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Il soggiorno romano.

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Academic year: 2021

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Capitolo 4.

Il soggiorno romano.

1- Chissà che cosa avrà capito il giovane (ma non più giovanissimo) Giovanni Battista Tempesti, appena giunto a Roma nella tarda primavera del 1756, delle Antichità Romane di Antonio Piranesi, fresche dai torchi della stamperia di Angelo Rotili.

Fino ad allora l’artista pisano, come abbiamo visto nel capitolo precedente, non aveva infatti manifestato interessi che non fossero stati quelli dell’approfondimento della pittura d’altare, di carattere religioso insomma – con una sola escursione in quella mitologica -, e ritrovarsi per la prima volta a Roma con davanti a sé la città e il suo doppio, le rovine vere e la loro rappresentazione, non mancò probabilmente d’indurlo a qualche riflessione.

Queste considerazioni s’impongono ad apertura di pagina - della pagina romana di Tempesti vogliamo dire -, perché i circa tre anni lì trascorsi dal Nostro hanno fino ad ora suggerito una lettura legittimamente canonica di quei fatti, come fossero stati chiusi nell’ambito di un rincorrersi tra le botteghe di pittori di alto grido, senza tenere forse nella dovuta considerazione il fatto che nella sua stagione nell’Urbe Giovanni Battista andava già per la trentina. Difficile pensare che in quel prolungato soggiorno l’artista non avesse guardato al di fuori della pur cospicua cerchia dettata dagli interessi ed abitudini di bottega; arduo pensare che non si sia fatta un’opinione autonoma sul mondo; difficile che non abbia guardato con occhi propri e netti repertori inusitati, ammirato artisti non proprio ortodossi, percorso strade proprie

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.

Del resto la permanenza romana di Giovanni Battista è sempre stata in qualche modo un problema.

Innanzi tutto la sua produzione artistica. Fino a ora sembrava non sopravvivere alcunché, e del resto l’erudito Sebastiano Donati – il primo a scriverne la biografia, vivente l’artista – si sentì in obbligo di giustificarne la laconica laboriosità romana con un dirimente tratto caratteriale, perché a Roma

                                                                                                               

1 Per una panoramica della pittura a Roma direttamente precedente l’arrivo del Tempesti a Roma cfr. NEGRO 2005. Per un approfondito orientamento sulla pittura romana a metà secolo v. LO BIANCO 2005. Più in generale, per una lettura complessiva v. i fondamentali SESTIERI 1988 pp. 23-79; BARROERO 1990; BARROERO-SUSINNO 1999;

BOWRON 2000; JOHNS 2000. Per un repertorio d’immagini cfr. RUDOLPH 1983. Per il periodo successivo, ma con indicazioni di lettura interessanti sulla politica delle arti dei pontefici nella Roma settecentesca v. COLLINS 2004.

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Tempesti “avrebbe potuto ancora esporre delle opere grandi in alcune di quelle magnifiche Chiese, se la sua modestia non gli avesse consigliato a posporre il proprio decoro all’altrui avvilimento”

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. L’uomo beninteso, era di quelli che valevano, e infatti qualcosa dipinse per l’aristocrazia locale (e, sembra, inglese

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): quadretti di maniera, forse, ma niente di certo e di verificabile. La permanenza romana di Giovanni Battista assunse allora, nell’ansia storiografica di riempire i buchi e di definirne una genealogia artistica generosa, assunse dicevamo aspetti francamente leggendari – sebbene di piccole e quasi rustiche leggende in fondo si tratti -, al cui centro dominava l’asseverata certezza con cui si dette l’artista allievo diretto del Luti. Di Benedetto Luti, il grande pittore fiorentino morto a Roma nel 1724, quando il Pisano non era ancora nato

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!

2- Ma procediamo con ordine. Intorno alla metà del Settecento Pisa non aveva un proprio istituto d’istruzione artistica, e ancora non si progettava d’istituirne uno, come poi avverrà di lì a non molto.

La pedagogia artistica si risolveva all’interno delle botteghe, con un rapporto insomma che non era certo filologico (il riallacciarsi alla pratica delle antiche botteghe rinascimentali); ma dettato dai picchi alterni della necessità. Chi poteva si spostava e si sceglieva i propri maestri, ma più che un vezzo sembrò un privilegio, o forse una felice possibilità dettata dalle linee imperscrutabili di destini indefiniti. Così ad esempio si disse di Giovanni Gabrielli, che secondo le fonti era stato allievo diretto di Ciro Ferri

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. Ci sarebbe piaciuto saperne di più.

                                                                                                               

2 DONATI 1775 B, p. XLIII.

3 DONATI 1775 b, p. XLIII: “Né deve omettersi, che avendo egli inventato un particolar gusto di disegnare a matita di più colori, vengono tali disegni avidamente ricercati, specialmente dagli intendenti oltramontani, trovandosene ora di tali disegni nella regia Galleria d’Inghilterra ed altrove”.

4 V. fra tutte la pur autorevolissima voce biografica di Alessandro Da Morrona, che del Tempesti fu allievo diretto:

“Quivi [a Roma] instancabile nello studio ad imitar si pose la grandiosa maniera di Placido Costanzi e frequentò l'applaudita scuola di Benedetto Luti principe allora della romana accademia” (DA MORRONA 1812, vol. II, pp. 546- 53).

5 TEMPESTI 1792, p. 379. Lo stesso Da Morrona, che molto fu tentato dall’idea d’immaginare un alunnato del Gabrielli nell’Accademia romana voluta da Cosimo III, si arrese un attimo prima della dichiarazione di fede: “Pittore di qualche merito fu circa al tempo indicato Cammillo Gabbrielli pisano, che Ciro Ferri ammaestrò nell'arte. Se ciò accadde in Firenze o in Roma non abbiam documenti per asserirlo. Certo è che in Roma, mediante i saggi suoi provvedimenti, Cosimo III tenne maestri stipendiati per insegnare ai toscani, e fra questi il suddetto Ciro si annovera”

(DA MORRONA 1812, vol. II, p. 534).

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Come abbiamo già accennato, a Pisa nei primi decenni del Settecento il ruolo di disinteressato maestro di una folta gioventù fu il nobile Domenico Ceuli, che tenne in casa propria in modo assolutamente liberale accademie musicali e insistiti conversari tra uomini colti e di mondo, e dove sappiamo che mosse i suoi primi passi il padre di Giovanni Battista.

Dal fratello di quest’ultimo, Ranieri, sappiamo tra l’altro che il parere del Ceuli, pur dilettante, era tenuto in altissima considerazione da tutto il mondo artistico pisano, se è vero che come gli aveva raccontato il padre Domenico - “testimone oculare e prediletto scolare di esso Ceuli” -, gli stessi fratelli Melani lo andavano a visitare a casa – dove il Ceuli “era confinato […] dalla gotta”- per chiederne pareri e impetrarne consulenze, e “sempre portavano seco i loro pensieretti e cartoni per sentirne il sentimento del med.mo ab. Ceuli, conoscitore profondo quanti altri mai …”

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Nonostante che la circostanza si presti a qualche interpretazione tendenziosa (è difficile sfuggire al sospetto che qui l’abate Ranieri non avesse voluto adombrare una genealogia artistica nobilitante per l’amatissimo fratello pittore), la nota – ricca di notazioni icastiche e affettuose, quanto basta a ritenerla sostanzialmente credibile -, ci riconsegna il senso di un passaggio di testimone estremamente importante: da Domenico Ceuli e da Domenico Tempesti ai Melani; da questi a Giovanni Battista, allievo a sua volta dei due fratelli.

Dopo la morte del Ceuli, il gonfalone dell’attività didattica venne infatti impugnato ben saldamente dagli eccentrici fratelli pittori. Pisani quant’altri mai, al punto da riassumere in loro stessi tutti i mali dei loro concittadini e di diventarne l’antonomasia, i due trasformarono la loro abitazione in una vera e propria accademia domestica. Negati al viaggio fino al parossismo, in quella sorta di agorafobia che colpiva i Pisani in trasferta perfino nei detti popolari, ipocondriaci e bugiardi, ma in fondo docili e – forse – pasticcioni, tuttavia non privi di una generosa e pettegola bontà, i Melani sembrarono incarnare un modello inarrivabile

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, almeno per quella moltitudine di allievi frequentanti il loro atelier.

