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CAPITOLO PRIMO Il percorso critico di E. W. Said: il filo rosso dell’alterità

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CAPITOLO PRIMO

Il percorso critico di E. W. Said: il filo rosso dell’alterità

1.1 L’esperienza dell’ Altro come forma critica

La poliedricità della produzione di Edward W. Said, personalità di intellettuale a tutto tondo, in grado di spaziare dalla filosofia alla musica, alla psicanalisi, senza dimenticare la dimensione politica, la consapevole ricerca, insomma, di quella definita da Foucault un’erudizione implacabile, ha talvolta l’effetto di mettere in secondo piano quella che era la sua occupazione principale: la critica letteraria.

La sua fama internazionale è dovuta infatti soprattutto a due dei suoi lavori, Orientalismo e il successivo Cultura ed imperialismo; le polemiche suscitate circa le tesi dell’autore, soprattutto dovute al ruolo pubblico da lui sostenuto, tendono a fare talvolta dimenticare la natura essenzialmente critica di questi saggi.

Una visione comune è inoltre quella di considerarli strettamente collegati, come l’uno il seguito dell’altro: Cultura e imperialismo sarebbe quindi una sorta di revisione, dai toni meno arrabbiati e maggiormente focalizzata sull’aspetto letterario, del celeberrimo saggio sulla relazione tra Oriente ed Occidente, allo scopo non solo di approfondire, ma altresì di allargare i confini dello studio iniziato da Said anche in senso geografico, scegliendo di trattare il mondo coloniale nel suo insieme, comprese le “colonie bianche” come l’Irlanda e l’Australia.

È un legame, quello tra le due opere, che senza dubbio esiste; risulta però essere più interessante di una semplice considerazione consequenziale dei due lavori che, se presa alla lettera, non è del tutto corretta.

In particolar modo, in Cultura e imperialismo non si assiste ad alcuna revisione, né si può pensare ad una presa di posizione ammorbidita da parte dell’autore; si tratta piuttosto di riprendere la medesima problematica approfondendola da una differente angolazione, indagandone l’aspetto

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letterario all’interno di quelle culture denominate come “altre” rispetto alla dominante, dove per altro si intende non-bianco, non-europeo: una letteratura della negazione.

Si può dunque affermare di rimanere sul piano della fenomenologia su cui ci si era posizionati attraverso la considerazione di una cultura come Ego dominante e Altro dominato, la cui complessa interrelazione è stata l’oggetto principale d’analisi nel lavoro precedente. Rimane allora da interrogare questo rapporto dal punto di vista di quell’Altro, il polo per così dire passivo di questa relazione, per mettere in luce il fatto che questa sua passività non è che un’ulteriore proiezione e semplificazione di una ben diversa realtà: emerge così una cultura della resistenza, che nasce e si sviluppa come risposta al tentativo di dominio esterno.

Sia Orientalismo sia Cultura e imperialismo possono essere analizzate nella loro interezza come lavori a sé, conchiusi nella specifica ricerca di cui si occupano: storia di un’immagine posta come problema fenomenologico il primo, tentativo di articolare una nuova storia della letteratura, studiata secondo canoni differenti, o quantomeno con la consapevolezza di una necessità di tali canoni, per quanto riguarda il secondo.

Qualora si voglia invece considerarli come inseriti all’interno di un progetto critico, il rapporto che li lega si svincola da una mera sequenzialità, mentre si evidenzia come essi siano fasi diverse di un’evoluzione di pensiero, intendendo con questo termine un percorso non in senso progressivo, ma che procede per ampliamento, in un sistema per molti versi affine alla dialettica negativa adorniana. Bisogna infatti specificare come non sia possibile identificare in Said qualcosa di simile ad uno sviluppo concettuale, intendendo con questo un percorso lineare e, per riprendere una terminologia a lui cara, genealogico, con ovvio riferimento a Nietzsche e a Foucault.

La stessa struttura della sua opera sfugge ad una catalogazione non solo tematica, ciò che è caratteristica dell’autore, ma altresì temporale: il criterio cronologico risulta infatti non veritiero, falsato da ripubblicazioni, integrazioni (mai espunzioni) e riletture che lo rendono indicativo di alcune fasi periodiche, spesso molto dilatate. L’autore è volontariamente spesso vago anche per quanto riguarda i tempi di formazione e gestazione delle proprie opere: per esempio The World the

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Text and the Critics raggruppa un insieme di scritti elaborati nell’arco di ben 12 anni, implicando così che la maggior parte di essi sia stata sviluppata parallelamente ad Orientalismo, in una mai accantonata ricerca di metodo critico: “The fact is that my activities during the twelwe years (1969-1981) when these essays were written involved me in all four varieties of literary critical practice (…). But if what in this volume I call criticism or critical consciousness has any contributions to make, it is in the attempt to go beyond the four forms as defined above”1.

Il tentativo di superare un certo tipo di critica tradizionale non parte dall’adozione di una determinata corrente, o dall’applicazione di un nuovo metodo, bensì da un’alternanza di metodologie e considerazioni che rifiuta la specializzazione, ove questa diventi sinonimo di rigida separazione tra ambiti: “ a very precise division of intellectual labor2”.

Contaminazione, un termine di recente successo, è la prima definizione che potrebbe venire in mente a proposito di questa visione critica saidiana, ed è del resto un suggerimento dello stesso autore. Nel suo caso si tratta però, in maniera più specifica, di ripensare le origini di una teoria, indagarne le influenze, che possono essere da ricercarsi anche in contesti affini.

Una seconda caratteristica di Said immediatamente riconoscibile è del resto la ricchezza del retroterra teorico che ne sorregge l’opera. Un’immagine particolarmente efficace per illustrare la sua ricerca potrebbe essere quella di una fitta rete costituita da innumerevoli riferimenti e citazioni, intessuti ad elaborare la propria personalissima critica.

Suggestioni e rimandi molteplici, ognuno con la propria possibilità di essere sviluppato come filone a sé. Ma, per continuare con la metafora dell’arazzo, alcuni filoni risultano essere portanti ed essenziali, altri funzionali ad essere utilizzati come cornice, altri ancora puro omaggio all’estetica e alla curiosità intellettuale. Distratti da questa complessità, talvolta si sono ignorati i contributi fondamentali di autori come Foucault (esemplare il caso di Orientalismo), Derrida, Freud, per

1

Introduction: Secular Criticism, in The World the Text and the Critics, Faber and Faber 1984. Le quattro forme citate di criticismo letterario sono da lui riconosciute in: pratica giornalistica; storia della letteratura come disciplina

accademica; critica testuale; teoria della letteratura.

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accentuarne altri senza dubbio importanti, ma non altrettanto essenziali: un esempio si può ritrovare in Fanon e nel pur molto presente Gramsci.

Se si necessita di un pur generalissimo collocamento, si può forse vedere la critica di Said insinuarsi in un interstizio tra lo strutturalismo filosofico francese ed il modernismo letterario; ma è un’affermazione che riscontra piena validità soprattutto per ciò che riguarda la prima fase di produzione critica.

È piuttosto evidente, a questo punto, che le molte cautele nel parlare di un corpus saidiano, dovute soprattutto alla sua non disponibilità a lasciarsi catalogare in uno specifico ambito, lo rendono oggetto di una trattazione che può apparire troppo generica, tutta di superficie.

Una metodologia appropriata può essere ritrovata allora nel procedere per via concettuale, mettendo in evidenza alcuni punti focali di tutta la teoretica del professore palestinese; nodi concettuali che si manifestano in maniera sorprendentemente coerente lungo tutto l’arco della sua attività.

Ciò non significa il poter o dover rinunciare a seguire un criterio temporale nell’analisi delle opere del professore; il fattore della temporalità ha per lui stesso una grande importanza, come dimostra la grande attenzione dedicata al concetto di “inizio”, “origine”. Tuttavia, come tutto ciò di cui si occupa Said, è un’attenzione rivolta al tempo come espressione o convenzione umana, pressoché coincidente con il flusso della memoria: non rigoroso, inattendibile, modificabile, sovrapponibile, proprio come è stato presentato da Proust.

