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UNIFORMITÀ DI CONCEZIONE DOTTRINALE PER UNIFORMARE I RISARCIMENTI

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UNIFORMITÀ DI CONCEZIONE DOTTRINALE PER UNIFORMARE I RISARCIMENTI

di

Marco Rossetti*

Ricognizione dell’esistente

In materia di responsabilità civile, compito degli organi giudiziari è quello di accertare l’esistenza dell’illecito e di liquidare il danno.

La liquidazione del danno deve essere finalizzata a riportare il complessivo patrimonio del danneggiato nella situazione in cui si trovava prima del verificarsi dell’evento dannoso. Questa reintegrazione può avvenire sia in forma specifica, cioè ricostituendo nella loro materialità le utilità perdute; sia per equivalente, cioè sostituendo le utilità perdute con altre utilità.

Ove non sia possibile provare l’entità del danno nel suo preciso ammontare, la liquidazione deve essere compiuta dal giudice equitativamente, vale a dire mettendo da parte gli strumenti della logica analitica, della contabilità o della aritmetica, e ricorrendo a quelli dell’appercezione, della sensibilità umana, del prudente apprezzamento.

Queste sono le principali regole dettate dal nostro codice civile per la liquidazione dei danni cagionati da un illecito extracontrattuale1.

Queste regole, apparentemente chiare e semplici, scontano tuttavia un rilevante tasso di difficoltà applicativa in materia di lesioni della salute cagionate dall’altrui atto illecito. Le difficoltà applicative sorgono dalla non perfetta sovrapponibilità della fattispecie legislativa (astratta) alle fattispecie concrete in cui l’eventus damni è rappresentato da una lesione della salute.

Nella realtà fenomenica, l’evento naturalistico della compromissione della integrità psicofisica viene definito “danno” in quanto costituisce una lesione del diritto inviolabile dell’uomo alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria personalità morale, intellettuale, culturale2.

Si tratta dunque di una fattispecie assolutamente diversa rispetto ad un tradizionale concetto di danno, vuoi che si intenda quest’ultimo come deminutio patrimonii3; vuoi che si intenda il danno come lesione di un interesse4; vuoi che lo si intenda, infine, come l’evento che colpisca un bene5. La diversità rispetto al tradizionale concetto di danno risiede nella circostanza che l’elemento oggettivo sul quale incide il danno biologico è la salute, ovvero non soltanto un bene od un interesse, ma uno status, una situazione soggettiva con carattere di permanenza; status che può essere sia collettore di interessi molteplici (al lavoro, allo svago, all’amore, alla scienza, alla religione, ciascuno dei quali suscettibile di essere compromesso da una lesione della salute); sia presupposto necessario per la produzione o l’acquisizione di beni patrimoniali.

La constatazione di una simile diversità conduce ad una osservazione apparentemente paradossale: il danno biologico è un danno in sé irrisarcibile. Ove infatti si concepisca il risarcimento come l’operazione mirante a rimettere il soggetto, che abbia subìto un danno, nella situazione qual era prima che esso si verificasse6, è evidente che colui il quale ha dovuto subire una compromissione

* Magistrato Sezione Civile del Tribunale di Roma 1artt. 1223, 1226, 1227, 2056, 2058 c.c.

2 in tal senso, ex plurimis, Cass. civ. 11 febbraio 1985 n. 1130, Cass. civ. 21 marzo 1986 n. 2012, Cass. civ. 4 settembre 1990 n. 9118, Cass. civ. 9 maggio 1991 n. 5161, inedita; Cass. civ. 18 febbraio 1993 n. 2008, Cass. civ. 10 giugno 1994 n. 5669.

3VENEZIAN, Danno e risarcimento fuori dei contratti, in Scritti giuridici, I, Roma, 1919, 1.

4CARNELUTTI, Il danno e il reato, Padova, 1926

5SCOGNAMIGLIO, Appunti sulla nozione di danno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, 464 6MASTROPAOLO, Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XXVII, voce Risarcimento del danno, I

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dell’integrità psicofisica non potrà essere mai risarcito in senso proprio, essendo impossibile, per definizione, eliminare una invalidità permanente7.

Esiste dunque uno iato tra il concetto eminentemente patrimonialistico di danno, avuto presente dal legislatore del 1942, ed il concetto di danno biologico8 come elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Questo iato non è stato sino ad oggi colmato dall’auspicato intervento del legislatore.

Ne è conseguito che ogni giudice, non trovandoli nella legge, ha dovuto creare da sé i criteri cui ricorrere per liquidare il danno biologico.

Così, si sono create scuole di pensiero differenti; raffinati dibattiti sono stati celebrati; ponderosi tomi sono stati scritti, ma la ricerca scientifica e l’approfondimento dottrinario hanno fatalmente fatto passare in secondo piano un aspetto da ritenere vitale in subjecta materia: la ricerca dell’uniformità di trattamento.

In questo delicato settore l’uniformità di trattamento non è soltanto un valore per sé, cioè un valore strumentale. Senz’altro, l’uniformità di trattamento è un presupposto necessario per conseguire molti ed importanti scopi pratici: consentire al creditore (il danneggiato) di conoscere almeno l’area minima della propria pretesa; consentire alle imprese di assicurazione di realizzare previsioni di spesa attendibili, contenendo i premi ed evitando così costi sociali; scoraggiare un ricorso indiscriminato e strumentale alla soluzione giudiziaria della controversia.

Tuttavia l’uniformità di trattamento è anche - soprattutto - un valore in sé, cioè un valore finale.

Che le lesioni della persona di pari gravità siano risarcite in tutta la Repubblica con i medesimi valori monetari, rappresenta non solo una diretta attuazione del precetto di cui all’art. 3 Cost., ma anche una realizzazione del principio di civiltà per cui si aequa non est, nec iustitia dici potest.

Disparità di trattamento, imprevedibilità delle decisioni, instabilità delle soluzioni adottate (con conseguenti corsi e ricorsi giurisprudenziali) sono tutti fattori che minano la credibilità e la stima dell’ordinamento giudiziario dinanzi agli occhi del cittadino; incentivano le liti pretestuose; realizzano sostanziali iniquità.

Purtroppo, la possibilità che i criteri adottati dai giudici italiani per risarcire il danno biologico siano ridotti ad unità non appare, oggi, di immediata realizzazione. Una sommaria analisi della giurisprudenza di merito mostra infatti un panorama talmente eterogeneo, che per un osservatore esterno non deve apparire molto dissimile dal “tumulto, il qual s’aggira/ (...) come la rena quando turbo spira”9.

L’uniformità vera e propria potrebbe essere conseguita solo in virtù di un intervento legislativo, peraltro semplice e di nessun costo per il bilancio dello Stato, che il nostro legislatore, affaccendato in dialoghi sui massimi sistemi, non sembra avere né la voglia né il tempo di compiere.

Se tuttavia l’uniformità è impossibile (o oltremodo difficile) in assenza di una legge, un reale e soddisfacente ’avvicinamento dei diversi criteri di risarcimento appare un obiettivo raggiungibile nel breve periodo, purché tutti gli operatori del settore si rendano disponibili al confronto ed al reciproco arricchimento.

Uniformità di concezione, uniformità di valutazione, uniformità di liquidazione

Il problema del conseguimento di una accettabile uniformità nella liquidazione del danno biologico non può essere risolto unicamente creando una tabella o una formula da far poi accettare o

7 Si pensi che i Romani, per molti versi giuristi più raffinati di noi, consideravano damnum in senso proprio (cioè produttivo di una obbligazione risarcitoria) solo la lesione della salute dello schiavo, cioè di una res. In questi casi infatti l’obbigo risarcitorio era commisurato al maggior valore che lo schiavo aveva avuto nei trenta giorni precedenti la lesione o la morte (GAIO, Institutiones, 3, 218). La lesione della salute d’un uomo libero e cittadino romano non era invece considerata damnum, ma iniuria, e produceva un’obbligazione non latamente risarcitoria, ma con finalità indennitarie-sanzionatorie: l’entità di tale obbligazione era fissata direttamente dal danneggiato, previa autorizzazione del pretore (GAIO, Institutiones, 3, 224).