Si divisero tra un gruppo di aristocratici che individuavano nella disciplina del disegno un fondamentale carattere formativo in senso generale, che attendeva più alla fisionomia culturale e

                                                                                                               

6 BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovani Mariti, 2.1.1790.

7 I tratti caratteriali dei Melani bene emergono dai carteggi, sia da quello di Orazio Della Seta, sia da quello, di recente restituito agli studi, della famiglia Sansedoni (AGOSTINI DELLA SETA 1878; BALESTRACCI 2004).

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alla “gaia gentilezza” dell’uomo di mondo che non certo all’attitudine professionale

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; e un secondo invece, ben più robusto, che si dedicò agli studi artistici per una deliberata forma di passione e di scelta di vita

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.

Le botteghe degli artisti locali, variamente modulate per dimensione e fama dei rispettivi titolari, rimediarono allora alla mancanza di una cattedra istituzionalizzata. Del resto in questo isolamento didattico di una città che all’opposto era la prima nel Granducato nel campo della formazione universitaria, si riflettevano varie esigenze: quelle imposte dalle necessità dello Stato di salvaguardare il ruolo e il prestigio dell’Accademia di Firenze, ma anche quelle non meno importanti dettate dalle difficili condizioni economiche della città, che avrebbero reso impossibile l’istituzione di un istituto comunque oneroso. Nella mancanza di un organismo ufficialmente dedito alla formazione artistica, vi era poi anche da vedere l’ultima gora di quel fiero istinto autonomista e filopatride che aveva sempre caratterizzato la cultura pisana, gelosa delle proprie prerogative artistiche, che non a caso ebbe esito nel secondo Settecento nella rielaborazione storiografica di Alessandro Da Morrona (e di Ranieri Tempesti), che volentieri assunse aspetti polemici e oppositivi nei confronti del primato culturale fiorentino, rivendicando i natali dell’arte toscana a Pisa, e non altrove.

Quando nella seconda metà del Settecento si decise d’investire nell’enfant du pays, Giovanni Battista Tempesti, a stare all’eloquenza delle carte d’archivio l’iniziativa di spedire l’artista a Roma non partì, come si era sempre pensato, dalla Pia Casa di Misericordia (istituto assistenziale che per statuto era obbligato ad aiutare gli indigenti e i bisognosi in genere), ma da un piccolo gruppo di                                                                                                                

8 DA MORRONA 1812, vol. II, p. 542: “Or passo a narrare col sistema solito di precisione che i commendati maestri [fratelli Melani], per diffondere in altri il proprio gusto, tennero scuola aperta in Pisa, e come per essa diversi pisani si riscaldarono d'amore verso le belle arti. Fra i nobili Ranieri Gaetani si dilettò di paesaggi, il Vaglienti di figure ed il prefato Cammillo Mosca del semplice disegno, in che di poi si addestrò in Roma, come si disse”. A questi si devono aggiungere almeno Cammillo Ranieri Borghi, Michele Ricucchi e un non meglio identificato Pandolfini (TEMPESTI 1792, p. 380).

9 TEMPESTI 1792, p. 380: “Nella frequentatissima Scuola dei Milani, oltre alcuni esteri, si distinsero Tommaso Tommasi, Giuseppe Bracci, Jacopo Donati , Bartolommeo Santini, Ranieri Gabbrielli …”. A questi vanno aggiunti anche i pisani: Pietro Carlo Biagianti (Settecento pisano, p. 342); Francesco Bonaini (PUTTINI 1996, p. 46); Domenico Rinaldi, architetto, disegnatore e agrimensore (AGOSTINI DELLA SETA 1878, pp. 54, p. 60). Per “esteri” devono intendersi almeno il fiorentino Marco Ricci, pittore di architettura che giunse a Pisa dopo un iniziale alunnato presso Giovanni Sacconi (LENZI GIACOMELLI 2000, p. 206); e probabilmente Anton Giuseppe Buonsignori, le cui opere erano segnalate in palazzo Tegliacci a Siena (FALUSCHI 1815, p. 77).

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nobili ed intellettuali pisani, che con un dispositivo forse inedito per la città, si consorziarono allo scopo di trovare le risorse necessarie per l’impresa

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. L’unico obbligo affidato al Tempesti dai suoi mecenati, oltre al voto perfino banale di vederlo emancipato sulla strada dell’arte, fu quello – finiti i previsti due anni del diporto – di “restituirsi alla sua Patria per stabilirvi la sua stanza, e scuola di pittura per far comodo, e giovare a tutti quelli che vorranno abilitarsi in d.a professione”

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La scelta dei nobili patroni fu dunque assai chiara: si mandava nella capitale delle arti il più bravo artista locale perché ne ritornasse ammantato di una gloria che potesse essere spesa sia in imprese cittadine, che, appunto, nella formazione di una nuova generazione di artisti. Era, per l’appunto, l’accorto investimento in una scuola artistica o accademia, comunque la si fosse voluta chiamare. I Melani erano deceduti; il Tommasi pure. Occorrevano nuovi talenti.

Che il viaggio romano avesse assunto nella testa dei benefattori che lo rendevano possibile i contorni di una strategia di politica delle arti, lo attestano anche altri elementi. Innanzi tutto la non più giovanissima età del Tempesti. Abbiamo visto che era già sufficientemente noto in città, e che già aveva preso a lavorare per l’aristocrazia che contava. Non avrebbe certo avuto bisogno di una patente in più, anche se si trattava di quella illustre di Roma, per incrementare commissioni e consensi. Era stato allievo dei Melani: per Pisa era sufficiente.

Ma esiste un secondo fatto importantissimo. Le identità di coloro che sostennero a Roma l’artista aiutano a capire come dietro i gentiluomini impegnati nella pensione si nascondessero i voti di un’intera comunità, intenta a progettare un futuro ricco di esiti. Dalle note di spesa aggiornate da Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci relative al soggiorno romano dell’artista

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, risulta infatti come le uscite della Pia Casa si alimentassero delle contribuzioni di alcuni privati cittadini, che si                                                                                                                

10 Per un resoconto v. FROSINI 1981, pp. 163-64; CIARDI 1990 a, pp. 47, 55 n. Come segnalato più avanti, i contributi della Pia Casa, che pure vi furono, si aggiunsero a quelli del manipolo di privati cittadini, che comunque passavano attraverso il filtro dell’istituzione di beneficienza.

11 La nota continuava con un’altra imperativa determinazione, che dava ancora più forza al progetto di rinascita della scuola pittorica pisana affidata al Tempesti: qualora questi non fosse tornato a Pisa o non vi avesse istituito una scuola di pittura, “debba rimettere tutte le somme che le saranno state somministrate, al quale effetto obbligo d.o s.r Tempesti et obbliga la sua persona, beni, eredi e beni in ogni miglior forma e si sottopose, e si sottopone ad essere astretto alla restituzione di quanto avrà percetto per qualsivoglia tribunale ovunque si trovi senza eccezione alcuna…”: ASP, Upezzinghi Rasponi 532, scrittura privata stipulata in Pisa alla data 1.4.1757 (in calce le firme di Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci, Giuseppe Zucchetti, Tommaso Ranieri Grassulini, Lelio Gaetano Franceschi).

12 I pochissimi documenti relativi alla contabilità (e alla corrispondenza minuta) tra i patroni pisani e il Tempesti durante il suo soggiorno romano sono conservati nel fondo Upezzinghi Rasponi e in quello della Pia Casa di Misericordia, entrambi in ASP, parzialmente pubblicati in FROSINI 1981, pp. 163-64.

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associarono con l’obiettivo di garantire le necessità di vita al Tempesti. Si trattava di una partita di giro, nella quale la Pia Casa veniva chiamata a recitare un ruolo istituzionale, che facesse trascendere l’aiuto economico dalla semplice e volontaria contribuzione personale e diretta, per indirizzarla invece in una cornice ufficiale e dunque in qualche modo asettica, sciolta cioè da legami individuali troppo forti e impositivi. Era un modo per coinvolgere la gestione pubblica in una faccenda che in realtà era sostanzialmente privata.

Il profilo dei mecenati coinvolti nell’impresa non era marginale, trattandosi semmai di persone coinvolte a vario titolo nella gestione della cosa pubblica, o almeno nell’organizzazione della cultura.