In questa prospettiva quasi psicanalitica, e a ben vedere assolutamente modernista, è necessario essere consapevoli che le stesse pubblicazioni vengono presentate secondo un ordine voluto dallo stesso autore, non tanto, o non solo, per i lettori, ma soprattutto per se stesso: è sempre presente in Said uno sguardo retrospettivo, la cui intenzione sembra quella di collegare, non per forza armonicamente, la produzione del passato con quella presente, nel tentativo quasi di trovare un filo conduttore in termini più di disposizione che non di pensiero tecnico. Questo vale sia per i lavori critici, sia in maniera evidentissima nelle considerazioni autobiografiche che costituiranno buona parte dei suoi ultimi scritti, vere e proprie sedute psicanalitiche incentrate su un bipolarismo sempre

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meno latente, non più proiettato su un autore oggetto di studio ma direttamente sulla propria vita ed esperienza.

Esperienza è un termine chiave in Said. Per molti versi, si ritrova a coincidere con la temporalità stessa, nel senso di un cambiamento che si manifesta in maniera non necessariamente progressiva; è l’accadimento fisico (biografico) che si ripercuote nell’opera, e ne è influenzato a sua volta, in un circolo però mai autoreferente, rendendo così interessante un discorso altrimenti piuttosto banale di ricerca di corrispondenze.

Anche a proposito della propria critica, molto frequente è l’espressione di “esperienza letteraria” (“literary experience”), a ribadire la necessità di liberarsi di un’eccessiva astrattezza che circonda la storia della letteratura, quasi auspicando un ritorno a Platone ed Aristotele per una relazione tra idee e vita umana. La letteratura diviene esempio estetico di ogni varietà di esperienza nell’autore stesso; la storia della critica letteraria è un tentativo di capire criticamente la storia della letteratura.

Il rapporto tra vita e pensiero diventa di estrema importanza; non a caso particolare rilievo viene dato soprattutto a quegli autori la cui esperienza di vita vissuta è fondamentale per ciò che sono poi divenuti in quanto pensatori e scrittori, anche se non sempre questa relazione è direttamente riconoscibile.

Si può definire quella di Said una poetica dello straniamento, volta a privilegiare un sentimento di non-conformità rispetto al contesto in cui si è inseriti, un disagio interiore dovuto all’impulso insieme assecondato e combattuto di integrazione; spesso questo avvenimento è l’esilio, forzato o casuale (Auerbach, Adorno, Rushdie), ma si manifesta in alcuni autori in maniere differenti, come l’omosessualità (Foucault), l’opposizione politica (Gramsci, Fanon), la frustrazione di un mancato riconoscimento (Vico). È un sentimento verso cui Said è particolarmente sensibile, poiché si trova a condividerlo egli stesso; si tratta di una tematica da sempre presente in ogni suo intervento, che si fa via via più centrale nell’ultima produzione.

La consapevolezza di essere diviso tra due mondi spesso contrapposti come quello arabo palestinese e quello statunitense è un disagio improprio: non genera una vera e propria sofferenza, ma una non

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piacevole sensazione di trovarsi sempre in disarmonia con il proprio ambiente, sensazione molto simile all’ uncanny freudiano. Significativo in questo senso sarà allora il titolo scelto per l’autobiografia, Out of Place,3 in cui ripercorre la propria vita proprio in questa prospettiva, soffermandosi a lungo sull’infanzia araba e sugli anni di formazione nell’università americana, ovvero sulla propria personalità più strettamente intima, quasi a svelare il retroterra di quello che diverrà in seguito il professor Said nel suo ruolo pubblico, cercando di non cedere alla pur molto forte tentazione di un approccio teleologico (cui non sempre riesce a sfuggire).

Non è del resto un caso che la critica di Said sia stata collegata all’uncanny criticism, una definizione molto utilizzata a proposito dei critici decostruzionisti come Hillis Miller per indicare una corrente critica orientata verso nuove prospettive, che non seguano il canone della tradizione ma puntino ad una metodologia non-razionale, incentrata sulla potenza evocativa dell’immagine, al linguaggio nel suo valore di atto4. Tuttavia Said mostra un interesse solo parziale per questo tipo di analisi; la sua intenzione non è tanto quella di una critica principalmente psicanalitica, dedicata a scandagliare le falle logiche nei testi letterari, quanto evidenziare lo sforzo di una retrospettiva considerata nella sua storicità.5

Retroterra ed esperienza sono dunque i primi pilastri concettuali su cui edifica la propria analisi testuale, proponendo uno studio del testo non approcciandovisi come qualcosa di già dato (“already made”), ma una costruzione dove le circostanze in cui vive ed opera l’autore uomo diventano preziosi riferimenti per capirne a fondo il lavoro. Già da qui si può intuire come la ricerca che interessa a Said sia in fondo un’archeologia del testo, con riferimento a Foucault; un riferimento che si rivelerà sempre inevitabilmente presente per tutto il corso della sua opera.

3

E. Said, Out of place, trad. it. Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia, Feltrinelli 2000

4

“The center of the work of the uncanny criticism is in one way or another a formulation of this experience which momentarily and not wholly successfully rationalizes it, put it in an image, a narrative, or a myth.” J. Hillis Milller, Stevens’ Rock and Criticism as Cure, Georgia Review, 30 (1976)

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Questa impostazione nasce e si sviluppa principalmente nell’ambito della storia letteraria; ragione per cui il paradigma supremo di questa fusione, condizione primaria dello status di autore, viene riscontrato in un autore narrativo: lo scrittore anglo-polacco Joseph Conrad.

Oggetto della sua tesi di dottorato, lavoro in seguito rielaborato e pubblicato con il titolo Joseph Conrad and the Fiction of Autobiography6, in cui analizza le sue opere principali sottolineandone la diretta corrispondenza con le molto meno conosciute lettere personali, Conrad rimarrà, pur in differenti valutazioni, un parametro costante della critica saidiana.

Lo scrittore rappresenta la quintessenza dell’autore estraniato e complesso; ed è proprio il feroce contrasto tra la secchezza e lucidità della sua scrittura e il tormento della condizione di scrittore ciò che lo rende particolarmente interessante, quantomeno agli occhi di Said, volto a scardinare una visione comune che lo vede asettico ed imparziale, nella sua scrittura come nella sua visione della realtà, per esempio delineandolo tra i primi antimperialisti.

È in questo suo primissimo lavoro che viene presa come punto focale la peculiarità derivata da questa doppia appartenenza: il sentimento di alienazione espresso soprattutto nella fatica di comunicare in una lingua che non è quella materna, l’inconscio senso di vergogna per avere abbandonato la propria terra, e insieme la determinazione e l’orgoglio di portare avanti la propria scelta, come inglese e come scrittore: le tracce di questo complesso rapporto possono essere rintracciate nelle sue opere, ma appaiono in tutta la loro evidenza soprattutto nelle lettere.

Le lettere divengono così il retroscena svelato che illumina alcune caratteristiche dei romanzi e racconti di Conrad: l’attesa infinita e sempre delusa; l’inesorabile fallimento in cui incorrono i suoi personaggi, nonostante i loro sforzi; la solitudine, loro eterna ed unica compagna.

Nella frequente contrapposizione tra una personalità di straordinario carisma, infiammata da un sogno che lo conduce alla follia, ed una figura più dimessa e distaccata, che sopravvive, ma al duro prezzo di una disillusione (un esempio magistrale si può trovare rispettivamente in Kurtz e Marlow di Cuore di tenebra), secondo Said si possono ritrovare i segni rivelatori di una doppia personalità,

6

E.Said, Joseph Conrad and the Fiction of Autobiography, Harvard University Press 1966. Per l’edizione in italiano, Joseph Conrad e la finzione autobiografica, Il Saggiatore 2008

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quantomeno in termini artistici: “Conrad voleva che Blackwood capisse (…) che esistevano due Conrad: un agente passivo ed un padrone instabile. Uno era il gentile copista paziente e volenteroso che desidera compiacere, l’altro era un demone poco disposto a collaborare”.

Non a caso, nell’autobiografia Sempre nel posto sbagliato si percepisce un’eco molto forte di questo sdoppiamento nell’insistenza con cui l’autore tenta di ricollegare “i due Edward” della propria personalità in un unico Io, senza riuscirvi.