8 In prima approssimazione, si intenderà qui per danno biologico la limitazione o la compromissione, tanto temporanea quanto definitiva, della complessiva integrità psicofisica dell’essere umano, causata dall’altrui fatto illecito.

9 Dante, Inf., III, 28.

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condividere a tutti gli organi giudiziari. Paradossalmente, proprio quello che è l’aspetto socialmente più evidente e percepibile dell’operazione di liquidazione (giustappunto, il ricorso ad una sorta di lex duodecim tabularum, ove trovare il valore dell’os fractum e del membrum ruptum), rappresenta l’aspetto soltanto terminale di un qualsivoglia processo di omogeneizzazione dei criteri liquidativi.

L’uso di una tabella basata sulla fissazione di un valore monetario del punto di invalidità non avrebbe infatti senso, se gli utilizzatori della tabella stessa adottassero differenti concezioni di danno biologico, ovvero differenti barèmes per determinare il grado di invalidità permanente, ovvero differenti concezioni della c.d. incapacità lavorativa.

Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui due giudici, adoperando la medesima tabella, liquidino il medesimo danno sposando le conclusioni di due elaborati peritali redatti facendo riferimento a due barèmes differenti, uno italiano e l’altro americano. In questo caso a parità di danno, a parità di tabella, il risarcimento sarà necessariamente differente.

Oppure si pensi all’ipotesi in cui due giudici, adoperando la medesima tabella, liquidino il medesimo danno biologico; ma poi l’uno ritenga che la riduzione della c.d. capacità lavorativa specifica sia un danno patrimoniale che vada provato caso per caso, e perciò nulla liquidi a tale titolo non avendo l’attore fornito alcuna prova in merito; l’altro invece ritenga che la c.d. capacità lavorativa specifica sussista in re ipsa, sol che il grado di invalidità permanente superi una certa percentuale, e quindi risarcisca anche tale tipo di danno con una criteriologia analoga a quella adottata per la liquidazione del danno biologico, sostituendo però al valore del punto il reddito del danneggiato10.

Il problema della uniformità di trattamento appare pertanto insolubile ove se ne cerchi la soluzione unicamente sul piano dei criteri di liquidazione del danno. L’uniformità di liquidazione può essere conseguita soltanto se, prima di qualsiasi uniformità sui valori tabellari, si sia raggiunta una apprezzabile uniformità nella valutazione in punti percentuali del danno. Questa, a sua volta, non può essere raggiunta se, a monte, non ci si sia accordati su una uniforme concezione del danno biologico.

I tre aspetti appaiono non solo connessi, ma addirittura embricati. Per arrivare dunque ad uniformemente liquidare il danno biologico, bisogna dapprima uniformemente concepirlo, quindi uniformemente valutarlo.

Il conseguimento dell’uniformità, o almeno dell’avvicinamento, passa perciò necessariamente attraverso imprescindibili opzioni teoriche, “scelte drastiche” da compiere tra più soluzioni possibili.

Le scelte drastiche

A) Uniformità di concezione: La natura del danno biologico: patrimoniale o non patrimoniale; strutturale o funzionale.

Si può parlare di natura del danno biologico sia con riferimento alla sua essenza; sia con riferimento al tipo di pregiudizio che reca.

Sotto il primo profilo, si discute se il danno biologico abbia natura patrimoniale o non patrimoniale; sotto il secondo profilo, si discute se abbia natura strutturale (di lesione dell’integrità biopsichica), ovvero funzionale (di lesione delle funzionalità esistenziali dell’individuo).

A) Stabilire se il danno biologico abbia o meno natura patrimoniale, ovvero costituisca un terzo tipo di danno rispetto a quello patrimoniale ed a quello non patrimoniale, è essenziale ai fini della liquidazione (e della conseguente individuazione di criteri uniformi di liquidazione). Il risarcimento del danno patrimoniale è infatti retto dal principio della equivalenza, secondo il quale quanti ea res erit, tantam pecuniam condemnato. Ciò vuol dire che, ove si consideri il danno biologico un danno patrimoniale, la prima operazione da compiere per liquidare tale danno sarà quella di ricercare il

10 L’ipotesi non è surreale: il primo criterio è stato adottato dal Tribunale di Roma; il secondo dalTribunale di Brescia.

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valore economico delle utilità perdute, con la conseguenza che saranno risarcibili solo quelle suscettibili di valutazione economica.

In dottrina, le opinioni sul punto sono ancor oggi divergenti. Taluni autori ritengono che il danno biologico costituisca senz’altro un danno patrimoniale: sia perché può sempre obiettivamente commisurarsi in denaro11, sia perché sarebbe patrimoniale non solo il danno consistente nel mancato guadagno, ma anche quello consistente nella forzata rinuncia a svolgere attività ricreative o ludiche.

Sarebbe, cioè, patrimoniale non solo il danno che priva il soggetto danneggiato d’un valore di scambio, ma anche quello che lo priva d’un valore d’uso12.

Altri autori, invece, propendono per la natura non patrimoniale del danno alla salute, allegando che la capacità di pienamente fruire delle gioie della vita non è un’utilità economica in senso stretto:

ne consegue che la diminuzione di tale capacità non può essere misurata con una somma di denaro, e non può trovare applicazione la regola dell’equivalenza, propria del modello patrimoniale di danno13. L’intervento della Corte Costituzionale, con la famosa sentenza 14 luglio 1986 n. 184 (in Foro it.

1986, I, 2053), non ha risolto tale questione. La sentenza della Corte infatti, non pronunciandosi sulla natura patrimoniale del danno biologico, venne paradossalmente addotta a sostegno sia dai fautori della teoria della patrimonialità, sia da quelli della teoria della non patrimonialità; sia dai sostenitori dell’idea del tertium genus.

Anche nella giurisprudenza si è riscontrata una certa diversità di vedute, che oggi sembra però andar scomparendo.

In genere, le pronunce che propendono per la tesi della natura patrimoniale sono isolate e non recentissime: si vedano ad esempio Trib. Roma 9 marzo 1987 n. 3014, in Riv. giur. circ. trasp., 1987, 670; Trib. Livorno 12 luglio 1988, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1989, 328; Trib. Pescara 20 settembre 1990 n. 872, in PQM, 1991, 65.

Molto più numerose, invece, le decisioni che hanno ravvisato nel danno biologico un danno di natura diversa rispetto al danno patrimoniale: tra le moltissime, si vedano Trib. Spoleto 10 agosto 1987, in Giust. civ., 1988, 2992; Trib. Pescara 3 febbraio 1988 n. 46, in PQM, 1989, 45; App.

Venezia 2 marzo 1988 n. 183, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1989, 127; Trib. Brescia 26 ottobre 1988, in Resp. civ. prev., 1988, 1025; Trib. Milano 12 dicembre 1988 n. 1173, in Arc. giur. circ. sin.

strad., 1989, 405; App. Perugia 25 febbraio 1989 n. 45, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1989, 583;

Trib. Genova 9 marzo 1989, in Giur. it., 1989, 938; App. L’Aquila 21 marzo 1990 n. 145, in PQM, 1990, 26; Trib. Lucca 11 aprile 1990 n. 487, in Arc. giur. circ. sin., 1991, 763; Trib. Reggio Calabria 1 febbraio 1991 n. 32, inedita; Trib. Como 18 maggio 1991, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1991, 673; Trib. Lanciano 29 maggio 1991 n. 222, in PQM, 1991, 46; Trib. Firenze 30 giugno 1992 n. 1291, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1992, 1013; Trib. Como 2 marzo 1993 n. 865, in Riv. giur.

circ. trasp., 1994, 376.

Vi è stato anche chi, come Trib. Milano 7 luglio 1988, in Giur. it., 1989, 318, ha tagliato corto ritenendo ozioso qualificare il danno biologico come patrimoniale o non patrimoniale, asserendo che esso è comunque “ingiusto” ai sensi dell’art. 2043 c.c., e pertanto va in ogni caso risarcito.