Oltre al Lanfreducci, l’ultimo dei committenti pisani del Tempesti prima del suo viaggio romano, è interessante notare come anche gli altri mecenati avessero un qualche ruolo nella vita culturale della città.

Tommaso Ranieri Grassulini era membro di quella famiglia che tra Sei e Settecento aveva protetto e sorvegliato l’attività pisana di Jean François de Troy, e che era stata coinvolta nella decorazione dell’interno del Duomo, nonché in quella della chiesa di S. Matteo

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. Il più defilato Lelio Franceschi, che sarà da individuare in Lelio Gaetano, membro dell’importante famiglia di origini corse eppoi livornese, cavaliere di S. Stefano dal 1731, fratello di Angelo Ranieri - destinato a diventare di lì a non molto Arcivescovo di Pisa-, che intorno alla metà del secolo sentiva tutta l’urgenza di bagnare con un gesto di grande liberalità la sua fresca ammissione alla nobiltà pisana

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. Il balì Giuseppe Zucchetti, tra tutte la figura più impregiudicata sotto il profilo degli interessi artistici, ma cavaliere di S. Stefano, titolare del baliato di Pontremoli, in contatto epistolare con Giovanni Lami, e che nel 1745, facendosi difendere dall’avvocato Carlo Goldoni in una                                                                                                                

13 Fu infatti Giovanni Antonio Grassulini – padre di Tommaso Ranieri – ad offrire protezione, amicizie e possibilità al giovane pittore francese sulla strada del suo viaggio a Roma (MOUCKE 1762, vol. IV, pp. 229-30. V. anche CIARDI 1997; NAVARRO 1998; LERIBAULT 2002, passim). Infine cfr. ora anche SICCA 2008.

14 CASINI 1990, pp. 213-14. I Franceschi erano entrati a far parte della Nobiltà Pisana nel 1756, all’immediata vigiliadei fatti qui descritti. Lelio Gaetano (1716-1775), per quanto non firmatario della convenzione iniziale col Tempesti che dettava le regole della sua permanenza romana (v. supra), compare tra i mecenati di Giovanni Battista già a partire dall’aprile del 1757, all’inizio dunque del pensionato: Upezzinghi Rasponi 532, 22.4.1757. Lelio, Priore nel 1749, nel 1750 sposò Antonia Galletti, acquisendo così il titolo di conte (ZAPPELLI 2004, pp. 114-15), a conferma di come la tutela del soggiorno romano del Tempesti avesse per lui il valore di una dignità magnatizia connessa al suo nuovo status (per una importante notazione su come il fasto e la visibilità pubblica avessero acquisito agli occhi di Lelio una fondamentale importanza v. ZAPPELLI 2007, pp. 82-3).

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controversia giudiziaria, rivelò probabilmente una prossimità culturale con gli stessi ambienti dell’Arcadia pisana frequentata, lo abbiamo visto, dal commediografo veneto

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. Fu poi fratello maggiore del canonico Sebastiano Zucchetti, noto come collezionista di primitivi (e per essere poi ritratto dallo stesso Tempesti) (fig. 192) , e questo forse avrà giocato un ruolo anche in famiglia

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. A questi personaggi – da ritenere il nucleo iniziale del patronato - ben presto se ne aggiunsero altri.

Nell’evolversi della permanenza romana del Tempesti, ulteriori esponenti della ristretta repubblica delle lettere pisana concorsero infatti all’iniziativa, o ne furono in qualche misura coinvolti.

Michele Piazzini, ingegnere di talento dell’Ufficio dei Fiumi e Fossi

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(ma dall’affilata verve intellettuale, che gli consigliò ad esempio l’associazione all’edizione perugina dell’Orlandi dell’Iconologia del Ripa)

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. Camillo del Mosca, già deputato per i quadri del Duomo e in questa veste corrispondente di Pompeo Batoni e dunque discreto intendente di fatti figurativi

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. A questi va poi in qualche modo ricondotta anche la figura di uno degli intellettuali di riferimento della cultura figurativa pisana della metà del Settecento, di quella per giunta legata all’Arcadia e, come abbiamo visto nel capitolo precedente, confratello della Compagnia di S. Giovanni in Spazzavento dove avevano lavorato i due Tempesti : il poeta arcadico Gaetano Bartolomeo Aulla, che nel 1756 è attestato tra i membri del Consiglio della Pia Casa di Misericordia, dunque tra coloro che non è

                                                                                                               

15 Per un agile ma assai dettagliato profilo biografico dello Zucchetti, e per il verbale del processo cfr. DE FECONDO – MORELLI TIMPANARO 2009, pp. 343-54. Giuseppe, oltre agli interessi artistici coltivò anche quelli politici: fu priore dal 1745 al 1774, nel 1779 e 1786 fu gonfaloniere (PANAJIA 1999, p. 136).

16 BURRESI - CALECA 2011. Su Sebastiano e la sua donazione di fondi oro all’Opera del Duomo v. infra.

17 Michele Piazzini compare come “nuovo associato” nel mantenimento del Tempesti a partire dal 30 settembre 1757 (ASP, Upezzinghi Rasponi 532, alla data). Per una sua sintetica biografia: MELIS – MELIS 1996, p. 259. A testimonianza di una confidenza che probabilmente sfociò nella riconoscenza intima e profonda, è almeno da segnalare il perduto Ritratto di Alessandro Piazzini (figlio di Michele), eseguito da Giovanni Battista in data imprecisata e donato d al nipote, il professor Giuseppe (astronomo e bibliotecario) alle collezioni dell’Accademia di Belle Arti nel giugno del 1830 (AOP, Fondo Lasinio 890/3. C. n.n., s. d.). In una testimonianza appena più tarda si attestava come i referti del Tempesti fossero custoditi nella camera detta dei sordomuti dell’Accademia. Si sarebbe trattato di trenta piccoli quadri diversi, alcuni a disegno, altri a pastello, altri acquerellati, giudicati come “Primi studj” del Tempesti, e donati tutti da Giuseppe Piazzini: POLLONI 1837, p. 32. In una carta sciolta conservata nell’Archivio Marianini e risalente al 1863, risulta che in Accademia ci fossero sette disegni a colori del Tempesti, dotati di cornice (APM, c. sciolta n.n.).

18 RIPA 1754, p. 427.

19 Su questo cfr. almeno FROSINI 1968.

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difficile ritenere abbiano speso parole significative sulla necessità di aggiungere del proprio al valsente offerto dalla nobiltà pisana al giovane Tempesti

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A conferma del valore strategico assegnato al pensionato tempestiano, del fatto cioè che non fosse un gesto presuntuoso e sporadico da parte della nobiltà pisana, ma corrispondente ad una volontà di costituzione di una nuova scuola artistica, c’è che tra anni Cinquanta e Sessanta l’Accademia di S.

Luca come abbiamo già accennato fu frequentata anche da un secondo pittore pisano, stipendiato a quanto sembra dalla sola Pia Casa di Misericordia: Nicola (o Nicolò) Matraini. Se la circostanza è decisiva per dare il senso di una regia più vasta, che tendeva alla costituzione di una scuola pittorica per niente condivisa con Firenze, è pure di fondamentale importanza per aggiungere qualcosa al quadro appena descritto. Dagli stati d’anime della parrocchia di S. Andrea alle Fratte risulta infatti che Matraini, giunto a Roma nel 1754, vivesse in una soffitta in piazza di Spagna, in una zona densamente occupata dagli artisti e non troppo lontana dall’abitazione di Domenico Corvi. A partire dal 1759 la solitaria esistenza del Matraini venne arricchita dalla presenza di un personaggio che ne condivise le cure domestiche: il ventottenne pisano Pietro Lorenzo Palmieri

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. Questi, poi stabilitosi definitivamente a Roma, dove ebbe agio di partecipare alla polemica pandettaria e di studiare codici vaticani

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, proveniva dalla famiglia retta dal capitano Filippo, nella cui casa di via S. Martino poteva esibire una ricca collezione di dipinti, contrassegno di una confidenza con le arti figurative che non fu certo casuale

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. Il giovane Palmieri nel condursi a Roma altro non aveva fatto se non ripercorrere la storia di famiglia, invitato da interessi che non dovettero essere solo materiali, perché giusto nell’Urbe si era fatto uno spazio e un nome quel Lorenzo Palmieri (1659-1701), Pisano, poeta arcadico, che per ben quattordici anni era stato al diretto servizio di Cristina di Svezia

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. Non che questa circostanza avesse funzionato in modo diretto, beninteso, ma aveva avuto se non altro il merito di dimostrare come i rapporti di Pisa con Roma fossero stati scanditi da momenti importanti, e come gli artisti avessero – come è perfino logico, ma quando sono le fonti a segnalarcelo la cosa acquista un carattere ben più convincente - una confidenza con le riflessioni teoriche ed estetiche non proprio banale.