La scelta di Conrad come soggetto della propria tesi sembra dunque ricollegarsi ad un’affinità di pensieri e sentimenti, soprattutto alla condivisione di un’esperienza: quella dolorosa e utile di un’esistenza non convenzionale, senza saldi punti di riferimento, foriera di un particolare tipo di sensibilità. Come si legge nelle pagine di apertura della trattazione: “Per Conrad, come per James, altro emigrato che parlava a nome di una comunità di ‘esistenze afflitte’, l’esperienza era una lotta spirituale che nutriva ciò che Flaubert aveva definito la lunga pazienza della vita artistica”.7

Di questa affinità Said afferma di essersi pienamente reso conto solo parecchi anni dopo aver redatto il suo lavoro8, ammettendo che lo scrittore anglo-polacco fosse uno dei riferimenti cui tornava più volentieri nel corso dei suoi studi, anche per approdare ad altre questioni ed autori; l’importanza di questo legame è stata recentemente messa in luce da qualche commentatore, come Rubin: “Le tecniche letterarie di Conrad e i problemi che esse pongono condussero Said alle opere di Nietzsche e Foucault. Ma il punto centrale è che l’interesse di Conrad per i poteri mimetici del linguaggio e l’attività volontaria della scrittura diventa un elemento importante in Orientalismo”9. Oltre al sentimento di condivisione e affinità, la questione dell’esperienza va considerata però nell’interezza della sua complessità filosofica. Non si tratta semplicemente di considerare l’apporto di un cumulo di vissuti integrati nell’elaborazione di un testo, ma, abbandonando un’interpretazione

7

Ibidem

8

Cfr. Intervista all’autore, 16 luglio 1999, riportata da A. Rubin in Introduzione a Joseph Conrad e la finzione autobiografica: “L’intera questione dell’esilio e della lingua di Conrad giunse al culmine nel 1972, quando per la prima volta andai in Polonia per una conferenza su Conrad presso l’Accademia polacca delle scienze. (…) Fu un’esperienza molto strana. Il fatto che tale evento non rientrasse in nessuno schema mi ossessionò da lì in poi. In seguito, continuai ad occuparmi di Conrad, e Conrad pareva tornarmi sempre alla mente in una maniera o nell’altra”.

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frutto di un’ottica più strettamente psicanalitica, di interrogarsi sull’interazione tra piano teoretico e piano reale: il piano prettamente fisico oggetto di analisi di Vico, quel mondo concreto e intersoggettivo che verrà denominato più tardi mondo-della-vita.

Le analisi del filosofo napoletano sul “mondano” stabiliscono per Said un imprescindibile punto di riferimento per tutte le sue successive elaborazioni. Vico è una presenza corposa all’interno di molti dei lavori saidiani: Beginnings prende le mosse proprio dalle sue teorie, mentre la sua influenza serpeggia per tutto The World the Text and the Critics, a dispetto della natura composita di quest’ultimo. Poiché è da un approfondimento di questi due testi che vengono ideati, rispettivamente, Orientalismo e Cultura e imperialismo, l’elemento vichiano merita di essere indagato in tutta la sua complessità.

Bisogna però rimarcare che la rilettura di Vico da parte dello studioso palestinese è fortemente influenzata da un approccio strutturalista; in alcuni casi si percepisce un filtro nella chiave di lettura del concetto vichiano, riconducibile al pensiero di Derrida, o, più indirettamente, alla ricezione americana di Derrida mediata da Paul de Man.10

Motivo di grande suggestione, per Said, è soprattutto la storicità, intesa come fattore essenzialmente umano; la ricerca di una scienza che abbia per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e concreta, priva di astrazioni di natura matematica. Concretezza e fisicità sono le caratteristiche che Said vede maggiormente in Vico, come emerge nella descrizione così minuziosa e prepotentemente reale in cui lo ricorda11; sarà probabilmente proprio l’autobiografia del filosofo napoletano a fungere da modello nella propria, che ne condivide l’impostazione, l’attenzione per l’episodio, la volontà di rievocare fatti e persone in maniera estremamente vivida.

10

La Scuola di Yale, di cui de Man è uno dei rappresentanti, insieme a Harold Bloom, Geoffrey Hartman e J. Hillis Miller, ha senza dubbio esercitato una forte influenza sulla metodologia di Said, formatasi nello stesso periodo. Nonostante rimarchi spesso la differenza di pensiero tra le proprie vedute e quelle di Bloom, punti di contatto sono evidenti con de Man, in particolare per quanto riguarda l’elemento biografico. Cfr. Critical Writings, 1953-1978, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1988.

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La tesi della Scienza Nova, che pone l’uomo come artefice della civiltà proprio attraverso la storia, svincolandosi così da una sacralità cui pur sempre si riferisce, ha certamente un’affinità con il ruolo centrale che assume l’esperienza storica del singolo, nella visione del Said; ma è soprattutto nella sua ciclica disposizione di corsi e ricorsi che si offre come materiale da elaborazione, terreno fertile per un’applicazione in campo critico.

Said traduce corsi e ricorsi nei termini di originalità e ripetizione, e liberamente li applica all’attività letteraria; anche se talvolta, come si è accennato, sembra incombere la tentazione di riferirsi maggiormente ai giochi linguistici derridiani .

I concetti di originalità e ripetizione sono strettamente connessi con la tematica del tempo, nel senso di inizio; originalità (Origin) viene infatti intesa nel suo duplice significato di origine temporale, “originario”, e originale come distacco dalla tradizione, il “nuovo”.

Una delle fondamentali contrapposizioni attraverso cui si snodano le esposizioni di Said è dunque quella tra “l’origine” e “gli inizi”.

1.2 Beginnings, ovvero il problema dell’inizio.

Beginnings: Intention and Method risulta il principale elaborato di una fase centrale in cui il criticismo di Said, pur senza aderirvi, è fortemente influenzato dalla corrente decostruzionista della scuola americana, strettamente legata all’interpretazione psicanalitica dei testi.

In esso è già presente gran parte del materiale che verrà approfondito successivamente in diversi lavori; è importante anche notare che si sviluppa in tre fasi, il nucleo centrale tra il ‘67 e il ‘68, più un costante ampliamento fino al ‘73, infine l’elaborazione definitiva pubblicata nel 1975.

Tutto il lavoro si articola sulla contrapposizione di partenza, che si vuole ricollegare direttamente a Vico, tra il concetto di “origine”, legato ad una sacralità che implica un atto di cominciamento ex-novo, isolato e passivo, con quello di “inizio”, un atto tutto storico e terreno, in cui non è dato un esatto punto fermo, ma una sorta di fase post-continuum. Said utilizza questo contrasto come punto

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di passaggio tra due differenti concezioni, a cui arrivare attraverso un’analisi complessa e in alcuni punti oscura, per via dell’applicazione di una terminologia psicanalitica.

Ad essere messo in crisi è l’ordine lineare secondo cui delimitare correnti e movimenti assumendo l’unico criterio, preciso ma asettico, di spazio e tempo. Questo sistema si trova a non essere più adeguato nel momento in cui, con il modernismo, si fa strada l’elemento che in ordine della linearità e dell’ordine predeterminato si trovava ad essere escluso o soppresso.

In quest’ottica ricade anche il rapporto tra autore e testo, metaforicamente rappresentabile nei termini di paternità e filiarità. Surrogato di un processo di procreazione, il processo creativo ne segue, in trasposizione metaforica, le medesime leggi biologiche, secondo le fasi di nascita, sviluppo, morte.

La crisi del processo generativo, il senso di fallimento procreativo che emerge sintomaticamente nelle letterature moderne, dà luogo ad una reazione conservativa, e si assiste ad un cambiamento: il metodo di propagazione e discendenza passa da essere filiativo, dove veniva privilegiato il legame di sangue, ad affiliativo, dove la parentela è data da un rapporto di similarità.