Più lineare la giurisprudenza della suprema corte. Limitando l’analisi alle pronunce più significative, si rileva così che Cass. civ. 10 marzo 1990 n. 1954, espressamente afferma che danno biologico e danno patrimoniale attengono a due distinte sfere di riferimento. Poco dopo, tuttavia, Cass. civ. 4 aprile 1990 n. 9118, ha affermato che “nel caso di fatto illecito lesivo dell’integrità psicofisica il danno patrimoniale risarcibile non è costituito solo dalle conseguenze pregiudizievoli correlate all’efficienza lavorativa ed alla capacità di produzione del reddito, ma si estende a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute”, sembrando così voler sussumere anche il danno biologico nella categoria del danno patrimoniale. Fondamentale, sul punto, è però l’insegnamento di Cass. civ. 18 febbraio 1993 n. 2008, nella quale recisamente si afferma che il

11: BUSNELLI-BRECCIA, Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978, 515.

12: MASTROPAOLO, Il risarcimento del danno alla salute, Napoli, 1983, 239.

13: SALVI, Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, Napoli, 1985, 214.

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nocumento subìto dal soggetto leso nella propria salute dall’altrui atto illecito costituisce un pregiudizio non patrimoniale. Nello stesso senso, si sono espresse poi Cass. civ. 1 dicembre 1994 n.

10269, e Cass. civ. 9 dicembre 1994 n. 10539, inedita, nelle quali si torna a ribadire che danno biologico e danno patrimoniale pertengono a sfere risarcitorie differenti.

La natura non patrimoniale del danno biologico è stata poi recisamente affermata da Corte cost.

18 luglio 1991 n. 35614, la quale ha dichiarato illegittimi sia l’art. 10, co. VI e VII, t.u. 30 giugno 1965 n. 1124, nella parte in cui permette al lavoratore danneggiato di pretendere dal terzo responsabile solo la quota parte di danno biologico ‘puro’ in esubero rispetto a quanto già indennizzato dall’I.n.a.i.l., e non l’intero danno biologico; sia l’art. 11, co. I e II, t.u. 30 giugno 1965 n. 1124, nella parte in cui permette all’assicuratore sociale di aggredire, nell’esercizio del diritto di surroga nei confronti del terzo responsabile, anche le somme dovute al danneggiato a titolo di danno biologico ‘puro’, ovvero non connesso alla perdita di capacità lavorativa generica.

Riducendo in epitome le varie posizioni giurisprudenziali e dottrinarie sopra delineate, se ne ricava che secondo la maggior parte degli autori e dei giudici:

a) la natura patrimoniale del danno non va desunta dalla possibilità di ristorare con una somma di denaro il soggetto danneggiato, ma va accertata con riferimento alla natura del bene aggredito dall’azione dannosa. Altro è infatti la lesione di un bene patrimoniale; altro è la lesione di un bene suscettibile di valutazione patrimoniale. Nella nostra società la moneta, il capitale, non sono più soltanto beni strumentali, necessari per il conseguimento di scopi vari, ma si pongono essi stessi come beni finali rispetto ai quali tende l’azione dell’uomo. Ne consegue che - purtroppo - quasi tutto è suscettibile di valutazione economica, ma non tutto ciò che è suscettibile di valutazione economica costituisce un bene patrimoniale;

b) il diritto alla salute è un diritto primario dell’individuo, il quale non ha natura o contenuto patrimoniale;

c) il danno da lesione della salute è perciò un danno avente natura non patrimoniale15.

Si raggiunge così un primo risultato dell’analisi: è impossibile, o quanto meno non ortodosso logicamente, pretendere di stabilire la somma di denaro da porre a base del calcolo risarcitorio attraverso la ricerca di un valore “equivalente” a quello perduto. Come sopra accennato, infatti, ove il danno non abbia natura patrimoniale non si può utilmente ricorrere alla regola dell’equivalenza, perché è per definizione impossibile rendere omogenee grandezze fra loro incommensurabili. Ne consegue che dovrebbero essere abbandonati, in sede di liquidazione del danno, tutti quei criteri che partono da un riferimento reddituale. Se infatti il danno biologico è un danno non patrimoniale, appare fuorviante ogni riferimento al reddito o comunque al patrimonio. L’adozione di tali riferimenti non è tuttavia rara nella giurisprudenza di merito: si veda, ad esempio, Trib. Monza 19 dicembre 1992, in Foro it., 1994, 2291, secondo il quale il danno biologico va liquidato triplicando la retribuzione minima percepibile dal danneggiato, ovvero raddoppiandola se già riscossa; oppure Trib.

Fermo 12 dicembre 1992 n. 631, inedita, secondo il quale deve procedersi alla liquidazione del danno biologico ponendo come base del calcolo il reddito annuo del danneggiato, in quanto il danno subìto

14: in Foro it., 1991, 2968, 2340 e 3292, con note rispettivamente di DE MARZO, Pregiudizio della capacità lavorativa generica: danno da lucro cessante o danno alla salute?; di ESPOSITO, Danno alla salute per infortunio sul lavoro, e di POLETTI, Il danno “biologico” del lavoratore tra tutela previdenziale e responsabilità civile. La sentenza può leggersi anche in Riv. giur. circ. trasp., 1991, 102, con nota di ASSANTE, Diritto di surroga ex art. 1916 cod. civ. e danno biologico alla luce della sentenza n. 356 del 1991 della corte costituzionale.

15: Questa conclusione schiude ulteriori prospettive problematiche, che qui possono essere soltanto sfiorate. Perché infatti ricorra un danno patrimoniale non è sufficiente la lesione di un interesse, ma è necesario che sussista altresì una riduzione di utilità economiche: il danno cioè è risarcibile solo se sussistono conseguenzepregiudizievoli (PATTI, Danno patrimoniale, in Dig. civ., V, Torino, 1989, 91; BUSNELLI, Figure controverse di danno alla persona nella recente evoluzione giurisprudenziale, in Resp. civ. prev., 1990, 469). Quando invece si ammette la risarcibilità di un danno come danno non patrimoniale, se ne ammette la liquidazione a prescindere da ogni contrazione reddituale (o comunque conseguenza pregiudizievole), sol che sia leso l’interesse protetto. Definire il danno biologico co medanno patrimoniale potrebbe pertanto indurre a ritenere che tutti gli interessi protetti dalla Costituzione, ove lesi o violati, farebbero sorgere obbligazioni risarcitorie a carico degli autori dell’atto lesivo dell’interesse protetto: donde le tendenze di certa giurisprudenza ad estendere oltre ogni confine l’area del danno biologico, ammettendo al risarcimento per tale tipo di danno soggetti che lamentano lesioni dell’onore; inadempimenti contrattuali; morte di animali, tradimenti coniugali, ecc. (si veda, sul punto, MESSINETTI, La moltiplicazione dei diritti e dei danni, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 173).

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è “tanto maggiore quanto più alta è la posizione nella società del soggetto”; oppure Trib. Lanciano 29 maggio 1991 n. 222, in PQM, 1991, 46, il quale ha posto a base del calcolo per la liquidazione del danno da invalidità permanente il reddito medio del danneggiato negli ultimi tre anni anteriori al sinistro; o ancora Trib. Messina 8 giugno 1988 n. 562, inedita, il quale ha posto a base della liquidazione del danno biologico per un soggetto non lavoratore il reddito che egli avrebbe presuntivamente percepito.

Passando ora all’esame della natura strutturale o funzionale del danno biologico, deve innanzitutto osservarsi che nella sua accezione originaria, il sintagma “danno biologico” veniva inteso da alcuni giudici di merito come lesione all’integrità psicofisica in sé considerata, esistente di per sé a prescindere dalla entità e dalle conseguenze pregiudizievoli della lesione stessa16. Successivamente, però, venne sviluppandosi una concezione diversa e più elaborata: si sostituì cioè al concetto di danno biologico, identificato con la lesione somatopsichica, quello di “danno alla salute”. Con questa nuova formula si voleva designare non la mera lesione dell’integrità fisica e psichica; ma quella lesione dell’integrità alla quale residuavano postumi con carattere di permanenza i quali avrebbero precluso in tutto od in parte, al soggetto danneggiato, di essere, di lavorare, di distrarsi, di apparire, così come egli era, lavorava, si distraeva, appariva, prima dell’evento dannoso. Si prendeva in considerazione cioè non la lesione, ma la sua conseguenza; non il quantum di integrità perduta (che comunque resta un elemento indefettibile nella valutazione risarcitoria), ma il quantum di esistenzialità perduta17.