                                                                                                               

20 ASP, Pia Casa di Misericordia 29, c. 55, 6.6.1756.

21 ASVR, Parrocchia S. Andrea alle Fratte, Stati d’Anime, n. 10, anno 1759, cc. n. n. (ma c. 2).

22 DAL BORGO 1764, p. 20 n.

23 Tra le opere vi erano esemplari di Pier Dandini, Ranieri del Pace, Jean François de Troy, Alessandro Gherardini, Antonio Puglieschi, Mauro Soderini (ASP, Commissario 221, 23.6.1740 f. ).

24 CRESCIMBENI 1720, pp. 129-33 (dove si ricava anche la notizia che a Roma nel Settecento viveva ancora il fratello del poeta, canonico lateranense).

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Era insomma tutta una costellazione di arti diverse ma affini – anzi: complementari -, di sensibilità divise tra la devozione per la Patria e la volontà di riformularne la fisionomia culturale, di memorie di famiglia e di nuove prospettive, che evidentemente ai ceti dirigenti pisani sembrava il modo migliore di trasformare il soggiorno nell’Urbe dei suoi migliori artisti nell’occasione per emancipare la cultura cittadina.

Il pensionato romano tendeva poi a irrobustire i rapporti delle istituzioni pisane con l’Urbe in un senso più generale. La Pia Casa della Misericordia a partire dal Giubileo del 1700 si era aggregata all’importante Confraternita romana del SS. Sacramento, avente la propria sede nella chiesa di S.

Lorenzo in Damaso. Il legame fu talmente cospicuo, e per niente formale, da avere avuto nel 1706 un esito ufficiale di prestigio, che consisté nel privilegio pontificio concesso alla Confraternita pisana di potersi valere del diritto di aggiungere al proprio nome quello appunto del “SS.

Sacramento e cinque piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo”

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. Era pur sempre un modo per mostrare un rapporto con Roma, segnato da momenti che esorbitavano il puro intento artistico.

Con Roma vi era anche un rapporto di altro tipo, retto sempre da ragioni devozionali e di organizzazione della fede e della carità. Nella città papale almeno dal quarto decennio del Settecento esisteva la Confraternita del S. Cuore di Gesù detta anche dei Sacconi, che aveva come protettori la Beata Giacinta Marescotti e S. Ranieri, così importante da aver beneficato di una incisione di Agostino Masucci e Giuseppe Bottani, e da attirare poi l’ammirata opinione – corredata da un reportage grafico – di Ranieri Tempesti

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.

Il percorso romano era dunque favorito, o almeno consigliato, da una rete di relazioni che con era di esclusiva competenza delle ragioni della lingua figurativa. Vi era un aspetto letterario, caro alle mozioni dell’Arcadia, di apparentamento culturale; un aspetto politico e identitario, legato alla necessità di costituire un polo artistico culturalmente autonomo da Firenze; una ragione infine religiosa e devozionale, che traeva forza dalla determinazione di ribadire rapporti con la pratica religiosa romana.

                                                                                                               

25 BERNARDINI 2004, pp. 14-6.

26 La stampa è riprodotta in BURGALASSI-ZACCAGNINI 1997, p. 156 (con l’errata lettura del più illustre nome di Batoni invece di quello, esatto, di Bottani). Per il reportage – non firmato ma da attribuire a Ranieri Tempesti - sulla

“Idea come si trova in Roma la Compagnia detta dei Sacconi sotto il titolo del Sacro Cuore di Gesù e S. Ranieri Pisano”: ASP, Bonaini 5, c. n. n. Da segnalare poi la tradizionale associazione tra la Confraternita della Fraternità o di S. Guglielmo di Pisa e l’Arciconfraternita di Santa Maria sopra Minerva e di S. Giovanni della Misericordia di Roma, che, stipulata già a partire dal XVI secolo, era stata più volte confermata: Capitoli 1753.

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3- Giovanni Battista giunse a Roma il 30 aprile del 1757, ospitato in una stanza nella casa in “via Rosella”

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di proprietà del “canonico Lucci”, ma sotto la tutela di un membro della famiglia Lanfranchi (Giuseppe), che era stato incaricato dai mecenati pisani di controllarne lo stile di vita e di erogargli i denari in base alle necessità

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Purtroppo le indagini da noi svolte presso l’Archivio Storico del Vicariato di Roma non ci hanno permesso d’individuare l’esatta ubicazione dell’abitazione del Tempesti – di cui solo sappiamo che era nei pressi di palazzo Barberini -, dove ci sarebbe molto piaciuto poterlo rintracciare, mossi da quella nota della corrispondenza tra Roma e Pisa dove il Lanfranchi si compiaceva del luogo scelto per l’artista: assolutamente felice “tanto per l’aria che gode, quanto per la gente, che stanno in quella casa”, dove però l’artista stette per poco tempo

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. Tuttavia, da una misurata analisi delle poche carte superstiti emerge un quadro di quella presenza, e di quel viaggio, assai interessante.

                                                                                                               

27 La “via Rosella” dei documenti andrà identificata in “via Rasella”, posta nella parrocchia di S. Carlo alle Quattro Fontane. Ma anche le ricerche svolte nelle carte relative non ha portato ad alcun risultato (sulle possibili ragioni v. qui nota 29).

28 ASP, Upezzinghi Rasponi 532, lettera da Roma di Giuseppe Lanfranchi a Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci, 7.5.1757; ivi v. anche doc. in data aprile 1757, dove in calce si annota la data della partenza da Pisa: 22 aprile 1757.

Allo stato attuale della ricerca è impossibile meglio definire l’identità di Giuseppe Lanfranchi. In quegli anni viveva a Pisa Carlo Giuseppe Lanfranchi Chiccoli, autore teatrale, librettista, corrispondente di Metastasio e capace di conquistarsi una certa fama, che ci sembra impossibile ritenere che abbia trascorso anni a Roma a tutelare il buon nome del Tempesti. La data comunque consente di rivedere l’ipotesi che dichiarava Tempesti pensionante romano a partire dal 1756 (CIAMPOLINI 1993, pp. 173-74 n.; NOFERI 2003 a, p. 241). L’inesattezza sull’arrivo del pittore a Roma è dovuta probabilmente al ritenere la data riportata nelle carte d’archivio al pisano (dunque ab incarnazione), che faceva iniziare l’anno il 25 marzo. Ma le date di cui sopra ad un semplice controllo documentario risultano tutte stilate secondo lo stile comune, che conferma del resto quanto è storicamente precisato: il calendario pisano era stato abrogato da Francesco II nel 1749. L’altro elemento di ambiguità è dato dal fatto che i pagamenti al Tempesti per il pensionato vengono annunciati nel giugno del 1756 (ASP, Pia Casa della Misericordia 29, c. 54: dove però si annotava che i soldi verranno dati al pittore “subito che sarà giunto in Roma per ivi esercitarsi nella pittura”, segno che a Roma ancora non c’era). I pagamenti a quella data si riferivano alla decisione deliberata dalla Pia Casa – dunque furono un annuncio, non un pagamento. Come risulta chiaramente dai documenti, fino alla fine dell’anno Tempesti lavorò agli affreschi di palazzo Lanfreducci (AMBROSINI 2005, p. 79). E’ plausibile ritenere che la necessità di portare a termine questi lavori abbiano indotto l’artista a rinviare la partenza di circa un anno.