Il linguaggio stesso ne subisce una radicale, simbolica trasformazione: perde la sua funzione ordinatrice di logos, per divenire strumento di rappresentazione e figuratività; si fa immagine. Il problema di stabilire un punto di inizio, ciò che pare essere una sorta di ossessione per l’epoca moderna, viene ricondotto da questa interpretazione dunque alla perdita di valore della linearità come ordine catalogatore. Said analizza questa ricerca in termini propriamente psicanalitici, volendo riconoscervi una sorta di impulso di autodisciplina: nell’impossibilità di stabilire un atto iniziale reale (o, in altri termini, temporale), si viene spinti a ricercarne uno fittizio (transitivo). La conclusione, che vi si arrivi tramite il pensiero di Freud, le speculazioni di Husserl o la poesia di Wallace Stevens, è la definitiva demolizione di un modello di pensiero che ricerchi un punto di inizio biblicamente come un unicuum; al suo posto, la consapevolezza di una molteplicità irriducibile, l’ordine caotico della trasformazione.

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In questo senso il problema dell’inizio è dunque un problema di intenzionalità, intesa come tendenza intellettuale all’azione: il primo passo per la produzione non di un nuovo significato in senso stretto, ma di un codice diverso. Said, applicando alla critica un pensiero fortemente influenzato da matrici psicoanalitiche, definisce l’intenzionalità come uno stato dispositivo genericamente ottimista che fa presupporre la possibilità di quest’inizio.

In storia letteraria, il linguaggio è il primo vero atto da parte dell’uomo di ricollocare la realtà, la natura; un atto che non è mai irrazionale, ma presuppone sempre una metodologia, per quanto differenti e distanti tra loro possano essere. Conrad, Nietzsche, Freud, Mallarmè, nelle loro grandi diversità di metodo, condividono tuttavia la volontà di rimpiazzare il metodo dinastico con relazioni di complementarietà o vicinanza, che si riferiscono non alla mimesi, ma alla rassomiglianza, di contro all’impulso presente in narrativa, soprattutto per quanto riguarda il romanzo realistico ottocentesco, di mimare questo stesso processo biologico attraverso la rappresentazione. Impulso che è ambivalente, insieme creativo nella sua finzione e conservativo, in quanto tendente a riprodurre una realtà ancora uniforme, monolitica, esteriore. Il modernismo viene allora a trovarsi come la risposta estetica ed ideologica alla crisi di una concezione “per filiazione” della cultura, cui opporre nuovi metodi in tutti i campi.

Ci si può dunque rifare (ma non è che una possibilità) ad una visione ciclica, non a-temporale, ma inevitabilmente dipendente dalle fasi storiche di cui è espressione stessa. Ci si ricollega in questo modo ai corsi e ricorsi della poetica di Vico, per capire come Said li riprenda e riutilizzi nell’alternanza di originalità (originality) e ripetizione (repetition).

La scelta dell’autore di porre il filosofo napoletano come snodo centrale per lo sviluppo di una tematica che, come si è accennato, pare per certi versi riferirsi maggiormente all’ambito di discussione in cui spaziavano Derrida e Foucault, ambito peraltro molto distante dal pensiero di Vico, può apparire curiosa e necessita di qualche motivazione.

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Vico viene definito come “the first philosopher of beginnings”12, in virtù proprio di quella opposizione tra senso storico e senso sacrale che soggiace alla scelta della sua terminologia

La trattazione degli inizi di Vico ha un carattere essenzialmente fisico, nel senso di anti-platonico: tutto si svolge su un piano essenzialmente naturale, dove il filosofo e l’uomo primitivo sono accomunati da un’interrelazione tra obbligo, ossia la precisione con cui la mente sottoscrive le circostanze concrete di un compito assunto, e immaginazione simpatetica: la necessità di un’invenzione o improvvisazione che si impone all’autodidatta al principio di uno studio.

Un passaggio in sé istintivo, e tuttavia mediato dalla riflessione; comunque inevitabile per fuoriuscire dal primo stadio di ignoranza.

Questi, perlomeno, sono i punti che mette in luce Said, insieme alla grande importanza che rivestiva per Vico l’interscambiabilità, nell’uomo, tra teoria ed esperienza sensuale.

È evidente che qui in comune vi è una concezione di uomo prettamente umanistica, intendendo in questo modo la necessità di svincolarsi da qualsiasi implicazione teologica o sacrale, pur senza ripudiare il divino, sotteso come ordine supremo, intuizione per l’uomo di una direzione in cui può dirigersi senza esservi obbligato: la presenza della Provvidenza in Vico si pone esattamente in questi termini.

Il rapporto complesso e controverso delineato nella Scienza Nova tra iniziativa umana e disegno divino, trova nel professore palestinese un lettore particolarmente attento: si tratta per lui di interrogare proprio quest’interrelazione tra piano empirico e attività teoretica, così come si svolge all’interno di un testo; un’indagine che lo riconduce fino a Kant, sia pure attraverso un’intermediazione foucaultiana.

La propensione che si riscontra in Vico ad applicare le proprie speculazioni teoretiche in rapporto alla complessità della società umana è di grande impatto su Said principalmente in virtù di questa relazione. La modalità di non-successione implicita nella visione della storia condizionata da ripetizioni, la concezione stessa della poetica vichiana come di un sapere storico solo

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apparentemente diviso per branchie, trovano in Said una rielaborazione particolarmente fertile per quanto riguarda la sua metodologia, il cui principio basilare è essere dilettantistica, come presa di posizione contro una specializzazione eccessiva, antitesi dell’umanesimo. È una peculiarità insita nelle riflessioni a proposito dell’intellettuale e del suo ruolo, e verrà approfondita in merito.

È importante prima rimarcare tuttavia un punto di contatto fondamentale tra le due filosofie .

In Vico si assiste ad un’identificazione del linguaggio come ideale punto di inizio della storia umana così intesa. Said, lo si è accennato, concorda con la concezione del linguaggio fondamentalmente come atto di ri-collocare la realtà, intenzionalmente.

Il significato condizionato del linguaggio è riscrittura volontaria, parte primaria dell’attività umana, recante in sé un irriducibile spazio tra il corpo come esperienza particolare e ciò che viene astrattamente inteso; si tratta di una ricerca di equilibrio, mai dato, tra la presenza (il termine) e l’assenza (l’evocazione dell’idea) all’interno di un testo, che comporta la ricchezza di molteplici chiavi di lettura.

Da qui si arriva alla tesi di fondo di Beginnings: l’atto iniziale è in sé l’atto produttivo, intenzionale, nel quale, per le circostanze in cui si sviluppa, è sempre incluso un senso di perdita: nell’atto di ricercare e riconoscere l’inizio è presente una diversa, falsata prospettiva dovuta alla conoscenza. L’inizio, nella sua forma di ricerca di un nuovo metodo di espressione, presuppone un nuovo significato, ma i successivi sviluppi includono dispersione, non-linearità appunto.

Il linguaggio mentale, “originario” di Vico può essere visto pertanto come ciò che viene elaborato successivamente con l’inconscio di Freud, la neolingua di Orwell, la pensée sauvage di Lévi-Strauss, l’episteme di Foucault e la dottrina dell’imperialismo di Fanon. Pur in forme tra loro estremamente differenti indicano un tentativo di sostituire il cogito, incrollabile punto fisso di razionalità ordinatrice, con un insieme di relazioni universali, sistematiche; a generarsi è sempre una distorsione, una non-aderenza.

È da rimarcare che l’obiettivo di Said è essenzialmente il tipo di umanesimo a cui fa riferimento una particolare tipologia della critica americana contemporanea. Un approccio al testo che privilegi la

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linearità della struttura, piuttosto che i singoli impulsi -poiché come impulsi di rottura vengono trattate le singole correnti e i singoli apporti- significa generare il paradosso di un umanesimo all’opposto, contro l’uomo misura di tutte le cose.

Controvertire l’ordine dinastico diverrà allora scopo dell’intellettuale umanista, che faccia riferimento al suo ruolo classicamente inteso.

Risulta pertanto esservi, all’interno dello scritto saidiano, una forte volontà propedeutica.

Questo compito dell’intellettuale è qui solo un accenno, anche se piuttosto marcato, ad una questione che rivestirà per Said un’importanza fondamentale: comincia a profilarsi la figura dell’intellettuale nella sua ideale condizione di outsider: una figura drammatica, bendaniana nella sua essenza integerrima, gramsciana nella sua attualità, ma soprattutto socratica nella sua attività critica.

1.3 L’inevitabile rapporto tra egemonia e cultura.

Nella conclusione di Beginnings si assiste ad un’apertura a nuove problematiche, legate al linguaggio come oggetto di speculazione: la letteratura comparata in termini di dispersione; la questione del dominio culturale; l’originalità, come accennato prima, in termini di libertà in un complesso ordine di ripetizioni sociali e culturali.