Sorge così il problema se nel liquidare il danno biologico occorra considerare la lesione della

“struttura” dell’organismo (comprendendo in tale lemma anche la sfera psichica), ovvero occorra far riferimento alla somma delle “funzioni” esistenziali perdute dal danneggiato.

Il problema ha rilevanza pratica enorme: si pensi, al riguardo, al caso di un soggetto il quale, in conseguenza dell’altrui atto illecito, perda uno o più elementi dentari. Si immagini che gli elementi dentari perduti siano perfettamente protesizzabili, e che vengano sostituiti stabilmente, senza alcuna ripercussione né sulla funzione masticatoria, né sull’estetica del danneggiato. In un simile caso, ove si consideri il danno da lesione della salute come un danno strutturale, tale danno è presente e va risarcito: è infatti evidente che la integrità del soggetto è stata definitivamente compromessa, in quanto altro è avere nel cavo orale denti propri; altro è avere delle protesi. Se invece si considera il danno da lesione della salute quale danno funzionale, cioè come soppressione di funzionalità, nel caso in esame non vi sarà addirittura alcun danno biologico da risarcire, in quanto il soggetto leso non ha perduto alcuna funzione esistenziale18.

La sentenza 14 luglio 1986 n. 184 della Corte cost., cit., sembrava corroborare la tesi del danno biologico quale danno strutturale, ancorché il problema non venisse esplicitamente affrontato. In quella sentenza infatti il danno biologico veniva considerato come danno-evento, interno alla struttura lesiva dell’illecito, e ben distinto dai danni-conseguenza (danno morale e danno patrimoniale). Affermò in quell’occasione la Corte costituzionale che “è l’ingiustizia (lesione del diritto alla salute) insita nel fatto menomativo dell’integrità biopsichica, il fondamento giuridico del risarcimento del danno biologico”. Se ne dedusse così che ogni lesione, benché minuscola e priva di conseguenze, dovesse essere risarcita.

Tuttavia con la recente sentenza 27 ottobre 1994 n. 37219, la Corte costituzionale è ritornata su tale questione, fornendo una sorta di interpretazione autentica della precedente sentenza 14 luglio 1986 n. 184. Si legge infatti nella motivazione della sentenza del 1994 che la Corte, quando con la sentenza 184/’86 ha definito “presunto” il danno biologico, identificandolo col fatto illecito lesivo della salute, non ha inteso affatto affermare che la semplice prova della lesione fosse sufficiente ai fini

16:Trib. Genova 25 maggio 1974, in Giur. it. 1975, I, 2, 54; Trib. Genova 20 ottobre 1975, in Giur. it. 1976, I, 2, 444.

17: Cfr. Trib. Pisa 10 marzo 1979, in Giur. it. 1980, I, 2, 20; Trib. Roma 17 gennaio 1994 n. 490, in Riv. giur. circ. trasp., 1994, 853, con nota di MOLFESE, Una franchigia per il danno alla salute.

18: Su questi problemi, si veda ROSSETTI, Prolegomeni ad una ipostasìa del rachide cervicale, in Riv. giur. circ. trasp., 1995, 290.

19in Giust. civ., 1994, I, 3029, con nota di BUSNELLI, Tre “punti esclamativi”, tre “punti interrogativi”, un “punto e a capo”.

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del risarcimento. La Corte ha invece voluto affermare, nella sentenza del 1986, semplicemente che la prova della lesione costituisce (in re ipsa) prova dell’esistenza del danno. Per ottenere il risarcimento di tale danno, è però necessario fornire “la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quella indicata nell’art. 1223 c.c., costituta dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”. E’ irrilevante in questa sede chiedersi se la sentenza del 1994 costituisca una semplice interpretazione ovvero un autentico superamento della sentenza del 1986, anche perché un simile interrogativo sarebbe probabilmente ozioso. Rileva invece osservare che, sotto questo aspetto, la Corte costituzionale ha raggiunto risultati analoghi a quelli raggiunti dalla scienza medico legale, e cioè che la lesione in sé è prova dell’esistenza del danno;

perché tuttavia questo danno sia risarcibile è necessario che esso si traduca in una perdita; questa perdita deve consistere nella riduzione o soppressione di una o più possibilità di estrinsecazione della personalità del danneggiato.

Conclusioni analoghe potevano del resto desumersi anche dall’analisi comparata della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale costantemente definisce il danno biologico come

“gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute, in sé considerato quale diritto inviolabile dell’uomo alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria personalità morale, intellettuale, culturale”20; ovvero come “il valore umano perduto”21. Particolarmente importante al riguardo è Cass. civ. 18 febbraio 1993 n. 2008, nella quale esplicitamente si afferma che nel liquidare il danno alla salute occorre tener conto del modo in cui la lesione ha inciso sulla sfera di estrinsecazione dei valori personali vitali e psicofisici.

Le posizioni della giurisprudenza di merito, sul punto, sono invece più varie e più discordi:

accanto a chi considera il danno biologico come lesione funzionale della salute, cioè come fatto che limita le possibilità esistenziali del danneggiato, impedendogli di vivere lo stesso tipo e qualità di vita che avrebbe vissuto se non fosse stato attinto dalla lesione (Trib. Pisa 16 gennaio 1985, in Riv. it.

med. leg., 1987, 630; Trib. Roma 9 marzo 1987 n. 3014, in Riv. giur. circ. trasp., 1987, 670; Pret.

Piedimonte Matese 1 agosto 1987, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1988, 842; Trib. Milano 12 dicembre 1988 n. 1173, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1989, 405; App. Perugia 18 marzo 1989 n. 81, in Arc. civ., 1990, 46; Trib. Macerata 20 dicembre 1989 n. 443, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1990, 398; App. L’Aquila 21 marzo 1990 n. 145, in PQM , 1990, 26; Trib. Pescara 5 marzo 1992 n. 235, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1992, 1016; Trib. Firenze 30 giugno 1992 n. 1291, in Arc. giur. circ.

sin. strad., 1992, 1013; Trib. Milano 10 dicembre 1992, in Resp civ. prev., 1993, 995; Trib. L’Aquila 2 novembre 1993, in Giur. mer., 1994, 852; Trib. Firenze 7 giugno 1994, in Arc. giur. circ. sin.

strad., 1994, 1070)22, vi è chi considera il danno biologico semplicemente come lesione dell’integrità fisiopsichica, e quindi come danno strutturale (Trib. Pescara 3 febbraio 1988 n. 46, in PQM, 1989, 45; Trib. Messina 8 giugno 1988 n. 548, inedita; Trib. Genova 17 febbraio 1989, in Assicurazioni, 1989, 121; Trib. Genova 9 marzo 1989, in Giur. it. 1989, 938; Trib. Busto Arsizio 15 febbraio 1990 n. 90, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1990, 598; Trib. Treviso 24 maggio 1990 n. 1283, in Riv. giur.

circ. trasp., 1990, 796; Trib. Reggio Calabria 1 febbraio 1991 n. 32, inedita; Trib. Milano 16 luglio

20: Esattamente in questi termini Cass. civ. 11 febbraio 1985 n. 1130, in ...; Cass. civ. 21 marzo 1986 n. 2012, in ...; Cass. civ. 4 settembre 1990 n. 9118, in ...; Cass. civ. 9 maggio 1991 n. 5161, inedita.

21: Cass. civ. 9 dicembre 1994 n. 10539, inedita.

22: Le formule adottate al riguardo dai giudici di merito sono piuttosto varie nella sintassi, ma sostanzialmente analoghe dal punto di vista semantico. Così, il danno biologico viene definito di volta in volta come fatto che preclude al danneggiato di avvalersi delle proprie energie vitali nella stessa misura possibile prima della lesione; lesione delle manifestazioni o espressioni quotidiane del bene salute, riguardanti sia attività lavorative che extralavorative; lesione del valore uomo in tutta la sua dimensione concreta; lesione del diritto alla pienezza della vita; lesione delle funzioni naturali del soggetto; lesione della personalità del soggetto con riferimento alla somma delle funzioni naturali che afferiscono al soggetto stesso nell’ambito dell’ambiente in cui vive.