29 L’identificazione del domicilio romano del Tempesti ha come inciampo l’essere egli venuto a Roma solo a fine aprile, dunque dopo gli aggiornamenti degli stati d’anime, che come è noto avvenivano durante il periodo pasquale, e se ne partì poco dopo, prima cioè della loro revisione. Successivamente il pittore trasferì il proprio domicilio in una zona mai esplicitamente dichiarata, posta nelle vicinanze del Campidoglio: “la lontananza troppo grande, che passa

(11)

Il canonico Lucci che s’incaricò di dargli casa e di trovargli la seconda, non fu infatti personaggio da poco. Egli andrà identificato in quel Niccolò Lucci, cortonese, canonico di S. Eustachio a Roma, erudito di vasti interessi (scriverà una Vita di Pietro da Cortona rimasta manoscritta), sodale e amico di Valentino Venuti, fino a curarne l’esecuzione del monumento funebre in S. Niccolò in Arcione e a stargli vicino al tempo della sua presidenza alle ‘Antichità Romane’

30

. Incisore dilettante e, forse, sporadico; amico e corrispondente di Giovanni Bottari, autore di anacreontiche di misteriosa misura, quanto basta insomma per essere in grado di indicare al giovanissimo Tempesti una non banale strada da seguire tra le mille e più di Roma

31

. Ma la cosa per noi forse più interessante non è l’accorgersi delle cautele con cui i patroni pisani scelsero un mallevadore romano per il Tempesti, o per ben valutarne in generale le ricche ed immediate frequentazioni. La circostanza più notevole è che Niccolò Lucci era uno di coloro che si era “altresì perfezionato nel Disegno con la direzione del famoso Pittore Melani di Pisa in tempo di sua dimora in quella celebre Università”

32

.

                                                                                                               

dall’ultima abitazione di strada Rosella, cioè quasi dal Portone d.o Barberini fino al Campidoglio, dove averà necessità il sig.re Giovanni d’essere spesso per frequentare l’Accademia del Disegno, che nell’inverno finisce alle ore tre di notte, la rende per verità troppo incomoda: onde converrà pensare a trovarli abitazione più vicina, e questo pensiero me lo prenderò jo con l’intelligenza anche del predetto can.co Lucci.” (lettera di Giuseppe Lanfranchi da Roma, in data 7.5.1757). V. anche FROSINI 1981, p. 164. Da segnalare comunque che la parrocchia dove inizialmente abitò Tempesti fu probabilmente quella di S. Carlo alle Quattro Fontane, attigua a quella dei SS. Vincenzo e Anastasio – topograficamente congruente con la zona di palazzo Barberini -, dove forse non a caso negli Stati d’Anime del 1757 abitava Maria Berzighelli, il cui cognome lascerebbe intendere una parentela con la nota famiglia di origine pisana, già patrona di Benedetto Luti: ASVR, Parrocchia SS. Vincenzo e Anastasio a Trevi, Stati d’Anime, n. 10, anno 1757, c. 3.

Per uno studio sulla vita da artisti nelle Roma settecentesca, v. MICHEL 1966.

30 Sul monumento v. L’Accademia etrusca 1985, p. 88, scheda di D. Gallo. Lucci fu associato alle Antichità di Roma del Venuti (VENUTI 1763, p. 137). Valentino Venuti, che si era addottorato presso lo Studio pisano, è possibile che anche per mezzo del Lucci abbia introdotto Tempesti negli ambienti dell’antiquaria e del collezionismo romani, non ultimo presso Alessandro Albani, di cui fu al servizio a partire dal 1734: GALLO 1985 a.

31 Sulla biografia del Berrettini redatta dal Lucci cfr. DE’ NELLI 1793, pp. 143-44. MORENI 1805, p. 528. Sui suoi rapporti col Bottari v. la nota editoriale di questi alle Vite del Passeri: “Il Sig. Abate Lucci Gentiluomo Cortonese Canonico nella Diaconia di S. Eustachio mi disse molti anni sono di avere anch’egli scritta la Vita di Pietro da Cortona e volerla stampare, ma sono anche molti anni passati, e non è venuta alla luce forse ritardata per varie ragioni (BOTTARI 1772, p. XIV).

32 DE’ NELLI 1793, pp. 143-44: Giovanni Battista Clemente de’ Nelli dedica la sua opera (Vita e commercio letterario di Galileo Galilei ) al Lucci, “Patrizio cortonese, e Canonico della Collegiata di S. Eustachio a Roma”. Fu un modo per ringraziarlo per essere stato suo ospite nel 1781. Lucci è ritenuto un esperto per aver “con dolcezza incisa in rame la

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Il supporto del canonico cortonese non sarà allora da intendersi come la semplice garanzia di un sapere messo a disposizione dell’intraprendente pittore, ma l’ufficializzazione di una sorta di continuità formativa dall’alto valore identitario. Era insomma l’apice intellettuale di una comunità che affidava le proprie speranze all’emancipazione tecnica e culturale che si poteva guadagnare nella Capitale delle arti, ma col tramite di una conoscenza maturata dentro i confini consueti: in Toscana, a Pisa. Tutto questo non vale certo a ipotizzare un ruolo pedagogico in senso stretto svolto dal Lucci nei confronti del Tempesti, giacché quando questi giunse a Roma aveva già espresso un’attitudine professionale ben superiore a quella di un pur onesto dilettante. Tuttavia è utile a dare il senso di un legame che finì con l’evolversi in percorsi attualmente non determinabili, ma che segnarono punti densi e non casuali, se è vero che il rapporto tra i due sarà a Roma così forte da durare nel tempo, fino a favorire contatti diretti tra il canonico ed alcuni dei futuri allievi del Tempesti (Onofrio Boni, ad esempio), al punto che quando Lucci affidò la pubblica lettura delle sue poesie nel corso dell’inaugurazione nel settembre del 1790 del teatro di S. Tommaso di Villanova ad Anghiari, non casualmente i versi vennero scanditi sotto una volta affrescata da Vincenzo Giuria, allievo diretto del Nostro

33

.

Il Lucci inoltre, come detto, era intimo amico di Ridolfino Venuti, antiquario e intellettuale di rilievo nella Roma di Benedetto XIV. Ridolfino a sua volta era fratello di Filippo Venuti, corrispondente di Montesquieu e aggiornatissimo intellettuale, che dal 1751 rivestì per oltre un ventennio la carica di preposto della Cattedrale di Livorno, svolgendo un’importante funzione anche sul piano dell’accrescimento artistico del tempio, e che in un ritratto di Marcus Tuscher ci appare come un uomo dai tratti nobili con un filo appena di scostante alterigia intellettuale

34

. Ecco che allora il rapporto di Giovanni Battista col Lucci deve essere interpretato anche alla luce di una condivisa passione artistica, che non sarà forzato leggere come il frutto di frequentazioni pisane e d’intermezzi livornesi

35

.

                                                                                                               

famosa Baccante esistente nel Museo Albani, e nell’essersi altresì perfezionato nel Disegno con la direzione del famoso Pittore Melani di Pisa in tempo di sua dimora in quella celebre Università”.

33 BONI 1780; Relazione 1790. Sull’alunnato del Boni e del Giuria presso Tempesti v. cap. 11.

34 Sul ruolo svolto da Filippo Venuti nel Duomo di Livorno cfr. RENZONI 2007, pp. 85-7. Per uno studio complessivo della sua personalità è ancora utile WEINERT 1954. Per la sua attività antiquaria ed i suoi interessi artistici e culturali v. L’Accademia etrusca 1985, passim.

35 Su questo v. ora Alle origini 2009.

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Il patrocinio romano del Lucci era allora la conferma di come la scelta d’indirizzare il Tempesti verso Roma fosse stata deliberata non solo come un gesto di generosa assistenza all’artista baciato dal genio ma senza cornucopia, ma anche da quello più pragmatico di porre riparo al vuoto – evidentemente drammatico - lasciato in città dalla recente scomparsa dei fratelli Melani.

Il soggiorno di Giovanni Battista presso Niccolò Lucci non poté non portarsi dietro un aggiornamento diretto sugli studi che Ridolfino Venuti stava approfondendo. La fitta tessitura di rapporti professionali che Tempesti instaurerà saldamente con la famiglia cortonese dei Venuti appena tornato a Pisa

36

– dunque negli anni assolutamente prossimi a quelli romani -, assicura che il circolo del Lucci fu per l’artista l’occasione per affinare conoscenze ed impostarne di nuove, e per creare un ponte tra rapporti precedenti e successivi il pensionato

37

.

Il periodo di permanenza del Tempesti nella casa del Lucci durò però pochissimo, meno di un anno.