Questo porta direttamente alla seconda conseguenza implicita in questa visione: l’inevitabile essenza egemonica di ogni sistema culturale, fondato sull’idea di possesso.

Si tratta in fondo di un’idea già comunemente accettata: la cultura detiene da sempre la duplice funzione di agire per e contemporaneamente legittimare il potere.

Negli studi saidiani, l’interesse è rivolto soprattutto allo scarto, all’esclusione- ed è in questo che troverà grande aderenza in Foucault.

L’attenzione di Said si concentra sul meccanismo di rappresentazione come forma di esposizione e dissimulazione, che si applica attraverso un linguaggio appositamente studiato, intenzionale, e, per

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usare una terminologia che successivamente abbandonerà, dinastico nel suo reiterare formule di espressione ataviche, vestigia di meccanismi fondati su relazioni di dominio e sottomissione. Lo studio teorico viene così applicato direttamente in un ambito in questo senso ancora poco esplorato, ma che ne è in realtà il campo principe: l’insieme di studi che si occupano dell’ambito non-europeo, quella terra vergine dove l’uomo cessa di essere misura di tutte le cose per appiattirsi allo stato di altro, oggetto di interesse come materia di studio.

Da questa applicazione nasce Orientalismo come ricerca teorica; in forma più personale e allo stesso tempo con un taglio maggiormente documentaristico, La questione Palestinese e Covering Islam: How the Media See the Rest of the World.

Con La Questione Palestinese, si apre per Said un nuovo importantissimo filone, collegato direttamente alla tematica dell’impegno intellettuale, interpretato in maniera autobiografica: una maggiore insistenza per quanto riguarda la causa del proprio paese, da sempre sostenuta anche con prese di posizione forti all’interno del sistema accademico (come per esempio l’iscrizione al Palestinian National Council, ragione principale del suo celebre soprannome di “Professore del Terrore”, o “del terrorismo”).

Questo attivismo, particolarmente marcato, in termini di produzione intellettuale, soprattutto nell’ultima fase della sua vita, in conseguenza molto probabilmente dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute e dell’affievolirsi della speranza di una pace possibile in Medio Oriente, fa parte di un progetto più personale, anche se molto spesso direttamente riferito al proprio lavoro più puramente critico.

Lo studio della letteratura, da sempre da lui riconosciuto come un potente mezzo di dissenso, diventerà il luogo di espressione privilegiato di un impegno politico, in alternativa al sistema politico propriamente dato; allo stesso modo avviene con l’arte, in particolare nel suo caso la musica. Emblematico l’esperimento del laboratorio musicale di Weimar, condotto con l’amico

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Daniel Barenboim e raccontato nel bellissimo libro a tre mani Paralleli e paradossi13: emblematico soprattutto perché si colloca in un periodo di progressiva delusione per la gestione del problema palestinese da parte dei governanti, con le varie risoluzioni di Oslo che trovano Said in profondo disaccordo. Fuoriesce perciò dal partito, in parte per problemi di salute e in parte per la totale incomprensione nei confronti del leader dei palestinesi Arafat, per il quale l’antica ammirazione, pur se mantenuta sempre con qualche riserva14, è pressoché definitivamente tramontata, a giudicare dalle pesanti critiche: “So di parlare a una grande distanza dal terreno della lotta e conosco anche gli argomenti con cui si cerca di dimostrare che Arafat, assediato, è un simbolo potente della resistenza palestinese all’aggressione israeliana; ma sono arrivato alla conclusione che nulla di tutto ciò abbia alcun senso (…). Per quasi dieci anni [Arafat] è stato libero di governare un minuscolo regno e il risultato che ha ottenuto è stato essenzialmente di attirare il disonore e il disprezzo su se stesso e sulla maggior parte dei suoi; l’Autorità è divenuta sinonimo di brutalità, autocrazia e corruzione inimmaginabile15”.

Quest’ultima fase appare più chiara dopo aver seguito l’autore nel suo percorso più prettamente critico, ossia attraverso un’ideale trilogia che ponga come tre punti di passaggio fondamentali le tre opere Beginnings, The World the Text and the Critics e infine Cultura e imperialismo: in quest’ultima opera si arriva ad un’elaborazione di una modalità differente, alternativa, non solo di critica letteraria, ma di storia della letteratura.

La coincidenza dell’anno di pubblicazione con quello della scoperta della propria malattia è in sé una coincidenza terribilmente ironica per una personalità che ha incentrato moltissimo del suo lavoro proprio sulle corrispondenze tra vita e scrittura.

13

Sono in realtà perlopiù conversazioni trascritte su tematiche varie, aventi come collegamento tra loro la musica.

14

Se si tiene conto delle parole scritte nel 1979, secondo le quali “lo za’im ,Arafat, conosciuto anche come il vecchio, la cui semplice, costante presenza garantisce l’esistenza della causa palestinese (…) era “una figura politica spesso fraintesa, se non calunniata”, si può avere un’idea della bruciante delusione che deve aver costituito il crollo della fiducia nella sua leadership. Qp, pgg 158 e sgg

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Cultura e imperialismo può infatti essere considerato l’apice del lavoro critico del professore, in cui si opera quel sincretismo tra le varie componenti che si ritrovano all’interno di tutta la sua produzione. In seguito, Said si dedicherà maggiormente ad una più tortuosa e difficile introspezione, dove l’uomo misura di tutte le cose diverrà egli stesso, e nel suo rapporto con due terre da sempre idealmente opposte, le sue due patrie, cercherà le ragioni del suo agire intenzionale, del suo cogito.

Prima di arrivare al picco di Cultura e imperialismo manca tuttavia l’importante passaggio, posto qui come anello centrale, di un lavoro critico che a sua volta racchiude ben 12 anni di attività: The World, the Text and the Critics.

1.4 Il mondo entra nel testo attraverso la critica: manifesto teorico del Professor Said.

In The World the Text and the Critics, il filo della questione, se mai si è interrotto (poiché i lavori su linguaggio e rappresentazione che intercorrono tra le due edizioni sono uno sviluppo diretto del problema dell’autorità che costituisce l’altro grande nocciolo in Beginnings) viene ripreso esattamente dove si era stati lasciati: “This secular critical consciousness can also esamine those forms of writing affiliated with literature but excluded from consideration with literature as a result of the ideological capture of the literary text within the humanistic curriculum as it now stands. My analysis of recent literary theory in this book focuses on these themes in detail, especially in the way critical systems (...) can succumb to the inherently representative and reproductive relationship between a dominant culture and the domains it rules.”16

Beginnings, come ricorda lo stesso autore, è del resto un presupposto esplicito (“Each essay presupposes that book”, viene detto nel saggio che funge da introduzione), una continuazione che permette di affrontare in maniera piena e completa una tematica che, se certamente presente nei lavori precedenti, qui rappresenta lo scopo vero e proprio della ricerca filosofica di Said: “What

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does it mean to have a critical consciousness if, as I have been trying to suggest, the intellectual’s situation is a worldly one and yet, by virtue of that worldliness itself, the intellectual’s social identity should involve something more than strengthening those aspects of the culture that require mere affirmation and orthodox compliancy from its members? The whole of this books is an attempt to answer this question”.17

La parola chiave qui è “worldly”, proprio quel “mondano” che sembra trasposto direttamente da Vico: per il critico palestinese, i testi sono “mondani”, termine un po’ ambiguo per definire gli “eventi” di quel mondo che li ha prodotti.

Contro un principio di non interferenza, si pone una relazione di corrispondenza tra cultura e società; è un’idea certamente già vagliata, se ne può trovare un esponente in Arnold, per citare un esempio.

Secondo questa visione i due termini, cultura e società, reciprocamente si definiscono, da cui consegue che colui che è fuori dalla società, si trovi ad essere escluso dal sistema culturale. In questo spazio di nessuno, libero ma anche isolato, si troverebbe l’intellettuale outsider, figura su cui convergono molte delle analisi dello studioso palestinese.