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1992 in Resp. civ. prev., 1993, 348; Trib. Torino 8 agosto 1992 n. 6511, in Arc. giur. circ. sin.

strad., 1993, 545)23.

Una soluzione per questo problema non può tuttavia essere rinvenuta soltanto utilizzando la metodologia del giurista, ovvero la comparazione di fattispecie astratta e fattispecie concreta. Il dato reale, la fattispecie concreta (che nel caso in esame è rappresentato dal concetto di compromissione dell’integrità psicofisca complessiva) viene infatti trovato e non creato dal giurista: con la conseguenza che una corretta analisi giuridica non può prescindere dal dato offerto dalla medicina legale. Orbene, è insegnamento ricevuto nella medicina legale che, dal punto di visto anatomo- patologico, la lesione della salute può ben consistere tanto in una perdita anatomica, quanto in una perdita funzionale. Tuttavia, a rigore, la perdita anatomica o funzionale è suscettibile solo di descrizione, non di valutazione in punti percentuali rispetto ad una ipotetica validità complessiva dell’individuo. Ciò che invece è suscettibile di valutazione in punti percentuali è l’incidenza che la perdita, anatomica o funzionale, ha avuto sulla complessiva esistenza della persona danneggiata. Per compiere la valutazione di una invalidità permanente occorre quindi chiedersi non cosa l’individuo abbia perduto in termini anatomici o funzionali, ma cosa abbia perduto in termini esistenziali, cioè a quali attività o possibilità abbia dovuto rinunciare a causa della lesione.

Risulterà allora evidente che a perdite (anatomiche o funzionali) minime possono conseguire perdite esistenziali rilevanti: si pensi al violinista per diletto che perde per anchilosi l’articolazione dell’ultima falange del dito mignolo della mano sinistra. Per contro, a rilevanti perdite anatomiche o funzionali possono conseguire minime perdite esistenziali: si pensi ad esempio al soggetto cieco che perda un bulbo oculare. Per una larga parte della medicina legale, dunque, la salute “non può essere identificata con l’integrità psicofisica di per sé sola, come se gli uomini fossero statue o fossero macchine. Gli uomini, godendo del bene salute, vivono la loro vita di relazione, vivono in mezzo agli altri, hanno rapporti con gli altri. Non è possibile distinguere la menomazione della integrità psicofisica nettamente da tutto il resto dell’esistenza, che non può essere ragionevolmente smembrato in vario modo, e il danno (...) va valutato globalmente”24.

Da quanto sinora esposto si ricava dunque che - allo stato - sia per la Corte costituzionale; sia per la Corte di cassazione, sia per una parte della giurisprudenza di merito; sia per la medicina legale, il danno biologico va valutato non con riferimento soltanto all’ ”in sé” della lesione; ma con riferimento anche e soprattutto al numero di attività, di potenzialità, in una parola, di “vita”, che il danneggiato ha perduto a causa dell’evento dannoso.

Per raggiungere una apprezzabile uniformità di trattamento è pertanto necessario prendere coscienza che nella liquidazione del danno biologico occorre tener conto: a) del tipo di vita che il danneggiato svolgeva prima del sinistro; b) della portata invalidante delle lesioni; c) del tipo di vita che il soggetto ha potuto svolgere dopo il sinistro, e tutto ciò al fine di accertare: α) se l’esistenza concretamente condotta sia cambiata dopo l’evento dannoso; β) se tale cambiamento sia causalmente ricollegabile ai postumi della lesione.

Il contenuto del danno biologico

Perché sia possibile liquidare uniformemente il danno biologico, è necessario - come già detto - preliminarmente trovare uniformità di concezioni di questo tipo di danno. Tale uniformità di concezioni deve riguardare non solo la natura del danno biologico, ma anche il suo contenuto. Si

23: Nella maggior parte di queste sentenze la questione della natura del danno biologico viene risolta con poche, tralatizie battute, facendo genericamente riferimento alla “lesione della integrità psicofisica”. Ovviamente, anche ove non venga compiutamente percepita dal decidente, l’opzione teorica posta a fondamento della liquidazione del danno biologico, e relativa alla sua natura, riverbera effetti rilevanti al momento della liquidazione: si spiega così come alcuni tribunali e corti di merito abbiano talora liquidato, accanto a somme a titolo di risarcimento del danno biologico, ulteriori somme a titolo di risarcimento della “micropermanente” (si veda, ad esempio, il caso deciso da Cass. civ. 9 dicembre 1994 n. 10539, inedita).

24: Così BARGAGNA, in Quaderni del C.S.M., n. 41, 1990.

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tratta cioè di risolvere una volta e per sempre il problema delle c.d. “sottocategorie” del danno biologico (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno alla vita sessuale, danno alla serenità familiare, e via dicendo).

A) Il danno alla vita di relazione ed il danno alla serenità familiare.

Per quanto attiene al c.d. danno alla vita di relazione, sembra ormai in via di risoluzione l’antica querelle circa la sua natura e la sua riconducibilità o meno nell’ambito del danno biologico. La giurisprudenza di legittimità più recente, infatti, è tutta orientata in quest’ultimo senso: ad esempio, Cass. civ. 5 novembre 1994 n. 9170, inedita; Cass. civ. 9 dicembre 1994 n. 10539, inedita; Cass. civ.

21 marzo 1995 n. 3239, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1995, 82125. In senso conforme si è pronunciata anche parte della giurisprudenza di merito: si vedano ad esempio Trib. Milano 25 gennaio 1990, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1990, 398; Trib. L’Aquila 26 gennaio 1991 n. 81, in PQM, 1991, 67; Trib. Ravenna 13 marzo 1990 n. 101, in Riv. giur. circ. trasp., 1991, 853; Pret.

Parma 31 marzo 1992, in Riv. it. dir. lav., 1992, 780; App. Ancona 2 marzo 1993 n. 41, inedita26.

Resta tuttavia il problema di conseguire uniformità in merito al modo di liquidare questa presunta voce di danno. Non pochi giudici di merito infatti (pur affermando a livello teorico la ricomprensione del danno alla vita di relazione nel danno biologico) liquidano in via equitativa somme di denaro a titolo di risarcimento della compromissione della vita di relazione; altri liquidano tali somme facendo riferimento al grado di invalidità permanente; altri ancora nulla liquidano, affermando che la liquidazione del danno alla vita di relazione è ricompresa nella liquidazione del danno biologico.

Una condivisibile uniformità di vedute potrebbe forse essere recuperata partendo da presupposto che - per quanto detto in precedenza - nel liquidare il danno biologico occorre tenere conto del quantum di esistenzialità perduta dall’individuo a causa dell’illecito.

Così ragionando, appare fuorviante (o addirittura illogica, dal punto di vista concettuale) l’alternativa tra inclusione ed esclusione del danno alla vita di relazione nel danno biologico. Il vero problema non pare infatti quello di “misurare” la compromissione delle capacità relazionali dell’individuo27, sebbene quello di tenere adeguato conto di queste compromissioni nello scegliere il valore di punto da porre a base del calcolo di liquidazione. Ci si avvede così che il concetto di danno alla vita di relazione è uno strumento logico inutile e fonte di pericolose confusioni concettuali, mentre il problema reale è invece quello della personalizzazione della liquidazione del danno.

Considerazioni analoghe possono farsi per quanto attiene al c.d. danno alla serenità familiare.

Questo concetto di danno, creato dal Tribunale di Milano al fine di tenere adeguato conto delle conseguenze talora devastanti che una pesante invalidità può avere sulla vita familiare della persona lesa e dei suoi congiunti, appare una categoria concettuale superflua. Se infatti la liquidazione del danno biologico deve farsi tenendo conto di tutte le modificazioni peggiorative create dalla lesione, questa liquidazione non potrà non tener conto anche delle negative ripercussioni delle lesioni sulla vita familiare del leso28.

25 : Per le sentenze conformi meno recenti, si vedano anche Cass. civ. 3 aprile 1990 n. 2761, inedita; Cass. civ. 27 giugno 1990 n. 6536, in Giust. civ., 1991, I, 1169; Cass. civ. 17 novembre 1990 n. 11133, in Resp. civ. prev., 1991, 744.