Successivamente l’artista trovò casa altrove, anche se non sappiamo in quale quartiere della città, se non che era più vicina al Campidoglio di quanto non lo fosse il primo domicilio. Da una nota di pagamento del 1759 si ricava che l’intermediario incaricato di pagare il semestre all’artista fu il

“duca Strozzi”

38

, che sarà da identificare in Filippo Strozzi, uno degli ultimi custodi della ricchissima collezione di famiglia istituita a Roma da Leone, che poteva vantare quadri e sculture, monete, medaglie e pietre rare, ma che era anche amico e corrispondente di personaggi ben conosciuti negli ambienti pisani e – almeno per interposta persona – anche da Giovanni Battista (come Anton Francesco Gori e Lorenzo Magalotti)

39

. Indizio di come Tempesti negli anni romani alternò protettori e compagnie, ma sempre nel solco di un rapporto che lo legava comunque alla sua patria; e di come la frequentazione degli Strozzi – sebbene impossibile da definire nella sua cadenza                                                                                                                

36 Da segnalare comunque che i Venuti mantennero rapporti diretti anche col fratello di Giovanni Battista, Ranieri, dai quali fu ospite a Cortona, durante i suoi studi su Giunta: BMOF, Frullani, vol. III, cc. 181-83, Crespina, 26.11.1787, lettera di Ranieri a Marco Lastri. Anche Da Morrona gli fece visita, durante la redazione della Pisa illustrata (DA MORRONA 1792, vol. II, p. 126).

37 E importante ricordare che tutti e tre i membri della famiglia cortonese dei Venuti (Ridolfino, Marcello, Filippo) vantavano intensi rapporti con Pisa. Cavalieri di S. Stefano, a Pisa si erano anche addottorati e ne conservavano memorie talmente vive da suggerire ad esempio a Marcello d’istituire a Cortona una festa in onore di S. Margherita con un apparato scenografico che si sarebbe dovuto esplicitamente uniformare a quello eretto a Pisa in occasione della celebrazione del patrono S. Ranieri (GALLO 1985, p. 56).

38 Il pagamento col riferimento allo Strozzi è inserita in “Nota di denari che da me [G. B. Lanfranchi Lanfreducci] si fanno pagare in Roma al sg. Gio. Tempesti pittore”, alla data 1.5.1759: ASP, Upezzinghi Rasponi 532.

39 GUERRIERI BORSOI 2004, p. 140. Come già ricordato, Gori si era servito del padre di Giovanni Battista come disegnatore; Lorenzo Magalotti, si era fatto affrescare il palazzo fiorentino dai Melani.

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e negli approfondimenti -, avesse ben voluto significare la percezione diretta di quell’ambiente arcadico (dove la famiglia recitava un ruolo significativo), destinato a contribuire in modo fondamentale alla formazione culturale dell’artista, specie in vista del suo ritorno a Pisa.

4- L’arrivo a Roma del Tempesti non avvenne in modo professionalmente dimesso, ma fu immediatamente segnato da un’opera assai importante e piuttosto eccentrica nella carriera dell’artista, al punto da risultare pressoché misconosciuta e misinterpretata. Intendiamo riferirci allo

”straordinario ritratto dell’arpista Lidarti”

40

(fig. 21). Musicista austriaco poi stabilitosi a Pisa dove ricoprì fino alla morte la carica di responsabile della cappella musicale della chiesa dei Cavalieri di S. Stefano

41

, Lidarti appena giunto in Italia nel 1757 si spostò da Bologna a Roma per un soggiorno non lunghissimo e che non valicò il foglio del calendario

42

, giusto nello stesso anno dell’arrivo del Tempesti. In quei pochi mesi di compresenza romana, Giovanni Battista, a testimonianza della bontà di un rapporto col musicista che troverà successivamente dei buoni motivi di collaborazione

43

, fece in tempo ad autoritrarsi in un bellissimo dipinto eseguito a Roma dal pittore inglese Nathaniel Dance. Nel pur non grande quadro, Dance, incline ad approfondire i temi dei ritratti multipli che lo videro a lungo impegnato

44

, dipinse un compunto Lidarti intento a suonare l’arpa (che fu il suo strumento preferito), raffigurato in una veste assai ricca, lo sguardo serio e consapevole incorniciato dalla parrucca, circondato dall’elegantissima trascuratezza degli spartiti aperti e con la penna nell’inchiostro (perché fosse chiaro chi era stato a scrivere quelle musiche), e con una tenda appena raccolta, come si faceva negli studiatissimi quadri d’atelier. In secondo piano, come ad uscire da un separé, emerge però un secondo uomo sui trent’anni, con la destra a forbice come a richiamare l’attenzione, e la sinistra sulla tavolozza dei colori, a ben mostrare il mestiere.

                                                                                                               

40 Il lusinghiero giudizio è di MELONI TRKULJA 1990 a.

41 CMBMB, ms. H/60, cc. 61-3, “Aneddoti musicali di Cristiano Giuseppe Lidarti Ac.co Fil.co al Rev.mo P. Maest.o Gio. B.a Martini…”, c. 63: “L’occasione, che mi si presentò della cappella del S. Mil. Ord.e di S. Stef. P. e M. in Pisa (benché come semplice suonatore) accettai immediatamente per consumare i miei giorni in pace, ove attualmente mi ritrovo da 27 anni in qua contento, niente curando di migliorare la mia sorte, di che qualche volta mi si presentò l’occasione”.

42 GADDINI 2005. Ma sull’attività pisana del musicista v. soprattutto BARANDONI 2001, passim; FRUGONI 2003.

43 Lidarti a Pisa verrà documentato tra l’altro come colui che renderà più liete con le sue “zinfonie” le adunanze della colonia Alfea, alle quali, come vedremo, parteciperà pure il ‘pastore’ Giovanni Battista Tempesti (“Gazzetta Toscana”

n. 51, 1783, p. 203).

44 Sulla carriera italiana di Dance v. BUSIRI VICI 1990.

(15)

Questo pittore, come dichiarato da una scritta sul telaio del quadro insolitamente assai esauriente

45

, era per l’appunto l’autoritratto di Giovanni Battista.

Il dipinto costituisce uno degli esempi migliori di quei ritratti d’insieme che il pittore inglese volentieri affrontò nel corso del suo lungo soggiorno romano, dove ad una sensibilità tutta italiana (batoniana) per il ritratto ambientato e per la scena di conversazione, si unì un acume tutto britannico per l’indagine fisiognomica bloccata nella sigla di volti immoti e un poco imbronciati

46

. Non conosciamo alcun rapporto successivo dell’Inglese col Tempesti, segno allora che l’elemento di raccordo dovette per l’appunto essere il musicista, che, in partenza per Pisa, doveva aver maturato rapporti e conoscenze col Tempesti. Del resto che il dipinto non sia stato eseguito nei lunghissimi anni pisani del Lidarti (come invece è stato proposto

47

), magari presupponendo un viaggio toscano di Dance (il che, a rigore, non sarebbe neppure bizzarro), ci soccorre un elemento esterno assolutamente dirimente. Nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna esiste infatti una tela raffigurante lo stesso musicista austriaco intento a scrivere uno spartito e assistito da una statua di Euterpe. Dal carteggio conservato nel Museo si ricava che quel ritratto agli inizi degli anni Ottanta avrebbe dovuto essere dipinto dal Tempesti, il quale però, rifiutandosi di farlo perché non gli sembrava conveniente per la sua fama presentarsi a Bologna con un ritratto (evidentemente avrebbe voluto misurarsi con un quadro di storia), declinò la proposta dirottandola sull’allievo Giovanni Stella. Questi anziché ritrarre direttamente il musicista che in quegli anni – siamo nel 1784 – abitava a Pisa, preferì copiare “un altro mio piccolo, che mi fu fatto a Roma, anni sono, dal Sig. Dance inglese”, che altro non è evidentemente se non quello dipinto congiuntamente al Tempesti

48

. Ipotesi confortata dal fatto che non solo la tela cui si riferisce è, per l’appunto, una teletta

49

, ma soprattutto perché l’effige del musicista nel quadro di Bologna è assolutamente identica

                                                                                                               

45 La scritta, segnalata come originale, è la seguente: “Il Ritratto di C. G. Lidarti è di Dance inglese; la Figura del Pittore è Giov.ni Tempesti pintosi da a sé”: p. 70 (dove il pronome finale veniva letto dubitativamente, ma erroneamente, come un “lé”): The pursuit 1977, p. 70.