Questo modello di intellettuale si rifà fortemente a quello che si trova descritto nel Tradimento dei chierici di Benda, a sua volta rimandante ad un paradigma socratico-platoniano. Tuttavia viene riconosciuta nell’idea di Benda un’astrattezza di fondo, un’eccessiva attribuzione di potere sociale a chi si trovi a ricoprire tale ruolo, retaggio di una concezione ancora improntata su schemi conservativi, soprattutto nei confronti della società.

Un’astrattezza di cui non si trova traccia al contrario nel pensiero di Gramsci: Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura è un testo particolarmente recettivo nei confronti dei cambiamenti della propria epoca.

Uno dei cambiamenti fondamentali è proprio la trasformazione del ruolo del sapiente in una nuova tipologia, improntata su canoni differenti: in primo luogo all’efficienza lavorativa nel proprio

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campo di studi. Si tratta della nuova figura di intellettuale organico, definibile anche come specialista; creato appositamente per studiare ambiti di sapere creati per lui da parte di un’autorità. L’intellettuale chierico di Benda e l’intellettuale organico di Gramsci rappresentano l’uno l’antitesi dell’altro, ed in tale senso li utilizza Said, presentandoli sempre inscindibilmente uniti, a confronto18. La sua posizione è senza dubbio molto vicina a quella bendamiana, tuttavia apprezza quel realismo che contraddistingue le analisi gramsciane.

L’intellettuale outsider non ha nessuna caratteristica particolare, se non quella di svolgere il proprio lavoro il più possibile liberamente, senza pressioni derivanti da legami particolari; poiché dalla propria cultura si ereditano inevitabilmente condizionamenti, la condizione ottimale per questa libertà pare essere quella dell’esiliato, si tratti di un esilio fisico o morale, un disallineamento rispetto ai canoni contemporanei, una resistenza.

La resistenza è un concetto che coinvolge i tre livelli di problematiche sui quali si svolge l’intera raccolta: l’attenzione per il mondo fattuale e secolare, il cui quotidiano è definito come situazione, evento e organizzazione di potere, particolarmente in alcuni scrittori come Conrad, Fanon, Hopkins, Swift; la critica contemporanea; lo studio di una cultura dominante e quello dei suoi effetti su una più debole.

Resistenza diviene il compito dell’intellettuale reale, umanistico.

Evidenziare il legame che in ogni testo è posto con il mondo storico di cui è prodotto, scardinando una neutralità fasulla, lo stato di sospensione indicato da Said appunto come “worldiness”; comunicare questo legame attraverso il testo stesso, il linguaggio che lo compone, il discorso da cui è formato, e per farlo servirsi dello strumento più consono: l’analisi critica.

Ecco dunque che il titolo The World the Text and the Critics non solo riassume alla perfezione i contributi più maturi del Said critico, ma ne diventa un sintetico manifesto di metodo e pensiero, da potersi leggere anche in questo modo: il mondo nel testo attraverso la critica.

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Metaforicamente (e vichianamente), la vicinanza del corpo mondano al corpo del testo è tale da forzare i lettori a rivolgersi a entrambi contemporaneamente; viceversa, i testi impongono costruzioni sulle loro interpretazioni. Il testo si trova pertanto a sprigionare un potere emanato direttamente da un’autorità, che è quella che viene riconosciuta all’autore.

Un potere, questo, molto spesso ignorato in nome di una concezione centrista ed idealizzata del testo, che lo vede puramente nella sua funzione di documento, o monumento: è in ciò che consiste principalmente il disaccordo di Said con un certo tipo di critica contemporanea. Il testo diventa così un sistema puramente passivo, la cui funzione è quella di trasmettere informazioni.

Al contrario, nella visione del professore palestinese la testualità riveste un ruolo più attivo, in cui è decisivo riconoscere i testi come sistemi di forze istituzionalizzati dalla cultura dominante con qualche costo umano (metaforicamente e non) nelle sue varie componenti. La tesi di fondo è quella, già avanzata in precedenza, di un rapporto di forze nel sistema culturale come specchio del sistema .

1.5 Ripetizione e originalità: il ciclo del testo letterario

Nel sistema vichiano, il meccanismo di base della ripetizione prende posto dentro la fattualità: come la mente nell’agire, l’umana azione nel regno dei fatti; un istinto superiore che ispira e guida il corpo, conservando la specie e progredendo al tempo stesso. Una prova utile per mostrare che storia e realtà riguardano entrambe la persistenza umana, e non una divina originalità. Si parla sempre infatti in Vico di storia “gentile”, contrapposta a quella sacra (ebrea) e riconducibile alla radice gens, gentes, ma anche genitor, genital, includendo perciò anche l’idea dell’umana fertilità. Si tratta di una visione in cui domina un rapporto di filiazione e genealogico, tuttavia problematico e non automatico, poiché vi è incluso lo scarto, la perdita , la differenza, ciò che genealogicamente si configura come conflitto tra generazioni.

La ripetizione connette ragione ed esperienza naturale; diviene un modo in cui l’uomo si rappresenta a sé e agli altri. Pertanto, non si tratta di un vero e proprio ciclo, fine a se stesso, ma di

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ripercorrere e ritrovare le medesime fasi in infinite varietà, includendo una inevitabile differenza nella loro riproduzione.

Per Said, un’espressione ancor più immediata di questo tipo di schema si può ritrovare nella musica. Più precisamente, egli cita l’esempio delle Bach’s Goldberg Variations: la possibilità di un’elaborazione senza fine, una tensione tra la costanza e razionalità e l’eccentricità e il contrasto dato dalle variazioni.

In questo contrasto consiste la differenza: ciò che Said descrive come ciò che vacilla tra l’imitabile, l’universale, il ripetibile, e l’originale, il rivoluzionario, l’unico, il contingente.

La ripetizione diventa allora il meccanismo principale, in una speculazione sui processi temporali dei fatti umani. Un’interpretazione che la applichi in critica, dunque, risulterà particolarmente calzante per esplicitare una sorta di principio di azione e reazione che regola lo svolgersi della narrativa, dove la variazione nella ripetizione rappresenta una sfida per la ripetizione stessa.

La ripetizione diviene dunque una spetto di tecnica analitica strutturale. In particolare, per Said è vista come un legame per spostarsi da un immediato raggruppamento di esperienza ad una sempre più mediata risistemazione di essa, in cui a crescere è la differenza tra una versione e l’altra.

Il concetto di ripetizione applicato in termini critici non è tuttavia sufficiente a soddisfare le esigenze di una teoria critica, nel momento in cui non si verifica il passaggio ad un nuovo contesto: ciò che nel paragone biologico si presenta sottoforma di procreazione.

Il punto da cui esaminare la questione si sposta dunque su quello che in questo caso è posto come l’eterno contraltare: l’originalità. Questo termine è preso principalmente nella sua sfumatura di “originario”, anche se molto si gioca sul senso di “originale” come nuovo, mai sperimentato.

Il ruolo cruciale che si vuole sostenere a proposito della letteratura, intellettualmente e criticamente, pur se mai abbastanza definito, impone di indagare questi suoi due principi presupposti per fornire la possibilità di uno studio pratico e teorico insieme, liberandosi dell’astrattezza che ne circonda le tesi. Si ricerca in questo modo l’ “Experience of Literature”: la letteratura si pone come serie di esempi estetici di ogni varietà di esperienza.

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La corrispondenza di Said è dunque più complessa di quanto potesse sembrare a prima vista: il rapporto tra autore ed opera si sviluppa all’interno di una relazione tra idee e vita umana che va ripensato nei termini di Platone ed Aristotele, una commistione di teoria e praxis.

Il concetto di originalità incorpora così un gioco di forze espresso nell’atto di scrivere, in cui esse si combinano e ricombinano; un gioco, infine, di presenza e assenza, dove esse non siano più funzionali alla nostra percezione, ma diventino gli strumenti di performances dello scrittore.

Il punto di arrivo cui si mira in questa analisi diventa presto chiaro.

Lo studio teoretico suggerito è volto ad assumere una condizione di “contingenza”, o circostanza “mondana”, o condizionamento che porta alla decisione di scrivere, atto selezionato tra tutti quelli possibili.

L’unità dello studio è determinata da quelle circostanze da cui è generata per lo scrittore l’intenzione stessa di scrivere.