26 : Sarà utile tuttavia ricordare che, ancora in tempi recenti, diverse pronunce hanno sostenuto la natura parzialmente autonoma del c.d.

danno alla vita di relazione: ad esempio, Cass. civ. 16 maggio 1990 n. 4243, inedita; Cass. civ. 3 dicembre 1991 n. 12958, in Arc. giur. circ.

sin. strad., 1992, 448; Cass. civ. 10 marzo 1992 n. 2840, in Foro it., 1993, I, 1960; Cass. civ. 11 giugno 1994 n. 5683, in Riv. inf. mal. prof., 1994, II, 130; Trib. Messina 18 gennaio 1985 n. 66, inedita.

27 : Cosa del resto impossibile, in quanto il modo di essere di ogni persona non è scomponibile in compartimenti stagni, onde è non seriamente possibile, ad esempio, distinguere la sofferenza per non potere più correre dalla sofferenza per non potere fare amicizie in occasione di happenings.

28 : Va osservato che, sulla specifica questione, il Tribunale di Milano ha di recente affermato, re melius perpensa, che l’ordinamento “non prevede la tutela della serenità familiare, quale diritto soggettivo a sé stante” (Trib. Milano 26 gennaio 1995, in Giust. mil., 1995, 3. Si veda pure, in generale sul punto, GIANNINI, Il risarcimento del danno alla persona: certezze acquisite e problemi controversi, in questa Rivista, 1995, 952.

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Ove, poi, con l’espressione danno alla serenità familiare si intenda designare il danno subìto non dalla persona lesa, ma dai suoi congiunti, ci si trova al di fuori del campo del danno biologico (a meno di lesioni psichiche accertate e casualmente riconducibili al sinistro)29.

B) Il danno estetico, il danno alla vita sessuale

Il danno estetico ed il danno alla vita sessuale costituiscono pacificamente compromissioni dell’integrità psicofisica dell’individuo, e non si vede davvero perché debbano essere liquidati a parte.

Per quanto attiene al danno estetico, alcuni giudici di merito ritengono di non chiedere all’ausiliario medico legale una valutazione in termini percentuali di tale tipo di danno, al fine di evitare che danni analoghi siano diversamente valutati da c.t.u. diversi.

Questa prassi - nell’ipotesi di diffusione di una tabella unitaria - frustrerebbe il tentativo di omogeneizzazione: è infatti evidente che due giudici, i quali utilizzino la medesima tabella, giungerebbero a liquidazioni diverse a seconda del loro modo di valutare il danno estetico. Deve infatti considerarsi che il valore del punto, in ogni tabella, progredisce geometricamente con l’aumentare del grado di invalidità permanente. Ne consegue che, pur utilizzando la medesima tabella, altro è liquidare una invalidità del 15%, e poi una compromissione della fisiognomia valutata nella misura del 5%; altro è liquidare una invalidità del 20%. Utilizzando, ad es., le tabelle del Tribunale di Roma, col primo metodo un danneggiato quarantenne avrebbe diritto a £ 38.390 mln;

col secondo metodo lo stesso danneggiato avrebbe diritto a £ 47.644 mln.

Appare opportuno pertanto innanzitutto uniformarsi nel senso di incorporare sempre l’invalidità per così dire “estetica” nel complessivo grado di invalidità permanente, al fine di applicare il metodo scalare, o la regola di Balthazar, e ciò quand’anche la valutazione in termini percentuali del danno estetico non sia stata chiesta al c.t.u..

Il problema è però anche medico legale, in quanto non appare impossibile approntare un baréme di riferimento, anche per larghe medie, per le lesioni estetiche più ricorrenti e comuni.

L’attività extralavorativa

Come già detto, per giungere ad una accettabile uniformità di liquidazione del danno, occorre piuttosto tener conto in modo adeguato del quantum di esistenzialità perduta dal danneggiato, che procedere alla moltiplicazione delle categorie concettuali.

Tuttavia per misurare adeguatamente il quantum di esistenzialità perduta può non bastare la valutazione espressa in termini percentuali dal medico legale, la quale di norma fa riferimento alle potenzialità e capacità di un uomo medio.

Non può, invece, negarsi che nella vita di ogni individuo, per quanto attiene alle attività extralavorative, ve ne sono alcune che egli condivide con la gran parte degli altri uomini (leggere, passeggiare, vedere gli amici, ascoltare la musica, ecc.). Altre attività, invece, non sono comuni a tutti, ma sono proprie del singolo individuo: ad esempio, praticare uno sport dilettantistico;

presiedere un’associazione culturale o politica; partecipare ad una organizzazione di volontariato;

amministrare un condominio senza compenso; coltivare per diporto una determinata materia o una branca di studi; essere affidatario di un minore in stato di abbandono, ecc.). Orbene, quando queste attività (che potremmo definire singolari nel senso etimologico del termine, cioè proprie del singolo individuo) per intensità, risultati, rilevanza nell’ambiente sociale dove il danneggiato vive, siano tali da acquistare un significato diverso e particolare nella vita dell’individuo; cioè quando rappresentano per lui una apprezzabile fonte di gratificazione soggettiva e di compiacimento oggettivo da parte

29 : Sorge così il problema: della esistenza di un diritto alla serenità familiare; della sua natura patrimoniale, ovvero della sua riconducibilità nell’ambito dell’art. 2043 c.c. o dell’art. 2059 c.c.; della utilizzabilità e della utilità residua, ovvero del superamento, della categoria del diritto soggettivo. Tali problemi non possono essere affrontati in questa sede: può tuttavia rilevarsi che, fino a quando il sistema della responsabilità civile rimane ancorato alconcetto di danno ingiusto, e quest’ultimo al concetto di lesione del diritto soggettivo, può apparire problematica e fonte di duplicaizoni la creazione giurisprudenziale di nuove figure di danno.

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dell’ambiente, sarebbe ingiusto non tenerne conto nella liquidazione del danno, ove la lesione subìta precluda o riduca proprio una di queste attività.

La liquidazione del danno da lesione della salute dovrebbe pertanto partire dall’applicazione di un parametro fisso, uguale per tutti: in questo modo si risarcirebbero le limitazioni o preclusioni delle attività “ordinarie”, quelle che sono uguali per tutti. Ove poi sia allegato e dimostrato in giudizio che la lesione ha causato non soltanto una compromissione delle ordinarie attività esistenziali, ma anche una compromissione o soppressione di attività extralavorative particolari o comunque non comuni rispetto all’ordinarium vitae dell’uomo medio, di tale limitazione dovrebbe tenersi conto con l’applicazione di un parametro variabile.

L’attività lavorativa

Che un danno alla persona possa riverberare effetti sulla attività lavorativa del danneggiato è fuor di dubbio, ma è oggetto di valutazioni differenti il modo in cui tenere conto di tali ripercussioni.

In particolare:

- taluni giudici adoperano ancora il concetto di incapacità lavorativa generica, da altri considerato invece superato ed assorbito in quello di danno biologico;

- taluni giudici considerano il danno da lesione alla capacità lavorativa specifica in re ipsa, sol che il grado di compromissione dell’integrità psicofisica superi una certa percentuale, altri pretendono in ogni caso la prova della contrazione reddituale;

- alcuni giudici dichiarano di considerare la lesione della capacità lavorativa specifica come danno patrimoniale, ma poi lo liquidano con un metodo del tutto analogo a quello seguito per liquidare il danno biologico: ossia tenendo conto della gravità delle lesioni e dell’età del danneggiato.

Sul punto, la ricerca di uniformità di vedute dovrebbe partire dalla considerazione che:

A) per quanto attiene alla c.d. capacità lavorativa generica, essa rappresenta per la medicina legale una menomazione della capacità produttiva, ovvero la capacità biologica di guadagno30. Si tratta cioè di un particolare aspetto del danno alla salute, riguardato nei riflessi che esso avrà sullo svolgimento dell’attività lavorativa, ma a prescindere da una contrazione del reddito.

Anche la dottrina giuridica è su posizioni sostanzialmente analoghe. Per essa, l’attitudine al lavoro (di cui all’art. 74 d.p.r. 1124/65) è la capacità di lavoro, ovvero la capacità di svolgere un qualsiasi lavoro economicamente remunerativo31.