46 Per un giudizio perplesso sull’attribuzione del dipinto a Tempesti v. CIAMPOLINI 1993, p. 184 n.

47 “This portrait of him [Lidarti] by Dance was presumably painted in Pisa”: The pursuit 1977, p. 70.

48 Sul dipinto dello Stella, il carteggio relativo alla commissione e il mancato coinvolgimento del Tempesti v. CASALI 1984, pp. 52, 65, 94-5, 121; MAZZA 1984, p. 68; GADDINI 2005.

49 Misura infatti cm. 72,5 X 62.

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a quella ritratta da Dance, perfino nell’espressione compresa e corrucciata: un calco. Anzi una copia

50

.

Questa ricostruzione consente allora di sciogliere alcuni dubbi. La tela d’insieme non fu realizzata a Pisa, ma a Roma, nel breve periodo in cui il Viennese vi abitò; e non nel 1759 (come fino a ora ipotizzato

51

), ma nel 1757, all’arrivo del Tempesti da Pisa. Segno che fu la prima opera significativa che questi seppur in modo parziale realizzò nella città papale.

Il dipinto è importante perché segna l’esordio del pittore nell’Urbe, ma anche perché ne delimita gli ambiti culturali, quasi una carte de visite appena messo piede a Roma. Tempesti infatti, presentandosi in secondo piano ma con la tavolozza, non puntava a rendere meglio riconoscibile se stesso e il suo intervento, ma a colloquiare con l’arpa suonata dal Lidarti, quasi una nobile gara o, semmai, un apparentato giudizio estetico. Aequa potestas delle arti dunque, che inseriva immediatamente il Nostro non solo nel pieno del clima dell’Accademia di S. Luca (che la generosa gara tra le varie forme espressive aveva risolto perfino nell’emblema

52

), ma anche in quello dell’Arcadia.

L’arrivo a Roma del Tempesti, oltre a queste stimolanti tutele, beneficiò di ulteriori occasioni, prima tra tutte quella della recente inaugurazione della Scuola di Nudo in Campidoglio (1754), che l’artista pisano frequentò appena messo piede in città, come integrazione dei corsi istituzionali presso l’Accademia. L’istituzione di specifiche sedute dedicate al nudo (tenute gratuitamente e a rotazione dagli stessi maestri accademici, per un mese ciascuno) era stata motivata dalla ricerca di una misura perfetta tra conformazione filologica all’antico espresso dai gessi e dai marmi, e la restituzione del dato naturale per mezzo di modelli vivi, ma non disdegnando lo studio dei dipinti

                                                                                                               

50 Lidarti faceva notare che il fatto stesso che il nuovo dipinto fosse stata una copia dell’antico comportava una inevitabile conseguenza: “questa è la ragione che m’ha fatto [lo Stella] più giovine assai, di quello che sono al presente”

(FRUGONI 2003, p. 323 n.).

51 PETRUCCI 2010, t. II: p. 525, fig. 387. La datazione più tarda era stata proposta ritenendo che l’opera in oggetto derivasse da un altro importante dipinto di Dance, il Ritratto del musicista Pietro Nardini, che è appunto del 1759 (BUSIRI VICI 1990, pp. 181-83).

52 L’emblema dell’Accademia è un triangolo equilatero con lo scalpello, il pennello e il compasso, che allude all’assoluta parità delle arti figurative. E’ evidente come l’idea della pari dignità di queste con le arti già in antico ritenute liberali, fosse un’idea tipica del classicismo sei-settecentesco, ed in particolare dell’Arcadia, che volentieri lo mutuava dalla paradigmatica locuzione oraziana sull’Ut pictura poesis.

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del Museo Capitolino, che da pochissimi anni si era arricchito con l’acquisto della strepitosa collezione Sacchetti

53

.

L’elemento intrinsecamente più significativo fu insomma il nesso che si era venuto a creare tra il Museo e la riflessione sul nudo, attraverso una pratica artistica assidua e frequente. Per Tempesti ed i suoi mecenati, l’elemento dirimente fu quello della prospettiva di una interazione tra riflessione storica sulle forme codificate e sperimentazione visiva; l’accostamento – culturalmente rilevante – tra modello e innovazione

54

.

A giudicare infatti da un’opera di dubbia attribuzione – ma che la focalizzazione dei suoi incontri romani incoraggia ad assegnare proprio agli esordi dei suoi agi laziali – quale il Ritratto della contessa Strozzi (fig. 28) (da identificare forse in Isabella Acquaviva, moglie di Filippo Strozzi)

55

, al suo arrivo a Roma la cultura di Giovanni Battista era ancora legata alla pittura fiorentina del primissimo Settecento, a conferma di una fisionomia stilistica già indagata del resto nei suoi esordi pisani. E se la fissità un poco imbambolata della contessa denuncia la non ancora acquisita dimestichezza del Nostro con la pratica ritrattistica, la scelta di un ovale imperturbabile e ipercorretto, con un velo di domestica compostezza, lascia l’impronta di una educazione che ancora risentiva della ritrattistica di Domenico Tempesti, non il padre, ma del suo omonimo fiorentino, abilissimo nel pastello e in ritratti ricchi di sottigliezze formali .

Un documento di pagamento al Tempesti che si aggiunge a quelli già segnalati è capace però di aggiungere un elemento significativo alla complessa vicenda romana di Giovanni Battista. L’artista infatti per il suo pensionato si avvalse anche di un contributo dei Priori della sua città, come se l’intera comunità pisana volesse in qualche modo contribuire alla sua emancipazione intellettuale, che così, da questione individuale, diventava in qualche modo un fatto che riguardava tutta una comunità. Il contributo venne però erogato con una variante fondamentale rispetto alle carte fino a ora ricordate. I Priori non finanziavano Tempesti perché questi affrontasse generici studi                                                                                                                

53 Sulla formazione della Pinacoteca Capitolina cfr. almeno GUARINO 2005; GUARINO – MASINI 2006; PARISI PRESICCE 2010.

54 Sul ruolo tra artista e pratica accademica nel Settecento la bibliografia è piuttosto folta. Per una apertura rimandiamo a BARROERO-SUSINNO 2002 a.

55 Del ritratto, passato in asta a Monaco di Baviera nel 1903, niente più sappiamo. Dubbi sulla sua autografia tempestiana sono stati espressi in CIAMPOLINI 1993, p. 184 n. Da segnalare infatti che la cattiva qualità dell’unica riproduzione fotografica esistente non autorizza giudizi definitivi. Isabella Acquaviva, morta nel 1760, ci sembra l’unica che per motivi biografici potrebbe accordarsi alla permanenza romana di Giovanni Battista (v. GUERRIERI BORSOI 2004, p. 42).

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accademici, ma con l’esplicita indicazione di “portarsi a Roma sotto la squola [sic] del celebre Costanzi per sempre più perfezionarsi”

56

. La nota è importante perché attesta come il doppio binario della formazione tempestiana fosse chiaro sin dall’inizio. Secondo il modularsi di una pratica che poi era quella normalmente adottata nella Roma settecentesca, il giovane artista alternava i luoghi della propria formazione tra le aule accademiche e per l’appunto lo studio di un artista, capace di seguirne il percorso da vicino e in modo costante

57

.

Ma perché Placido Costanzi? Purtroppo non esistono carteggi che ci sorreggono nell’impresa d’intendere i motivi e il senso della scelta, ma qualcosa possiamo ugualmente cavarne. Il pittore romano – facendo nostre le ancora condivisibili analisi di Clark

58

– intorno alla metà del secolo ricopriva un ruolo fondamentale nel panorama artistico romano, come interprete di un classicismo che è stato letto dalla critica non tanto in chiave proto-neoclassica, ma come esito altissimo di quel filo tenacissimo che ha sempre legato una parte cospicua della cultura artistica romana al classicismo seicentesco (Carracci, ma qui soprattutto Domenichino), e che aveva il massimo esponente in Carlo Maratta

59

. Ciò che insomma interessava le autorità pubbliche pisane doveva interpretarsi come il compiacimento per aver individuato nel pittore romano la misurata ma non filologica lezione dell’antico, il rifiuto delle bizzarrie barocche, l’animus sodo di una cultura giunta al suo apice, ma senza la malinconia della caduta. Era, detto altrimenti, un classicismo temperato e narrativo, che bene si poteva riannettere a quello toscano cinque-seicentesco, e che probabilmente spiega come mai durante il suo soggiorno romano Giovanni Battista – per quanto è giudicabile dai sostanzialmente pochi referti -, non abbia risentito in modo significativo della coeva pittura francese, ben rappresentata nell’Accademia di Francia, a partire dal suo direttore Charles-Joseph Natoire.