La ricerca di produrre, intesa nell’etimologia stessa di filo-sofia, unisce l’originalità come intenzione irriducibile di realizzare una specifica attività con l’originalità come irrimpiazzabile azione davanti allo scrivere. L’unità nello scritto attraverso cui si possa studiare la relazione tra ripetizione ed originalità è data nel lavoro dell’autore, inteso come continuum: non in un unico lavoro, poiché in ognuno di essi, visti come piano teoretico, si aspira a scrivere oltre limiti puramente funzionali.

È proprio in questo senso che per Said diviene necessario analizzare l’intenzionalità, o, dove può essere decodificato, lo stato di desiderio da cui deriva uno specificamente marcato contesto di scrittura originale: ciò che può manifestarsi (ed è il caso del modernista) in termini di insoddisfazione con unità, genere, aspettative dell’epoca precedente. Si crea pertanto un continuo ciclo, non chiuso, in cui, molto semplicemente, le radici dell’originalità di un’epoca risiedono nel rifiuto dell’originalità dei propri predecessori.

Si ha a questo punto una visione dell’elemento “originale” non come fenomeno, quanto piuttosto in termini di duplicazione, parallelismo, simmetria, parodia, nonché ripetizione stessa, intesa questa

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come topos variamente prodotto interpretato dagli stessi lettori. Si tratta soprattutto di uno spostamento di percezione: l’autore non è più il solo iniziatore di cui parla, per esempio, Hopkins, ma diviene colui che lavora in nuove direzioni qualcosa di già iniziato, in questo caso riconoscendo una primaria importanza alla vocazione di lavorare il linguaggio.

Ad emergere con chiarezza è il rifiuto, da parte del professore palestinese, di un approccio di studio al testo come ad un oggetto già dato, finito; più ricco e interessante è invece seguirlo come un’unità che si forma nell’atto di scrivere. Senza dubbio un’archeologia: lo stesso tipo di studio dell’Ordine del discorso di Foucault.

Vi è però un particolare fondamentale. Qui, l’autore si riconosce in un complesso originale dell’atto di scrivere che, nelle sue articolate affiliazioni con il mondo sociale, comprende la natura, esattamente nel suo farsi esperienza di essa: esperienza letteraria, appunto, e in quanto tale unica, specifica.

L’autore è dunque il punto di congiunzione in questa interrelazione, esercitando il proprio metodo come potere sovrano dell’attività intellettuale, contribuendo ed attingendo contemporaneamente ad un archivio testuale, stratificato nella cosiddetta tradizione culturale. Metodo, che è un’ autorità, il possesso dell’autore nei confronti del proprio lavoro, cui è legato da una relazione filiativa o affiliativi, a seconda del tipo di rapporto stabilito.

L’archeologia saidiana del testo porta quindi a considerazioni esattamente opposte a quelle di Foucault e Derrida, sempre comunque presenti come costante, implicito riferimento.

Se le premesse di fondo concordano con quelle della scuola francese, ossia che i confini del testo non siano mai definibili, e che gli studi si diano già in un contesto predeterminato, o con altre parole, siano già campi di discorsi costituiti, l’autore non viene annullato dalla rete di contributi in cui si trova ad operare, ma è influenzato ed influenza a sua volta in un ben riconoscibile, originale apporto. Tutto ciò per Said porta piuttosto ad un superamento della questione stessa di che cosa sia un autore, ritenuta in fondo fine a stessa, per spostare l’attenzione su quello che è ritenuto il problema fondamentale: capire che cosa sia la coscienza critica.

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Nonostante il disaccordo di fondo, l’importanza di Derrida e Foucault come raffronto, e l’insistenza con cui vengono proposti in questo contesto, deriva dal fatto che sono coloro che maggiormente tentano di rispondere alla crisi della conoscenza, nei termini in cui la intende Said.

Messe a confronto, sono due visioni che si rivelano opposte su molti fronti, a cominciare dall’approccio al testo: se Foucault spazia dall’interno all’esterno del testo in questione, Derrida rimane all’interno di esso: per lui il testo rimane essenzialmente testo, pur con tutta la difficoltà di delimitarne il limite specifico19. Entrambi, tuttavia, cercano di manifestare il più possibile ciò che in esso è nascosto: in Foucault il potere, in Derrida, appunto, la cornice entro cui il testo si crea e che sempre da esso è sottesa. Condividono, inoltre, soprattutto l’importanza che nelle loro analisi riveste il legame teorico con la storia.

L’importanza dell’analisi dei due filosofi francesi riguarda inoltre il tentativo comune, pur nelle loro divergenze critiche, di prendere posizioni revisioniste circa la regnante egemonia culturale, per cui ne scaturisce un attento studio di cosa essa sia, e soprattutto la consapevolezza del rischio di una caduta in una ortodossia critica per loro stessi.

Derrida, sottolineando come la ricezione di un’opera ed il suo successivo incasellamento in categorie predeterminate siano del tutto indipendenti dall’autore stesso, e come vi sia un’anarchia implicita nell’atto di scrivere, interpretando l’atto di scrivere come un tentativo di fuga da ogni schema designato per racchiuderlo, pare essere maggiormente affine alla visione saidiana; tuttavia le sue analisi risultano al professore palestinese troppo linguistiche, concedendo troppa attenzione alla parola di per se stessa; non esercitano su di lui il medesimo fascino di quelle foucaultiane. In realtà, pur trovando in lui un grande ispiratore, da Foucault allo stesso tempo Said prende le distanze, definendolo “un paradosso”.

In lui, il sistema è analizzato in maniera pressoché impeccabile nella sua spietatezza, con estrema precisione ed acume soprattutto per quanto riguarda il meccanismo che lega conoscenza e potere. Se tuttavia è proprio questa relazione ad attrarre Said, egli ne constata poi una successiva unione:

19

“Come pensare l’esterno di un testo? Come qualcosa di più o qualcosa di meno del suo proprio margine? Come pensare, ad esempio, l’altro dal testo della metafisica occidentale?”. J. Derrida, Margini- della filosofia, Einaudi 1997

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nella rinuncia alla ricerca di un’alternativa vi è una resa a quel potere così spesso tirato in ballo, così globalizzante, così totalizzante. Non molto convincente, evidentemente, è per lui la risposta di Foucault a quest’obiezione: “Se le relazioni di potere attraversano tutto il campo sociale, è perché la libertà è dappertutto.(…) Non mi si può attribuire l’idea che il potere sia un sistema di dominio che controlla tutto e che non lascia alcun posto alla libertà”20

Si tratta di una resa, agli occhi di Said, che si manifesta nel concentrare la speculazione su di sé, operando un solipsismo; ciò che contrasta in maniera feroce con quello che Said ritiene il compito di un intellettuale, la questione di fondo cui Said ritorna sempre, la cui risposta rimane la principale: da essa derivano poi tutte le altre.

Rifiutando i giochi decostruzionisti di Derrida e l’eccessivo cinismo foucaltiano, lo studioso palestinese pone la problematica di autore, testo ed autorità in un più generale sfondo che coinvolge il singolo all’interno del sistema storico.

L’autore, colui che produce l’opera, pur sempre inserendosi all’interno di una tradizione, sia pure per contrastarla come avviene nel caso dei cosiddetti cambi epocali, marca in maniera specifica con il proprio apporto, la propria esperienza, concetto su cui ci si permette di insistere anche per sottolinearne la centralità, il ruolo chiave che riveste.

Ogni teoria, ogni idea, in breve, rappresenta un’emanazione della personalità dell’autore, del periodo in cui viene elaborata, e di tutta una serie di “circostanze” da cui è inevitabilmente marcata. Questo, tuttavia, non significa che essa non possa svincolarsi da queste circostanze stesse, il che significa svincolarsi dall’autorità su di lei esercitata. Seguendo in misura ancora maggiore una metafora vitalistica, una teoria nasce, si sviluppa, quindi prende direzioni anche imprevedibili, arrivando molto lontano: esattamente come avviene per le culture, mai stabili, ma sempre in trasformazione, anche le teorie viaggiano.

20

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1.6 Traveling theory: idee e culture in movimento.

Nella stesura di questa piccolo pezzo critico si ritrova in fondo tutto il significato dell’arazzo saidiano: indagare un’idea significa scavarne a fondo le influenze, riconoscerne gli apporti, anche quando arrivino ad esiti così diversi da essere difficilmente riconoscibili.