Infine la giurisprudenza di legittimità, pur nel variare delle forme sintattiche, ha mostrato di condividere tali concetti. L’attitudine al lavoro di cui all’art. 74 t.u. è stata infatti di volta in volta definita come:

- la possibilità di esercitare un lavoro di qualsiasi genere, suscettibile di utilità economica, indipendentemente dall’incidenza che la menomazione esplica sulla specifica capacità di lavoro dell’assicurato32;

- la capacità di svolgere un qualunque lavoro manuale medio33;

- l’attitudine al lavoro intesa in senso generico ma in relazione a determinate attività professionali34;

- la capacità biologica di erogare energie fisiopsichiche per il compimento di una qualsiasi attività lavorativa35;

30: GERIN, La valutazione medico-legale del danno alla persona in responsabilità civile, Milano, 1973, passim; CAZZANIGA-CATTABENI, Medicina legale e delle assicurazioni, Torino, 1963, 373; LEGA, La capacità lavorativa e la sua tutela giuridica, Milano, 1950, passim.

31: Cfr. ALIBRANDI, op. ult. cit., p. 404; FERRARI, op. ult. cit., p. 253; BARNI, Il danno alla persona nel suo divenire concettuale e valutativo, in Resp. civ., 1968, 19.

32: Cass. civ. 14 aprile 1982 n. 2239, in ....; Cass. civ. 17 aprile 1982 n. 2374, inedita; Cass. civ. 5 febbraio 1983 n. 1005, inedita; Cass. civ.

14 febbraio 1983 n. 1158, in ...; Cass. civ. 23 ottobre 1985 n. 5218, inedita; Cass. civ. 9 aprile 1987 n. 3520, in ....

33: Cass. civ. 9 ottobre 1982 n. 5174, in ...; Cass. civ. 14 luglio 1984 n. 4129, in ...; Cass. civ. 29 gennaio 1988 n. 804, in ...; Cass. civ. 24 luglio 1990 n. 7495, in ...

34: Cass. civ. 25 gennaio 1984 n. 609, inedita.

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- la capacità lavorativa generica tout court, ovvero la capacità biologica di guadagno36.

Dunque sia per la medicina legale, sia per la dottrina giuridica, sia per il giudice di legittimità, la lesione dell’attitudine al lavoro: a) è un danno la cui entità prescinde completamente dal reddito del danneggiato; b) è un danno che attinge la complessiva integrità psicofisica del soggetto, limitando la sua capacità di svolgere, in futuro, un qualsiasi lavoro.

Si compari ora questa definizione con quella di danno biologico. Quest’ultimo è comunemente definito come: a) un danno la cui entità prescinde completamente dal reddito del danneggiato; b) un danno che attinge la complessiva integrità psicofisica del soggetto, limitando la sua capacità di svolgere, in futuro, una qualsiasi attività esistenziale, lavorativa o extralavorativa.

E’ evidente come il primo tipo di danno (la lesione della generica attitudine al lavoro) non possa non essere ricompreso nel danno biologico, così come il meno è compreso nel più e come la capacità di lavorare è compresa nella capacità di vivere.

Nondimeno, questa conclusione è contestata da parte della dottrina e negata da una recente pronuncia della Corte di cassazione. E’ pertanto necessario, a questo punto dell’analisi, passare in rassegna rispettivamente le ragioni di chi nega che il danno da lesione dell’attitudine al lavoro sia ricompreso nel danno biologico, e quelle di chi afferma tale proposizione.

B) Per quanto attiene alla c.d. capacità lavorativa specifica, innanzitutto non può ritenersi esistente un tertium genus di danno “lesione della capacità lavorativa specifica”, che sia diverso dal danno biologico e da quello patrimoniale. Tale lesione dovrà necessariamente ridursi o ad una disfunzione anatomopatologica, ovvero ad una deminutio patrimonii, ovvero a tutte e due le cose insieme: ma in ogni caso, essendo esistenti e note le categorie del danno biologico e di quello patrimoniale, non si vede perché se ne debba aggiungere una terza. Posto dunque che la nozione di

“lesione della capacità lavorativa specifica” non ha una sua autonomia concettuale, occorre stabilire in quale categoria di danno sussumerla.

Per trovare una risposta a tale quesito, si consideri che una compromissione del complessivo stato di salute dell’individuo può incidere negativamente sull’attività lavorativa del soggetto leso in tre modi37:

a) impedendogli del tutto l’attività lavorativa precedentemente svolta;

b) determinando una riduzione dell’attività lavorativa, e quindi degli emolumenti percepiti;

c) costringendo il danneggiato a sopportare una maggiore fatica, od una maggiore usura, o comunque un maggior disagio, per svolgere la medesima attività lavorativa che svolgeva prima del sinistro38.

Questi effetti rappresentano tipi di danno diversi: i primi due rappresentano un danno patrimoniale; il terzo un danno biologico. Quando dunque deve tenersi conto di tali effetti in sede di risarcimento, il giudice non può adottare un criterio uniforme, ma deve distinguere caso per caso.

A) Ove il danneggiato alleghi di aver perso il lavoro, o di aver subìto una riduzione degli introiti, a causa della lesione della salute, egli allega un danno patrimoniale, che andrà provato con gli ordinari mezzi di prova (testimoni, documenti, presunzioni semplici). Il danno sarà costituito nel primo caso, dalla capitalizzazione del reddito perduto sulla base della residua vita lavorativa del soggetto (calcolata con riferimento all’età massima pensionabile); nel secondo caso, il danno sarà costituito dalla capitalizzazione della aliquota di reddito perduto sulla base della residua vita lavorativa del soggetto, calcolata anche in questo caso con riferimento all’età massima pensionabile39. Come si vede, in ambedue i casi non è necessario far ricorso né a percentualizzazioni né a tabelle, trattandosi

35:Cass. civ. 10 maggio 1982 n. 2908, in ...; Cass. civ. 21 agosto 1986 n. 5138, inedita.

36: Cass. civ. 30 ottobre 1982 n. 5737, inedita.

37 : Così Trib. Roma, ... n. ... (Ibba).

38 : Questi effetti possono ovviamente cumularsi tra loro: ad esempio, la lesione può cagionare sia una contrazione dell’attività lavorativa e quindi del reddito, sia costringere il danneggiato ad una maggior fatica per svolgere la già ridotta attività lavorativa. Quanto si dirà in seguito vale dunque per le ipotesi “semplici”, mentre in caso di combinazione di effetti dovranno combinarsi le conseguenze in punto di risarcimento.

39 : Ove il danno sia stato cagionato da un sinistro stradale, la prova del lucro cessante è facilitata col ricorso alle presunzioni semplici di cui all’art. 4 l. 26 febbraio 1977 n. 39. Si veda, al riguardo, Cass. civ. 30 maggio n. 1995 n. 6074, in Riv. giur. circ. trasp., 1996, ....

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di liquidare un comune danno patrimoniale. Non appare utile pertanto, in questi casi, percentualizzare o chiedere al consulente tecnico medico legale di percentualizzare la “lesione della capacità lavorativa specifica”, in quanto ciò che è stato leso è il patrimonio del soggetto, non la sua

“specifica capacità di lavoro”. Al medico legale, piuttosto, dovrà chiedersi se i postumi residuati al sinistro abbiano potuto costituire una valida causa di rinunzia al lavoro o di riduzione dell’attività, al fine di stabilire un verosimile nesso causale tra danno evento e danno conseguenza.

B) Ove, invece, il danneggiato non abbia né perso il posto, né subìto contrazioni di reddito, ma la lesione subìta lo costringa a “soffrire” di più nel lavorare, questo tipo di danno è una compromissione delle attività esistenziali del soggetto leso, attività tra le quali rientra ovviamente quella lavorativa.

Ne consegue che di questo tipo di danno dovrà tenersi conto (con un “appesantimento” del punto;

con un coefficiente di maggiorazione; con una proporzione) nella liquidazione del danno biologico, e non procedersi ad una distinta e separata liquidazione40.

Uniformità di valutazione: i barèmes medico legali

Quand’anche tutti i giudici della Repubblica condividessero la medesima concezione del danno biologico, e facessero applicazione della medesima tabella per la liquidazione del danno, ciò non garantirebbe affatto l’uniformità di trattamento.