                                                                                                               

56 ASP, Comune D 109, c. 181, 1.4.1757. Lo stanziamento era di L. 50.

57 Il tirocinio dell’artista avveniva in due fasi distinte e complementari. Una “prevede l’apprendimento pratico degli elementi tecnologici della produzione artistica (preparazione e uso di supporti, colori, leganti, vernici), e si svolge in genere privatamente, nello studio di un pittore o di uno scultore affermato. L’altra fase si svolge invece nell’Accademia;

riguarda la cultura umanistica e scientifica dell’artista e prevede la conoscenza della storia e della mitologia, della matematica e della geometria (…), unitamente a una intensa attività disegnativa, a contatto con i modelli esemplari delle opere dei grandi maestri, sotto la guida dei professori” (BORDINI 1998, p. 389).

58 CLARK 1968.

59 Come è noto a tutt’oggi manca uno studio complessivo su Carlo Maratta. Fitta è invece la produzione storiografica sul Settecento romano; per comodità rimandiamo agli indispensabili e recenti studi panoramici sull’arte del XVIII nella città papale, con approfondimenti anche sull’eredità del pittore marchigiano sul classicismo del XVIII secolo: Art in Rome 2000; Il Settecento a Roma 2005.

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Placido Costanzi aveva lavorato a Siena alla fine degli anni Venti. Difficile dire se ne abbia approfittato per un sopralluogo pisano, ma forse non è necessario supporlo per immaginare una qualche sua conoscenza della cultura figurativa pisana a lui coeva, in quanto a Siena lavorò in palazzo Chigi Zandonari, a pochi metri di distanza da palazzo Sansedoni, dove solo pochissimi anni prima a lungo vi erano stati i fratelli Melani. Pare impossibile immaginare che il Romano avesse rinunciato almeno a una visita, fosse solo per l’estremo prestigio dei committenti e per i positivi riscontri che gli affreschi dei fratelli ebbero a Siena. La circostanza non è certo decisiva per spiegare una possibile connessione pisana, eppure il ciclo senese dei Melani poté servire come materia di discussione in anni di poco successivi – tra Trenta e Quaranta, poniamo -, quando Costanzi fu di certo in grado d’incontrare a Roma uno dei più prestigiosi membri dell’aristocrazia pisana, allievo dei fratelli Melani e dunque dilettante d’arte, buon intenditore e appassionato di questioni figurative. Colui cui negli anni Cinquanta, alla vigilia della partenza del Tempesti per l’Urbe, ebbe la responsabilità di dirottare la commissione del Martirio di S. Torpé per la cattedrale pisana da Pompeo Batoni allo stesso Costanzi, e che negli anni precedenti “si addestrò in Roma”

come artista dilettante: Camillo Del Mosca

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. Niente sappiamo delle sue prove artistiche e dei suoi gusti, ma una circostanza aiuta a gettare luce su una vicenda piena di possibilità. Alessandro Da Morrona, cui spettano le uniche informazioni sull’identità culturale del nobile pisano, ne parlò infatti in relazione al pittore Camillo Gabrielli, sottolineando con insistenza la possibilità che questi, favorito artisticamente dal Del Mosca, fosse stato allievo di Ciro Ferri proprio a Roma, nell’Accademia fiorentina fondata da Cosimo III e chiusa nel 1686, con un dispositivo retorico che adombrava implicitamente la possibilità che il Del Mosca, educatosi egli stesso a Roma, nel favorire il soggiorno di studio del Tempesti avesse in qualche modo ripristinato un sistema di studi che vedeva nell’Urbe, e non a Firenze, il luogo privilegiato di formazione, in sostituzione di fatto dell’abrogata istituzione cosimiana

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.

5- I frutti della sorvegliata presenza romana, divisa tra l’Accademia e l’atelier del Costanzi, si fecero sentire immediatamente, rendendo possibile al Tempesti l’innesto di elementi linguistici                                                                                                                

60 DA MORRONA 1812, vol. II, p. 542: “Or passo a narrare col sistema solito di precisione che i commendati maestri [fratelli Melani], per diffondere in altri il proprio gusto, tennero scuola aperta in Pisa, e come per essa diversi pisani si riscaldarono d'amore verso le belle arti. Fra i nobili Ranieri Gaetani si dilettò di paesaggi, il Vaglienti di figure ed il prefato Cammillo Mosca del semplice disegno, in che di poi si addestrò in Roma, come si disse”.

61 DA MORRONA 1812, vol. II, p. 535.

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nuovi, seppure su un sostrato che almeno inizialmente ancora risentiva dei recentissimi trascorsi toscani.

Congetture, certo, giacché i documenti figurativi sono quasi inesistenti, ma che vanno formulate attraverso un filtro composito, aperto ad inedite proposte attributive, perché l’interesse del Tempesti per le soluzioni sperimentate dal Costanzi risulta evidente in un gruppo di fogli che ci sembra giusto radunare come esempio di studio e di applicazione sul Costanzi del Miracolo di S. Filippo Benizzi

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. In questo dipinto, la scena orchestrata in uno scorcio diagonale che riduce la presenza del santo al tumulo e all’ovale che lo evoca come icona, suggerisce allo spettatore una vibrazione emotiva affidata all’evidenza delle figure miracolate – il bambino affogato e la madre -, condotte secondo una facilità espressiva pienamente romana, anzi seicentesca, di una eloquenza davvero sacra che pareva di vedere tra i fumi d’incenso, cara alla cosiddetta pittura di canonizzazione, dove il miracolo appare descritto e ben scandito

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.

In una serie di disegni che ci sembra possibile accostare per evidenti affinità tematiche e stilistiche, Tempesti concepì un’opera, probabilmente mai realizzata, chiaramente ispirata a quella del Costanzi: e non fu una copia, si badi, ma uno studio, una riflessione, un esercizio d’atelier in vista di una prova originale, parimenti raffigurante il miracolo di un santo su un bambino

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. Fu quella del Tempesti un’opera travagliata e forse per questo senza esito, sebbene la forma del sarcofago che compare nelle indagini grafiche faccia sospettare la possibilità che il pittore avesse immaginato l’avvenimento come davanti al ricchissimo sarcofago di S. Ranieri nella cattedrale pisana, recentemente ripristinato da Giovanni Battista Foggini

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.

                                                                                                               

62 Per il dipinto del Costanzi, già segnalato in una collezione privata di Torino, f. e d. 1746 v. GRISERI 1983, p. 338 (che vi notava influenze lutiane e arcadiche); SESTIERI 1991, p. 75.

63 Lo studio dell’importante capitolo della pittura di canonizzazione ha avuto fino a ora un interprete imprescindibile:

CASALE 1979; CASALE 1982; CASALE 1990; CASALE 1997; CASALE 1998; CASALE 2011.

64 Uno dei disegni è in collezione privata (v. Sovrani nel giardino d’Europa 2008, p. 252), parte di alcuni studi di decorazione di una volta (fig. 32.1). Due sono passati sul mercato antiquario (fig. 32. 2-3). Un altro è al Louvre (fig.

32.4). Un altro simile, conservato nel Musée des Beaux-Arts di Lille come legato Wicar (fig. 33), è tuttavia l’unico che propone una significativa variante: al posto del sarcofago è posto un Santo stante, a figura intera col bambino in braccio. Il foglio, che recava un’attribuzione tradizionale al fecondissimo disegnatore fiorentino Giovanni Battista Cipriani, venne ricondotto al Tempesti da Marco Chiarini, in virtù di una presunta affinità con la Messa di Eugenio III (Bellezze di Firenze 1991, pp. 32-3). Il suggerimento è però tutt’altro che privo di ombre, in quanto non ci sembra possibile stabilire un rapporto tra le opere in questione (e neppure con i relativi disegni del quadrone), assai diverse per composizione e conduzione grafica.

65 L’urna contenente le reliquie del patrono era stata realizzata nel 1688 su progetto del Foggini.

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