinarie? Le forme e le condizioni particolari di autonomia stabilite
47Con riferimento a tale ruolo, M. BARBERO, Prime indicazioni della Corte costituzionale
in materia di “federalismo fiscale”, in www.lexitalia.it/articoli/barbero_federalismo.html
Secondo lo stesso Autore in Le contraddizioni di un federalismo fiscale senza principi –
Breve nota a margine di Corte Cost. n. 397/2005 in www.federalismi.it “ciò che conta è che,
in attesa del necessario intervento da parte del legislatore statale (“il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente di Stato, Regioni ed Enti locali”), l’effettva autonomia finanziaria regionale e locale risulta estremamente limitata e, paradossalmente, inferiore rispetto a quella di cui gli enti territoriali autonomi godevano prima della riforma federalista del 2001”.
dai rispettivi statuti, approvati con legge costituzionale, sono esclusivamente
una proclamazione d’intenti o costituiscono ancora, per le cinque Regioni speciali, una particolare garanzia, nonché la possibilità, di tutelare
normativamente la propria diversità storica e politica, con la automatica
conseguenza di disporre di un potere legislativo regionale ontologicamente
superiore rispetto alle altre Regioni?
Ed ancora. Come si concilia il principio della riserva di legge ex art. 23
Cost. per quanto attiene le prestazioni patrimoniali, con la facoltà dei Comuni e delle Province, che non fanno leggi, di imporre ed istituire tributi?
E’ facile immaginare come un’eventuale risposta positiva alla prima di
tutte queste domande, quella relativa all’esistenza di poteri e funzioni di tipo
sovrano, non potrebbe lasciare indifferenti gli addetti ai lavori, ma aprirebbe improvvisi spazi e prospettive del tutto inattese per gli attori istituzionali,
attualmente più propensi ad individuare, nel lungo e complesso cammino di
attuazione del federalismo fiscale, soluzioni di natura normativa e ad aspettare disposizioni generali e puntuali, piuttosto che avventurarsi in rischiose, per
quanto affascinanti, forzature interpretative.
A tale proposito emblematica e significativa è la strategia e la politica
finanziaria della Regione Sardegna, la quale – come si ricordava sopra e come
vedremo nel dettaglio più avanti – sul tema del federalismo fiscale ha adottato
un atteggiamento maggiormente disinvolto, rispetto alle altre Regioni d’Italia,
Costituzionale, la qual cosa è derivata dalla nascita di un ripetuto, ed in parte
atteso, contenzioso con lo Stato, e con il governo centrale in particolare. Ma, aldilà dei torti e delle ragioni che la Corte ha inteso dare nelle sue
pronunce, è innegabile che la politica finanziaria dell’ex governatore sardo
Renato Soru ha aperto una strada, seppur perdente fino a questo momento, di
fronte al Giudice delle leggi, nella direzione di un ampliamento della capacità
di agire sulla strada dell’autonomia da parte delle Regioni.
L’esperienza sarda, e gli effetti che ha prodotto, saranno allora, quale ultima parte a conclusione di questo lavoro, il parametro interpretativo
attraverso il quale verificare la bontà e l’applicabilità pratica di quanto
affermato in precedenza, in particolare la presenza o meno, a normativa
vigente, in capo agli altri elementi costitutivi della Repubblica, di margini di
azione di assoluta libertà e sui quali lo Stato non è legittimato ad intervenire, a
meno di ulteriori e drastiche modifiche costituzionali in senso restrittivo del
Titolo V, che non paiono essere all’ordine del giorno della politica, (anzi, l’accelerazione del Parlamento nella presente legislatura in direzione del c.d.
“Senato Federale” pare andare in direzione opposta, verso, cioè, la
configurazione di un ruolo ancora maggiore delle Regioni49); né, per di più, sembrerebbe essere politicamente “accettabile la riproposizione di soluzioni
presenti nell’originario impianto costituzionale del 1948 […] ovvero di
49
A questo proposito B. CARAVITA, “Dopo il referendum del Giugno del 2006: Riforma o
attuazione del Titolo V?” in www.federalismi.it secondo cui: “è però necessario chiedersi se
la trasformazione del Senato in Camera territoriale sia condizione necessaria e sufficiente per il funzionamento del nostro modello, regionale o federale che voglia definirsi”.