Nel calcolo di liquidazione entra infatti, quale parametro essenziale, il grado - espresso in termini percentuali - di compromissione dell’integrità psicofisica del danneggiato, la cui determinazione viene normalmente demandata ad un medico legale. Tuttavia il medico legale, nella sua autonomia scientifica e metodologica, può legittimamente utilizzare uno qualsiasi dei barémes esistenti, ovvero anche crearne uno suo, seguendo ad esempio un metodo di media aritmetica o ponderata tra le varie tabelle esistenti. Può dunque accadere che la medesima lesione sia diversamente valutata dal medico legale, a seconda del baréme al quale ha fatto riferimento, e come noto possono sussistere differenze anche rilevanti tra l’una e l’altra tabella.

Ne consegue che, per conseguire effettiva uniformità di trattamento, è preliminarmente necessario che:

a) il medico-legale, nel proprio elaborato peritale, dica espressamente quale baréme abbia applicato, ovvero quale metodo abbia seguito, e se abbia adottato particolari correttivi del risultato;

b) il giudice, dal canto suo, adotti una quadro sinottico di comparazione tra le varie tabelle, o comunque adotti un baréme di ponderazione. In altri termini, è necessario che egli sappia, ad esempio, che una lesione valutata nella misura del 10% dalle tabelle Inail, equivale ad una lesione del 5% nelle tabelle Luvoni-Bernardi, o ad una lesione dell’8% nelle tabelle AMA.

Uniformità di liquidazione: la funzione del risarcimento

L’uniformità nella liquidazione del danno biologico non può prescindere da una precisa scelta di campo in relazione alla natura ed alla funzione del risarcimento. L’ammontare di questo sarà infatti necessariamente diverso a seconda che si ravvisi nel risarcimento del danno biologico una funzione meramente ristoratrice, ovvero altre finalità. Una rapidissima disamina delle posizioni dottrinarie sul punto rileva infatti che vi sono di quegli autori i quali ritengono che tutta la materia del risarcimento

40

: Appare dunque chiaro che col medesimo sintagma incapacità (lavorativa) specifica si designano nella prassi realtà disomogenee ed affatto equiparabili allorché si debba procedere alla aestimatio del danno.

Ed infatti: il danno alla persona è danno evento; sussiste necessariamente in caso di lesione della salute; va risarcito proporzionalmente al baréme di invalidità permanente.

Al contrario, la lesione del reddito è danno conseguenza; sussiste solo eventualmente in caso di lesione della salute; va risarcito a prescindere dal grado di invalidità permanente. Infatti, per particolari attività, a modeste lesioni possono conseguire devastanti effetti sull’attività lavorativa; mentre per contro gravi lesioni possono non precludere né ridurre la produzione del reddito.

Sarebbe pertanto auspicabile superare la dizione stessa di incapacità lavorativa specifica, distinguendo invece le ipotesi di danno da cenestesi lavorativa (le quali determinano un “appesantimento” del baréme di invalidità permanente), dalle ipotesi di danno da lesione del reddito (un comune danno patrimoniale, da provare e stimare secondo i criteri comuni in materia di risarcimento).

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del danno biologico sia pervasa da una esigenza di solidarietà nei confronti della vittima (giustificando così, tra l’altro, la risarcibilità anche nelle ipotesi di responsabilità presunta), con la conseguenza che il risarcimento dovrebbe considerarsi inteso innanzitutto a “soddisfare” il danneggiato (funzione satisfattoria), considerando quindi la sofferenza soggettivamente avvertita da quest’ultimo come uno dei poli oggettivi dell’attenzione del giudice41.

Per altri autori, invece, anche il risarcimento del danno alla persona - come ogni altro tipo di risarcimento - non avrebbe se non una funzione reintegratrice del valore (non patrimoniale, in questo caso) leso. In questo modo, polo oggettivo dell’attenzione del giudice diviene lo sforzo di rinvenire un possibile valore monetario equivalente delle funzioni perdute dal danneggiato42.

Infine, vi è chi ritiene che il risarcimento del danno biologico avrebbe sì una funzione reintegratrice o ristoratrice del danneggiato, ma tale funzione non sarebbe disgiunta da una funzione punitiva, nel caso in cui il danno biologico sia stato cagionato da una azione costituente reato43; e ciò in considerazione del particolare disfavore che l’ordinamento mostra nei confronti dell’autore di una lesione dell’altrui salute44. In questo modo, polo oggettivo dell’attenzione del giudice diviene non solo l’entità del danno, ma anche l’intensità del dolo od il grado della colpa.

Quest’ultima teoria, mentre ha una sua rilevanza teorica per quanto attiene alla liquidazione del danno morale, non sembra possa condividersi con riferimento al danno biologico. Per quanto sopra esposto, infatti, quest’ultimo deve intendersi come una perdita disfunzionale (nel senso etimologico, cioè di anomalia o soppressione di una funzione) nell’esistenza del soggetto leso: ne consegue che, quale che sia il grado di colpa o l’intensità del dolo ascrivibile all’autore dell’illecito, la perdita subìta dal danneggiato non muta, e non può perciò mutare il risarcimento. A meno di non volere ravvisare nel risarcimento del danno biologico una funzione preventiva e dissuasiva che è di norma ignota all’istituto del risarcimento del danno45.

Ancorché fondata su apprezzabili basi teoriche, alla teoria della funzione satisfattoria del risarcimento si obietta che essa richiederebbe al giudice di tener conto, nella stima del danno, della importanza soggettiva che il danneggiato ascrive alla lesione. Ogni lesione della salute genera infatti una sofferenza, e questa per definizione non può che essere percepita soltanto da colui che ha subìto la lesione. In altri termini, la sofferenza causata dalla perdita di esistenzialità, cioè dalla perdita funzionale, è sempre soggettiva: i terzi possono apprezzarla (nel senso etimologico, di “donarle un prezzo, un valore”), ma non percepirla. Tuttavia la sofferenza fisica (conseguente ad una perdita funzionale) della quale il giudice deve tener conto nella liquidazione del danno, deve essere quella che avrebbe provato ogni individuo medio, al quale fossero state sottratte le stesse potenzialità esistenziali perdute dal danneggiato. Non può invece tenersi conto, nella liquidazione del danno, dell’eventuale sofferenza che scaturisce da una polarizzazione ideativa del soggetto leso sull’evento dannoso, soggetto il quale si convinca di aver irrimediabilmente compromesso gran parte della sua esistenza. E ciò per due motivi: in primo luogo, perché un tale tipo di sofferenza, ove privo di risvolti patologici (ad esempio, turbe ipocondriache), costituirebbe sofferenza psichica, e cioè danno morale subbiettivo; in secondo luogo, perché in cotal guisa si costringerebbe il giudice a valutare il danno non per quello che è, ma per quello che il danneggiato ritiene che sia.

Si immagini, ad esempio, il caso in cui due signore, di uguale età, di uguale professione, di uguale tenore di vita, di uguale beltà, subiscano un infortunio al quale residui un piccolo esito cicatriziale al volto, assolutamente identico per entrambe. Si immagini altresì che la perdita funzionale, sotto il profilo della compromissione estetica, sia la medesima per tutte e due le signore. Si supponga però

41: Cfr. SALVI, Risarcimento del danno, in Enc. del diritto, XL, Milano, 1989, 1099.

42: DI MAJO, La tutela civile, Milano, 1987, 238.

43: Il che, sia detto per inciso, costituisce l’ipotesi assolutamente prevalente.

44: FERRI, Oggetto del diritto della personalità e danno non patirmoniale, in Persona e e formalismo giuridico, Rimini, 1985; cfr. altresì BONILINI, Danno morale, in Digesto civile, V, Torino 1989, 87.

45 : E’ nozione di comune buon senso, ad esempio, che colui il quale si ponga alla guida di un autoveicolo si potrà indurre a tenere una condotta di guida prudente ed attenta per molti e validi motivi, ma difficilmente tra questi motivi si troverà (neppure a livello inconscio) il timore di dover contrarre una obbligazione risarcitoria, che non sarà neppure adempiuta dal conducente, ma dall’assicuratore.

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