Interessante, dunque, è studiare che tipo di movimento di idee porti un’idea da una cultura ad un’altra, per esempio dall’Est all’Ovest.

Qui si trova analizzata e sintetizzata in quattro passaggi fondamentali: il primo è l’identificazione di un punto di origine, inteso come un insieme di circostanze iniziali in cui l’idea si sviluppa e può venire identificata come tale.

Si verifica quindi un passaggio, attraverso la pressione di vari contesti, dal punto originario ad un altro luogo o ad un’altra epoca.

La conseguenza di questo passaggio è il mettersi in moto di due meccanismi, opposti, per cui si verifica un insieme di condizioni di accettazione, o di resistenza.

A seconda del meccanismo, si attua quindi una trasformazione della teoria: una lavorazione che ne porti ad una integrazione all’interno dell’ambito sociale e culturale in questione; oppure un accanimento peggiorativo di rifiuto, che la ponga come un blocco contrapposto e contrastante. Si tratta di una lettura, come la definisce lo stesso Said, essenzialmente mimetica, etica ed umanistica, in cui l’interesse è soprattutto nel seguire il percorso di una teoria, da dove è derivata e soprattutto dove va nelle sue influenze; che cosa è diventata e cosa diventa nella sua essenziale stabilità.

Nell’elaborare Traveling theory, Said ha in mente soprattutto un processo di reificazione dell’idea, in riferimento a Lukàcs: l’esperienza umana fissata in una teoria, nelle rielaborazioni successive si stempera, “ingentilendosi” per certi versi, eppure conservando sempre dall’originale un certo prestigio, evitandole nel contempo che risulti datata.

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Tutto questo viene spiegato in maniera estremamente chiara in un intervento di parecchi anni successivo, dal titolo Traveling Theory Reconsidered21.

Ripartendo da Lukàcs, Said esemplifica il viaggio che può esser fatto intraprendere ad un enunciato teorico, nelle sue due opposte possibilità: un generale smussamento, un’adattabilità degli assunti più spinosi; oppure, al contrario, un rifiuto degli assunti principali, che però generi lo stesso impulso redentivo, partendo da presupposti esattamente contrari: “Non si potrebbe (…) considerare questo sorprendente sviluppo successivo un esempio di ‘teoria trasgressiva’, nel senso letterale di qualcosa che attraversa e contemporaneamente sfida l’idea stessa di una teoria che, movendo da una dura contraddizione, approda alla promessa di una qualche forma di redenzione?”22

In questa riflessione successiva, Lukàcs diventa il punto di partenza per il “viaggio” del rapporto soggetto-oggetto da lui ad Adorno, per arrivare a Fanon; percorso che si compie proprio attraverso quella modalità del rifiuto del predecessore, della volontà di un cambio di prospettiva che fa sì che ogni apporto alla teoria apra la possibilità di una nuova ottica, senza che ciò comporti forzatamente una svalutazione; se la reificazione si fa più dura e il linguaggio più complesso in Adorno, in tutt’altra ambientazione si ritrova la dialettica soggetto-oggetto in Fanon, svolgendosi sul terreno del colonialismo e del non-europeo; relazione che si snoda tutta nei termini di una violenza che è vista come unico mezzo, almeno in un primo momento, per superare una dialettica irrisolta.

Creare un collegamento tra Lukàcs, Adorno e Fanon vuole essere un paradigma per mostrare la forza e l’influenza di una disposizione teorica lungo un percorso filiativo o affiliativo, non necessariamente diretto.

I tre autori, certamente molto differenti fra loro, si trovano a confrontarsi con la medesima problematica, in questo caso il rapporto soggetto-oggetto, fornendone tre distinte elaborazioni. Il punto di partenza, l’origine, mai vero ma sempre scelto in maniera arbitraria, eppure sempre ragionato, conduce in ambiti difficilmente prevedibili nella situazione iniziale.

21

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Il critico gode del suo lavoro di osservatore, seguendo più le suggestioni che lo portano a spaziare tra autori ed opere diversi, a volte eccedendo nei suoi accostamenti, ma tenendo ben fisso il suo punto di partenza, che è poi l’unica conclusione possibile; e nel caso di Said viene così spiegato: “Agisce qui una particolare convergenza, tra Fanon e questo Lukàcs (anche solo per un attimo) più ‘radicale’, come tra Lukàcs e Adorno. In entrambi i casi si suggerisce la necessità di un lavoro teorico, di critica, di demistificazione, di profanazione e di decentramento che non finisce mai. Perché il significato ultimo di una teoria è quello di viaggiare, di spingersi continuamente al di là dei propri confini, di emigrare, di trovarsi in un certo senso perennemente in esilio. Adorno e Fanon non sono che esempi di questa profonda irrequietezza”.

Implicitamente, vi è anche in tutto questo un invito a riflettere sulle modalità di affermazione di un discorso dogmatico, quello proprio degli intellettuali chiamati chierici: una definizione adoperata nella sua sfumatura dispregiativa per indicare i “religiosi della critica”, accostamento in cui il primo dei due termini annulla il secondo.

Ma oltre a riconoscere e soprattutto disconoscere la contaminazione di un discorso critico che sia, l’interrogativo che qui ci si pone è più radicale: si può dare l’esistenza di un discorso critico che non sia, in termini foucaultiani, un discorso? La presenza dell’autore si è detta essere in quest’ottica un inevitabile presenza-assenza all’interno del testo, apparentemente invisibile ma in realtà ben consolidata per la scelta del linguaggio, delle parole.

In Orientalismo l’interesse principale era quello di svelare questa presenza con un’analisi che coinvolgesse testo e contesto, senza però tentare una risposta a quest’interrogativo posto peraltro da Said in altre forme ed altri contesti.

Il passo successivo, quello di tentare una sistematizzazione senza sistema della storia della letteratura, viene affrontato nell’ultima e più grande opera critica, Cultura ed imperialismo.

Di una sistematizzazione si tratta, poiché consiste nel tentativo di dare una forma alle voci plurivalenti di cui è costituita la sfera letteraria, nel più ampio sfondo di rapporti fra culture ed elementi che le compongono; senza sistema tuttavia, intendendo con ciò un criterio predeterminato

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di espunzione e selezione che si basi su elementi essenzialmente non letterari, quali le interrelazioni economiche e geopolitiche.

Per chi abbia seguito il percorso critico è evidente come questo lavoro sia una costruzione edificata sui saggi precedenti, i cui concetti sono stati portati a maturazione: Cultura e imperialismo rappresenta dunque, da questo punto di vista, il massimo punto critico, dove l’autore esprime la propria linea teorica attuandola, vale a dire proponendo una rivisitazione dei grandi classici di cui si compongono le letterature principali, fornendone una nuova ottica di studio.

1.7 Cultura e imperialismo: viaggio attraverso la critica.

È stato già detto come Cultura e imperialismo possa esser ritenuta una sorta di ampliamento del precedente Orientalismo, in cui però cambia la prospettiva dell’impostazione del discorso: non ci si focalizza ora sul silenzio passivo che costituisce lo sfondo al discorso (occidentale), ma sulla parte attiva di quello stesso Altro, che diventa ora Ego a sua volta; non si tratta più di dominazione, ora, ma di resistenza.

Cultura e imperialismo sono entrambi posti come esperienze storiche, i cui rapporti sono dinamici e complessi. “Cultura”, qui, è un ampio termine per indicare forme di sapere su piano metodologico e filosofico ibride, per le quali è necessario un collegamento e la realtà mondana che le produce. Il presupposto di base dello studio che Said si prefigge è chiaro e diretto: l’imperialismo viene posto come un fenomeno, di straordinaria portata. Non è dunque possibile che non abbia lasciato traccia nelle forme culturali che partono dalle prime fasi del suo sviluppo ai nostri giorni, in particolare all’interno di una forma realistica e rappresentativa della realtà come il romanzo.

Negli autori di romanzi classici, come Dickens e la Austen, si ritrovano i segni chiarissimi di un atteggiamento tipico di tutta una classe sociale, di tutto un paese: le terre lontane, fondamentalmente disabitate, considerate come un altro mondo da cui ricavare per la propria patria ricchezza e

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